Matteo Bensi - L’ eterno ritorno del mito

Cesare Pavese in dialogo con Ernesto De Martino

L’incontro tra Cesare Pavese ed Ernesto De Martino segna un momento di svolta nelle vite intellettuali dello scrittore e dello studioso. In questa proposta di percorso didattico interdisciplinare, il loro incontro costituirà l’abbrivio per un approfondimento sul tema del mito[i], considerato sia dal punto di vista antropologico e filosofico che letterario: al centro, l’opera di Cesare Pavese. Ci accompagneranno i testi riportati.

 

«Una piana in mezzo a colline, fatta di prati e alberi a quinte successive e attraversate da larghe radure, nella mattina di settembre, quando un po' di foschia le spicca da terra, t'interessa per l'evidente carattere di luogo sacro che dovette assumere in passato. Nelle radure, feste fiori sacrifici sull'orlo del mistero che accenna e minaccia di tra le ombre silvestri. Là, sul confine tra cielo e tronco, poteva sbucare il dio. Ora, carattere, non dico della poesia, ma della fiaba mitica è la consacrazione dei luoghi unici, legati a un fatto a una gesta a un evento. A un luogo, tra tutti, si dà un significato assoluto, isolandolo nel mondo. Così sono nati i santuari. Così a ciascuno i luoghi dell'infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico.»[ii]

 

Un incontro. Due traiettorie

 

Quando De Martino si mette in contatto con la casa Einaudi, nel 1942, non si presenta come autore nel solco della tradizione crociana, bensì come “membro corrispondente della Società Italiana di Metapsichica”. In questa fase, lo studioso mostra un grande interesse per il magico ed è insofferente alla riduzione schematica del mondo dello spirito alle quattro forme della dialettica crociana – arte, logica, etica, economia – in cui sembra non ci sia spazio per la magia.

In una lettera al filosofo Antonio Banfi ritrovata da Carlo Ginzburg, scrive:

 

[…] mi interesso molto di psicopatologia e di metapsichica. Sono entrato nella convinzione che alcuni fenomeni psicopatici e tutti i fenomeni metapsichici possano essere considerati come relitto, per entro la civiltà occidentale, della civiltà magica.[iii]

 

Pavese e De Martino si incontrano a Roma nella primavera del 1943 per discutere del progetto editoriale di una collana di studi etnoantropologici, che prenderà il nome di “collana viola” (la collana inizierà le pubblicazioni solo nel 1948). Entrambi, secondo diverse traiettorie, percorrono il confine che separa il mondo sotterraneo e arcaico della magia e del mito dal mondo della razionalità dogmatica e belligerante. Il “confine”, che è reso permeabile dall’interesse di entrambi per il mito, è, dal loro punto di osservazione, quello tra vita e morte, tra gioventù e piena maturità, tra uomini e dèi. Si incontrano in un anno, il 1943, che è di per sé un varco, entrambi hanno 35 anni.

Se ci mettiamo sulla traiettoria di Pavese, il tema del mito ha uno sviluppo diacronico e un persistere sincronico, su quella traiettoria assistiamo a un “eterno ritorno del mito”, lungo tutta la sua produzione.

Nel 1933 Pavese legge Il ramo d’oro[iv] di Frazer, uno dei fondatori della categoria di “primitivo” nella cultura e nell’arte europea e lo rilegge nel 1946, quando sta scrivendo i Dialoghi con Leucò. Il 21 luglio 1946 scrive ne Il Mestiere di vivere:

 

Nel 1933 che cosa trovavi in questo libro? Che l’uva, il grano, la mietitura, il covone erano stati drammi, e parlarne in parole era sfiorare sensi profondi in cui il sangue, gli animali, il passato eterno, l’inconscio, si agitavano.[v]

 

Link_1 : Frazer, Fuochi di mezza estate o di San Giovanni

 

Frazer descrive il mito e la magia come «un vulcano che ribolle sotto i nostri piedi», e i progressi razionali come le onde dell’oceano, lievi increspature sull’immota profondità degli abissi.

Queste immagini evocano una precisa idea di temporalità e di sviluppo storico: se il mito e la magia “ribollono” sotto i nostri piedi, significa che essi non sono superati dallo sviluppo storico della civiltà, ma resistono, anche dopo aver mutato forma, nelle rappresentazioni e nelle faglie del presente. Nel paradigma del mito è leggibile una fitta rete di rimandi – scosse telluriche e maremoti nella metafora del vulcano che ribolle – tra la contemporaneità e l’antichità, perché il mito non è né antico né contemporaneo; è fuori dal tempo.

Emblematici di questo nuovo paradigma temporale sono i fuochi di mezza estate che compaiono nell’ultimo romanzo di Pavese, La luna e i falò. Nel corso del romanzo, il falò si risemantizza come simbolo eterno e ritorna acquisendo sempre nuovi significati, antico e contemporaneo in un tempo solo. Simboli di vita, i falò sono gli elementi superstiti di una tradizione rustico-popolare, arcaica, legata agli antichi riti di propiziazione e di fecondazione della terra. Come scrivono Laura Nay e Giuseppe Zaccaria nella Nota all’edizione Einaudi dell’ultimo romanzo di Pavese: «Ai falò dell’infanzia si contrappongono altri falò, che provocano la perdita delle illusioni da parte del protagonista e la sua decisione di abbandonare il paese.» Uno di questi è rappresentato, in senso metaforico, dall’incendio appiccato dal padre di Cinto al “casotto di Gaminella”, che distrugge, insieme, le ultime tracce del passato; l’altro si riferisce, invece, alla vicenda di Santa, prima compromessa con i fascisti e passata poi con i partigiani, giustiziata.

Il romanzo si chiude, appunto, con le parole di Nuto sulla fine della ragazza e sui segni che ne sono rimasti:

 

No, Santa no, – disse, – non la trovano. Una donna come lei non si poteva coprirla di terra e lasciarla cosí. Faceva ancora gola a troppi. Ci pensò Baracca. Fece tagliare tanto sarmento nella vigna e la coprimmo fin che bastò. Poi ci versammo la benzina e demmo fuoco. A mezzogiorno era tutta cenere. L’altr’anno c’era ancora il segno, come il letto di un falò.

 

«Nel corso del romanzo, da simboli di gioia e di vita i falò si sono trasformati in simboli di distruzione e di morte».[vi]

Il mondo primitivo delle colline dell’infanzia di Pavese è, nella traiettoria meno privata di De Martino, quello dei resoconti etnografici raccolti ne Il mondo magico.[vii]

Adottando un punto di vista più distaccato rispetto a quello razionale deduttivo delle scienze della natura, che ricondurrebbe il non spiegabile all’errore, l’antropologia di De Martino può tentare di risolvere il paradosso del mondo magico. Anche la magia è natura, ma una natura culturalmente condizionata, che mette in scena riti e ritmi che afferiscono all’irrazionale, come i falò e le offerte sacrificali che propiziano il raccolto e la fertilità della terra. Non si tratta, per De Martino, di spiegare la verità del magismo, ma di descrivere il dramma storico che lo motiva. Il sottotitolo dell’opera che inaugura la collana viola di Einaudi è, non a caso: Prolegomeni a una storia del magismo.

La magia ha una funzione liberatrice per i popoli primitivi, come per il mondo contadino. Essa riconduce il dramma esistenziale di ciascuno nell’alveo della tradizione mitica, e così lo esorcizza. Se è accaduto una volta, in modo paradigmatico, quella volta significa e redime tutte le altre. Si tratta di concepire la storia non in senso lineare, come una sequela di eventi irripetibili, ma come ripetizione rituale di un dramma già vissuto nella dimensione del mito e che può trovare soluzione solo nella sua rievocazione simbolica attraverso il rito. Questa è la posta in gioco della ricerca di De Martino nel 1947, quando consegna il manoscritto de Il mondo magico a Pavese e a Einaudi.

Sembra che il percorso dei due intellettuali segua, negli anni successivi al loro incontro, strade e tracciati paralleli. Tra il 1943 e il 1944, in concomitanza con l’avvio della collaborazione con De Martino, Pavese scrive tre contributi teorici sul mito, di dichiarazione poetica, che saranno pubblicati nel 1946 in Feria d’agosto:[viii] Del mito, del simbolo e d’altro; Stato di grazia; L’adolescenza; Mal di mestiere.

 

Link_2_Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro

 

Ma Pavese non approda alla poetica del mito nel ’43. Il mito è da sempre “il suo gorgo”, il punto di fuga della sua ricerca esistenziale. In Raccontare è monotono, pubblicato postumo su «Cultura e realtà», scrive:

 

[…] Ciascuno ha il suo gorgo: raccontare vorrà dire lottare per tutta una vita contro la resistenza di quel mistero.[ix]

 

Ancora, in Dialoghi con Leucò, scrive:

 

Sappiamo che il più sicuro – e più rapido – modo di stupirci è di fissare imperterriti sempre lo stesso oggetto. Un bel momento quest’oggetto ci sembrerà – miracoloso – di non averlo visto mai.[x]

 

Già nel 1935 Pavese compone la poesia Mito, che confluirà nella raccolta Lavorare stanca.[xi]

 

Link_3_Pavese, Mito

 

Nel componimento assistiamo al dialogo di sguardi, osservati dalla distanza del poeta, tra un giovane dio e l’uomo. Il secondo rappresenta il destino del primo: l’uomo adulto, divenuto consapevole e pesante nei passi, è la nemesi sorridente del giovane dio, “il cui passo stupiva la terra”. L’uomo, che ha compreso le fatiche e le derisioni della vita, sorride, ma di un sorriso amaro e rassegnato. A parti invertite, nel dialogo Schiuma d’onda, contenuto in Dialoghi con Leucò, è la dea della fertilità cretese Britomarti a rivendicare il sorriso. Qui, il sorriso è prerogativa degli dèi e non degli uomini. Saffo annoiata, stanca della monotonia del mare dove credeva di aver trovato la morte e dove invece tutto muore e rivive, nel dialogo con Britomarti non sa che cosa significa sorridere.

 

Link_4_Pavese,  Schiuma d’onda

 

Saffo: Io ho voluto morire.

Britomarti: Dunque accetti il destino?

Saffo: Non lo accetto, lo sono. Nessuno l’accetta.

Britomarti: Tranne noi che sappiamo sorridere.

Saffo: Che cosa significa sorridere.

Britomarti: Significa accettarsi e accettare. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino.[xii]

 

Tra Lavorare stanca e i Dialoghi con Leucò sono trascorsi dieci anni: 1936-1947. È cambiato tutto. Negli anni ’40 Pavese si avvicina al mondo della filosofia e della cultura tedesca – sono gli anni del discusso taccuino segreto[xiii] – traduce alcuni brani de La volontà di potenza di Nietzsche, continua a lavorare sul “selvaggio, sul magico e il primitivo”, legge Giambattista Vico, trascorre gli anni della Resistenza in isolamento a Serralunga di Crea, nel Monferrato, mentre Torino è bombardata.

 

Link_5_Vico, Scienza Nuova

 

Abbandonato il punto di vista del giovane, del fanciullo/dio che riscontriamo ancora nella concezione del mito di Lavorare stanca, il Pavese maturo dei Dialoghi con Leucò riserva il sorriso agli dèi immortali, mentre i giovani ridono senza sapere il perché, perché da giovani si è senza ricordi.

Da adulti e da vecchi, i mortali, come Bellerofonte nel dialogo La chimera o come Ippolito-Virbio, nel dialogo Il lago, e Saffo, in Schiuma d’onda, sono riottosi, combattono l’ineluttabilità e l’inedia, chiedono di riavere una voce e un destino o li rimpiangono. Non vogliono vivere in eterno e sorridere, ma morire per vivere davvero.

 

Chiedo di vivere, non di essere felice

 

Nel dialogo Il lago parlano Diana e Virbio. Il riferimento è al truce rituale che apre Il ramo d’oro, quello del re del bosco: si celebrava nel bosco sacro di Diana a Nemi, e inscenava l’assassinio del sacerdote in carica da parte del suo successore. Il primo di questi sacerdoti era stato l’ateniese Ippolito, di cui Euripide racconta la storia. Devoto di Artemide, disprezzava le donne e l’amore: per punirlo Afrodite suscitò una passione incestuosa nella sua matrigna Fedra che, respinta dal casto Ippolito, lo accusò davanti al padre Teseo di averla stuprata. Maledetto dal padre, Ippolito fu travolto dai suoi cavalli e morì; ma Artemide resuscitò il suo devoto e lo nascose nel suo bosco sacro di Ariccia, cambiandogli il nome in Virbio.

 

Link_6: Pavese, Il lago

 

Virbio: è felice il ragazzo che fui, quello che è morto. Tu l’hai salvato, e ti ringrazio. Ma il rinato, il tuo servo, il fuggiasco che guarda la quercia e i tuoi boschi, quello non è felice, perché nemmeno sa se esiste. Chi gli risponde? Chi gli parla? L’oggi aggiunge qualcosa al suo ieri?.

Virbio: Ho bisogno di stringere a me un sangue caldo e fraterno. Ho bisogno di avere una voce e un destino. O selvaggia, concedimi questo.

Diana: Pensaci bene, Virbio-Ippolito. Tu sei stato felice.

Virbio: Non importa, signora. Troppe volte mi sono specchiato nel lago. Chiedo di vivere, non di essere felice.[xiv]

 

«Ho bisogno di avere una voce e un destino». Che cosa sia il destino che chiede Virbio lo leggiamo nell’articolo La poetica del destino, un testo inedito che Pavese scrive a pochi mesi dalla morte, nel 1950.

 

Che cos’è questo destino? Un destino non è altro che un ritmo, una cadenza di ritorni previsti nel gioco di una libertà tutta tesa. […] Attraverso i mille incidenti di questo sforzo di esclusione e di purezza, a poco a poco l’intero destino intravisto all’origine si scopre articolato e corposo nella favola compiuta.[xv]

 

Pavese sembra consegnarci a un senso di ineluttabilità e predestinazione la cui unica via d’uscita è il suicidio. Questa è anche la critica che gli giunge da Ernesto De Martino nell’articolo del 1949, pubblicato su «Società», Intorno a una storia del mondo popolare subalterno. Nell’immediato dopoguerra, e soprattutto dopo le enormi trasformazioni avvenute nella politica italiana dal 1947 al 1949, il percorso intellettuale di De Martino e Pavese si separa e l’avventura editoriale della collana viola naufraga. Il primo vira la sua ricerca in senso nuovamente crociano e cerca di collocarsi sotto l’ombrello dell’ortodossia del PCI. In questo modo rinnega una tesi portante de Il mondo magico – la storicità delle categorie – e tratta il mito e la magia come le rappresentazioni del mondo popolare subalterno, da civilizzare alla luce della chiara razionalità dello storicismo marxista. Sono lontani gli anni in cui scriveva, sempre ne Il mondo magico, che «la magia è liberazione attraverso la protezione e il riscatto offerto dalla comunità e dal rito».

Il rapporto con Pavese diventa apertamente conflittuale, lo documenta l’epistolario tra i due ripubblicato nel 2022 da Bollati Boringhieri. La discussione verte sia sulle questioni contrattuali legate alla collana viola, sia sulle scelte editoriali e di indirizzo culturale della stessa. Pavese è sempre più emarginato dalla cultura ufficiale e riceve attacchi dagli intellettuali più vicini al partito. Gli ultimi, ai quali risponde su «Cultura e realtà»[xvi] nel numero uscito tra maggio e giugno del 1950, sono di Franco Fortini, Il diavolo sa travestirsi da primitivo.[xvii] È in questa risposta che troviamo forse la rivendicazione più forte del valore conoscitivo, della originalità storica e della perenne vitalità nella sfera dello spirito.

 

Link_7_Pavese, Discussioni etnologiche

 

Il 31 agosto 1950, a tre giorni dal suicidio di Pavese, De Martino scrive queste parole a Einaudi.

 

Caro Einaudi,

dopo la sciagura del povero Pavese vorrei sapere quale sarà per essere, nel tuo pensiero, il destino della collana. Pavese le aveva impresso un indirizzo che non era del tutto di mio gradimento, poiché ad ispirare tale indirizzo reagiva la sua troppo immediata simpatia per certe forme di irrazionalismo, scientificamente errate e politicamente sospette, che attraverso l'idoleggiamento del mondo primitivo, del sacro, del mito, etc., avevano tenuto a battesimo alcuni aspetti dell'involuzione culturale (e politica) della borghesia agonizzante. Pavese non era soltanto un narratore di favole, ma anche un inquieto cercatore di una visione del mondo, e a me è sembrato che ne stesse per scegliere una che equivaleva già a un commiato e a una morte. […][xviii]

 

Il testamento intellettuale degli ultimi anni di vita di Pavese sembra consegnarci l’idea che l’unica via aperta alla libertà, all’azione creatrice della vita, sia un via a ritroso alla scoperta della perenne vitalità che i miti esercitano nella vita dello spirito, del singolo e della comunità. Ma in questo riavvolgere il nastro della tradizione non ci leggiamo conservatorismo e rassegnazione. Nel mito riluce il mistero, la possibilità creativa e tormentata di ogni nuovo mondo, esso è un’immagine misteriosa e promettente, come Pavese scrive nell’articolo Il mito, «perché irriducibile anche alla fiamma ossidrica della nostra più consapevole teoria». Senza miti non ci sono né poesia, né futuro.

 

 

28 febbraio 2023

 


[i] Segnalo il recente studio di R. Gasperina Geroni, Cesare Pavese Controcorrente, Macerata, Quodlibet, 2020, sia per il rilievo critico, sia per la ricognizione bibliografica su Cesare Pavese e il mito.

[ii] C. Pavese, Del mito, del simbolo e d’altro, in Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 2021.

[iii] C. Ginzburg, De Martino, Gentile, Croce. Su una pagina de Il mondo magico, in «La Ricerca Folklorica» No. 67/68, Ernesto De Martino: etnografia e storia (aprile-ottobre 2013), pp. 13-20.

[iv] James G. Frazer, Il ramo d’oro, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.

[v] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 2020.

[vi] L. Nay e G. Zaccaria, Nota, in La Luna e i falò, Torino, Einaudi, 2020.

[vii] E. De Martino, Il mondo magico, a cura di M. Massenzio, Torino, Einaudi, 2022.

[viii] C. Pavese, Feria d’agosto, Torino, Einaudi, 2021.

[ix] C. Pavese, Raccontare è monotono, in La Letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1997.

[x] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Milano, Adelphi, 2021.

[xi] C. Pavese, Lavorare stanca, Firenze, Passigli, 2021.

[xii] Ivi.

[xiii] C. Pavese, Il taccuino segreto, a cura di F. Belviso, Torino, Aragno, 2020.

[xiv] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, Milano, Adelphi, 2021.

[xv] C. Pavese, La poetica del destino, in La Letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1997.

[xvi] Lettera contenuta in C. Pavese, E. De Martino, La collana viola, a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, 20222.

[xvii] F. Fortini, Il diavolo sa travestirsi da primitivo, in «Paese sera» e «Giornale di Sicilia» (23 febbraio 1950). La discussione viene avviata da E. De Martino, Intorno alla storia del «mondo popolare subalterno», in «Società», settembre 1949, n. 3, pp. 411-435; intervengono anche C. Luporini, Intorno alla storia del «mondo popolare subalterno», in «Società», marzo 1950, n. 1, pp. 95-106; E. De Martino, Ancora sulla «storia del mondo popolare subalterno», in «Società», giugno 1950, n. 2, pp. 306-309; C. Luporini, nota conclusiva (senza titolo), ibid., pp. 309-312; E. Ragionieri su «Il nuovo corriere» (27 novembre 1949), R. Franchini su «Il mondo»  (14 gennaio 1950), R. Bianchi Bandinelli su «Sardegna nuova» (febbraio 1950).

[xviii] C. Pavese, E. De Martino, La collana viola, a cura di P. Angelini, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2022.