Silvia Valentini - Alla radice dei totalitarismi

Paura della libertà di Carlo Levi

 

Il percorso che segue si offre come proposta per avvicinare i ragazzi al saggio Paura della libertà, scritto da Carlo Levi nel 1939 e pubblicato per Einaudi nel 1946. Sebbene si tratti, quanto a redazione, del primo libro del pittore e intellettuale torinese, il testo comparve in realtà soltanto dopo Cristo si è fermato a Eboli, scritto tra il ’43 e il ’44 e pubblicato nel ‘45: destinato fin da subito, così, a vivere nell’ombra del successo di quest’ultimo, il testo rimane tuttora pressoché escluso dalla cultura generale del Novecento.

Scritto tra il settembre e il dicembre 1939 nella cittadina francese di La Baule (dove Levi si rifugia come ebreo e antifascista), figlio dunque dei tragici mesi nei quali l’Europa assisteva allo scoppio di un nuovo conflitto mondiale, il valore del libro sta nel fatto di essere insieme il testimone di un preciso momento storico («documento di un tempo che abbiamo tutti così intensamente vissuto», secondo le parole dell’autore) e la proposta di una riflessione senza tempo. Di fronte allo scoppio imminente della catastrofe (siamo nel settembre 1939 e le truppe tedesche hanno appena invaso la Polonia), l’autore sente il bisogno di comprendere le ragioni che hanno potuto condurre l’Europa alla sua crisi, esplosa nella prima guerra mondiale prima, nell’ascesa dei totalitarismi poi e, infine, in questa nuova guerra. Quella sulla crisi della civiltà costituisce una riflessione centrale per gli intellettuali di quegli anni, posti di fronte alla sensazione della graduale scomparsa di un mondo di valori e del trovarsi in un punto di non ritorno - tra le opere più celebri nelle quali ha trovato espressione possiamo citare Il tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler (1918-1922), La ribellione delle masse di Ortega y Gasset (1930) e La crisi della civiltà di Johan Huizinga (1935). Ciò che contraddistingue l’approccio leviano, tuttavia, è la volontà di ricercare le ragioni della crisi non tanto in avvenimenti specifici del momento presente, non tanto in motivazioni di carattere economico, quanto «nell’animo stesso dell’uomo»: in ciò che è insito nella natura umana e che ciclicamente, dunque, è destinato a tornare: quel sentimento che Levi identifica come la «paura della libertà», e il bisogno di chi ce ne liberi.

Prima, in altre parole, occorre definire che cosa è l’uomo, come funziona l’uomo, sembra dire Levi; e solo allora, se la vita di ogni persona come la storia collettiva non sono che l’alternarsi perpetuo di libertà e di paura della libertà, di progresso e di regressione, la guerra e i totalitarismi, come ogni crisi privata o generale, non saranno più un inspiegabile incidente di percorso, ma potranno essere compresi come momenti inscritti nel volgersi stesso delle cose. «Questo è altrettanto vero su un piano personale e su un piano storico: quello che è stato può tornare, quello che è celato riaffiorare alla coscienza, come riappaiono le spiagge al ritirarsi della marea.»

Nella convinzione che proprio in questo messaggio è da ritrovare il senso di rileggere oggi, a quasi cento anni di distanza, Paura della libertà, si prepone un percorso che, snodandosi attraverso alcuni concetti-chiave del discorso leviano (dal ‘sacro’ e la religione, alla massa, allo «Stato-idolo»), intende spianare la strada a una riflessione che si apra oltre i confini del testo stesso, a quei temi che sono di ogni tempo: il concetto di “progresso”; la genesi del potere e i meccanismi di manipolazione; il conformismo; la libertà.

L’interesse e il valore dell’opera, d’altra parte, è da ritrovare non solo nei contenuti, ma anche nella forma. Nonostante il nazismo costituisca un chiaro riferimento per tutta la riflessione, infatti, questo non viene mai chiamato per nome (in parte, come spiegato nella prefazione, per ragioni pratiche, ovvero l’assenza di libertà di parola del periodo che fece sì che «l’arte delle allusioni era diventata il più importante espediente letterario»). Ne risulta, così, uno stile originale, a tratti oscuro, che lega il taglio scientifico del linguaggio antropologico all’atmosfera mitica della narrazione biblica, che costituisce un richiamo costante. Levi definirà questo suo primo libro non “saggio”, ma «poema filosofico».

A livello di struttura, infine, il testo (concepito come parte introduttiva di un libro che avrebbe dovuto essere molto più lungo, tuttavia mai proseguito) si articola in otto capitoli, ognuno dei quali sviluppa il discorso attraverso una particolare prospettiva: Ab Jove principium; Sacrificio; Amor sacro e profano; Schiavitù; Le muse; Sangue; Massa; Storia sacra. L’insieme dei testi scelti per il percorso costituisce una proposta, un’idea di approccio all’opera che non pretende di esaurirne la ricchezza e le diverse sfaccettature; ed è libera scelta dell’insegnante, naturalmente, all’occorrenza e a seconda dei temi che si intendano approfondire, cambiare quelli qui proposti con altri che appaiano più opportuni.

 

Testo 1: Il ciclo dell’uomo tra libertà e religione

 

L’idea fondamentale sottesa all’analisi leviana, come si accennava, è una visione ciclica dell’esistenza umana e della storia. La molla che fa scattare questo ciclo è un sentimento che Levi identifica come il più ancestrale ed eterno nell’uomo: la paura della libertà. Proprio perché la vera libertà interiore costituisce al contempo l’aspirazione più grande e quanto è più faticoso da realizzare, dice infatti Levi, l’uomo è destinato tutta la vita a essere conteso tra il desiderio di emanciparsi come persona e il bisogno di aderire a un codice esterno; tra il desiderio di distinguersi dalla massa e il bisogno di rifondersi in lei; tra il bisogno di amore e la difficoltà di trovare un equilibrio tra l’annullamento di sé nell’altro e il terrore totale dell’altro; tra la volontà di essere responsabile delle proprie scelte e il sollievo inconscio nel saperle indipendenti da sé. Se per Levi libertà è, sul piano etico, il coraggio delle scelte e la capacità di discernimento critico indipendente da una morale esterna che detti come comportarsi; sul piano dei rapporti, la capacità di rimanere sé stessi pur nell’abbandono al rapporto con l’altro; paura della libertà è, da una parte, l’angoscia delle scelte, e il bisogno eterno di aderire a un’ideologia che dica cosa è bene e cosa è male; dall’altra, l’incapacità di rapporto: il terrore di differenziarsi dall’altro o, al contrario, il terrore della fusione con l’altro.       

A ogni ideologia che l’uomo faccia propria, a ogni morale esterna che l’uomo sostituisca alla propria autocoscienza, Levi dà il nome di «religione». Libertà e religione sono dunque sempre antitetiche nel lessico leviano, la seconda identificata sempre con la paura. Ma queste due possibili strade, libertà e liberazione religiosa, che eternamente combattono e convivono l’una accanto all’altra, hanno in realtà la stessa fonte: è ciò che Levi chiama «senso del ‘sacro’».

Nel primo testo proposto, corrispondente alle pagine d’apertura di Paura della libertà, Levi comincia la sua analisi definendo i concetti di ‘sacro’ e di ‘religione’.

 

Link 1: Il sacro e la religione

 

Il «punto inesistente da cui nasce ogni cosa», dal quale l’analisi dovrà inevitabilmente partire, è il senso del ‘sacro’: «l’oscura continua negazione della libertà e dell’arte, e, insieme, per contrasto, il generatore continuo della libertà e dell’arte». Se con ‘sacro’, legandoci alla definizione che segue poco dopo, Levi sembra intendere il senso di spaesamento e di piccolezza provato dall’uomo di fronte a ciò che lo supera, a ciò che è fuori dalla propria capacità di vedere e di comprendere; lo spavento davanti alla propria stessa natura umana e a quanto in essa è insondabile; esso potrà, da una parte, tradursi in una volontà di comprensione, spingendo l’uomo a trovare risposte dentro di sé e ad esprimerle creativamente; o al contrario, dall’altra, potrà tradursi nel timore di guardarsi dentro e nel bisogno di cercare risposte fuori di sé, «aquile araldiche» alle quali attaccarsi come a una verità assoluta. A questo bisogno di sostituire l’incomprensibile con risposte certe, dice Levi, di fissare ciò che non ha forma, risponde la religione. Occorre qui sottolineare ancora una volta come ‘religione’, nel lessico leviano, superi l’accezione stretta del termine, per andare a indicare qualunque credo, ideologia, filosofia alla quale l’uomo aderisce rinunciando alla fatica di un pensiero autonomo. E il riferimento è qui naturalmente a nazismo e fascismo, nuove religioni del ventesimo secolo capaci di radunare attorno a sé moltissimi ‘fedeli’. Proprio perché la paura (inconscia) della libertà è il sentimento più umano e diffuso che ci sia, ogni ‘religione’ finisce infatti per assumere sempre una funzione sociale:  formalizzando il vincolo di una massa già unita nella comune paura, «nel legame stesso del sacro».

Il meccanismo di liberazione religiosa dal senso del ‘sacro’ crea naturalmente, così, una forma specifica di rapporto: non più un rapporto tra pari – possibile soltanto nella raggiunta libertà di entrambi, ovvero nell’elaborazione personale del mondo -, ma tra fedeli e idolo, tra servi e signore. «Ogni monarchia è religiosa»: ogni rapporto di potere si fonda su un patto ‘religioso’, su uno scambio tra chi idolatra e chi è idolatrato.

Il tema dei rapporti è un tema centrale dell’opera. Proprio perché il concetto di libertà, per Levi, non ha senso senza il pensiero dell’altro, non può esprimersi che nella relazione con l’altro (e amore, scrive, è «la pietra di paragone della libertà»), nella sezione che segue si propone un approccio al concetto che ragioni in termini di opposizione tra rapporto religioso e rapporto libero, espressioni delle due possibilità che l’uomo ha di evolversi, di volta in volta, attraverso la ‘religione’ o la ‘poesia’: attraverso la ricerca di una liberazione fuori di sé o di una libertà dentro di sé. Si propone quindi una prima riflessione dedicata alle due metà complementari e interdipendenti di ogni rapporto religioso, parte dominatrice e parte dominata, incarnatesi rispettivamente, nel momento storico nel quale scrive l’autore, nello Stato deificato e nella massa; per chiudere quindi il percorso attorno alle definizioni leviane di «uomo» e di «libertà».

 

Testo 2: La massa

 

Nel primo capitolo di Paura della libertà, dopo aver introdotto i concetti di ‘sacro’ e di ‘religione’, Levi scrive che «ogni uomo nasce dal caos, e può riperdersi nel caos: viene dalla massa per differenziarsi, e può perder forma e nella massa riassorbirsi. Ma i soli momenti vivi nei singoli uomini, i soli periodi di alta civiltà nella storia, sono quelli in cui i due opposti processi di differenziazione e di indifferenziazione trovano un punto di mediazione, e coesistono nell’atto creatore.» Che cosa intenda con «differenziazione» e «indifferenziazione», Levi lo spiega subito dopo: se esiste una parte dell’animo umano comune a tutti, inconscia e irrazionale, il processo di individualizzazione di ogni persona non è che il graduale differenziarsi a partire da quanto è indifferenziato, come tante sculture che prendano forme diverse a partire da uno stesso blocco di marmo: ognuno, di conseguenza, porta in sé il particolare e l’universale, una propria coscienza razionale e un inconscio irrazionale comune a tutti. A seconda delle persone e dei momenti della vita, tuttavia, l’equilibrio tra questi due poli può cambiare: la negazione completa della dimensione irrazionale e, dunque (costituendo quest’ultima il trait d’union con gli altri uomini), la differenziazione completa dagli altri crea quello che Levi chiama «individuo astratto», mosso solo dal freddo interesse personale e incapace di qualunque possibile empatia; l’incapacità di differenziarsi, al contrario, di elaborare razionalmente sé stessi e il mondo, è il permanere nella massa.

Nel brano che segue, tratto dal capitolo intitolato proprio Massa, Levi ne descrive l’essenza.

 

Link 2: Massa

 

Se l’«individuo astratto» è l’uomo disumanizzato, massa è l’uomo non ancora nato. È la non-identità di chi non ha ancora preso consapevolezza di sé,  non sa ancora chi è, e la non-identità di chi si è perso, non sa più chi è. L’immagine stessa dell’inconscio precedente al formarsi della coscienza individuale e la pura irrazionalità nella quale ripiombano uomini uniti dalla paura. Come l’individualismo è l’ottusità del non poter guardare oltre il proprio orizzonte chiuso, il permanere nello stato della massa è, in un capovolgimento, la sensazione angosciante di affogare sempre in acque più grandi di sé.

La storia, scrive Levi, «non è che la vicenda del faticoso determinarsi della massa umana, e del suo risolversi in stato, poesia, libertà, o del suo celarsi in religione, rito, costume; e del ricrearsi continuo della massa dall’inaridire degli stati, dal cristallizzarsi delle religioni.» La storia, in altre parole, non è che un continuo delinearsi dell’uomo a partire dalla massa e, allo stesso tempo, una continua incapacità dell’uomo di uscire dalla massa e una continua tendenza a rifondersi in essa. Si tratta sempre dello stesso ciclo: l’oscillare dell’uomo tra un sentimento vero di libertà che gli consente  di evolvere in persona autonoma, senza con questo arrivare al bisogno del distacco disumano dagli altri; e un sentimento di paura della libertà che, al contrario, fa sì che quanto è massa permanga massa e quanto era già determinato ripiombi nella massa. Questa «umanità informe», così, unita nell’incapacità di un’identità propria, non può che cercare fuori di sé un idolo nel quale identificarsi.

«Massa» è allora l’espressione di un’umanità che può vivere soltanto in una posizione succube, passiva, proprio perché in un rapporto di duplice dipendenza: dalla massa stessa, dalla quale non ci si riesce a staccare e nella quale ci si annulla; e dall’idolo nel quale ci si identifica. In questo senso, prosegue quindi Levi, la massa è il rapporto non «come una creazione e una relazione, ma come un destino»: è l’Altro non come scelta, ma come bisogno, poiché a tenere uniti non sono le idee comuni - nonostante l’ostentazione di una religione condivisa -, ma la comune paura.

 

Testi 3-4: Lo Stato-idolo

 

Nel momento storico in cui scrive Carlo Levi, l’idolo che ha risposto al bisogno di sicurezza della massa è lo Stato totalitario, la voce che le ha dato le risposte che cercava, quella dei suoi dittatori. Proprio come la massa vive per lo «Stato-idolo», tuttavia, lo stesso «Stato-idolo» non può vivere senza massa. È quanto leggiamo nel prossimo testo proposto.

 

Link 3: Massa vs Stato-idolo

 

Per chiarire il rapporto di interdipendenza che intercorre tra la massa e lo «Stato-idolo» Levi utilizza l’immagine dell’opposizione tra la materia e la forma. Proprio come la massa trova nello Stato una forma nella quale plasmarsi, l’idolo dello Stato, che non è in realtà che una proiezione della prima, una «immagine di acqua»,  non potrebbe esistere senza un corpo che in essa si rispecchi.

La descrizione del rapporto di complementarità assoluta, narcisisticamente fatale, tra queste due metà mancanti diventa così l’occasione, per Levi, di sottolineare l’ipocrisia e vuotezza di ogni potere: privo, in realtà, di ragioni intrinseche di esistere, mito di una folla accecata, esso non può tenersi in piedi che trovando un oggetto che giustifichi la propria esistenza e la propria missione ‘salvatrice’: «un nemico necessario, che dovrà essere continuamente espulso e continuamente ritrovato, una vittima provvidenziale».

È la logica del capro espiatorio, che Levi aveva già introdotto nei tre capitoli del libro dedicati all’idolatria dello Stato e alla genesi del potere (intitolati tutti, significativamente, con parole comincianti per “-s”, quasi a creare un voluto effetto di allitterazione): Sacrificio, Schiavitù, Sangue. L’idea che percorre i tre capitoli, sviluppata in maniera via via più approfondita, è questa: ogni religione, e dunque ogni potere (poiché ogni potere è ‘religioso’ per sua natura, nasce da un’adorazione religiosa volontaria), non può che fondarsi sul sacrificio. Proprio perché ogni idolo è una proiezione nato da una paura, infatti, è il ‘fedele’ stesso a sentire il bisogno di porgersi in continua offerta, in continuo sacrificio per consacrarne la grandezza e assicurarsene quindi la protezione. È una narrazione che si ripete identica in tutti i miti e in tutte le società primitive fondate sulla religione, perché percepire qualcuno come ‘dio’ è sempre un annullarsi, un porsi in una posizione di continuo debito e di continua inferiorità.

Quando, così, a diventare dio è lo Stato stesso, questo meccanismo non può che rimanere invariato. Levi lo spiega nel capitolo Sacrificio, di cui proponiamo qui un breve estratto.

 

Link 4: Potere e sacrificio

 

La divinità dello Stato, scrive Levi, potrà reggersi soltanto su un duplice sacrificio. Su un sacrificio che la fondi: quello della massa che ne fa un idolo e, in quello stesso momento, è pronta a rinunciare in suo nome alla propria libertà come alla propria vita, morendo eroicamente in guerra; e su un sacrificio che, una volta fondata, le permetta di dare un senso alla sua esistenza: quello di un «gruppo, una classe, una nazione [che] dovranno forzatamente essere espulsi, essere considerati nemici, diventare stranieri per poter essere testimoni del dio». L’allusione di Levi è qui, naturalmente, alla sorte tragica di tutti gli Ebrei d’Europa: resi, da parte integrante della società, forzatamente ‘altri’ per riempire il vuoto di un potere che, consacrato dalla sola paura, non può vivere che alimentando quello stesso sentimento che lo ha generato: attraverso l’ostentazione di una violenza continua e attraverso l’individuazione di un bersaglio comune che, culla di tutti i mali, renda certa l’adorazione di una massa spaventata. In questo circolo vizioso fondato sulla paura, così, Levi mette in guardia dall’atteggiamento manipolatore di ogni potere, da un lato; ma anche, dall’altro, dalla «oscura necessità, che fa veri tutti gli dèi, volontarie tutte le servitù, sacre tutte le vittime; che lega inscindibilmente il signore e il servo, il re e il prigioniero, la bandiera e l’esilio».

 

Testo 5: Né dominatore né dominato: l’uomo, o la libertà

 

Il bisogno eterno di avere un’approvazione dall’esterno e il bisogno eterno di schiacciare qualcun altro sono fratelli, sembra dire Levi, perché figli di uno stesso vuoto, di uno stesso complesso di inferiorità; e la libertà non è né nell’essere dominati, né nel dominare. Proponiamo, a conclusione del percorso, un passo nel quale Levi riflette sulle dinamiche di ogni rapporto, dando alla fine la propria definizione di «libertà».

 

Link 5: Libertà

 

Levi identifica tre momenti nello sviluppo di ogni rapporto umano. Il primo momento, ogni ‘Altro’ costituendo sempre un salto nel vuoto, non può essere che quello del ‘sacro’, del senso del trovarsi di fronte al mistero di un mondo sconfinato.  Ma ciò che è sconfinato, dice Levi, spaventa l’uomo, ed egli vive nella ricerca perenne di confini certi: entra allora nel secondo momento, quello religioso. È la maschera pirandelliana: la «sostituzione all’uomo del suo simbolo, del suo idolo», ovvero il bisogno di fissare l’altro in un’immagine definita, prevedibile; e, allo stesso tempo, il bisogno di fare «persino di sé un idolo», di costruire un’immagine di noi stessi che ci dia la certezza di un’identità.

Quest’angoscia della forma che perseguita l’uomo, dice Levi, si riflette identica nei suoi rapporti con lo Stato, perché ciò che avviene sul piano personale trova sempre un suo equivalente sul piano collettivo: l’idolatria dello Stato, così, è l’espressione del duplice bisogno di un rapporto con l’altro e di un’identità per sé. È il «terrore di sé» perché è il terrore di sé senza l’altro, «lo spavento della impossibilità di distinguersi come persone»: è la paura della libertà.

Come ogni esistenza umana è l’eterno oscillare tra la tendenza a staccarsi dalla massa e quella a rifondersi in lei, la storia è l’eterno alternarsi di «ateismo» e «idolatria», di fasi secolarizzate e di fasi religiose perché, sembra dire Levi, ogni fase di secolarizzazione produrrà sempre, a un certo punto, il bisogno di nuove ‘religioni’. E in questo ciclo perpetuo la libertà vera, meta finale di ogni rapporto, non è che quel raro momento di equilibrio nel quale «comunità» non contraddice più «persona»; e nel quale l’uomo, trovata in sé la sua norma, riesce ad abbandonarsi alla passione, ma a non lasciarsene travolgere, e impara a tracciare limiti, ma a non ergere mura.

 

15 febbraio 2022