Roberta Colombi - Didattica “post-coronial”: distanza e ragioni della formazione

La sfida di una convivenza possibile

 

Arrivo in coda, in ritardo in questo diario di quarantena. Ma provo a dire la mia, col vantaggio di venire dopo. Trovandoci teoricamente già in quella FASE 2, che stenta a prendere fisionomia a livello nazionale per tutte le questioni sollevate dal lockdown, come non sentire il desiderio di condividere riflessioni e preoccupazioni sulla ricaduta che questa situazione avrà nel mondo dell’università e della formazione in generale?

La pianificazione di ciò che accadrà dopo l’intervento emergenziale è nel nostro caso molto delicato e i pericoli paventati da Federico Bertoni in questo diario sono da tener presenti. Il sospetto che si insinua di una progressiva devalorizzazione della nostra presenza, di un uso delle risorse, umane e non, guidato da criteri di ottimizzazione economica spaventa. Chi non è stato sfiorato, nella fase euforica del recupero dei corsi sospesi e degli studenti smarriti, dall’idea che una lezione una volta registrata avrebbe potuto essere ri-utilizzata, oppure, che avere una classe numerosa non avrebbe complicato le cose, come spesso avviene per trovare un’aula capiente libera…. Ma l’università è un luogo dove la formazione avviene attraverso una rete di concause (una rete in questo caso non digitale anche se a dimensioni multiple, per dirla con Gadda) in cui ci sono gli incontri fisici, la conoscenza reciproca, le sollecitazioni e gli scambi che solo un mondo aggregante come quello giovanile può cercare e creare. Tutto questo avviene e continuerà ad avvenire solo in una dimensione relazionale ed emotiva, perché la formazione non può prevedere solo acquisizioni di conoscenze e competenze…. La nostra generazione conosce profondamente il valore dell’esperienza di crescita condivisa vissuta dentro e intorno l’università.

 

Detto questo entro in un dibattito già ampiamente sviluppato da chi mi ha preceduto e non dirò niente di nuovo se non offrire la mia riflessione in margine a questa esperienza didattica che come tutti ho affrontato in gran corsa (sebbene con un menisco rotto a inizio quarantena che pur prevedendo periodo di immobilità e riposo assoluto non è stato ostacolo alla DAD… ma a distanza, in effetti, si può lavorare anche su una gamba o stesa sul divano).

Sono una persona poco sedotta dal mondo dei social network, usati da me con discrezione, dagli e-book, a cui preferisco il formato cartaceo, e una docente che per la didattica ha finora fatto scarsissimo ricorso alle risorse digitali. Questo non per resistenze pregiudiziali ma per attitudine e temperamento più social che net. Nessuna demonizzazione dunque, anzi. Vivo come tutti il mondo della comunicazione digitale e sto godendo delle sue grandi risorse, specie in questo momento in cui oltre alla didattica, tutta la nostra vita, dalle relazioni all’attività fisica, ai colloqui con i medici, si svolgono grazie alle applicazioni di cui disponiamo. Credo fermamente che come sempre il valore o disvalore anche di questi mezzi dipenda dall'intenzione che muove chi li usa. Per fortuna possiamo sempre chiederci perché, a quale scopo ricorriamo ad essi, e fare la nostra scelta.

Detto ciò, mi inserisco in questo diario sulla didattica in quarantena, cercando di superare il paradigma del “dove sto”, che pur semplificando in effetti le posizioni di chi si è pronunciato con la propria testimonianza, sembra sotterraneamente agire.

Sebbene né troppo apocalittiche né troppo integrate, le esperienze raccolte sembrano dividersi tra chi, pur riconoscendo il valore degli strumenti che il mondo digitale offre, difende il valore della presenza, del luogo, dei corpi, delle voci, e chi vuole scrutare a fondo con grande apertura tutte le opportunità che da questa occasione possono svilupparsi.

La mia esperienza, come in molti casi è accaduto, ha visto la fase dello sforzo e del superamento della sfida, la fase dell’adattamento e la stabilizzazione delle nuove modalità, e un’ultima fase, l’attuale, in cui inevitabilmente affiorano per tutti le domande….

Sono una di quelle docenti che preferisce ricevere gli studenti e non dare informazioni via mail, che non usa il PowerPoint per evitare una china semplificatoria allo studio, che non intende rinunciare, finché potrò, agli esami orali, occasione di scambio e di verifica dal vivo di un rapporto formativo, ho bisogno di guardare e sentire chi ho di fronte per stabilire una relazione che valorizzi quanto più possibile l’incoraggiamento all’automiglioramento, perché credo che il nostro compito sia non solo promuovere le eccellenze, ma anche incoraggiare chi cade e rischia di non avanzare.

Naturalmente non potevo che scegliere, per i miei corsi on line, la modalità della lezione in diretta e sfruttare tutti i sistemi per sentire chi c’era di là dello schermo, per avere un feedback quanto mai necessario. La risposta che ho avuto dagli studenti mi ha confermato che queste mie richieste davano soddisfazione in questo momento anche ad un loro bisogno di sentirsi esistere in questa bolla evidentemente temuta delle loro vite recluse. Inoltre la situazione inedita ci ha messo tutti sullo stesso piano, abbiamo fatto esperienza di imparare insieme tante cose e spesso loro hanno insegnato a me, facilitando il mio lavoro per loro. Le iscrizioni raddoppiate ha reso ulteriormente l’esperienza una vera sorpresa, gratificante dal punto di vista umano e reciprocamente virtuosa. Ho avuto la percezione, illusione forse, di rispondere più del passato col mio piccolo impegno ad una responsabilità civile ed etica, costruendo con loro una rete che, se non li salvava dal presente, li poteva aiutare a pensare il futuro, grazie anche e soprattutto allo sguardo con cui la letteratura li sollecita a leggere la realtà di oggi.

Se è esperienza ormai diffusa, credo che l’isolamento e lo stato concentrazionario (dorato spesso delle nostre case) produca comunque l’effetto di metterci sotto gli occhi le criticità delle nostre vite, ciò che nella “normalità” potevamo sfuggire o evitare di guardare, così come i punti di forza, le risorse specifiche di ognuno, analogamente le nuove condizioni in cui stiamo svolgendo il nostro lavoro, ci offrono l’opportunità di guardare ciò che può essere migliorato, i nodi anche qui vengono al pettine… e insieme ai nodi anche le cose belle.

Sicuramente una maggiore disponibilità a sperimentare le potenzialità di una didattica, una ricerca e una editoria digitale (come suggerisce Paola Italia in questo diario) è uno degli effetti più positivi che questo forzato e veloce ricorso alla tecnologia può portare, facendo superare pregiudiziali resistenze, pigrizia intellettuale, e arricchendo le nostre pratiche. Una spinta a utilizzare materiali diversi e forme diverse di comunicazione, ad aumentare le connessioni e le relazioni di scambio tra noi colleghi, ecc. (un piccolo esempio: lo straordinario successo di pubblico delle dirette Facebook del ciclo di seminari “Sul contagio” organizzato da Francesco de Cristofaro, a cui so che partecipano studenti di altri Atenei, tra cui i miei).

Certo l’ottimismo può farci immaginare vicino un futuro in cui al posto delle borracce le università offrano (magari a chi ne ha più bisogno) tablet o dispositivi equipollenti per usufruire di una buona DAD, ma non dimentichiamo il paese in cui viviamo e la politica sciagurata degli investimenti fatta finora per l’istruzione e la ricerca.

Personalmente credo dunque che, oltre ad augurarci una didattica che goda della più ampia fruibilità e del buon uso delle risorse digitali, le nuove modalità a distanza possano indurci ad interrogarci e a riflettere sul significato e l’efficacia del nostro modo di fare didattica in presenza.

In questo momento spesso molte delle cose che apparivano scontate vengono riconosciute e apprezzate per il loro valore. Così nel modo di fare lezione. Personalmente sto facendo l’esperienza di apprezzare quello che ora non c’è e che magari in presenza davo per scontato o non gli riconoscevo lo spazio che meritava. La prossimità degli studenti, come è stato detto da molti, i loro sguardi, i loro corpi, il luogo fisico dei nostri incontri e dei loro. 

 

Quel che intendo dire è che la ricerca del contatto, della partecipazione, del confronto, di cui ora più che mai sentiamo la mancanza e l’importanza, all’interno di un’idea complessa di formazione, ci può far riflettere su quanto sia necessario, dopo questa esperienza, cercare con maggiore consapevolezza e determinazione una dimensione dialogante in cui si riducano ancor più le distanze. Questo se vogliamo credere nella buona pratica di una relazione formativa dove al centro c’è lo studente e la sua crescita in senso lato.

Torneremo a fare lezione in aula, come tutti vogliamo, ma forse sarebbe bello tornarci migliori di prima perché abbiamo appreso nella distanza cosa ci interessa di più, cosa crediamo sia più utile e più importante per costruire un rapporto più ricco di valore e bellezza con i giovani a cui il nostro lavoro è rivolto.

Credo dunque che sia più utile uscire fuori dal paradigma della facile contrapposizione tra critici ed entusiasti, e piuttosto che chiederci dove collocarci, pensare invece, ognuno a suo modo, nella sua speciale unicità, facendo i conti con la propria richiesta di senso, di trarre il meglio da tutto ciò.

Condivido lo sguardo critico che ci suggeriscono Bertoni e Di Gesù, e credo che occorra mantenerlo sempre vigile per evitare il rischio di adattarci a volte troppo supinamente ai cambiamenti imposti (da virus, riforme mal concepite, finanziarie, ecc.). Occorre evitare che per la Formazione Pubblica non accada quello che è successo per la Salute Pubblica: laddove ad essa si è sostituito il “business della salute” l’umanità ha perso.

Per evitare che il business della formazione, che da tempo scalda i motori, prevalga occorre ribadire, a volte riscoprire, far scoprire, le ragioni della formazione...

Credo dunque che occorra esercitare con assoluta convinzione e fiducia la nostra forma di resistenza critica soprattutto nelle nostre aule, virtuali o reali che siano, mostrando agli studenti attraverso il dialogo con i testi, e la “riflessione dubitativa” che ne scaturisce (per dirla con Manzoni), come sia essenziale praticare entrambi nella vita e nella società, soprattutto nei tempi confusi “post coronial”, che ci aspettano.

Forse è banale dirlo ma vero, come quello che ricorda Tomasi della nonna: al surrogato bevuto in tempo di guerra meglio il caffè! Dunque facciamo in modo da non dimenticarne l’aroma, anzi di continuare tutti a cercarlo!

P.S.: la definizione post-coronial mi è stata suggerita da un articolo di Concita De Gregorio nel quale così definisce la generazione degli studenti in quarantena (“Repubblica”, 2 aprile 2020, La forza dei ragazzi. La sorpresa di una generazione che brilla nei giorni più oscuri)

 

14 aprile 2020

 

Roberta Colombi

Università Roma Tre