tra eroi romantici e agenzie di viaggio
A) Andare nei boschi: in principio fu Walden…
Lo scrittore milanese Paolo Cognetti (nato nel 1978), che ha vinto nel 2017 il Premio «Strega» (il più importante premio letterario italiano) con il romanzo Le otto montagne, aveva raccontato pochi anni prima, ne Il ragazzo selvatico (2013), il suo rapporto vitale e profondo con la montagna. Quaderno/diario di un periodo di alcuni mesi trascorsi in solitudine, in una baita di alta quota, Il ragazzo selvatico è la storia di una fuga (dalla città; dal senso di vuoto; dal desolante timore di vedere inaridita la propria vena creativa), alla ricerca di una autenticità che il contatto diretto con la natura può offrire (o per lo meno efficacemente surrogare).
Il libro racconta un’esperienza umana ed esistenziale, naturalmente, ma anche un’esperienza estetica, che porta cioè lo scrittore a interrogarsi su come il contatto con il mondo esterno (e la percezione che i sensi offrono di esso) cambi la sua interiorità e la sua visione delle cose.
Ma è un’esperienza consapevole e culturalmente avvertita. Se infatti il ‘ragazzo selvatico’ fugge dalla propria quotidianità per ritrovare se stesso, lo fa recando con sé i libri fondamentali della sua formazione. E due in particolare.
Il primo di essi è Into the wild (1996), noto in Italia come Nelle terre estreme, di Jon Krakauer. Un libro famoso, reso ancora più famoso dal film che Sean Penn ne ha tratto nel 2007 (Into the wild – Nelle terre selvagge). Into the wild ricostruisce la storia di Chris McCandless, un ragazzo americano di buona famiglia, cresciuto nei sobborghi della capitale, che subito dopo la laurea nel 1990 sparì senza lasciare tracce di sé. La scelta di vivere ai margini della società, in un lungo vagabondaggio che lo portò da Est alla costa occidentale del paese, non era che il preludio della vera fuga: quella nelle terre estreme dell’Alaska (ed esattamente nella regione a Nord del Denali, la più alta cima dell’America settentrionale, con i suoi 6190 metri s. l. m.) recando con sé un bagaglio essenziale (pochi strumenti e pochi vestiti) e una piccola riserva di cibo; e una (in realtà illusoria) conoscenza di piante, animali e tecniche di caccia e di conservazione dei cibi, che avrebbe dovuto consentirgli di sopravvivere nelle desolazioni del grande Nord. Il povero McCandless fu trovato morto, e già in un avanzato stato di decomposizione, da un gruppo di cacciatori: era morto probabilmente verso la fine di agosto del 1992, aveva 24 anni, e la sua avventura nelle terre selvagge era durata soltanto quattro mesi.
Accanto al corpo di Chris fu trovato un diario al quale il ragazzo aveva affidato la cronaca, le impressioni e le considerazioni della sua avventura. Da quel diario partì il giornalista e scrittore Jon Krakauer (nato nel 1954), specializzato in storie di alpinismo, e lui stesso buon scalatore, per ricostruire una vicenda che aveva tratti esemplari: raccontava infatti l’insoddisfazione per la quotidianità insulsa; il disprezzo per i valori che dominano la società (l’interesse, la ricchezza, il successo); e lo faceva rivitalizzando il mito, tutto moderno e romantico, del contatto con la montagna, con le immense solitudini o con le manifestazioni estreme della natura.
Il secondo libro che Cognetti reca con sé è Walden, ovvero vita nei boschi (Walden, or Life in the Woods), il libro in cui l’americano Henry David Thoreau (1817-1862) raccontava, nel 1854, la sua esperienza di eremitaggio (durata due anni, tra il 1845 e il 1847) in una località interna del Massachusetts (appunto la foresta attorno al lago di Walden). Ma Walden è anche il libro che Chris McCandles reca sempre con sé: sono infatti le pagine di Thoreau che spingono il ragazzo a cercare nel cuore della natura un senso trascendente, una risposta al vuoto dell’esistenza.
Il libro ottocentesco di Thoreau ispira le scelte di vita di un ragazzo americano vissuto alla fine del XX secolo; ambedue i libri, all’inizio del XXI secolo, guidano uno scrittore trentenne, in crisi esistenziale e creativa, a cercare se stesso e il senso della propria vita nella solitudine della natura, ai piedi delle cime sublimi delle Alpi.
Sono sensibilità che dialogano attraverso i libri, in un confronto di parole che si snodano attraverso le generazioni. E ci dicono che la natura ha una sua lingua; in cui non necessariamente c’è spazio per l’uomo (e piante, minerali, virus e insetti, ci saranno quando la nostra specie non sarà che un lontano ricordo: un ingombrante e straordinario incidente del caso); ma se essa parla all’uomo, è sempre l’uomo che la fa parlare, dandole la sua lingua, fatta di parole, non meno che di sensibilità e di sogni.
Testo 1) Henry David Thoreau e Chris McCandless, Nessun uomo seguì mai il suo genio tanto da esserne sviato…
Tra i libri appartenuti a Chris McCandless, e ritrovati accanto alla sua salma nel rifugio in cui trovò la morte (un autobus abbandonato delle linee urbane di Fairbanks, Alaska)
c’era una copia di Walden, di Thoreau. Letto e riletto, sgualcito e sottolineato, come si è detto, il libro di Thoreau aveva ispirato profondamente il giovane McCandless. Tra i passi che Chris aveva sottolineato, nella sua copia di Walden, ce n’è uno in particolare, che riportiamo.
E lo riportiamo come se di esso gli autori fossero due: McCandless non meno di Thoreau.
Sottolineare un passo (e magari trascriverlo), quando non è una banale operazione di memorizzazione e studio, ma un vero e proprio atto di condivisione e di appropriazione del testo, vuol dire farsene in qualche modo autori, trovare in quelle parole esattamente le parole che avremmo voluto dire, o che confuse giravano nella nostra mente senza riuscire a prendere forma (oppure, semplicemente, siamo arrivati tardi: e quelle parole che potremmo dire o scrivere noi, sono già state pensate e scritte da un ventisettenne del Massachusetts che due secoli fa ha deciso di trascorrere due anni in solitudine nei boschi).
Il passo è tratto dall’undicesimo capitolo di Walden (intitolato Leggi più alte), e riportato in J. Krakauer, Nelle terre estreme (Corbaccio, Milano, 2008, p. 67).
Il passo si apre con un termine come genio (genius), caro a Thoreau, ma portato in auge dalla cultura romantica. Designa l’elemento innato (la parola deriva dalla radice latina -gen, la stessa del vergo gigno [generare] e genus [stirpe]), ciò che si possiede dalla nascita, come il talento e le caratteristiche fisiche: è insomma tutto ciò che non appartiene alla formazione e all’educazione, ma alla natura profonda dell’individuo.
L’aspirazione a una vita naturale, aderente alle cose e alle manifestazioni immediate dell’esistenza e del quotidiano, è presentata da Thoreau come una via di redenzione dell’individuo: una via maestra, che non lo può ingannare («Nessun uomo seguì mai il suo genio tanto da esserne sviato/ No man ever followed his genius, till it misled him»). Thoreau parla di una pratica di vita in cui i gesti di tutti i giorni diventano operazioni consapevoli; producono coscienza di sé e del proprio corpo, fino a dare un peso alle cose e a ogni istante dell’esistenza. I «principi più alti» (che richiama le «higher laws» del titolo del capitolo da cui il brano è tratto) cui si ispira una filosofia di vita che propone un rapporto intimo con la natura e le sue leggi, consentono di relativizzare (e ridimensionare) le norme e i valori dominanti della società, che producono falsi obiettivi, ideali ingannevoli che risultano, a conti fatti, generatori di infelicità.
Il ritirarsi a vivere nei boschi di Thoreau (una scelta che tanto affascinò il giovane Chris) era di fatto la messa in pratica delle idee della filosofia trascendentalista di Emerson (1803-1882), che di Thoreau fu maestro e amico, che in Nature, un saggio del 1836, aveva parlato della natura come di manifestazione del divino, e realtà regolata da una disciplina e un ordine che l’uomo deve ritrovare per trovare se stesso.
È una filosofia, quella di Emerson e Thoreau, in cui l’intuizione ha più importanza del raziocinio e della logica. E nella quale la contemplazione diviene la via maestra per cogliere il senso profondo dell’esistente: qualcosa di impalpabile e di non descrivibile, come una manciata di polvere di stelle o un segmento di arcobaleno («a little star-dust caught, a segment of the rainbow») che chiude poeticamente il brano di Thoreau che Chris McCandless aveva sottolineato.
Testo 2) Thoreau, Sounds
Leggiamo ora un breve brano tratto dal cap. 4° di Walden, intitolato Suoni: dove i ‘suoni’ (ma in realtà Thoreau parla anche di colori, di luce e di sensazioni tattili) sono appunto quelli della natura.
Nel capitolo 3° (Reading, dedicato alla lettura e ai libri), Thoreau aveva parlato dei grandi classici come di ciò che ci consente di ‘rinascere’, permettedoci di conoscere «uomini più saggi di quelli che ha prodotto questa terra di Concord [la città di Thoreau, nel Massachusetts]». Riprende insomma un grande topos della cultura umanistica (leggere consente di uscire dai confini ristretti del nostro tempo e consente di parlare con uomini eccelsi, che difficilmente avremo occasione di conoscere in tutto il corso della nostra esistenza), che si conclude con l’invito ai governanti a promuovere in tutti i modi la lettura e la cultura, creando biblioteche, invitando conferenzieri, finanziando scuole e università.
È solo a questo punto (evitando l’equivoco che si stia celebrando una vita di inconsapevole ignoranza: a chi non legge nulla e non si interessa di nulla, la natura stessa ha meno da dire…) che Thoreau parla della lingua della natura, in una pagina in cui contemplazione e intuizione sono celebrati come la via per realizzare una pienezza di vita altrimenti perduta nell’artificio e nella superficialità.
Un brano in cui andrà per lo meno notato lo spirito antiutilitaristico, che contrappone all’ethos occidentale della produttività e di un rapporto agonico con la natura, l’ideale orientale della «contemplazione» (nel testo originale: «I realized what the Orientals mean by contemplation»). L’armonizzazione dell’individuo con la natura (di cui si assumono i ritmi e le regole profonde, estranee all’artificiosa finalità dell’agire dell’uomo inserito nella società) trova espressione nell’immagine del giorno scandito dall’orologio (simbolo per eccellenza del tempo ‘moderno’: regolato dai ritmi della produzione e della monetizzazione), o nei giorni che traggono il loro nome da antiche divinità. Con quest’ultimo richiamo alla radice sacra e mitologica dei nomi dei giorni, Thoreau fa riferimento agli albori stessi, ancestrali e originari, della vita associata (l’idea dell’uomo “animale politico” che secondo Aristotele contrassegna la condizione umana) – alla quale contrappone l’ideale di una individualità bastante a se stessa, gelosa di una libertà assoluta e inattingibile.
Lo scrittore non sta qui indicando una condotta concreta di vita (invitando i lettori a scegliere la solitudine dell’eremita), ma traccia un orizzonte ideale, destinato a caratterizzare in maniera profonda la cultura americana. Un substrato culturale che produce miti e narrazioni; e che come sempre avviene ai grandi miti, viene rimodulato dalla cultura popolare, fino ad arrivare ai film di Hollywood e alla straordinaria epopea del Western, dove l’eroe è spesso un uomo solo in una natura sconfinata (lo spazio indeterminato e virtualmente infinito della ‘frontiera’, che è una linea mobile, destinata a spostarsi sempre avanti), un uomo senza legami e vincoli, venuto dal nulla e sempre in viaggio verso una meta indeterminata.
B) Romantiche montagne
Verso una nuova sensibilità
L’epoca romantica, tra la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, ha rivoluzionato la sensibilità occidentale e l’arte e la letteratura che la esprimono: secondo linee e tendenze di cui per tanti aspetti siamo ancora figli.
Non è un caso che l’uomo europeo cominci ad accorgersi delle montagne come elemento estetico (e non come banale dato orografico, o semplice ostacolo al movimento) proprio in epoca romantica. Associando la montagna all’idea di ‘sublime’ (lo spettacolo grandioso che genera paura e sgomento ma, nel contempo, piacere), le vette alpine fanno da sfondo a drammi e romanzi, in cui il sublime del luogo si riverbera nella titanica grandezza del personaggio. Valga per tutti l’esempio del Manfred (1817) di Byron, il cui protagonista – un giovane mago schiacciato da un imperscrutabile senso di colpa – vive nel cuore delle Alpi svizzere, sul ghiacciaio della Jungfrau; una montagna dal nome evocativo (in tedesco ‘Jungfrau’ significa ‘ragazza’; ‘giovane donna’) destinata, come vedremo tra poco, ad entrare presto nel mito e nell’immaginario romantico.
Se le Alpi e i loro maestosi paesaggi entravano con forza nell’immaginario europeo, ispirando letterati e artisti, non va dimenticato che verso la fine del secolo, nella Critica del giudizio (1791), Immanuel Kant aveva dedicato pagine importanti al piacere che deriva dalla contemplazione del paesaggio alpino (e in genere le manifestazioni estreme della natura), per teorizzare in termini filosofici il concetto di ‘sublime’. Esso – argomenta Kant – genera un senso di sgomento nell’uomo, ma poi lo rende cosciente del fatto che egli può pensare l’infinito (concetto appunto ‘pensabile’, pur essendo estraneo all’esperienza dei sensi). Ed è appunto questa consapevolezza, in cui l’uomo acquista coscienza della grandezza del proprio intelletto nel momento stesso in cui è posto di fronte alla propria finitezza e debolezza fisica, che si colloca il piacere generato dallo spettacolo sublime ed estremo (le tempeste furiose; la grandezza incommensurabile dell’oceano e, naturalmente, le vette inviolate).
Notiamo di passaggio che Kant – che non aveva mai messo il naso fuori dalla città natale di Könisberg – non aveva mai visto le Alpi; ma le conosceva attraverso le tavole del Voyage dans les Alpes del naturalista svizzero Horace-Bénédict de Saussure (1740-1799), una vera e propria enciclopedia delle Alpi, pubblicata in 4 volumi tra il 1779 e il 1796. L’interesse per le Alpi, insomma, non riguardava solo il campo dell’immaginario artistico, ma ovviamente anche quello scientifico dei naturalisti (geologi; geografi; botanici e zoologi).
Ma risalendo indietro di qualche decennio, uno dei gradi fondatori della sensibilità romantica europea, Goethe, raggiunse tre volte (tra il 1775 e il 1797) il San Gottardo, il passo posto a 2100 metri che separa il Canton Ticino dal Cantone di Uri. Goethe fece un primo viaggio in Svizzera nel 1775: ne trasse il racconto di un’avventurosa ascesa invernale sul San Gottardo (il racconto, annotato prima in un diario, fu poi rielaborato in Poesia e verità, l’opera autobiografica in cui, ultrasessantenne, Goethe raccontò la sua giovinezza). Nel racconto di Goethe l’occhio con cui il grande scrittore (che un anno prima del viaggio in Svizzera aveva pubblicato I dolori del giovane Werther) è proprio quello ‘romantico’ dello Sturm un drang. Goethe è affascinato dal carattere sublime del paesaggio invernale. Non possiamo tecnicamente parlare di impresa alpinistica; ma l’esperienza di Goethe ad essa assomiglia molto: coniugando l’insensatezza del gesto (svincolato da ogni fine pratico: fosse pure l’andare a caccia di stambecchi…) con la ricerca di un piacere che mescola la soddisfazione per la prova affrontata e superata, con il gusto sottilmente masochistico per la sofferenza.
Nasce l’alpinismo: tra avventura e moda.
Ma è proprio in quel torno di tempo che si colloca l’impresa tradizionalmente considerata la nascita dell’alpinismo: nell’agosto del 1786 Michel Gabriel Paccard e Jacque Balmat raggiunsero per la prima volta la vetta del Monte Bianco.
Nei decenni successivi l’ascesa delle vette alpine divenne pratica sempre più diffusa, anche se limitata a una ristretta élite di danarosi ed eccentrici aristocratici (in genere inglesi). Nacque allora il mestiere della guida alpina (la Compagnie des Guides di Chamonix, la prima del genere, fu fondata nel 1821). Un dato ancora lontanissimo dalla dimensione capitalistico-consumistica che assumerà nel corso del Novecento, ma nondimeno un dato importante, che segna per la prima volta un nesso tra la sensibilità per le montagne e il risvolto economico di tale specifica pratica ‘turistica’: nasce un nuovo mestiere, quello di guida, e nasce un indotto, fatto di servizi alberghieri, trasporti ecc.
L’alpinismo infatti, o la villeggiatura d’alta montagna, pur rimanendo a lungo una pratica elitaria, perdeva il carattere dell’eccentricità: nel 1857, a Londra, nasceva l’Alpine club, e con esso si diffondevano resoconti di imprese alpinistiche, in libri e articoli di giornali, e guide specializzate su attrezzature e itinerari.
La passione per l’alpinismo recherà con sè – come era ovvio – un repertorio di luoghi e di montagne celebri, mete ambite di appassionati. Spesso questi luoghi sono proprio le montagne e i ghiacciai della Svizzera – che importanti scrittori romantici (come abbiamo visto) avevano contribuito a rendere celebri.
Luoghi destinati presto a imporsi nell’immaginario collettivo, a diventare moda, luogo comune, forma preconfezionata dei desideri delle alte classi europee (un ‘repertorio’ che la società dei consumi di massa, qualche decennio più tardi, erediterà).
Testo 3) G. Flaubert, Madame Bovary
Tutte le mode, si sa, diventano prima o poi oggetto di ironia e sarcasmo.
Così avviene per la moda romantica del paesaggio selvaggio, cercato nelle valli alpine (o nei paesaggi del Nord)
In Madame Bovary (1856) Gustave Flaubert, racconta i desideri frustrati della sua sventurata protagonista (una giovane moglie delusa dalla vita grigia della piccolo-borghesia provinciale, così inferiore alle sue attese e aspirazioni). Ma lo scrittore racconta con rara perfidia i sogni e i desideri della sua sventurata eroina: sono le aspirazioni preconfezionate di una donna vittima della propria stessa mediocrità, i cui sogni non possono essere che quelli dettati dalla moda. Ed essi non sono che l’eco di temi e motivi romantici divenuto ormai paccottiglia di facile consumo.
Si veda questa pagina (tratta dal cap. 7 della parte Ia) in cui Flaubert descrive le prime delusioni di Emma, già nei primi mesi di matrimonio con Charles Bovary (un modesto e mediocre medico di provincia, dalla conversazione «piatta come un marciapiede»).
Emma trasferisce il suo desiderio di felicità in immagini precostituite che popolano la sua mente, nutrite dalla letteratura e dalle illustrazioni (di libri e periodici) su cui da ragazza si è formata. I «paesi dai nomi altisonanti» sono appunto i luoghi celebrati dalla letteratura e dell’arte romantica: divenendo perciò ‘moda’, desiderio condiviso dai più e, pertanto, irrimediabilmente caratterizzato da scontatezza e prevedibilità.
Il sarcasmo di Flaubert esplode nell’associare luoghi dell’immaginario sublime (come «il rombo sordo delle cascate») con particolari di banale entità, che la povera Emma ha desunto da illustrazioni di riviste di moda (è il caso delle «tendine di seta azzurra» dell’immaginaria carrozza in cui la donna vorrebbe viaggiare).
Allo stesso modo, lo scenario delle Alpi svizzere, che aveva eccitato le fantasie sublimi di Goethe e di Byron, diventa il placido scenario di un banale idillio d’amore, nella cornice di uno «chalet svizzero»: è l’aspirazione preconfezionata di una luna di miele trascorsa con un marito che non è che figurino ricavato da una rivista di moda: ‘correttamente’ abbigliato con «un abito a giacca lunga di velluto nero», con ai piedi «morbidi stivali», e «un cappello a punta e i polsini».
L’alpinismo umoristico di Tartarino di Tarascona
William Turner (1775-1851), il grande pittore romantico inglese, dipinse nel 1842 una veduta del monte svizzero Rigi, che si staglia nel fondo del quadro, dominando un lago che appare in primo piano.
La montagna aveva già affascinato il più celebre degli scrittori romantici francesi, Victor Hugo (1802-1885), che aveva visitato le Alpi svizzere nel1839, descrivendo l’ascesa del Rigi in una lunga lettera alla moglie del 17 settembre 1839. Hugo descrive nella lettera il mutare delle sue impressioni: in un primo tempo ironizza sugli scalatori che aggrediscono il monte (facilmente scalabile con il semplice ausilio di un bastone) con attrezzature da grandi alpinisti (e «trattano il Rigi come se fosse il Monte Bianco»); ma arrivato in cima applica alla descrizione le categorie ‘romantiche’ del sublime. La vista dalla vetta gli appare «orribile e bella al tempo stesso», in una prospettiva visiva incommensurabile, cosicché ciò che gli si mostra, scrive, «non sono più paesaggi, sono viste mostruose» («Est-ce beau ou est-ce horrible ? Je ne sais vraiment. C’est horrible et c’est beau tout à la fois. Ce ne sont plus des paysages, ce sont des aspects monstrueux»)[1]
Uno dei luoghi cari all’immaginario romantico (celebrato da Turner e Hugo) compare proprio in apertura del secondo romanzo della trilogia dedicata a Tartarin de Tarascon, di Alphonse Daudet (1840-1897), uno dei capolavori della letteratura umoristica del XIX secolo. La trilogia è composta da Les aventures prodigieuses de Tartarin de Tarascon [nella traduzione italiana il titolo è in genere: Tartarino di Tarascona] (1872), che racconta le avventure del protagonista in Africa, a caccia di leoni; Tartarin sur les Alpes [Tartarino sulle Alpi] (1885) e, infine Port-Tarascon [Porto Tarascona] (1890).
Tartarino – un benestante possidente della cittadina di Tarascona, in Provenza - è il personaggio immaginario in cui Daudet (provenzale di Nîmes) rappresenta una sorta di quintessenza dello spirito della Provenza, che Daudet prende in giro con una bonarietà non priva di affetto. Del Midi (il Mezzogiorno francese) Tartarin ha la cordialità, la sincerità immediata e calda, ma anche l’insopprimibile tendenza all’eccesso, al pettegolezzo provinciale, alla fanfaronata.
Tartarin è invero un buon borghese, pacifico e pantofolaio, che sogna sui libri e sugli atlanti avventure straordinarie. Le sue caratteristiche fisiche sono del resto quelle di un cinquantenne bassino, tarchiato e sovrappeso: insomma, non propriamente l’aspetto dell’avventuroso esploratore. Ha compiuto qualche viaggio in terre lontane, dove i casi assai comuni (e mai eroici) che gli sono capitati, sono stati trasformati dalla sua stessa fantasia (e da quella non meno accesa dei compaesani) in avventure mirabolanti. Ma Tartarin non è un millantatore o un impostore: egli è sinceramente convinto che di avere vissuto le avventure straordinarie in cui la sua fantasia ha trasformato le esperienze reali.
Dopo le avventure africane del primo romanzo (in cui si racconta di come Tartarino, per consolidare in paese la sua fama di infallibile e audace cacciatore, va a caccia grossa in Algeria: in realtà la sua preda sarà un leone vecchio e malandato che veniva esibito nelle fiere di paese), nel secondo romanzo Tartarino si improvvisa alpinista.
Il mito romantico delle Alpi – e la moda dell’alpinismo – sono oggetto della presa in giro nel secondo romanzo della trilogia di Daudet.
Anche nella provinciale Tarascona è arrivata la passione per le scalate, tanto che sull’esempio dell’Alpine club di Londra (fondato, come si è detto, nel 1857), anche a Tarascona è nato un ‘Club alpino’, del quale è stato nominato presidente, a furor di popolo, Tartarino. Mancando nei pressi di Tarascona rilievi significativi, gli iscritti al Club si accontentano, la domenica, di scalare le modeste colline dei dintorni (la più alta raggiunge i 200 metri sul livello del mare), anche se le comode scampagnate di quei gitanti sono oggetto di resoconti straordinari, dove la modestia dei dolci rilievi di Provenza è compensata da una fantasia onomastica che fa ribattezzare i luoghi con nomi altamente evocativi (Picco dei giganti; Cima del Mondo; Monte terribile).
Avvicinandosi le elezioni per il nuovo mandato del Presidente del Club alpino di Tarascona, si profila una candidatura in concorrenza a Tartarino, quella dell’odioso Costecalde, il gran rivale dell’eroe, un subdolo tarasconese, roso dall’invidia e scettico sulla veridicità dei racconti di Tartarino.
L’eroe decide perciò di compiere un gesto eclatante, che sbaragli ogni possibile rivale: andrà nelle Alpi svizzere, e scalerà niente meno che il Rigi Kulm, la cima celebrata da tanti artisti e scrittori romantici.
Brano 1: Da A. Daudet, Tartarino sulle Alpi.
L’arrivo di Tartarino al Rigi Kulm
Tartarino sulle Alpi si apre proprio nello scenario del Rigi, la montagna svizzera che aveva stimolato la fantasia descrittiva di William Turner e di Victor Hugo. Ma il luogo dell’incanto romantico, in cui la natura si esibiva allo spettatore nelle sue forme più sublimi e grandiose, è ora dominata da un albergo di lusso, dei cui agi gode l’alta società internazionale che affolla quel luogo alla moda.
L’ingenuo Tartarino, la cui conoscenza del luogo non è aggiornata, ma nutrita dei miti romantici di trent’anni prima, arriva in cima dopo una scalata resa defatigante dall’età, dal peso e dalla vita sedentaria. Il suo arrivo in cima, vestito da scalatore e carico di una pesante attrezzatura (piccozza, ramponi e corde) non può che destare lo stupore degli eleganti ospiti dell’hotel…
L’effetto comico del brano è tutto giocato sul contrasto tra le scene di un quieto turismo di lusso, che consente agli ospiti dell’albergo di godere senza fatica e patimenti delle bellezze delle cime alpine, e lo spirito ingenuamente avventuroso che anima l’eroico Tartarino, che ‘conquista’ una vetta già da alcuni anni comodamente raggiungibile da famiglie e viaggiatori anziani grazie a un trenino a cremagliera (la ferrovia fu inaugurata nel 1875). Il progressivo avvicinamento di Tartarino, distinguibile a fatica nella tormenta, è accompagnato da una serie di ipotesi (fatte dagli ospiti dell’albergo) di carattere apertamente de-eroicizzante: cosicché il protagonista della mirabile impresa alpinistica appare, nell’ordine, una vacca, un musicante di strada, un riparatore girovago di pentole. Quando la strana apparizione viene identificata con una realtà non comune, è nondimeno un’identificazione grottesca e straniata, un dato fuori luogo e fuori tempo (un guerriero medievale…).
L’ironia di Daudet tocca però non solo il suo eroe, ma anche una pratica turistica che il Baedeker ha reso di gran moda, e che lo scrittore tratteggia con i termini sovradimensionati delle «carovane in adorazione del sole»: indicando la pratica turistica come una sorta di pratica sacrale paragonabile a un antico pellegrinaggio.
Brano 2: Tartarino sulla Jungfrau…
Dopo la deludente esperienza del Rigi-Kulm, quando Tartarino ha scoperto che la fatica della sua ascesa è stata inutile per procurargli onori e gloria, l’eroe di Tarascona decide di tentare un’impresa ben più impegnativa: scalare la Jungfrau (una delle più alte cime d’Europa, con i suoi 4.158 metri s. l. m.), la montagna celebrata da scrittori e pittori romantici (abbiamo sopra ricordato che sui ghiacci perenni della Jungfrau è ambientato in parte il Manfred di Byron). Un’impresa alpinistica di tutto rispetto, per altro, che nel XIX secolo comportava notevoli pericoli, anche mortali.
A connotare in senso umoristico l’impresa di Tartarino è tuttavia il fatto che l’eroe l’affronta essendo del tutto inconsapevole dei pericoli. Sul Rigi aveva incontrato un certo Bompard, un tarasconese che da tanti anni aveva lasciato la terra natale, inseguito dalla fama di inguaribile bugiardo, che gli racconta che in montagna non si corre alcun pericolo. Le vie sono attentamente presidiate da dipendenti del ministero svizzero del turismo, che provvedono ad aiutare gli scalatori e ad evitare disgrazie e contrattempi di sorta. Insomma: l’intera Svizzera non sarebbe che un gigantesco parco di divertimenti. Costruite ad arte, racconta Bompard, sarebbero anche le notizie giornalistiche di alpinisti precipitati o dispersi: note di colore utili ad alimentare il turismo, solleticando lo spirito avventuroso delle annoiate alte classi sociali d’Europa.
L’ironia di Daudet nei confronti di un grande mito romantico travolto da mode e consumi, si sviluppa così nel racconto esilarante del tarasconese, che supera crepacci e si arrampica su pareti di ghiaccio con la disinvolta sicumera di chi crede di saperla lunga, mentre non è che un campione di ingenuità.
Proponiamo la lettura di un passo in cui l’eroe tarasconese, raggiunta - assieme alle guide che accompagnano lui e altri due scalatori - una discreta quota, ha il suo primo contatto con il ghiacciaio.
Sull’Everest: alpinismo e consumo
A conclusione del nostro percorso torniamo a Jon Krakauer, l’autore del best seller Into the Wild, che nel 1997 pubblicò un altro libro-culto, Into Thin air (tradotto in Italia, dall’editore Corbaccio di Milano, nel 1998, con il titolo di Aria sottile), forse il suo capolavoro.
Libro-inchiesta, Aria sottile ricostruisce con grande precisione documentaria una delle pagine più nere della storia dell’alpinismo mondiale: quando il 10 maggio 1996 morirono in cima all’Everest nove scalatori, appartenenti a diverse spedizioni, tra le molte (circa 15) che in quei giorni stavano tentando di raggiungere la cima. A rendere più drammatico il racconto dello scrittore è il fatto che lo stesso Krakauer si trovava lì, per conto della rivista americana di alpinismo «Outside». Krakauer non doveva tanto documentare l’impresa (dal 1953, quanto Edmund Hillary conquistò per primo l’Everest, già alcune centinaia di scalatori avevano raggiunto la cima della montagna), quanto raccontare l’allora nuovo fenomeno delle spedizioni “commerciali”, organizzate da esperti alpinisti che, per una cifra oscillante tra i 50.000 e i 70.000 dollari, portavano clienti (spesso alpinisti solo dilettanti, di modesta esperienza e con limitate risorse fisiche ma con buone risorse finanziarie) sul tetto del mondo. Krakauer si era aggregato per conto della sua rivista alla spedizione organizzata dall’alpinista neozelandese Rob Hall, l’uomo che, in un certo senso, aveva ‘inventato’ il fenomeno delle spedizioni commerciali, due anni prima, fondando l’Agenzia «Adventure Consultants». Rob Hall, così come Scott Fischer (lo scalatore professionista titolare dell’agenzia concorrente, l’americana «Mountain Madness») e altri sette, tra scalatori e sherpa, quel 10 maggio non fecero ritorno alla base di partenza.
Il libro di Krakauer, oltre ad essere una lettura avvincente e di grandissima efficacia, bene esamina il passaggio dalla dimensione eroico-romantica dell’alpinismo estremo alla sua degradazione commerciale. Un processo che Krakauer inquadra già nel secondo capitolo del libro, richiamando alcuni episodi che acquistano una forte valenza simbolica. Racconta così la storia della vittima più illustre dell’Everest, l’inglese George Mallory (1886-1924), che scomparve nel giugno del 1924: fu visto per l’ultima volta dai portatori della spedizione a 200 metri dalla vetta, né mai è stato del tutto sciolto il mistero se prima di morire fosse riuscito a raggiungerla. Mallory bene rappresenta quello spirito sportivamente aristocratico che caratterizzò l’alpinismo delle origini: «tipico prodotto delle classi superiori della società inglese, [Mallory] era anche un esteta e un idealista, con una spiccata sensibilità romantica», in un impasto di grazia, bellezza e cultura (ai piedi dell’Everest «Mallory e compagni leggevano a voce alta passi dell’Amleto e del Re Lear»).[2]
Tra la conquista della vetta dell’Everest da parte del neozelandese Edmund Hillary (1919-2008), nel 1953, e la metà degli anni Ottanta, circa un centinaio di persone riuscirono a raggiungere la vetta. Ma è a quest’epoca – scrive Krakauer – che si situa la svolta, quando un ricco texano di 55 anni, Dick Bass, con modesta esperienza alpinistica, riuscì a raggiungere la cima dell’Everest, letteralmente ‘portato’ da un giovane alpinista americano, David Breashears (nato nel 1955), un evento che fu accompagnato da «un turbine di interesse del tutto acritico da parte dei media», e che – scrive Krakauer con una formula suggestiva - «catapultò brutalmente l’Everest nell’era postmoderna».[3]
Proponiamo la lettura di due passi di Aria sottile.
Il primo è l’incipit stesso del libro, che pone a tema la questione – che è sia culturale che morale – del perché quella tragedia evitabile sia potuta avvenire.
Il secondo brano è tratto da uno dei capitoli che raccontano il lungo avvicinamento al Campo 4 (quello da cui gli scalatori partiranno per tentare la conquista della cima).
Brano 1) Vetta dell’Everest, 10 maggio 1996
Il libro si apre nel momento in cui (il 10 maggio 1996, alle ore 13.12) lo scrittore raggiunge in cima all’Everest. Nei capitoli successivi la narrazione tornerà indietro, raccontando il lungo percorso di avvicinamento (e acclimatamento ambientale) alla montagna, per poi raccontare (nella seconda parte del libro) quello che avvenne nelle drammatiche ore successive al momento preciso in cui lo scrittore, e pochi altri, raggiunsero la cima.
Il libro si apre descrivendo il momento in cui lo scrittore (membro della spedizione ‘commerciale’ guidata da Rob Hall) si trova sulla cima. L’effetto di delusione che lo accompagna non riguarda lo spettacolo che gli si apre alla vista (che è straordinario), ma deriva da un senso di intorpidimento animale che impedisce allo scrittore non solo di ordinare pensieri, ma persino di avere piena coscienza delle proprie sensazioni. Il corpo si trova sottoposto a condizioni estreme: si parla infatti di quota 8000 metri come di ‘death line’; sopra quella quota la vita è cioè impossibile, cosicché l’ascesa all’Everest non è che una corsa contro il tempo, per riuscire a salire e a scendere prima che la morte, inevitabile permanendo a quelle quote, sopraggiunga. In cima all’Everest, quel meccanismo estetico del ‘sublime’ che aveva animato la sensibilità romantica per la montagna, perde ogni senso: Krakauer si sente un guscio vuoto, un ammasso di carne e sangue aggrappato alla pura sopravvivenza biologica: una condizione puramente animale e subumana, estranea perciò a ogni forma di consapevolezza estetica («in quelle circostanze ero incapace di provare granché, tranne freddo e stanchezza»).
Nella seconda parte del brano lo scrittore presenta il tema centrale del suo libro, che nasce da un dato polemico dichiarato: la commercializzazione dell’Everest (un fenomeno ‘postmoderno’ verrebbe da dire, prendendo a prestito l’aggettivo dallo stesso Krakauer), che nasce da un principio radicalmente consumistico, per cui tutto deve essere alla portata di tutti (basta pagare il giusto prezzo), ignorando l’autodisciplina, la competenza e la fatica che sono la vera moneta che tante pratiche impongono (ma autodisciplina, competenza e fatica non sono il costo che ogni attività seria della vita richiede?).
Brano 2) I cadaveri congelati
Riportiamo infine una pagina tratta dal cap. 8 del libro. La spedizione di cui fa parte Krakauer si trova in prossimità del campo 2 (a quota 6.400 metri). È il 16 aprile, dunque mancano ancora molti giorni all’ultima tappa, quando gli scalatori tenteranno di raggiungere la cima.
Lungo il sentiero trovano, a poca distanza, due cadaveri congelati e rinsecchiti, che sono lì probabilmente da anni. L’indifferenza ostentata dai membri della spedizione passando vicino a quei cadaveri è – osserva Krakauer – una risposta alla paura della morte, la «vera posta in gioco, lassù». Il tono asciutto del racconto, che non giudica, limitandosi alla pura descrizione fattuale, rende tanto più efficace la pagina, in cui è in gioco una disumanizzazione inquietante, che non solo priva il cadavere di ogni sacralità, ma sembra negare ogni possibile forma di pietà.
Giugno 2021
[1] V. Hugo, En voyage, Alpes et Pirénées, Paris, Hetzel, 1910, t. II, p. 198. Il testo originale è disponibile al seguente link:
Del Voyage è disponibile una recente edizione italiana, con traduzione di Martina Acquaro: V. Hugo, In viaggio. Le Alpi, Roma, Elliott, 2017.
[2] J. Krakauer, Aria sottile, Milano, Il Corbaccio, 1998, p. 34.
[3] Ivi, pp. 39-40.