Malattia mentale e manicomi, tra storia, mito e ideologia
Un decennio di riforme
Il titolo del percorso di letture che proponiamo è tratto da un film/documentario del 1975 di Silvano Agosti e Marco Bellocchio, che raccontava (soprattutto attraverso la forma dell’intervista) una serie di pratiche terapeutiche alternative al manicomio, adottate in quegli anni principalmente a Parma e Reggio Emilia.
Il film di Agosti/Bellocchio si colloca nel pieno di quel processo di riforma della psichiatria istituzionale italiana che il 13 maggio del 1978 porterà alla famosa legge 180 (nota anche con la impropria dicitura di ‘Legge Basaglia’), che vietava la costruzione di nuovi manicomi e prospettava la progressiva chiusura di tutti i manicomi esistenti (a quell’epoca erano in Italia settantasei), per sostituire l’internamento del malato con un servizio diffuso di centri di igiene mentale, che potessero seguire quanti soffrivano di disagi mentali (dalle nevrosi a vere e proprie forme psicotiche, più o meno gravi) senza sradicarli dalle loro case e dai loro luoghi, e soprattutto senza trasformarli in una sorta di carcerati.
La legge 180 del 1978 segnava il punto di arrivo di un percorso cominciato quasi venti anni prima, quando lo psichiatra veneziano Franco Basaglia (1924-1980), nominato direttore del manicomio di Gorizia nel 1961, realizzò in Italia – sull’esempio di alcune esperienze inglesi - la prima “comunità terapeutica”, cioè un ospedale psichiatrico in cui i tradizionali mezzi di contenzione e di detenzione (sbarre alle finestre e recinti, camicie di forza e legacci) fossero sostituiti da un rapporto umano e dialogico tra medico e paziente, in uno spazio sereno di confronto e di rispetto della dignità dell’individuo.
Di fatto, tra il 1961 e il 1978 una questione di carattere eminentemente tecnico (le pratiche sanitarie sulla malattia mentale) divenne un tema fortemente sentito dall’opinione pubblica italiana: un mondo nascosto e sconosciuto, quello dei manicomi, divenne uno dei temi/simbolo dello spirito radicale di riforma che stava attraversando la società italiana (e della legislazione che doveva regolamentarla). La legge 180 del 1978 precede di pochi giorni la famosa legge 194 (22 maggio 1978) che legalizzava e regolamentava l’aborto, con l’intento di porre fine alla piaga degli aborti clandestini, causa ogni anno di centinaia di decessi (tra le tante donne che non potevano pagare un sicuro intervento presso cliniche private straniere). Nel 1975 era stato introdotto il nuovo diritto di famiglia, che fissava diritti e doveri dei coniugi sulla base del principio di parità tra moglie e marito. Nel 1974 si era tenuto lo storico Referendum sul divorzio, voluto dalla Democrazia cristiana e dai partiti conservatori per abolire la legge del 1970 che introduceva in Italia il divorzio.
La legge 180 del 1978 sui manicomi è stata insomma uno dei tanti momenti che hanno contrassegnato un decennio – quello tra la fine dei Sessanta e la fine dei Settanta del Novecento – di straordinarie riforme, che hanno profondamente mutato la società italiana, adeguando la legislazione a una nuova concezione della libertà individuale e dei diritti del singolo.
Nornalità/anormalità/Repressione: una faccia del Sessantotto
Ripercorrere – se pure per sommi capi – la storia del quasi ventennale processo che condusse alla legge 180 significa fare luce su un aspetto fondamentale degli anni a cavallo del 1968.
L’attenzione dell’opinione pubblica per la malattia mentale e per il manicomio si inseriva infatti nel più generale processo di critica delle istituzioni (statali; economiche; educative) che contrassegnò gli anni che precedettero e seguirono il Sessantotto. A partire dalla riflessione di filosofi e intellettuali (Michel Foucault [1926-1984], che aveva pubblicato nel 1961 Storia della follia nell’età classica [Histoire de la folie dans l’age classique], tradotto in Italia nel1963) e di medici e terapeuti (oltre allo stesso Franco Basaglia, gli inglesi David Cooper [1931-1986] e Ronald Laing [1927-1989], esponenti della cosiddetta ‘antipsichiatria’), si affermò l’idea che il manicomio fosse, fin dalla sua origine, l’espressione della natura repressiva della società borghese e capitalistica. A partire dal Seicento – scrive Foucault nella sua ricostruzione storica della nascita del manicomio - appaiono in tutta Europa ospedali per pazzi, che in realtà sono luoghi di raccolta e detenzione di individui indesiderabili perché non inseribili nel nascente sistema produttivo, che fa del lavoro un dovere etico assoluto e inderogabile. Tali ospedali accolgono e rinchiudono così – di fatto equiparandoli - malati mentali, poveri e mendicanti, delinquenti comuni, giovani ribelli. Proprio qui affonda le sue radici, ritiene Foucault, la natura repressiva e non terapeutica del manicomio.
Nel clima libertario degli anni Sessanta il manicomio diventa così uno dei simboli dei meccanismi repressivi del ‘sistema’ borghese e produttivo. Un ‘sistema’ che soffoca ogni forma individuale di originalità, che cerca di fermare sul nascere ogni visione del mondo alternativa a quella monodimensionale del produrre e del consumare. Il manicomio non sarebbe così che la forma più esplicita e violenta di una istanza repressiva che, in forme più morbide e persuasive, opera sul singolo fin dalla primissima età (nella famiglia) e dall’infanzia (nella scuola). Nelle teorie di David Cooper, l’esponente più radicale dell’antipsichiatria, persino una forma psicotica grave, come la schizofrenia, viene ricondotta a fattori sociali e ambientali: cosicché il comportamento dissociato e incomprensibile dello schizofrenico è spesso la risposta (fondata su una razionalità ‘altra’) che il soggetto costruisce per adeguarsi a una realtà (aspettative famigliari o sociali; senso di inadeguatezza; gravi traumi) che gli risulta altrimenti insopportabile. In certi casi il movimento antipsichiatrico assunse posizioni estreme, fino ad arrivare a negare la malattia mentale stessa (non è il caso di Franco Basaglia), facendone un prodotto della società e della sua natura repressiva: atteggiamenti che in parte giustificano il ritratto quasi caricaturale che da tempo si tende a fare del movimento antipsichiatrico (che sarebbe stato caratterizzato da un atteggiamento astrattamente ideologico, avulso dalla realtà e dalla sua concretezza). Nondimeno quei testi e quelle posizioni produssero un interesse profondo (i libri di Basaglia furono dei veri e propri best sellers – così come lo furono i testi degli ‘antipsichiatri’ David Cooper e Ronald Laing).
Una lettura di alcuni dei testi e delle testimonianze di quelle esperienze costituisce dunque uno strumento notevole per capire lo spirito di un’epoca della nostra storia che fu, nel bene e nel male, una stagione straordinaria e irripetibile.
TESTI
Sez. A: Manicomio, opinione pubblica, mass media
T1 F. Basaglia, Le istituzioni della violenza (da F. Basaglia [a cura di], L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968):
T2 L’inchiesta giornalistica:
da Del Boca, Manicomi come lager (1966)
T3 - Manicomio e televisione:
S. Zavoli, I giardini di Abele (RAI - 1968)
T4 - Fotografie che parlano:
F. Basaglia – F. Ongaro – Carla Cerati – Gianni Berengo Gardin, Morire di classe, Torino, Einaudi, 1969
Sez. B – La letteratura
La voce di uno scrittore/psichiatra: M. Tobino.
T5 Le libere donne di Magliano (1953 e 1963)
T6 Gli ultimi giorni di Magliano (1982)
Il dolore di una internata: Alda Merini:
T7 La Terra Santa (1984)
T8 L’altra verità (1986)
PERCORSO
Sez. A: Manicomio, opinione pubblica, mass media
T1 - F. Basaglia (a cura di), L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968
Nel 1968 (anno simbolo per tanti aspetti) l’editore Einaudi dà alle stampe un libro collettivo, L’istituzione negata, che illustra l’esperienza realizzata nell’ospedale psichiatrico di Gorizia da Franco Basaglia e dal suo gruppo di collaboratori (tra i quali Giovanni Jervis. Agostino Pirella e la moglie dello stesso Basaglia, Franca Ongaro).
La casa editrice torinese Einaudi (che ebbe un’importanza capitale per la cultura italiana del dopoguerra) non poco contribuì a rendere nota al grande pubblico l’esperienza innovativa e riformatrice di Basaglia. In particolare Basaglia trovò in Giulio Bollati [1924-1996], dirigente della casa editrice, un amico e un interlocutore importante.
Nelle intenzioni originarie il libro doveva uscire senza un autore, sottolineando il carattere collettivo di un’opera che voleva essere la testimonianza dell’esperienza realizzata a Gorizia da Basaglia e dai suoi collaboratori. Fu l’editore a imporre che lo stesso Basaglia risultasse come curatore unico del libro: la figura dello psichiatra veneziano andava del resto assumendo una valenza simbolica e una visibilità che avrebbero giovato alla fortuna commerciale dell’opera. Un obiettivo, questo, non fallito dalla casa editrice: L’istituzione negata arrivò infatti a vendere tra il 1968 e i primi anni Settanta più di 60.000 copie, una cifra notevolissima per le tirature del tempo; ma, soprattutto, numero tanto più significativo se si considera che non era un libro facile, che intervallava parti narrativo/giornalistiche di carattere testimoniale, con saggi teorici di notevole spessore e di non facile lettura.
Il titolo stesso del libro aveva una valenza polemica dichiarata. Parlando di ‘istituzione negata’ Basaglia intendeva dire che l’esperienza della ‘comunità terapeutica’ realizzata a Gorizia – per quanto positiva – rischiava di prolungare l’esistenza di un’istituzione, quella del manicomio, che non ci si poteva limitare a migliorare e rendere più umana, ma che andava abolita (‘negata’, appunto), perché fondata comunque su un principio di segregazione ed esclusione.
Riproduciamo un brano dello stesso Basaglia (Le istituzioni della violenza), tratto da L’Istituzione negata. È un saggio in cui il medico denuncia il carattere repressivo che accomuna non solo il manicomio al carcere, ma anche a istituzioni come la famiglia e la scuola. Il discorso di Basaglia (che si apre con movenze semplici e narrative; per avviarsi poi a una più complessa riflessione teorica) ha insomma caratteri radicali: la denuncia di una situazione di ingiustizia e sopruso (il manicomio tradizionale e le sue forme di violenza) diventa un discorso complessivo sulla libertà dell’individuo e sulle molte forme (spesso larvate) con cui la società e i suoi meccanismi soffocano la libera espressione dell’individuo e dei suoi desideri profondi.
L’accomunare – come legati a una matrice comune – istituzioni come il manicomio, la scuola e la famiglia, acquistava una valenza tanto più significativa se si considera che il libro esce nel 1968, nel pieno dunque della stagione delle proteste studentesche che caratterizzarono quell’anno. E, specificamente per quanto attiene alla scuola, usciva circa un anno dopo Lettera a una professoressa (1967), il libro di don Lorenzo Milani destinato a diventare il testo-simbolo di una concezione democratica e non classista di scuola: un’istituzione che doveva contribuire a colmare le disparità sociali e culturali di partenza (sull’importantissimo libro di don Milani si veda il percorso di Cinzia Ruozzi, Il racconto della speranza, in questo stesso numero di «Griselda»).
L’organicità di un discorso libertario che toccava ogni aspetto della realtà sociale, unitamente alla grande fortuna del libro, possono ben giustificare la definizione dello storico John Foot (La ‘repubblica’ dei matti, Feltrinelli, 2014, p. 131) che ha parlato dell’Istituzione negata come di «Bibbia del Sessantotto»
Link 1: F. Basaglia, Le istituzioni della violenza (vedi allegato)
Analisi
Abbiamo proposto la parte iniziale dello scritto di Basaglia, che nelle pagine successive (è un testo di una ventina di pagine) diventa molto denso e complesso, a tratti di ardua lettura.
In queste prime battute Basaglia adotta uno stile divulgativo, capace di colpire immediatamente il lettore con una successione di esempi concreti in cui sono presentate forme diverse, per gradi e situazioni, di ‘violenza’. Efficacemente Basaglia inframmezza ad esempi tratti dalla realtà manicomiale non solo una notizia relativa al carcere (il nesso manicomio/carcere è un topos delle denunce giornalistiche sulle condizioni dei degenti nei manicomi), ma esempi di banale quotidianità tratti dalla realtà scolastica e familiare. Ad esercitare una forma di imposizione (che Basaglia chiama appunto “violenza”) non sono solo le istituzioni demandate a forme esplicitamente repressive di controllo e di vera e propria ‘detenzione’ (come il carcere e il manicomio), ma tutte le istituzioni sociali, in quanto fondate sul principio di una disparità di condizioni che comporta sempre un rapporto di soggezione di qualcuno a qualcun’altro (il figlio rispetto al padre; l’alunno rispetto all’insegnante; il dipendente rispetto al datore di lavoro),
In questo modo la denuncia della violenza esercitata nei manicomi nei confronti dei malati diventa solo l’aspetto più eclatante ed estremo delle forme di dominio e di disparità dei ruoli che caratterizzano ogni aspetto della vita sociale (di fatto – come scrive l’autore – si potrebbe continuare «toccando tutte le istituzioni su cui si organizza la nostra società»). La polarità tra sano e malato (nel manicomio) e tra buono e cattivo (nel carcere) ha un corrispettivo (a un grado più debole e meno evidente di ‘violenza’, cioè di imposizione) nella più ‘morbida’ polarità tra rispettabile e non rispettabile: il che significa che la società esercita un ruolo impositivo, di controllo e di limitazione della libera espressione dell’individuo, anche quando sono in gioco banali comportamenti quotidiani (relazioni interpersonali; comportamento e orientamento sessuale ecc.), imponendo modelli che le istituzioni educative (la famiglia e la scuola) introiettano nel singolo fin dall’infanzia, così che egli si abitui a trovare naturale che gli si dica come deve ‘vedere’ un cigno, o accetti un’imposizione assurda (stare a sedere senza parlare e senza fare nulla) solo perché proveniente dall’istituzione in cui egli è inserito.
Nella parte conclusiva del brano riportato Basaglia allude a tematiche molto diffuse nel corso degli anni Sessanta. Nella società del benessere e del consumismo, imponendosi un modello di vita fondato sul piacere e sul divertimento, le forme di imposizione di comportamenti approvati non può essere esplicita, e viene perciò affidata a ‘tecnici’ del consenso (come insegnanti; psicologi di fabbrica; medici; pubblicitari ed esperti di comunicazione) che hanno il compito di mistificare la natura violenta dei rapporti sociali, facendo apparire come naturale e razionale ciò che deriva dall’interesse di alcuni: un sistema che agisce sia nell’interesse dello stato che vuole cittadini obbedienti, sia nell’interesse del capitale, che vuole consumatori sfruttati e contenti.
T2 – Angelo del Boca, Manicomi come lager (1966)
Il percorso di sensibilizzazione dell’opinione pubblica per la realtà di degrado e violenza che caratterizzava la condizione dei malati di mente nei manicomi italiani – prima del Sessantotto e di un libro/simbolo come L’istituzione negata, a cura di Franco Basaglia - trovò un momento significativo a metà degli anni Sessanta.
Nel 1963 lo scrittore e psichiatra Mario Tobino (una firma importante della nostra letteratura) pubblicava con Mondadori la ristampa de Le libere donne di Magliano (1953), il libro in cui Tobino raccontava la realtà delle ricoverate nell’ospedale psichiatrico di Maggiano (nel libro il nome è mutato in ‘Magliano’), nei pressi di Lucca, dove dal 1942 lo scrittore lavorava come psichiatra. Nella prefazione alla seconda edizione Tobino diceva di aver scritto quel libro, dieci anni prima, soprattutto per far conoscere la realtà manicomiale, nella speranza che «i malati fossero trattati meglio» (un brano significativo di questa introduzione è presentata nella sezione T5 del nostro percorso).
Nei mesi successivi la denuncia dei manicomi come luoghi degradati di reclusione fu portata avanti addirittura dal ministro della Sanità, Luigi Mariotti (1912-2004), che nel settembre 1965, a un convegno milanese, paragonò apertamente i manicomi italiani a «lager germanici»: luoghi di pena e di sofferenza insensate, edifici fatiscenti; personale insufficiente e impreparato.
La denuncia, che generò polemiche aspre soprattutto da parte di alcune associazioni professionali e sindacali, fu raccolta da Angelo del Boca (Novara, 1925), figura straordinaria di giornalista e storico (famoso soprattutto per le sue ricerche sui crimini compiuti dal colonialismo italiano, nelle quali ha sfatato molti miti nazionali gratificanti, come quelli di essere noi stati, come colonialisti, “brava gente”). Tra l’aprile e il giugno del 1966 Del Boca pubblicò una serie di articoli di inchiesta sulla «Gazzetta del Popolo», quotidiano torinese. Nell’autunno di quello stesso anno gli articoli furono racconti in un volume, che riprendeva nel titolo il paragone proposto dal ministro Mariotti, destinato a divenire un vero e proprio luogo comune per designare la realtà manicomiale manicomi: Manicomi come lager (Edizioni dell’Albero, Torino).
Proponiamo la copertina del libro.
Link_2_A – Copertina libro Del Boca (vedi allegato)
Analisi
La copertina mostra una grafica ‘militante’, in cui tre fotografie che documentano condizioni di ordinario degrado, si mescolano a scritte esplicitamente polemiche e di denuncia:
1. «Una legge iniqua» - in riferimento alla legge del 1904 che ancora regolamentava i manicomi e gli internamenti; e prevedeva per i ricoverati la perdita dei diritti civili e la segnalazione al casellario giudiziario.
2. «Centomila ostaggi da liberare» - Slogan che riprendeva e ampliava quanto espresso dal titolo, indicando negli internati le vittime innocenti (tali sono sempre gli ‘ostaggi’) di un sistema carcerario (e perciò, appunto, persone «da liberare»).
3. Una frase dello psichiatra e psicoterapeuta francese Georges Daumèzon (1912-1979), che suggerisce come la malattia mentale sia anche un fatto sociale, e che l’internamento in ospedale e l’esclusione del malato siano scelte necessariamente legate a convenzioni e pregiudizi sociali.
L’effetto complessivo della copertina è quello del Tazebao: il manifesto/giornale di protesta, scritto a mano, in cui a grandi caratteri e con pochi slogan ad effetto, si denunciavano ingiustizie o soprusi. Ispirato alla realtà cinese (Tazebao è la traslitterazione italiana di un termine cinese), il Tazebao divenne negli anni Sessanta un simbolo caro ai movimenti giovanili, come espressione di spontaneità democratica e di protesta ‘dal basso’.
Il libro di Del Boca alterna efficaci momenti descrittivi e narrativi a una ricostruzione impeccabile, anche dal punto di vista tecnico, della realtà manicomiale italiana (arrivando a riportare in Appendice gli articoli di un disegno di legge di riforma). Gli aspetti centrali del problema manicomiale vengono così affrontati nei più diversi aspetti: le carenze edilizie degli Ospedali psichiatrici (in genere vecchi e fatiscenti); il problema del personale (poco e malpagato); norme di internamento definite da «una legge antiquata e iniqua». Ma c’è anche un capitolo del libro (Dove l’uomo conserva la speranza, pp. 28-35), in cui Del Boca parla della nascita di nuove realtà manicomiali: e la sua inchiesta si conclude proprio con l’esperienza di Gorizia di Franco Basaglia.
Riportiamo due brani tratti dal secondo capitolo del libro (Una visita ai “lager”, pp. 16-27), nel quale Del Boca fa un reportage sulla visita a cinque ospedali psichiatrici (tre a Torino e provincia; uno a Roma; e l’ospedale di Lucca, dove incontra lo scrittore/psichiatra Mario Tobino). Sono pagine in cui lo scopo immediato della denuncia di una realtà scandalosa trova i toni giornalisticamente più efficaci.
Link_2_B – Del Boca, Una visita ai lager (vedi allegato)
Analisi
Nel primo passo riportato Del Boca si sofferma sull’accesso del malato nel manicomio: evento che acquista la dimensione di un vero e proprio rito di passaggio, che marca in maniera netta la differenza tra la condizione di liberi e quella di internati. La spogliazione degli abiti propri e il rivestimento di abiti informi (perciò de-personalizzati), nonché la privazione di tutti gli effetti personali, costituisce un elemento anche simbolicamente centrale nel processo di oggettivazione dell’individuo, che deve assumere la condizione di semplice elemento senza nome e volto di un sistema chiuso e autoreferenziale (non c’è vita, per il paziente, fuori del manicomio; non c’è vita, per lui, se non dentro il manicomio e le sue regole).
Nella seconda parte del brano Del Boca riporta, virgolettandoli, alcuni dei termini tecnico-gergali impiegati nella pratica manicomiale per classificare i malati (anzi, i “mentali”): viene così sottolineato quel meccanismo di fredda burocratizzazione nel trattamento della malattia che è parte del processo di spersonalizzazione del malato, trasformato in oggetto; non una persona, appunto, ma la componente anonima di una categoria di malati da sottoporre a trattamenti standardizzati.
Primo Levi (in Se questo è un uomo) sottolinea l’importanza che aveva nel sistema concentrazionario, la spogliazione e la requisizione degli effetti personali (assieme alla rasatura dei capelli: altro importante fattore di spersonalizzazione e umiliazione dell’individuo). Questo meccanismo strutturale (caratteristico di istituzioni ‘totali’, che tendono a fagocitare l’individuo facendo dell’istituzione stessa l’unico orizzonte della sua vita) è uno degli elementi che suggeriscono il nesso esplicito tra il manicomio e il lager– che Del Boca propone già nel titolo del libro – e che non a caso ritorna spesso nelle considerazioni di Franco Basaglia, che era stato molto suggestionato dalla lettura del capolavoro di Primo Levi, trovando in esso molti punti di contatto con la tradizionale pratica manicomiale (e si veda Link_4_d).
Il secondo brano ci riporta allo stile del reportage di denuncia, in cui il giornalista abbina all’efficacia della testimonianza diretta (il ruolo di testimone oculare viene più volte ribadito dai verbi in prima persona che mettono in scena il reporter che osserva, tocca con mano e ascolta «prendiamo in esame»; «entriamo»; «ci dice il dottor Breusa» ecc.), la forza di immagini di ordinario degrado. L’avvilimento fisico e morale delle degenti è affidato a poche metafore, che trattengono il testo al di qua di ogni amplificazione retorica, per colpire il lettore con particolari di asciutta essenzialità: «il volto scarno e devastato» o l’essere «ridotte a larve». Si veda, infine, il lenzuolo paragonato a un «sudario» (la tela in cui si avvolgevano i cadaveri) che suggerisce un’immediata atmosfera mortuaria (e che fa di quelle degenti una sorta di cadaveri, creature sepolte già prima di essere morte); che è anche termine ben presente alla tradizione cristiana (nel ‘sudario’ di Cristo, naturalmente), in un accostamento cristologico che – con suggestive risonanze poetiche ed emotive, troviamo nella poesia di Alda Merini (vd. testo T7)
T3 - Manicomio e televisione:
Sergio Zavoli, I giardini di Abele (RAI - 1968)
Si accennava sopra al fatto che un tema tecnico e specifico come quello del trattamento della malattia mentale, arrivò a sollevare un interesse straordinario presso l’opinione pubblica. Segno questo di una società – come fu quella italiana degli anni Sessanta/Settanta - estremamente vitale e attenta ai problemi socio-politici.
E’ significativo che il tema della realtà manicomiale e di una possibile riforma degli ospedali psichiatrici arrivasse in televisione - pochi mesi dopo l’uscita de L’istituzione negata di Basaglia – in prima serata. Il 30 dicembre 1968 la Rai mandò in onda il documentario I giardini di Abele, di Sergio Zavoli (1923-2020 - uno dei grandi maestri del giornalismo televisivo italiano), che parlava del manicomio raccontando l’esperienza di Basaglia e dei suoi collaboratori all’ospedale psichiatrico di Gorizia.
Parliamo di un’epoca in cui, in assenza di televisioni private e commerciali, gli unici programmi televisivi erano quelli mandati in onda, per poche ore al giorno, dai due canali della RAI: il documentario di Zavoli fu insomma seguito da milioni e milioni di spettatori.
I giardini di Abele denuncia lo stato di degrado e di reclusione dei manicomi italiani raccontando l’esperienza innovativa della “comunità terapeutica” di Gorizia, il manicomio di cui nel 1961 divenne direttore Franco Basaglia, che a partire dal 1962 attuò un graduale processo di apertura dei reparti, abbattendo reti di recinzione e sbarre alle finestre, e consentendo ai malati di circolare liberamente dentro e fuori la struttura dell’ospedale; istituendo assemblee in cui i malati si confrontavano con il personale sanitario, esponendo esigenze e richieste e contribuendo alla gestione quotidiana del manicomio.
Il risultato è uno straordinario prodotto giornalistico, esempio perfetto di un’informazione davvero sentita come ‘servizio pubblico’ (cioè strumento di riflessione consapevole, non intrattenimento superficiale o becero voyerismo), in cui rigore documentario e cultura hanno saputo annodarsi con tratti di intensa poeticità.
Link 3 - Guida a I giardini di Abele (vedi allegato)
T4 - Fotografie che parlano:
F. Basaglia – F. Ongaro – Carla Cerati – Gianni Berengo Gardin, Morire di classe, Torino, Einaudi, 1969
Se il libro collettivo L’istituzione negata (1968) fu un efficace e importante strumento di denuncia e di diffusione del tema manicomiale presso l’opinione pubblica, esso non fu il solo prodotto editoriale nato dalla collaborazione tra la casa editrice Einaudi e il gruppo dei ‘basagliani’.
Merita una particolare attenzione un testo come Morire di classe, il fotolibro a cura dei coniugi Basaglia (Franco e Franca Ongaro) che Einaudi pubblicò nel 1969. Morire di classe è un esempio significativo di quella che Marina Guglielmi (Raccontare il manicomio, Firenze, Cesati, 2018) ha definito la «macchina narrativa di Basaglia», cioè quel complesso di testi, immagini, pratiche teatrali, performances artistiche ecc., attraverso le quali il movimento riformatore della nuova psichiatria cercò di arrivare al grande pubblico, facendosi conoscere e sollecitando reazioni.
Morire di classe raccoglie gli scatti di due grandi fotografi, Carla Cerati (1926-2016) e Gianni Berengo Gardin (n. 1930), accompagnandoli con testi di scrittori, filosofi e saggisti, in accostamenti significativi e produttori di senso. È un libro polemico, fin dal titolo, che allude alle ingiustizie sociali che si consumano nel trattamento psichiatrico: tra i malati ricchi che possono curarsi in cliniche private, e la deriva di emarginazione e umiliazione cui sono costretti i malati mentali poveri, la cui ‘morte’ (in senso metaforico: a morire è naturalmente la loro dignità di esseri umani e cittadini) è causata da ragioni «di classe», è cioè strettamente dipendente dalla loro subalternità sociale.
È stato detto (dallo storico John Foot) che il fotolibro è in parte anche un “imbroglio”. Gli autori infatti, impaginando le foto e accostandole ai testi, non esitano a mettere in pratica interventi manipolatori, cosicché venga potenziato l’effetto delle immagini; mentre si suggerisce continuamente al lettore (con analogie talvolta sottili, talvolta esplicite) il nesso tra manicomio e violenza, detenzione, lager.
Se il fine del libro è quello di denunciare la realtà manicomiale, la fotografia risulta uno strumento perfettamente funzionale allo scopo: essa appare infatti agli occhi dell’osservatore come qualcosa di neutro e ’oggettivo’ (la fotografia, direbbero i più, ‘parla da sé’) mentre anche la fotografia, al pari di qualsiasi forma di comunicazione, è soggetta a processi di manipolazione che possono modificare - potenziandola o diminuendola - la sua capacità di colpire l’emotività dell’osservatore.
Proponiamo alcune pagine di Morire di classe, in cui esemplifichiamo alcuni dei modi in cui le immagini, per così dire, sono fatte ‘parlare’: attraverso la valenza simbolica dei soggetti fotografati, la modalità di impaginazione delle immagini, l’accostamento immagine/testo.
link_4_A- La copertina del libro (vedi allegato)
Analisi
La copertina contiene alcune delle caratteristiche fondamentali del libro: la compresenza di immagini e testi, che si situano in un rapporto reciproco stretto e significativo. Testo e immagine si illuminano a vicenda: se al testo spetta l’analisi razionale e ideologica, è l’immagine che traduce il giudizio in figura simbolica, capace di colpire emotivamente il lettore.
Nella copertina il testo parla del manicomio come luogo che schiaccia il malato imponendogli regole rigide e neutre che ne cancellano l’individualità. Il malato, si legge nel testo, viene «inglobato e incorporato» nell’istituzione: un giudizio cui corrisponde, nella foto, l’immagine di una degente legata in una camicia di forza la cui immagine sembra ‘uscire’ dal muro. I contorni della sua figura sono in molti punti invisibili e la dona sembra fare utt’uno con il muro alle sue spalle.
L’effetto è ottenuto dalla manipolazione dell’immagine, che viene virata al rosso, e viene lasciata indistinta interrompendo il processo di sviluppo dell’immagine. Per verificare il trattamento operato sull’immagine basterà confrontare la foto di copertina con la foto originale (vd. Link_4_B)
link_4_B – Accostamenti analogici (vedi allegato)
Analisi
Ricorrono spesso accostamenti analogici, come nelle due pagine qui riprodotte. L’immagine della pagina di sinistra non solo riproduce un oggetto immondo, ma lo inserisce in un contesto di sporcizia e di degrado. La degente chiusa nella camicia di forza nella pagina di destra è associata all’immagine di sinistra sulla base di un comune senso di abbandono (ambedue, il sanitario e la malata, semplici ‘oggetti’, dimenticati nella loro squallida insignificanza), appaiati nella sottintesa condizione di ‘rifiuto’: ciò che è rifiutato ed espulso dal corpo umano, da una parte; ciò che è rifiutato dal corpo sociale, dall’altro.
link_4_C – Accostamenti ironici (vedi allegato)
Analisi
Talora il dialogo tra parole e immagini svela un senso in cui si manifesta la tragica ironia della realtà manicomiale. Involontariamente ironica è la fotografia nella pagina di sinistra: tre malate (ognuna guarda a terra di fronte a sé, chiusa in una posa che suggerisce solitudine e incomunicabilità) sono fotografate sotto un poster che celebra il dottor Christian Barnard (1922-2001), il chirurgo sudafricano che realizzò nel 1967 il primo trapianto di cuore. Alla medicina splendente di successi e speranze rappresentata da Barnard (che divenne negli anni Sessanta una celebrità internazionale, conteso dai mass media e dalle cronache) fa da ironico contraltare la condizione squallida e degradata dell’ospedale psichiatrico.
Il testo che a destra accompagna la fotografia è tratto dalla pièce teatrale del drammaturgo austriaco Peter Weiss, Marat/Sade (1964), nella quale è rappresentato il marchese De Sade (1740-1814) che mette in scena, assieme agli altri degenti del manicomio di Charenton (in cui lo stesso marchese fu internato), un dramma che racconta l’assassinio del rivoluzionario francese Marat (1743-1793).
link_4_D – Dialogo Testo-immagine (vedi allegato)
Analisi
Uno degli esempi più significativi di dialogo diretto tra testo e immagine è costituito dalle due pagine in cui un passo tratto da Se questo è un uomo di Primo Levi viene accostato all’immagine di una degente che per molti particolari richiama un’internata del lager: la testa rasata; il camicione incolore; le scarpe informi.
Nel suo capolavoro Levi si è soffermato sul profondo significato simbolico che assumeva nel lager la cerimonia degradante della rasatura e della spogliazione dei propri abiti: veri e propri riti di ingresso nell’istituzione concentrazionaria, che fungevano da marcatori di passaggio tra un ‘prima’, quando l’internato è un individuo, e un ‘dopo’, in cui l’internato è privato di ogni indicatore di individualità, diventando numero, oggetto.
Se il nesso manicomio/lager era diventato un luogo comune (si ricordi il libro del 1966 di Angelo Del Boca), il dialogo tra il testo di Levi e l’immagine associa la realtà manicomiale a un insieme di riflessioni sul manicomio come ‘istituzione totale’, che schiaccia l’individuo inserendolo all’interno di un sistema burocratizzato di regole e procedure che – per usare un termine caro a Basaglia – ‘oggettivizzano’ la persona, ne cancellano l’individualità (fatta di desideri soggettivi, di dialogo, di ricerca di comprensione e interazione) per farne un generico e meccanico insieme di comportamenti che vanni classificati e catalogati per poter etichettare il malato (catatonia; bipolarità; schizofrenia; malinconia congenita ecc.).
Sez. B - La rielaborazione letteraria
Dedichiamo la seconda parte del percorso a due scrittori che con il manicomio ebbero un rapporto strettissimo. Il primo, Mario Tobino (1910-1991), fu psichiatra e lavorò per quarant’anni presso il manicomio di Maggiano, presso Lucca. Tobino è autore in genere caratterizzato da una forte impronta autobiografica (come ne Il clandestino [1962], sulla Resistenza in Toscana o Il deserto della Libia [1951], basato sulla sua esperienza di ufficiale medico in Nordafrica tra il 1940 e il 1941). Così, egli ha dedicato ben quattro libri al manicomio. Due di essi sono particolarmente importanti e famosi: Le libere donne di Magliano (1953) e Per le antiche scale (1972). Il manicomio di Maggiano (che nei suoi romanzi Tobino rinomina ‘Magliano’) fa da sfondo anche e a Il manicomio di Pechino (1990) e a Gli ultimi giorni di Magliano (1982), che in questa sede particolarmente ci interessa: Gli ultimi giorni di Magliano è infatti un diario/cronaca che con toni accesamente polemici rievoca i primi mesi di applicazione della legge 180 del 1978, quando i degenti cominciarono ad essere dimessi in gran numero e fu avviato il processo che avrebbe portato alla chiusura della struttura.
Il secondo autore che proponiamo è la poetessa milanese Alda Merini (1931-2009), che in manicomio (con una diagnosi di schizofrenia) trascorse gran parte del quindicennio compreso tra il 1965 e il 1980. Gli anni di internamento sono rievocati nella raccolta La Terra Santa (1984), comunemente ritenuta il suo capolavoro. Ma la Merini ha dedicato all’esperienza manicomiale anche un testo in prosa, L’altra verità: Diario di una diversa (1986) dal quale (unitamente a una poesia da La Terra Santa) proponiamo una lettura.
T5 – Mario Tobino, da Le libere donne di Magliano (1953; 19632)
Le libere donne di Magliano è un libro importantissimo; non solo per la sua altissima qualità letteraria, ma anche per il merito di essere il primo libro in Italia che ha raccontato in maniera sistematica e non superficiale la realtà manicomiale.
Il libro, che uscì nel 1953 (per l’editore Vallecchi di Firenze), raccontava l’esperienza dell’autore come psichiatria nel manicomio di Maggiano, nei pressi di Lucca. Il suo è un racconto disincantato, che guarda al fenomeno misterioso e inquietante della malattia senza smussarne i contorni più duri e violenti. Quella di Tobino è una scrittura attentamente meditata (che mescola metafore audaci e analogie poetiche con termini violentemente espressivi), in cui la ricerca dell’arte viene celata dietro la forma del ‘diario’: come fingendo che le note descrittive e narrative che si susseguono pagina dopo pagina (il libro non è diviso in capitoli, ma dei semplici salti di riga indicano il cambiamento di personaggi, storie e situazioni) siano il frutto di una diretta trascrizione di esperienze vissute. Anche se la figura del protagonista/narratore domina il libro, esso conserva un carattere corale: le diverse figure (più spesso degenti; talora infermieri e colleghi), si susseguono in un ritmo incalzante. Talora Tobino tratteggia delle degenti alcune brevissime biografie, poche righe che colgono gli elementi essenziali collegabili al manifestarsi della malattia, i fattori scatenanti della psicosi (che ha sempre anche una componente organica, per quanto misteriosa e sconosciuta).
Le tante donne di Magliano (Tobino lavorò sempre nella sezione femminile dell’ospedale) si susseguono, raffigurate nel manifestarsi incontrollabile e imprevedibile della loro malattia. Manifestazioni non misurate o mediate da alcuna forma di autocontrollo. In questo senso, infatti, lo scrittore definisce le donne «libere» (Tobino meditò a lungo sul titolo da dare al libro: e ne scartò decine prima di giungere a quello definitivo): un aggettivo volutamente ambiguo, che da una parte si riferisce all’espressione immediata delle pulsioni, che è caratteristica del malato di mente; ma nel contempo allude polemicamente alla condizione umana delle degenti, simili a carcerate, rinchiuse proprio in ragione di quella ‘libera’ (cioè incontrollata) espressione di sé, in cui consiste la malattia psichiatrica.
Il libro fece al suo apparire molto scalpore, raccontando con grande efficacia una realtà sconosciuta e, in genere, rimossa. Anni dopo Franco Basaglia racconterà che il desiderio di occuparsi di psichiatria e di lavorare in manicomio gli venne anche dalla lettura, in gioventù, del libro di Tobino. A dieci anni dalla prima edizione, nel 1963 Tobino pubblicò una seconda edizione del libro presso Mondadori, aggiungendo al testo una introduzione (intitolata Dieci anni dopo) ricca di risvolti politico-sociali. In essa Tobino attribuisce infatti l’originaria scrittura del libro alla volontà di denuncia della una piaga sociale e umana del manicomio e all’intenzione di sensibilizzare su di essa l’opinione pubblica.
Riportiamo due passi tratti dalle Libere donne di Magliano.
Il primo parla di una particolare pratica adottata nel manicomio.
È un passo famoso, quello in cui Tobino, descrivendo il reparto delle “agitate” (è il termine con cui gergalmente medici e infermieri indicavano le malate soggette, temporaneamente o permanentemente, a comportamenti violenti).
Link_T5_A (vedi allegato)
Il brano si apre con una descrizione neutra del reparto e delle «celle» (la porta con lo spioncino; la finestra alta e con davanzale inclinato; la griglia dell’aria calda ecc.): è la tonalità del referto scientificamente distaccato, ben presente nelle Libere donne.Ma nella descrizione fredda, lontanissima da ogni retorica sentimentale, si innestano soluzioni linguistiche particolarissime.
Si noti in particolare l’uso di metafore, analogie e similitudini molto efficaci. Tanto più una metafora o un’analogia sono ‘forti’, quanto più suggeriscono al lettore nessi di senso inaspettati. Proprio in quanto capaci di stabilire relazioni imprevedute tra le cose, metafora e analogia (come ben sa la lirica moderna) diventano veri e propri strumenti di esplorazione della realtà. Nella pagina di Tobino metafore e analogie risultano strumenti conoscitivi tanto più necessari, in quanto si chiede alla lingua narrativa di cogliere ciò che, come la malattia mentale, è ‘indicibile’, non rappresentabile seguendo i nessi del ragionamento o della successione ordinata dei gesti. Si veda ad esempio l’alga marina «dalle lunghissime ciglia», dove lo spunto descrittivo (le folgie ‘ciliate’ sono in botanica quelle che presentano ai margini delle protuberanze simili a peli) suggerisce un’analogia che dà quasi consistenza viva e umana all’oggetto. Oppure la luce folgorante associata alla manifestazione della pazzia («luccicando e folgorando la loro pazzia»). O la similitudine del degente al «dio ebbro e trionfante», che associa l’incontrollato comportamento del malato al furore dionisiaco (l’immagine mitologica di Dioniso, o Bacco, che va ubriaco in corteo, seguito dal tripudio esaltato dei suoi seguaci): analogia chiarita alcune righe più avanti, nel brano, con l’esplicito richiamo al dio dell’ebbrezza: «arruffandosi la chioma [sogg.: l’agitato nella cella] come un Bacco eccitato». Di natura analogica è anche l’elaborata immagine del malato che «tra le sue [dell’alga] file comporrà la tumultuosa follia, canterà ciò che l’opprime»: che suggerisce l’idea che quei fili siano come le linee del pentagramma che ospita la particolare musica (arte per eccellenza ‘dionisiaca’) della follia.
Nella ricerca di una lingua capace di dire il mistero insondabile della malattia, si situa anche l’utilizzo di nessi inaspettati, dal punto di vista semantico, tra soggetto e predicato. Si veda la successione dei verbi: «urla, canta e proclama», che si chiude appunto con l’inaspettato ‘proclamare’, che appartiene semanticamente al campo dell’ufficialità: il ‘proclama’ è la dichiarazione ufficiale e solenne, ed è verbo dunque associato a istituzioni e figure pubbliche. O veda anche l’uso del verbo ‘sbandierare’ nel senso di ‘manifestare’, ‘dare libero sfogo’ («l’alienato nella cella … sbandiera … la sua pazzia»).
Si noti il ricorso a immagini fortemente icastiche (dalle pareti della cella «fuoriescono i loro gesti»: vuol dire che la loro violenza è avvertita, come se fosse una presenza fisica e tangibile, anche fuori della cella); che non si ritraggono di fronte alla violenza espressiva del gesto («pisciare verso l’aria»; «defecare ridendo»).
Tra l’analogia e la rappresentazione visivamente concreta del fenomeno è l’immagine delle «imprecazioni» del malato che diventano una «palla lanciata».
Il secondo che proponiamo è invece tratto dall’introduzione all’edizione mondadoriana del 1963). Riproduciamo la parte iniziale e quella conclusiva del testo.
Link_T5_B (vedi allegato)
Analisi
Retrospettivamente, a dieci anni di distanza, Tobino sembra voler sottolineare la portata politica e sociale del suo libro: nato – scrive – con un fine sia ‘umano’ («dimostrare che i matti sono creature degne d’amore»), che sociale («ottenere che i malati fossero trattati meglio»). Il libro che viene presentato al nuovo lettore del 1963 subisce così un meccanismo di attualizzazione: di fatto esso è presentato come l’antesignano di tematiche che negli ambienti psichiatrici cominciava ad essere sempre più dibattuto (l’anno prima, nel 1962, un giovane psichiatra di nome Franco Basaglia, aveva ‘aperto’ il primo reparto del manicomio di Gorizia, di era direttore…). Temi per il momento ancora confinati tra gli addetti ai lavori, ma che presto (così auspica Tobino; e così presto avverrà) sarebbero diventati oggetto dell’attenzione dell’opinione pubblica.
Questo aspetto pubblico (e possiamo dire ‘politico’) della questione viene espresso chiaramente nella parte finale dell’introduzione. Dove le nobili ragioni umane della partecipazione al dolore altrui (aiutare chi è «sulla soglia», cioè sulla linea incerta tra salute e pazzia, a non cadere nella «caverna» dolorosa della malattia) acquista le caratteristiche esplicite dell’appello rivolto alla società e alle forze politiche del paese, che acquistino coscienza dell’entità del problema, affinché si investa denaro, risorse ed energie al fine di risolverlo. Un invito, quello di Tobino, in cui l’accenno alla necessità di investimenti pubblici (per medici e spazi) si accompagna alla necessità di un’attenzione nuova, da parte dell’opinione pubblica, per la realtà della pazzia («partecipare, sorvegliare, criticare, appassionarsi»)
Un appello in cui si vuole assegnare alla letteratura quella funzione civile che dovrebbe essere tra gli orizzonti di senso che essa stessa dovrebbe sempre cercare.
T6 – Mario Tobino, da Gli ultimi giorni di Magliano (1982)
Nelle settimane che precedettero la votazione della legge 180 del 1978 (che fu firmata il 13 maggio), Tobino intervenne pubblicamente per prendere posizione contro la sua approvazione.
La legge - Erano settimane convulse: il 18 marzo era stato rapito dalle Brigate rosse Aldo Moro, presidente del Consiglio in carica. Alla fine di un braccio di ferro drammatico tra i terroristi e lo stato, Moro fu ucciso e il suo corpo fatto trovare in un’auto nel centro di Roma il 9 maggio. Solo quattro giorni dopo il Parlamento votò la legge 180 (scritta e proposta dal deputato democristiano Bruno Orsini),
Il Partito radicale aveva indetto un Referendum per l’abrogazione della legge del 1904 che ancora regolamentava gli Ospedali psichiatrici e lo status del malato di mente (per capirci, la legge imponeva di indicare sulla fedina penale l’internamento in un ospedale psichiatrico, come se la malattia costituisse un ‘precedente’ e, di fatto, si equiparasse la malattia a un reato). Per evitare il referendum, e il vuoto legislativo che si sarebbe aperto, il Parlamento votò velocemente la legge. Nacque così la legge impropriamente detta “Basaglia”: in realtà lo psichiatra veneziano non ebbe alcuna parte diretta nell’iter legislativo che portò alla 180, di cui anzi criticò molti aspetti tecnici.
Pochi giorni prima che il testo di legge venisse votato in parlamento, Mario Tobino, scrittore celebre e noto al grande pubblico proprio per la sua attività di psichiatra, pubblicò sulla «Nazione» (il quotidiano di Firenze) un articolo molto polemico (fin dal titolo: Lasciateli in pace, è la loro casa), sulla ventilata ipotesi di chiusura degli ospedali psichiatrici. L’intervento di Tobino fece scalpore (gli rispose alcuni giorni dopo lo stesso Basaglia, con un articolo sul giornale romano «Paese sera») soprattutto perché veniva da chi per primo (già con Le libere donne di Magliano del 1953) non solo aveva contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla realtà manicomiale, ma aveva anche espresso la necessità di investimenti e interventi legislativi per trasformare il manicomio, rendendolo più umano ed efficace sul piano terapeutico.
Quando infatti nel 1963 era stata stampata da Mondadori la seconda edizione de Le libere donne, lo scrittore toscano vi aveva aggiunto un’introduzione molto significativa (ne abbiamo riportato una parte in T5), nella quale diceva di aver scritto Le libere donne «per dimostrare che i matti sono creature degne d’amore» e per «ottenere che i malati fossero trattati meglio, meglio nutriti, meglio vestiti»; per fare in modo, insomma, che opinione pubblica, società e mondo della politica, consapevoli del problema manicomiale, lo affrontassero con riforme e investimenti pubblici
Sostenitore di un rapporto umano e di interazione con il malato, contrario a una psichiatria fredda e attenta solo alla descrizione e catalogazione di sintomi, Tobino riteneva tuttavia irrinunciabile la funzione del manicomio, luogo protetto, in cui il malato doveva trovare un’accoglienza e una disponibilità negatagli dall’ostile mondo esterno. Nascono così le pagine duramente polemiche di Gli ultimi giorni di Magliano (1982) il racconto in forma di diario in cui Tobino, ormai prossimo alla pensione, alterna la rievocazione di momenti importanti della sua esperienza di psichiatra, alternandoli con le notizie tragiche di degenti dimessi, e di fatto abbandonati a se stessi, piombati nel baratro del delirio e dell’autodistruzione.
Proponiamo la lettura del primo episodio di cronaca che viene riportato nel libro (un bambino ucciso a Pisa da un giovane malato di mente dimesso dall’ospedale), che offre la prima occasione allo scrittore per una polemica esplicita nei confronti dei sostenitori della riforma, che nel libro sono in genere chiamati, irridentemente, i «novatori»
Link 6 – da M. Tobino, Gli ultimi giorni di Magliano (vedi allegato)
Analisi
Il dato di cronaca - che viene riferito nella sua evidente e scandalosa nudità - tocca uno degli aspetti lamentati da Tobino nel suo pamphlet antibasagliano: il pericolo rappresentato per la società dalla circolazione di malati che, imprevedibilmente, possono risultare pericolosi per la società. In realtà il libro riposta pochissimi casi di violenza esercitata da ex degenti nei confronti di altri; più spesso la triste contabilità segnalata nel libro è quella dei molti malati che si sono suicidati, perché abbandonati a se stessi, e che – usciti dalla realtà protetta del manicomio – si sono scontrati con l’ostilità di un mondo che li rifiuta.
La polemica di Tobino è fondata sulla denuncia del carattere prevalentemente ideologico della posizione dei “novatori”. Il libro raccoglie moltissimi brevi episodi concreti, intrisi di umana pietà. In alcuni casi è la narrazione di un dolore assoluto e indicibile (più spesso quello dei malati abbandonati a sé stessi; talora, come si è detto, quello delle vittime dei loro deliri, come l’innocente bambino di Pisa); oppure può essere il ricordo di malati e infermieri incontrati durante i quasi quarant’anni trascorsi come psichiatra a Maggiano/Magliano: storie sempre contrassegnate dalla ricerca di un dialogo con il malato, nel rispetto della sua persona, nel riconoscimento della sua umanità, per quanto avvolta nelle nebbie del delirio o confusa nella voce disarticolata o stonata della malattia. Al rapporto vero, per quanto dolente, che si stabilisce tra medico e malato, Tobino contrappone invece la fredda semplificazione dei “novatori”, che nel momento stesso in cui proclamano la necessità di rispettare il malato, ne annullerebbero l’individualità (e quindi la possibilità di una reale interazione), appellandosi a slogan, a principi generali, che trasformano il rapporto con il singolo malato in una procedura in realtà standardizzata e spersonalizzata.
Procedure che si esplicitano nell’adozione di un vero e proprio «gergo», che Tobino trascrive con un corsivo al quale affida il distanziamento ironico (smantellamento; istituzionalizzazione; territorio; settore; inserimento nella società): parole che egli denuncia come scorciatoie del pensiero, come la tipica semplificazione sloganistica attraverso la quale l’astrattezza e l’ideologia si alimentano, esimendosi dalla fatica di pensare criticamente. Una polemica radicale, dunque, che mentre coglieva alcuni limiti obbiettivi della riforma (sostituiva una realtà senza allestire, in tutto il territorio nazionale, efficaci alternative immediate), ne deprimeva le istanze più significative liquidandola semplicisticamente come Moda e Demagogia; di fatto cogliendo nella riforma psichiatrica l’espressione particolare di una più generale euforia libertaria che colpisce indiscriminatamente ogni forma di «sapere» e ogni senso del limite a desideri e volontà dei singoli («si è gridato che tutto è permesso»).
Tra i fattori circostanziati della polemica va annoverato anche il «riassuntino» sulle vicende della psichiatria negli ultimi anni. Osserva Tobino che in realtà è la scoperta degli psicofarmaci (nel 1952) che segna la vera svolta, quando gli aspetti più violenti e deliranti della malattia hanno cominciato a poter essere controllati e attutiti. L’umanizzazione del rapporto medico/malato è dunque un dato che precede le posizioni degli antipsichiatri e dei ‘basagliani’, che avrebbero innestato su una situazione di costante miglioramento (il vero «periodo d’oro» della psichiatria) un insieme di posizioni puramente astratte.
Alda Merini
Concludiamo il nostro percorso di letture con due testi della poetessa Alda Merini (1931-2009), che del manicomio ebbe diretta esperienza proprio negli anni cruciali della nuova psichiatria, tra gli anni Sessanta e l’applicazione della legge 180 del 1978.
Alda Merini, milanese, aveva esordito poco più che ventenne con il la raccolta La Presenza di Orfeo (1953), che non passò inosservata alla critica (il libro fu tra l’altro recensito da Pasolini), cui seguirono altre tre raccolte poetiche (l’ultima, Tu sei Pietro, è del 1962). Nell’ottobre 1965 – dopo una lite violenta con il marito, che chiese l’intervento delle autorità sanitarie - fu internata nell’ospedale psichiatrico milanese “Paolo Pini” con una diagnosi di schizofrenia. Rimase nell’ospedale quasi ininterrottamente fino al 1974, per essere poi più volte ricoverate tra il 1974 e il 1979, finchè, in applicazione alla legge 180, fu definitivamente dimessa.
All’esperienza manicomiale si richiama la raccolta più nota e meglio riuscita della Merini, La Terra Santa (1984); nonché una delle poche opere in prosa della poetessa, L’altra verità. Diario di una diversa (1986), memoriale della propria esperienza di internata nell’ospedale psichiatrico.
Riportiamo la poesia La Terra Santa, dall’omonima raccolta del 1984; nonché un brano tratto da L’altra verità. I due testi, come si chiarirà nella lettura, sono strettamente legati: il brano del Diario in qualche misura spiega (ma meglio sarebbe dire: ‘suggerisce’) il senso della simbologia sacra che caratterizza la poesia della raccolta del 1984.
T 7 – Alda Merini, La Terra Santa
La Terra santa comprende 40 testi, in genere piuttosto brevi. La lirica n° 26 della raccolta è eponima (è cioè quella che assegna il titolo all’intera raccolta).
L’allusione ai luoghi santi del Cristo e del popolo ebraico introduce a una lirica intessuta di richiami biblici e cristologici, che sono del resto ricorrenti in tutta la raccolta. Anche se non mancano allusioni precise alla realtà manicomiale e ai trattamenti cui erano sottoposti i degenti (si veda ad esempio il verso 23: «ci facevano gli elettroshock»), nella raccolta La Terra Santa troviamo una poesia dai tratti spesso visionari, e costruita su una rete di metafore ricorrenti, che si ispirano alla tradizione letteraria (l’amato Inferno di Dante, in particolare), ma prevalentemente ai testi biblici e alla dimensione mistico-religiosa. Nel sistema metaforico della Terra Santa la condizione dell’internato è quella della vittima sacrificale, del capro espiatorio sul quale, nelle antiche società, la comunità faceva ricadere, esorcizzandolo, il furore degli dei. Di qui il passaggio all’esplicita identificazione tra la condizione di se stessa (degente/internata/vittima), con la figura del Cristo, agnello sacrificale che assume su di se le colpe dell’umanità, redimendole. Ed è, questa, la reinterpretazione poetica e suggestiva di uno spirito di denuncia che – come abbiamo visto – ha caratterizzato negli anni Sessanta e Settanta la riflessione socio-antropologica sulla condizione del folle e l’istituzione del manicomio: luogo in cui la società dei normali esorcizza le proprie ansie e le proprie paure, allontanando da sé il ‘diverso’, l’anormale, il deviante dalle regole dominanti.
Link 7 – La Terra Santa (vedi allegato)
Analisi
La poesia si apre e si chiude con un richiamo a Gerico («riguardo stupita / le mura di Gerico antica», vv. 32-33), la città a Nord del Mar Morto che, secondo il racconto biblico, fu conquista e distrutta da Giosuè. Gerico è il manicomio stesso («le mura del manicomio / erano le mura di Gerico», vv. 3-4), attraverso una metafora mediata proprio dal racconto biblico della conquista della città, cinta di mura inespugnabili che crollarono miracolosamente quando gli Ebrei, dopo avere fatto una processione attorno alla città, suonarono le loro trombe. Il Manicomio/Gerico è insomma il luogo cinto da mura invalicabili che improvvisamente si apre (come crollarono le mura del manicomio dopo la legge 180), a segnare una rinascita (la «resurrezione» del v. 29; e si veda l’accenno alla resurrezione di Cristo ai vv. 26-27: «da dentro l’avello / anch’io mi sono ridestata»); ma anche suggerisce un richiamo alla poesia che ritorna, dopo il lungo silenzio del manicomio (e alla poesia allude il richiamo implicito alle trombe che, secondo il racconto biblico, fecero crollare le mura di Gerico).
Se l’uscita dal manicomio segna un’esperienza di rinascita, essa conserva però tratti di dolorosa ambiguità. L’identificazione con la resurrezione del figlio di Dio (che redime l’intera umanità: vv. 26 e ss.) non segna una nuova redenzione e la conquista della salvezza: la redenzione della poetessa non coincide infatti con una nuova beatitudine, ma con un nuovo calvario di pena e di sofferenza («ma non sono salita ai cieli / sono discesa all’inferno», vv. 30-31).
I richiami ai simboli della redenzione cristiana (che è soprattutto l’affermazione della dignità dell’uomo, liberato dal peccato originale) attraversano del resto l’intera poesia, ma la sacralità trascendente della liberazione dell’uomo convive con le immagini di una materialità infima: così, la purificazione simbolica del battesimo è associata all’acqua infetta («e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti» - vv. 5-6).
Altre immagini rimandano alla condizione infelice di costrizione e di violenza cui è sottoposto il malato, privato della sua dignità umana. Si veda il richiamo diretto all’elettroshock, usato per ottundere le espressioni vitali e più energiche degli istinti e delle emozioni dei malati (come il desiderio erotico, negato ai degenti: «quando amavamo / ci facevano gli elettroshock / perché, dicevano, un pazzo / non può amare nessuno», vv. 22-25). O si veda il riferimento al lavaggio forzato del malato (ricordato nel Diario di una diversa come uno dei momenti più insopportabili del manicomio: come nel passo riportato alla nota 3), che viene qui associato a immagini mortuarie: «lavati e sepolti» (v. 20), come avviene con il lavaggio rituale del defunto e profumati «di incenso» (v. 21), con richiamo all’incenso impiegato nelle chiese nel rito funebre.
T 8 – da Alda Merini, L’altra verità. Diario di una diversa
Il Diario di una diversa ripercorre la storia manicomiale di Alda Merini, dal suo internamento, nell’ottobre del 1965, fino alla definitiva dimissione. Non è un ‘diario’ disposto lungo una linea cronologica ordinata. E’ inoltre un testo caratterizzato da pagine molto diversificate per tematiche e scritture: giudizi ‘tecnici’ sulla realtà manicomiale (animato da un vero e proprio spirito di denuncia), in cui l’istituzione e la malattia mentale sono analizzate da uno sguardo analitico, consapevole e razionale, si alternano a veri e propri slarghi lirici, o a pagine in cui la ‘verità’ della malattia e della condizione degente è affidata a sottili suggestioni analogiche.
È il caso della pagina di cui si propone qui la lettura, da leggere in parallelo alla poesia La Terra Santa (T 7). È una pagina intensa, in cui l’analisi cede il posto a un gioco di immagini che prendono spunto proprio dalla metafora (‘Terra santa’) con cui la Merini ha designato il manicomio, e che ha adottato come titolo della sua raccolta maggiore.
Link 8 – da L’altra verità (Il martirio e l’estasi) (vedi allegato)
Analisi
La pagina illustra il senso del titolo dato dalla poetessa alla sua più importante raccolta. Il discorso non procede tuttavia attraverso passaggi razionalmente articolati, ma è fatto di improvvisi passaggi, impennate di senso, imprevedibili suggestioni metaforiche.
La ragione della metafora manicomio/Terra Santa poggia su due punti principali:
1. Nel manicomio non ‘si commetteva peccato alcuno’. Vuol dire che, privato della libertà personale e persino della ‘proprietà’ reale del proprio mondo interiore (attutito e addormentato dagli psicofarmaci) il degente vive una condizione di quasi infantile innocenza, che esclude la possibilità stessa di fare il male (che presuppone il libero arbitrio e la vertigine della scelta).
2. La sofferenza estrema del malato – privato della stessa condizione umana, trasformato in oggetto senza dignità e diritti – è martirio. Ma nell’ottica del misticismo, che prevede la liberazione della corporeità e dalla terrestrità per accedere a una dimensione trascendente, il martirio diventa una forma di purificazione, e appunto di estasi (che, etimologicamente, indica l’uscita dal sé [dal greco ex-stasis]).
Motivi trascendentali che veicolano una serie di immagini che rimandano alla tradizione mistica, cristiana e precristiana. È il caso dell’io disincarnato, che allude alla dimensione estatica della liberazione dal corpo (‘carcere’ dell’anima – secondo un motivo già presente in Platone). E si pensi al richiamo a Santa Teresina, la mistica Santa Teresa di Lisieux, incrociato con il motivo, già francescano, della rondine (e degli uccelli in genere), simboli dell’abbandono fiducioso alla provvidenza e alla contemplazione del divino.
Un testo, si diceva, costruito su un ordito di metafore vivissime:
- Si veda ad esempio l’effetto degli psicofarmaci (Serenase e Largactil), che invischiano il corpo e l’anima: che traduce in un’immagine icastica (l’invischiarsi è la condizione del volatile che rimane catturato dal materiale appiccicoso delle trappole) l’ottundimento dei muscoli e l’ottenebramento della mente causato dalle medicine. Né meno efficace è la frase «noi venivamo saziati di colpa», che traduce un dato (il moralismo bacchettone che vuole esorcizzare ogni manifestazione della libido del malato) in una immagine di icastica e fisica evidenza.
Immagini talora contrassegnate da una forte violenza espressiva (le strozzature dello spirito; la carneficina del cuore). O intensamente poetiche («la mia bellezza si era inghirlandata di follia»), magari arricchite da preziosi richiami letterari (come l’immagine di Ofelia, dell’Amleto scespiriano, «innamorata del vuoto e del silenzio»).
15 febbraio 2021