Cinzia Ruozzi - Il racconto della speranza, il racconto del disincanto

Scuola e società nel secondo Novecento

 

Già nel 2002 Lidia De Federicis nel breve saggio Noterelle e Schermaglie suddiviso in dieci capoversi corrispondenti a dieci temi su scuola ed educazione, aveva cominciato a prestare attenzione al fenomeno del racconto di scuola, giungendo a definirlo come un “luogo centrale del romanzesco moderno”.[1] Il racconto di scuola ha ormai conquistato la forma di un genere letterario vero e proprio: ha una sua tradizione (la data d’inizio del genere o il testo archetipico è Il Romanzo di un maestro di De Amicis, 1890), caratteristiche stilistiche e forme narrative proprie, topoi letterari che si ripetono nel tempo e che hanno anticipato determinate tendenze letterarie contemporanee. Infatti se assumiamo come valide le tre categorie: ritorno al realismo, velocità narrativa e ibridazione, intorno alle quali la critica letteraria sembra trovarsi concorde nel tentativo di definire la narrativa dei giorni nostri, vediamo come il racconto di scuola vi aderisca perfettamente.

Un primo motivo, quindi, per proporre un percorso didattico su questo genere letterario potrebbe essere quello dell’esercizio critico sulle caratteristiche della narrativa contemporanea.

Un secondo motivo è che il racconto di scuola ha registrato nel tempo le grandi trasformazioni sociali e culturali del paese (pensiamo per esempio all’istituzione dell’obbligo e al problema dell’analfabetismo negli anni Cinquanta, alla creazione della scuola media unica nel 1962, ai 5 Decreti Delegati del ‘74, al Regolamento sull’autonomia del ’99 ecc, restituendoci però al contempo le singolarità, il lavoro quotidiano dimesso e paziente dell’educazione, le sconfitte e le passioni individuali.

La ricognizione di opere e autori significativi del genere ci consente, dunque, di far emergere il rapporto tra scuola e società, così come si è venuto configurando nel nostro paese fin dalla nascita della scuola pubblica e la dimensione simbolica e reale della figura dell’intellettuale-insegnante, alla luce delle grandi trasformazioni legislative, sociali e culturali avvenute.

Come scrive Giulio Iacoli nel suo contributo al volume Narratori italiani del Novecento dal Postnaturalismo al Postmodernismo e oltre, «nel macro tema ‘scuola’ confluiscono e si saldano il racconto dell’intellettuale, quest’ultimo colto in un’accezione diminuita, contaminata irrimediabilmente con la figura del travet, e il romanzo del lavoro, così rappresentativo di certo Novecento italiano».[2]

Visto nel suo complesso il racconto di scuola assolve dunque alla funzione di una grande narrazione su quanto la scuola ha rappresentato nella storia del nostro paese e sul modo in cui l’hanno saputa raccontare i suoi protagonisti. Ecco allora che l’insegnante- scrittore, partendo dal dato autobiografico ed esperienziale, produce un intervento critico dalla forte connotazione etica e politica.

Il tentativo che qui si delinea è quello di raccontare il secondo Novecento, territorio letterario non ancora pienamente esplorato nelle pratiche didattiche, attraverso alcune opere esemplari di racconto di scuola che, nel semplice resoconto delle giornate di una classe, hanno saputo rappresentare i grandi cambiamenti sociali, economici e di mentalità vissuti nel nostro paese.

Gli effetti travolgenti e traumatici prodotti in Italia dal boom economico tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta sono stati descritti, sulla nostra rivista, nel contributo di Carlo Varotti Produrre e consumare[3] che si è in particolare soffermato sulla figura di Lucio Mastronardi, autore di Il maestro di Vigevano pubblicato nel 1962.

In quello stesso anno, Il 31 dicembre fu emanata la Legge n.1859 che istituì la scuola media unica e portò l’obbligo scolastico a 14 anni. La legge rispondeva alla profonda domanda di istruzione dei ceti popolari di orientamento progressista e di gran parte del mondo produttivo. In virtù di tale provvedimento, anche in Italia comincerà a crescere il numero degli alunni che proseguiranno gli studi fino al livello universitario, ma l’incremento impetuoso della scolarizzazione trovò la scuola impreparata al suo nuovo compito.  Il fenomeno delle ripetenze, delle bocciature e degli abbandoni sarà inesorabile e colpirà prevalentemente le classi sociali più povere dei contadini e degli operai.

Lo scottante fenomeno della selezione sociale diverrà il tema di uno dei libri che più hanno segnato la storia della scuola italiana, Lettera a una professoressa [1967] di don Lorenzo Milani. La pubblicazione di Lettera a una professoressa precedette di poco l’esplosione della contestazione giovanile in Italia, anticipando alcuni dei temi che saranno fatti propri dal movimento studentesco e operaio. Indipendentemente dalla sua volontà, don Milani sarà considerato uno dei simboli di quella contestazione e il libro, a torto o a ragione, raggiunse una grande popolarità negli anni successivi come manifesto dell’antiscuola.

Facciamo un passo indietro. Don Milani era già ben noto agli studenti che dal 1966 agitavano le università italiane. La sua Lettera ai cappellani militari [1965], nella quale rivendicava il diritto alla disobbedienza e difendeva l’obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio, considerata nel paese ancora un reato grave (art. 173 del Codice penale militare), aveva dato voce al movimento pacifista e non violento e gli era costata un’incriminazione per apologia di reato. I testi legati al processo furono in seguito pubblicati in un libricino che fece scalpore, dal titolo L’obbedienza non è più una virtù. [1965] Secondo l’accurata ricostruzione documentale di Vanessa Roghi nel saggio La lettera sovversiva,[4] da quel momento don Milani venne bollato come prete comunista anche grazie alla feroce campagna di stampa di molti giornali della destra cattolica, ostili alle spinte di trasformazione nate in seno alla chiesa. Così quando Lettera a una professoressa fu pubblicata (maggio 1967, un mese prima della morte di don Milani, che si spegnerà il 27 giugno ‘67) diventò subito un best seller, raggiungendo in pochi mesi le 50.000 copie vendute.

Ancora molti anni dopo la figura carismatica di don Milani, il suo credo pedagogico, la radicalità delle sue idee sono argomenti di condivisione o di scontro tra chi si occupa di scuola, il vulnus polemico che emerge in tanti dibattiti e querelle didattiche.

 Per la forza e la semplicità della Lettera fu impossibile non confrontarsi con l’appassionante e scomoda eredità del parroco di Barbiana, già a partire da Franco Fortini che definì il pamphlet un «libro parabola dove i personaggi scolari e insegnanti sono figure di tutti noi»[5] e Pier Paolo Pasolini che riconobbe in don Milani «colui che ha portato a termine l’unico atto rivoluzionario del nostro tempo»,[6] fino ai recenti contributi di Mila Spicola, Carla Melazzini, Edoardo Albinati, Eraldo Affinati.[7]

Articoliamo il lavoro su tre autori (Don Milani; A. Bernardini; D. Starnone), compresi tra la fine dei Sessanta e la fine degli Ottanta

 

1) Don Lorenzo Milani, Lettera a una professoressa (1967)

 

Lettera a una professoressa è un piccolo libro che supera di poco le cento pagine, scandito per brevi e brevissimi paragrafi forniti di didascalie e titoletti e arricchito di numerosi grafici esplicativi. Come viene indicato nella pagina di apertura «Il libro non è scritto per gli insegnanti ma per i genitori ed è un invito ad organizzarsi. A prima vista sembra scritto da un autore invece gli autori sono otto ragazzi della scuola di Barbiana».[8]

Il contenuto del libro è una cruda sintesi di fatti e statistiche che mettono a nudo i mali che affliggono la scuola italiana: la natura classista della scuola che respinge i più deboli e discrimina sulla base dell’appartenenza sociale, l’inefficacia di una riforma, mito del centro sinistra, che ha istituito l’obbligo di otto anni senza rinnovare contenuti e metodi di insegnamento.

La Lettera si compone di due parti: la prima, dove prevalgono i toni dell’inchiesta di denuncia, prende in considerazione il tema della selezione scolastica in quanto meccanismo di riproduzione delle disuguaglianze sociali; la seconda parte, propositiva, traccia le linee di un nuovo e necessario progetto culturale-educativo. Il risultato è un libro fortemente innovativo anche sul piano della forma, come ha rilevato Alfonso Berardinelli: «un libro sulla scuola che si trasforma in un pamphlet antiborghese, in un manuale di morale cristiana militante, in un trattato sull’uso della lingua e della cultura scritta», tanto da potere essere «considerato la più sorprendente invenzione saggistica della seconda metà del secolo».[9]

La Lettera è un libro appassionante, di facile lettura. Lo stile, in apparenza elementare e semplificato, quasi brechtiano, è dotato di un forte rigore logico, di una tale intransigenza argomentativa che smaschera e denuncia con facilità le contraddizioni e le menzogne del sistema sociale. La perizia retorica di don Milani e dei suoi alunni sta nel fondere in un equilibrio ben riuscito il generale e il particolare. Si veda questo passo, tratto da un delle prime pagine del libro, che bene mostra lo stile colloquiale ma fermo, pacato ma deciso, della ‘lettera’.

 

LINK 1 (vedi allegato)

 

Un aspetto che bene illustra la concretezza documentaria del libro e la sua natura di ‘inchiesta’, è la presenza di Da un lato gli autori assemblano tabelle, grafici e statistiche su scala nazionale ricavati dall’Istat, dai Provveditorati, dai pubblici funzionari. Dati generali, e se vogliamo freddamente statistici, che si affiancano al racconto di fatti vicini all’esperienza quotidiana dei giovani studenti di Barbiana, cosicché i dati raccolti diventano l’esemplificazione, tanto più efficaci nella loro immediatezza testimoniale, delle in  dall’altro raccontano i fatti vicino a loro, esemplificando i dati raccolti con le storie personali dei promossi e dei bocciati.

Gli emblemi allegorici utilizzati sono due: Gianni e Pierino, figure antitetiche che rappresentano la scommessa e il fallimento della scuola pubblica. Gianni, il figlio di contadini respinto più volte e uscito dalle medie ancora analfabeta, è la conferma che per la scuola sarebbe più semplice levarsi di torno questi alunni difficili, senonché, come scrivono i ragazzi di Barbiana, «senza i Gianni la scuola non è più scuola. È un ospedale che cura i sani e respinge i malati»;[10] Pierino, il figlio del dottore che scrive bene e parla la lingua della scuola, completa, sull’altro lato della scala sociale, la rappresentazione dell’inesorabile meccanismo dell’ingiustizia perpetrata ai danni dei più deboli e degli esclusi.

Gianni e Pierino corrispondono a personaggi con una precisa fisionomia e una reale storia scolastica: Gianni è il quattordicenne Mauro, bocciato più volte alle medie di Vicchi, che dopo diverso tempo parteciperà alla stesura della Lettera, mentre Pierino rivela numerosi tratti autobiografici con la figura di don Milani. Tra Gianni e Pierino si colloca una terza figura, quella della speranza e del riscatto: sono i ragazzi di Barbiana, alcuni dei quali impossibilitati a frequentare scuole troppo lontane, altri ritenuti inadatti a studiare, altri bocciati e pluriripetenti.

La Lettera, frutto di una stesura collettiva, nasce come atto di vendetta nei confronti di una professoressa, assurta a simbolo della scuola classista che aveva respinto due alunni (il Biondo e l’Enrico) agli esami del primo anno delle magistrali, ma inevitabilmente diventa un atto di accusa contro l’intero sistema scolastico. Per la scuola di Barbiana quelle bocciature, che si ripeterono anche l’anno successivo, furono un duro colpo, perché in dieci anni di vita i ragazzi della scuola avevano superato brillantemente gli esami da privatisti delle medie. A Barbiana, infatti, i ragazzi erano giovani dagli 11 ai 25 anni e il priore si occupava in particolare dell’insegnamento dei più grandi.

In una missiva indirizzata nel 1965 a un docente di Istituto Magistrale, don Milani aveva lamentato le difficoltà incontrate dai suoi studenti decisi a fare gli insegnanti, le umiliazioni subite per l’impreparazione sul Latino e la cultura classica. Si riproduce una parte della missiva, che appare davvero il diretto antecedente della Lettera a una professoressa.

 

LINK 2 (vedi allegato)

 

Leggendo il testo si comprende bene, quali nuovi contenuti e metodi animassero il credo pedagogico di don Milani sul terreno sperimentale della sua scuoletta di montagna e perché accanto a tanti giovani insegnanti che cercarono di imitarne il magistero, crescesse il numero dei detrattori. Nel testo appaiono già chiare le linee portanti del discorso che nell’opera maggiore sarà articolato in maniera organica e sistematica. A partire da una diversa concezione della ‘cultura che occorre’, che secondo il don Milani riformatore è quella che parte non può non partire dalle cose, dalle domande, dai problemi, dalla lingua che parliamo, dall’interesse e dal lavoro.

Quello che a Barbiana si voleva smentire era che il percorso scolastico potesse snodarsi parallelo, senza punti di contatto con la vita reale e concreta. Si doveva partire da questa e ad essa era necessario ritornare, se si voleva fondare la preparazione non su nozioni desuete ma su conoscenze autentiche. Ciò presupponeva il riconoscimento che la cultura dei poveri non fosse da considerarsi come inferiore, ma come cultura diversa da quella dominante, una cultura (questo il suo unico limite) estranea alla lingua dei ceti dominanti. Da qui il suo continuo riferirsi alla lingua e alla educazione linguistica come strumento di uguaglianza, che poteva essere raggiunta solo passando attraverso l’appropriazione della parola da parte dei ceti che da essa erano stati tradizionalmente esclusi.

Recuperando le tesi di Graziadio Isaia Ascoli e di Antonio Gramsci e cioè che l’italiano si insegna a partire dal mondo circostante, dai dialetti, i gerghi e la lingua di casa, don Milani di dedicò assiduamente all’insegnamento dell’italiano e delle lingue straniere, nonché delle etimologie greche e latine delle parole, aspetti innovativi ancora poco conosciuti della sua esperienza didattica, come testimonia Michele Gesualdi, uno dei suoi allievi.[11]

Sarebbe interessante affiancare la lettura, per altro molto agevole della Lettera, all’analisi di alcuni articoli apparsi sui quotidiani nel 1992 in occasione del 25° anniversario della morte del priore. In quella circostanza a don Milani, divenuto ormai un’icona rivoluzionaria, venne attribuita la responsabilità dei guasti della scuola pubblica: aver addossato la colpa della selezione sociale sulle spalle degli insegnanti senza considerare le grandi trasformazioni avvenute nel paese, aver dequalificato la scuola con la critica alle nozioni e alla meritocrazia, aver svilito l’importanza della cultura classica.  Particolare scalpore suscitò l’articolo dello scrittore Sebastiano Vassalli, a sua volta insegnante, pubblicato sulle pagine di «La Repubblica» nel giugno del 1992, provocatoriamente intitolato Don Milani che mascalzone.[12]

Altrettanto famose sono nel merito le considerazioni polemiche sul donmilanismo di Paola Mastrocola, raccolte nel saggio Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare.[13]

Il libro che, malgrado don Milani, era stato assunto dal movimento del Sessantotto italiano come il vademecum di ogni insegnante democratico, come l’ispiratore delle grandi battaglie per la scuola degli anni Settanta fu dunque condannato ad essere additato come l’inizio della fine di tutto.

In realtà la ricostruzione del dibattito mette a fuoco uno dei problemi più grandi della scuola di ieri e di oggi rispetto al quale sarebbe interessante un confronto tra gli studenti, vale a dire, come riuscire a raggiungere l’obiettivo previsto dall’art. 3 della Costituzione di una scuola di massa in grado di rimuovere gli ostacoli culturali che perpetuano le disuguaglianze sociali e al tempo stesso essere in grado di offrire opportunità di alto profilo di crescita e formazione.

 

2) A. Bernardini, Un anno a Pietralata (1968) e Le bacchette di Lula (1969)

 

Negli stessi anni, un altro grande protagonista della storia della scuola, Albino Bernardini, dopo il successo ottenuto con l’opera di esordio Un anno a Pietralata (1968), decide di dare alle stampe un testo, Le bacchette di Lula (1969), maturato da un’esperienza scolastica vissuta nel 1949 nella Sardegna più interna e arcaica. Si tratta di «un memoriale imprudente e bellissimo»,[14] come lo definì l’amico e sodale Gianni Rodari, nel quale si saldano esperienza scolastica ed esperienza umana, in cui un giovane maestro, ancor prima della contestazione pedagogica e politica alla vecchia scuola, che scoppierà nel Sessantotto, sperimenta nei fatti la possibilità di fare educazione in modo diverso: una lezione non solo di didattica ma di impegno civile, di militanza pedagogica.

Come don Milani, anche Albino Bernardini anticipa esperienze pedagogiche che matureranno compiutamente negli anni successivi. Entrambi si occupano dell’educazione dei più poveri, degli alunni svantaggiati, entrambi incontrano l’ostilità delle autorità preposte: Bernardini, dopo l’incarico a Lula sarò allontanato dall’insegnamento per due anni, don Milani vedrà rifiutato il libro Esperienze pastorali (1958) dal sant’Uffizio e sarà traferito ‘per punizione’ nel piccolo paese di Barbiana.

Il resoconto autobiografico di Bernardini procede per temi e segue solo in apparenza l’andamento dell’anno scolastico, in realtà l’autore è concentrato a ragionare sulle scelte educative, a interrogarsi sui temi morali, a riflettere sulle conseguenze delle sue azioni in classe, a sperimentare in anticipo sui tempi nuove pratiche didattiche come: il lavoro di gruppo, la tipografia, lo studio d’ambiente, le inchieste sociali, il giornalino di classe.

A Lula i bambini arrivano a scuola portandosi le bacchette, destinate, secondo la tradizione pedagogica locale, a punirli se sbagliano o se ciò che fanno è considerato un errore. Sono allegri e quasi orgogliosi nell’offrire al maestro la bacchetta che hanno costruito con l’aiuto dei genitori, ognuno la sua, di legno ben levigato e lavorato con incisioni nell’impugnatura. I bambini bisogna picchiarli perché imparino la legge e non diventino briganti; picchiarli e castigarli anche con metodi ingegnosi, come quelli adottati dalla maestra Ballena, indiscutibile autorità pedagogica del paese, ad esempio mandarli in processione lungo le strade con le mani legate dietro la schiena, metterli in ginocchio sul sale, fargli bere chinino pestato, chiuderli a chiave nella classe.

Quelle bacchette, non metaforiche, hanno però una carica simbolica: rappresentano non solo la crudeltà dell’ambiente scolastico, ma anche la durezza e la violenza di una vita fatta di miseria, ignoranza, ingiustizia, sottomissione che riguarda tutti e di cui i bambini sono le prime vittime innocenti.

La scuola degli anni Cinquanta adotta metodi violenti soprattutto nelle aree difficili del paese con i ragazzi cosiddetti “disadattati”: i figli dei contadini siciliani, dei braccianti delle borgate romane, degli immigrati della cintura industriale torinese. Nel momento in cui Bernardini rifiuta le bacchette si incarica di dimostrare che l’educazione non ha bisogno della violenza, ma si impegna anche in una lotta contro tutto ciò che le bacchette simboleggiano.

 

 Ciò che caratterizza l’esperienza di insegnamento di Bernardini è infatti, fin dagli esordi, un fortissimo senso di indignazione e di ribellione e il convincimento che per cambiare la scuola non siano sufficienti i nuovi metodi didattici che lui stesso prova ad adottare, mutuandoli dalla pedagogia dell’attivismo pedagogico di Célestine Fréinet, ma occorra un impegno a tutto campo che si estende dalla scuola alla società civile.

Nel 1960 Bernardini si trasferisce con la moglie e i due figli a Roma: nello stesso anno ottiene l’incarico per insegnare in una scuola della borgata di Pietralata, dove gli viene affidata una classe di bambini appartenenti a famiglie del sottoproletariato urbano, in prevalenza figli di immigrati meridionali. Da questa esperienza, ricca di significativi risvolti umani e professionali, nasce il racconto autobiografico Un anno a Pietralata (1968). A questa opera si ispirerà nel 1973, Vittorio De Seta (1923-2011), già regista del film Banditi a Orgosolo (1961), per la realizzazione di Diario di un maestro, uno sceneggiato di grande successo prodotto per la Rai. Girato con uno stile di grande effetto documentaristico, il film trasmesso a puntate avrà il merito di far conoscere a un larghissimo pubblico di telespettatori (12 milioni!) un modello di scuola diverso da quello tradizionale e autoritario.

De Seta alternerà con estrema abilità la presa diretta alla ricostruzione, i personaggi reali – bambini presi dalle strade della borgata di Tiburtino 3 che si autodefiniscono ‘i malestanti’ –, agli attori come il bravissimo Bruno Cirino che interpreta la parte dell’insegnante.

Nella tradizione del genere, il libro comincia con il primo giorno di scuola, e nonostante siano passati alcuni anni dall’esperienza di Lula, la situazione non appare tanto diversa agli occhi del maestro: un edificio squallido e sporco come una prigione mandamentale, i colleghi in disparte che catalogano in blocco la borgata come “gentaglia”, una classe di alunni ripetenti che urlano e si danno pugni, infine, un gruppo di madri che consigliano al maestro di usare le maniere forti.

 L’atteggiamento del maestro si pone immediatamente in discontinuità con il comportamento sprezzante dei colleghi che considerano la scuola di via Pomona il luogo del loro castigo. Anche in questa seconda esperienza, Bernardini mette al centro della sua visione pedagogica il rapporto di interdipendenza tra scuola e società per ribadire la dimensione politica del lavoro di insegnante, come si chiarisce in uno dei molti passaggi di riflessione del libro:

 

LINK 3 (vedi allegato)

 

Le sue convinzioni sono talmente forti che egli affronta le prime durissime settimane senza scoraggiarsi, anche se la situazione si presenta molto critica: totale mancanza di disciplina, ingiurie e sberleffi al maestro, nessun interesse per lo studio, menefreghismo e assenze. La classe si presenta come una moltiplicazione del deamicisiano Franti, irrecuperabili allo studio, crudeli con i compagni, maleducati e violenti.

«Quando suonava il campanello che annunciava la fine delle lezioni, ero così stanco dalla rabbia, che non ne potevo più. Mi veniva voglia, specialmente alcuni, di prenderli e sbatterli al muro»,[15] confessa il maestro ai lettori, senza tanti abbellimenti e ammettendo di aver agito in modo sbagliato in qualche momento di esasperazione, ma in quanto ai Franti, è convinto che non esistano ragazzi cattivi, ma cattive abitudini, realtà ambientali che rendono invisibili la bellezza, la curiosità e gli slanci che ognuno porta con sé.

Esiste la borgata, non diversa da quelle che Pasolini ha presentato nei suoi romanzi e nei suoi film, e nella borgata i bambini hanno imparato che resistono meglio ‘i duri’, così in un dialetto romanesco degradato, così simile al parlato dei personaggi di Ragazzi di vita, esprimono l’anarchia dei sentimenti e degli istinti.

 

La svolta avviene quando il maestro decide di andare a prendere un alunno che “marina” regolarmente la scuola e si nasconde in una catapecchia abbandonata con altri compagni per fumare e giocare a carte. La minuziosa preparazione del piano di attacco che coinvolge l’intera classe e la riuscita dell’operazione costituiscono l’inizio di un nuovo corso nelle relazioni tra insegnante e alunni. Le valenze educative di un simile gesto sono tante: il maestro esprime l’interesse umano che sente nei confronti dei ragazzi, al di là del loro essere alunni (il famoso I care di don Milani), si mette sul loro piano architettando una trappola che è vissuta come un gioco, non teme il giudizio dei colleghi scandalizzati da questo modo di agire, si disinteressa delle regole che vietano di lasciare il caseggiato senza autorizzazione del dirigente. Conquistata la fiducia della classe e dei genitori, il maestro comincia con successo la sua avventura educativa. Nascono così le lezioni all’aperto: «leggevamo, recitavamo, giocavamo tra l’erba alta del cortile abbandonato”»,[16] lo studio dell’ambiente, le inchieste sul lavoro. La scuola diviene un centro di vita che si apre al mondo circostante, la borgata un luogo non solo da conoscere e comprendere ma da elevare didatticamente a laboratorio pedagogico. Un esempio di queste esperienze, nella pagina cui qui si rimanda:

 

LINK 4 (vedi allegato)

 

  Gli anni successivi all’uscita di Lettera a una professoressa e Un anno a Pietralata furono caratterizzati da un grande dibattito sulle riforme necessarie alla scuola, soprattutto in merito alla selezione scolastica nella fascia dell’obbligo. I finanziamenti per l’istruzione pubblica aumentarono considerevolmente, i Comuni si assunsero l’onere del servizio trasporti per gli alunni, furono emanati i Decreti Delegati (DD.PP.RR. nn. 416, 417, 418, 419, 420, del 31 maggio 1974) che aprirono la scuola alla partecipazione democratica di studenti e genitori, fu istituito il tempo pieno alla scuola elementare (24 settembre 1971, L.820) seguito dal prolungamento dell’orario alla scuola media e dai nuovi programmi del 1979, vennero inseriti gli alunni disabili (4 agosto 1977, L. n. 517), diminuirono significativamente le bocciature, nacquero tante sperimentazioni che interessarono anche il segmento della secondaria ed ebbero un ruolo propulsivo per orientare il cambiamento e l’innovazione.

 

Nel percorso che abbiamo descritto, rappresentato esemplarmente da don Milani e Albino Bernardini, emerge con forza la presenza di uno slancio costruttivo, animato da un nuovo progetto politico di scuola e società. Nei racconti di scuola non ci si limita a descrivere la realtà e a compiere un’azione di denuncia, ma si cercano soluzioni nuove, si sperimentano proposte concrete. Le esperienze scolastiche e i loro protagonisti rivestono la funzione di esempi di militanza politica, l’azione degli insegnanti in classe si salda con i movimenti di contestazione. L’insegnante non percepisce se stesso come un’entità isolata ma all’interno di un movimento di idee collettivo che ne rafforza l’identità e il ruolo sociale.

Il tramonto di questa fase era già stato anticipato nel romanzo di Mastronardi, che colse per primo e con acuta preveggenza i limiti della scuola ‘militante’ e più in generale la crisi del ruolo degli intellettuali e della loro missione sociale nell’Italia del boom economico, ma furono soprattutto gli anni Ottanta a rappresentare un altro modo di raccontare la scuola.

Gli anni Ottanta sono stati per il nostro Paese un periodo di dinamici mutamenti economici che hanno segnato la nascita di una nuova geografia industriale. Crescevano le piccole e medie imprese, localizzate non più secondo la polarità settentrione-meridione ma in piccoli distretti industriali, la cosiddetta “terza Italia”. Al tempo stesso veniva meno il peso della grande fabbrica dallo scenario politico. La ripresa economica coincise con la fine del terrorismo: una lunga e sanguinosa stagione di stragi, attentati e omicidi condotta da gruppi eversivi di estrema destra e di estrema sinistra che va sotto il nome di “anni di piombo” (1969-1981).

Furono gli anni che videro la nascita delle emittenti private e del mercato della televisione commerciale. Quanto al rapporto tra società e politica, si assistette progressivamente a un calo di fiducia nelle prospettive del cambiamento, alla crisi dei partiti di massa, a un crescente degrado delle istituzioni che dopo l’inchiesta ‘Mani pulite’ (1992) porterà alla caduta della Prima Repubblica.

Nel 1984 si attuò la revisione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa che nella scuola si tradusse nel Decreto n. 751 (16 dicembre 1985) con il quale fu abolita l’obbligatorietà dell’insegnamento della religione cattolica e il concetto di religione di Stato. L’allora Ministro dell’Istruzione era Franca Falcucci, il cui nome resta legato soprattutto alla Riforma dei Programmi della scuola elementare (D.P.R n. 104 del 12 febbraio 1985 poi trasformato in Legge n. 148 del 5 giugno 1990) che cancellò i Programmi Ermini del 1955. Nella scuola elementare, una delle eccellenze del Paese, si sperimentarono l’ingresso della programmazione didattica per ambiti disciplinari, la presenza di tre insegnanti su due classi, l’insegnamento della lingua straniera, ma ebbe inizio anche un processo di frammentazione dell’insegnamento nel segmento dell’istruzione di base che la riforma non riuscì a scongiurare. Mentre la scuola media era già stata riformata nel ’79, la scuola secondaria attendeva la conclusione dei lavori della commissione Brocca (1987-1994) incaricata di rivedere i programmi. In attesa di una riforma vera e propria si diede il via alle sperimentazioni assistite dal Ministero che proliferarono senza controllo un po’ dappertutto.

 Gli anni Ottanta sono il periodo in cui cambiano in modo molto profondo i modelli di comportamento e le ideologie. «Anni d’inverno, profondamente depressi», li definisce Emanuele Trevi, durante i quali si perde progressivamente fiducia nell’azione collettiva, in una prospettiva di cambiamento e finisce per prevalere un accentuato individualismo. Gli ‘anni d’inverno’ sono quelli in cui si dissolve la condivisione e l’energia del desiderio si ritira dal corpo sociale».[17] Il racconto di scuola, da sempre epicentro privilegiato a registrare le grandi trasformazioni sociali, entrando in urto diretto con i mutamenti culturali in atto, subisce un ribaltamento dalla sua tradizionale costellazione di topoi e stilemi che porta all’affermazione del comico e del grottesco. Principale interprete di questa stagione è Domenico Starnone che con i suoi racconti occupa più di un decennio di storia realizzando il ‘romanzo della scuola’ degli anni Ottanta e Novanta.

 

3) D. Starnone, Ex Cattedra (1987)

 

Ex cattedra è il diario di un anno di scuola redatto dal professor Starnone nel 1985-86. Insegnante di liceo in una scuola della periferia romana e collaboratore del quotidiano «il manifesto», Domenico Starnone inizia a tenere una rubrica su consiglio del collega giornalista Giorgio Casadio, al quale si deve anche la scelta del titolo «Ex cattedra» che, come scrive Starnone, nell’errata grafia latina voleva comunicare un senso di sgangheratezza della scuola italiana. 

La rubrica andò bene, in breve tempo Starnone divenne un personaggio noto e il materiale raccolto prese forma in un libro pubblicato nel 1987, alimentò uno spettacolo teatrale tratto in parte da un successivo racconto Sottobanco (1992), e due film La scuola di Daniele Luchetti, 1995; Auguri professore di Riccardo Milani, 1997.

 Il primo segnale di una diversa prospettiva nei modi della rappresentazione è data dallo spostamento del focus dall’oggettività della descrizione, alla soggettività della percezione che si traduce nelle forme del grottesco, della caricatura, dell’analisi psicologica e interiore.

L’accentuazione della funzione parodica del linguaggio è un altro sintomo che attesta la mancanza di fiducia nella possibilità di spiegare razionalmente la realtà, è il segno del disorientamento, della perdita di un centro che caratterizza il personaggio dell’insegnante. Privato di una identità riconosciuta dalla collettività, frustrato nelle sue velleità intellettuali, egli appare inevitabilmente destinato a sviluppare una qualche forma di malattia dell’anima.

Secondo la formula del diario, la narrazione ha inizio con il primo giorno di scuola e si conclude con l’arrivo delle vacanze. L’io narrante è il prof. Starnone, protagonista principale della vicenda e autore implicito, vale a dire l’immaginario professore che il lettore ricava dalle pagine del libro attraverso le informazioni che l’autore reale consegna all’opera. Una serie di tratti e indizi diretti contribuisce a delineare la tipologia storica del professore di sinistra, erede del Sessantotto. Ma di quella categoria di insegnanti, Starnone vuole rappresentare la crisi e con ironia graffiante interviene per demitizzarla e descriverne il declino.

La scuola che ci descrive Starnone, quella degli anni Ottanta, è il ritratto di un’istituzione bloccata sulla soglia del mutamento vero: le conquiste di democrazia scolastica, gli organi collegiali, i collegi docenti, la partecipazione delle famiglie, le assemblee sindacali sembrano svuotate di senso: una messinscena fatta per obbligo. L’insegnante post-sessantottino ha perso la sua aura presso gli studenti e si avvia verso l’applicazione superficiale di una maniera, la ripetizione fiacca e scontenta di un canone ormai al tramonto. Anche la rappresentazione dello studente cambia forma.

Nella scuola dell’inizio degli anni Ottanta, qualcosa smette di funzionare. Il primo dato è la mutazione dei giovani, il secondo la forma della comunicazione.

Negli anni Cinquanta lo studente era stato rappresentato attraverso lo stereotipo del qualunquista, goliardico e acquiescente, oppure del conservatore che attraverso lo studio difende la buona tradizione; negli anni Sessanta-Settanta era stato percepito come la figura del rinnovamento, politicamente schierato a sinistra e sempre in lotta per un mondo più giusto; negli anni Ottanta diventa una figura sempre più indecifrabile, quando non minacciosa. I giovani risultano irraggiungibili sia attraverso i programmi tradizionali che con le didattiche alternative, l’apprendimento è sempre più scadente, la loro cultura politica lascia molto a desiderare, hanno interessi culturali solo fuori dalla scuola.

I primi ad apparire disorientati sono proprio i docenti di sinistra come Starnone, quelli «sempre dalla parte degli studenti» che si accorgono del “regresso” dei giovani e, avendo puntato tutto il loro lavoro sul rapporto tra insegnante e allievo, sono quelli che più ne subiscono le conseguenze. Cominciano a cambiare anche le forme della comunicazione: gli studenti, scrive Starnone, usano una lingua ‘angloitaliandialettale’ sempre più estranea a quella della scuola, e già sanno di elettronica quello che i loro professori ignorano del tutto o non riescono ad apprendere.

Anche gli insegnanti iniziano a regredire, quelli di destra e quelli di sinistra si ritrovano improvvisamente alleati a chiedere il ritorno alle maniere forti, alle note disciplinari, al sette in condotta, alle bocciature, oppure – altra faccia della stessa medaglia – retrocedono al vecchio stereotipo comico-grottesco dell’insegnante senza più illusioni, depresso e incattivito contro la barbarie della gioventù.

I momenti collegiali sono tra le pagine più spassose del libro e proiettano la scuola in un tempo immobile situato fuori dalla storia, in cui si ripetono le stesse scene di scontento, insensatezza e accuse reciproche. Si vedano questi due brani, dove la desolata ripetitività dei gesti vira verso il grottesco (evidente nel primo brano); o si colora di una disillusa malinconia (secondo brano):

 

LINK 5 (vedi allegato)

 

Ma, poiché la scuola degli anni Ottanta era l’erede della spinta ideale dei Decreti Delegati del 1974, il rapido ripiegarsi degli orizzonti di rinnovamento trasforma gli organi collegiali in parodie della democrazia scolastica.

La figura del Preside, somigliante al Direttore de Il maestro di Vigevano, è quella di un personaggio incolore preoccupato, anzi meglio dire, ossessionato dalla burocrazia. Il Preside è scontento della sua scuola e vessa gli insegnanti con continue richieste di efficienza e rigore. Da ex insegnante di matematica è convinto che i docenti di Lettere facciano troppa poesia e dubita che siano in grado di applicare le nuove categorie della valutazione, così ha istituito le ispezioni didattiche a sorpresa. Ma come il direttore del maestro Mombelli, che con la tirata retorica della bella calligrafia rivela la pedanteria della sua preparazione, anche il preside di Ex cattedra inciampa in alcuni strafalcioni clamorosi:

 

Intanto il Preside, comparso come un fantasma, ha detto: collega Vivaldi, lei fa sempre poesia e invece dovrebbe imparare a fare scienza. Altrimenti non c’è allievo che sappia cos’è un rem o un curie. Non se ne può più: questa scuola va riformata in totem. “In totem?” ha chiesto Vivaldi

interessato alla radicalità del Preside. E il Preside contento per l’attenzione ma anche un po’ confuso, ha confermato: “In totem”.[18]

 

La rappresentazione dei genitori non può certo sfuggire alla carica dissacratoria del professore, che ne descrive i comportamenti nel giorno del ricevimento generale quando, al pari di «un’armata compattata da affetti viscerali e speranze promozionali»,[19] si riversano nell’edificio assediando le aule. Folle in abiti da lavoro, o con completi, le pellicce e il trucco delle grandi occasioni, i genitori sono gli ultimi personaggi del grande circo della scuola. Ricordano al professore che il figlio studia giorno e notte ma i voti di Italiano restano bassi (come mai?); autorizzano a prendere a cazzotti il negligente, ma poi strizzano complici l’occhio al figlio, arrivano già in lacrime e raccontano segreti di famiglia; se ne vanno immusoniti oppure convinti di aver turlupinato il professore come se fossero una gang affiatata.

Starnone ci mostra attraverso le diverse comparse narrative degli studenti, degli insegnanti, dei genitori, il cuore della società, mette a nudo con acutezza e ironia le passioni, le debolezze, gli errori dell’italiano contemporaneo medio, quasi volesse rivestire, dietro la maschera del buffone, i panni antichi del fustigatore di costumi.

La sua caricatura non è mai volta al sarcasmo e dietro le ilari scene del suo mondo antifrastico si nascondono speranze vive e nuove. Starnone non ci consegna solo la scuola della crisi post-sessantottina, dell’incompiuta istruzione di massa, del fondo buio che si nasconde dietro tanto ridere di noi. Oggi a distanza di più di trent’anni possiamo leggere Ex cattedra allontanandoci dal monocorde registro comico e grottesco delle prime interpretazioni critiche, rafforzate anche dalla trasposizione cinematografica del libro. Nella prefazione all’edizione del 2006, intitolata non a caso Il piacere di insegnare, è l’autore stesso a indicarci un’altra possibile lettura: il piacere di insegnare, nonostante tutto.

 



[1] L. De Federicis, Noterelle e Schermaglie. Il romanzo della scuola, in «Belfagor», LVII, n.2,31 marzo 2002, pp.222-233.

[2] G. Iacoli, Dal romanzo del lavoro al romanzo della scuola: narrazioni, cronache e diari del maestro, in Narratori italiani del novecento dal Postnaturalismo al Postmoderno e oltre. Esplorazioni critiche. Ventitré proposte di lettura, a cura di R. M. Morano, Tomo I, Rubbettino, Cosenza, 2012.

[3]  C. Varotti, Produrre e consumare. Raccontare la febbre del boom, in «Griselda» - sez. didattica (ottobre 2020). Consultabile al link: http://site.unibo.it/griseldaonline/it/didattica/capire-secondo-novecento/

Dello stesso autore cfr. C. Varotti, Scuola, in Luoghi della letteratura italiana, a cura di G.M. Anselmi, G. Ruozzi, Mondadori, Milano, 2003, pp. 330-39.

[4] V. Roghi, La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Laterza, Bari, 2017.

[5] F. Fortini, Tre interventi sul libro di don Milani, in “Quaderni Piacentini”, 31, VI, II semestre 1967, pp. 271-277.

[6] P. P. Pasolini, Don Milani: Lettere alla mamma (o meglio“Lettere di un prete cattolico alla mamma ebrea”) In Scritti corsari [1975], Garzanti,  Milano, 2000, pp.152-53 .

[7] E. Affinati, L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani, Mondadori, Milano, 2016. Sul saggio di E. Affinati cfr. C. Ruozzi, L’uomo del futuro, “Between”, vol. VI, n.12 (Novembre 2016); consultabile al link: http://www.betweenjournal.it). Si rinvia infine, per uno sguardo d’insieme, a C. Ruozzi, Raccontare la scuola. Testi, autori e forme del secondo Novecento, Loescher, Torino, 2014.

[8] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, [1967], Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2007.

[9] A. Berardinelli, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Venezia, Marsilio, 2002, p.154.

[10] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 20.

[11] Don Lorenzo Milani, La parola fa eguali, a cura di M. Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 2005, p.4

[12] S. Vassalli, Don Milani, che mascalzone, in Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa quarant’anni dopo, a cura di M. Gesualdi, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2007. 

[13] P. Mastrocola, Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda, Parma, 2011.

[14] G. Rodari, Prefazione, in A. Bernardini, Le bacchette di Lula, Nuova Italia, Firenze, 1969, p. XII.

[15] A. Bernardini, Un anno a Pietralata [1968], Ilisso, Nuoro, 2004, p. 40.

[16] Ivi, p. 137.

[17] E. Trevi, Istruzioni per l’uso del lupo, Edizioni Lit, Roma, 2012, p. 5.

[18] D. Starnone, Ex cattedra e altre storie di scuola, Feltrinelli, Milano, 2006, p.124.

[19] Ivi, p.78.

 

15 febbraio 2021