Parto da una piccola sceneggiatura, cinque quadri scanditi da pensieri ed emozioni ambivalenti. Solo una questione privata, senza alcun valore esemplare, vissuta da un periferico punto di vista ma indispensabile per arrivare a una riflessione d’insieme.
Scena prima. In Emilia Romagna, come in Lombardia e in Veneto, scuole e università vengono chiuse già dal 24 febbraio. Sconcerto generale. Quanto durerà? Perché le scuole sì e l’Ikea no? E perché nelle altre regioni tutto continua come prima? Al momento l’ordinanza parla di una settimana. Ma in quei giorni confusi, ancor prima che la misura venga confermata, il mio rettore annuncia che l’Università di Bologna partirà (indicativo futuro) con tutte le lezioni online. Mah, ci diciamo: bravissimi, grande sforzo tecnico e organizzativo. Ma perché non limitarsi a dire, per il momento, che partiremo con la didattica a distanza se la chiusura verrà confermata? Perfino la Statale di Milano, molto più al centro della mischia, usa periodi ipotetici e condizionali. Preveggenza? Informazioni segrete? Complesso dei primi della classe? Poi è andata come è andata.
Scena seconda. Nel giro di due settimane tutti i corsi dell’Ateneo sono attivi, con un formidabile sforzo tecnico e umano: generosità, dedizione, etica pubblica, capacità di adattamento e/o improvvisazione di tanti colleghi sono tra le (poche) cose belle che mi porterò dietro da questo periodo infame, con un ringraziamento speciale agli amici tecnici informatici. Così inizio anch’io, due lezioni filate dalle 9 alle 13: molta fatica e anche un po’ di emozione del principiante, ci voleva la pandemia per farmi sentire di nuovo giovane. Così imposti la voce, declami nel vuoto, ti vedi nello schermo dove non sei esattamente il più bello del reame. Ma a poco a poco funziona, la piattaforma è a prova di idiota informatico, fai anche qualche battuta e ti chiedi se dall’altra parte si mettono a ridere o se invece sbadigliano, scorrono Instagram, cucinano il ragù. Mi pare che ne escano lezioni buone, tra monologhi teorici e analisi del testo (schermo condiviso), e poi lo spazio della chat in cui gli studenti fanno domande in tempo reale, azzardano ipotesi, chiedono precisazioni o consigli su libri e film per la quarantena. Però nei primi giorni non riesco a trattenermi: «mi mancano molto le vostre facce nell’aula».
Scena terza. Dopo alcune settimane sono (quasi) a mio agio, in effetti ci si abitua a tutto. Mi sembra che i ragazzi stiano seguendo. E soprattutto, nella spirale sempre più folle in cui ci stiamo avvitando, ho la sensazione di fare una cosa piccola ma importante: in fondo, con tutto il male che se ne può dire, l’università è una delle poche cose che continuano a funzionare in questo sfacelo. Oltre la radiante freddezza del monitor, la lucina ipnotica della webcam, le notifiche compulsive di sorrisi e cuoricini, sento che gli studenti sono contenti, apprezzano lo sforzo, forse si sentono un po’ meno soli e anche ripescati in qualche modo dentro una comunità. Ma ora calo il sipario su questa scena perché rischio davvero il patetico.
Scena quarta, e il pathos è già del tutto sfumato. I miei sospetti iniziali sono confermati da vari interventi di opinionisti, vertici accademici o giornalisti di Confindustria: ma com’è bello far lezione dal salotto tuo! Quasi quasi andiamo avanti sempre così! E via con gli inni all’innovazione, alle materne braccia della rete che tutto include, alla grande «occasione» che questo virus sciagurato ci offre per svecchiare un po’ quelle mummie dei docenti di ogni ordine e grado. In realtà escono pure interventi polemici o comunque perplessi, intelligenti e problematici, che mostrano le luci ma anche le ombre. Forse è il caso di pensarci, anche se adesso le priorità sono altre e tutti, giustamente, pensiamo soprattutto a non lasciarci la pelle. Ma bisogna pure ricominciare a riflettere al di là dell’emergenza e dei cerchi sempre più asfittici delle nostre esperienze personali. E dunque è ora di chiudere le scene.
Scena quinta e ultima. Siamo agli sgoccioli di marzo e ormai mi sento l’ultimo giapponese: l’unico ad andare ancora in dipartimento per fare lezione, l’autorizzazione del direttore in tasca e il distanziamento sociale garantito: scale e corridoi deserti, server che ronzano, l’eco dei passi che rimbalza sulle volte in uno scenario da brutto film hollywoodiano, quando edifici e oggetti persistono dopo una misteriosa fine del genere umano. Lo faccio perché a casa ho problemi di connessione e un bambino di sei anni in spazi ristretti, ma forse anche per una questione di cui mi rendo conto a poco a poco: in realtà mi mette molto a disagio fare una lezione universitaria da un luogo privato, per di più su una piattaforma proprietaria come Microsoft Teams (ci tornerò). Ma ormai le ragioni di forza maggiore fanno fuori anche l’ultimo giapponese: dalla prossima settimana anch’io farò lezione da casa, senza tante storie, con i rumori domestici e i soprammobili sullo sfondo. Nel frattempo però sento i colleghi con cui abbiamo promosso l’appello Disintossichiamoci. Sapere per il futuro, sottoscritto da circa 1400 firmatari. Decidiamo di scrivere una lettera aperta al Governo, diffusa in questi giorni, in cui chiedere tre cose:
1) Sospendere immediatamente la Vqr;
2) Considerare la didattica a distanza un’opzione eccezionale, strettamente legata all’emergenza;
3) Incentivare in Italia le pratiche di scienza aperta ormai adottate in molti Paesi. È dal secondo punto della lettera, dunque, che riprendo alcune considerazioni generali.
Vado per punti, in modo volutamente schematico.
1) La didattica a distanza, come ho sperimentato sulla mia pelle, è una risorsa preziosissima in tempi calamitosi come quelli che stiamo vivendo. Il senso di impotenza, anzi lo stato di minorità a cui siamo condannati (quote minuscole di decisori politici e di «medici eroi» lavorano per salvarci, mentre la stragrande maggioranza di noi deve stare immobile e inerte per non fare danni: difficile immaginare uno scenario socio-politico peggiore) è almeno in parte compensato dal fatto di agire, fare il lavoro per cui siamo pagati, tessere un filo didattico e umano (anzi una rete) con i nostri studenti dispersi e chiusi in piccole stanze. Eppure, va detto chiaramente all’opinione pubblica e a tutti i vertici istituzionali: questa non è una sperimentazione forzata, ma un’emergenza terribile (e transitoria) che stiamo affrontando al meglio delle nostre forze, con risultati insperati, e forse inspiegabili, che ci rendono soddisfatti e orgogliosi (vedi scena seconda). Preoccupa invece l’opportunismo – e forse anche il cinismo – con cui alcuni attori istituzionali e portatori di interessi privati stanno prendendo posizione sulla didattica a distanza, con una retorica che mescola l’ingenuo panegirico dell’innovazione (buona a prescindere, direbbe Totò, cioè assiologicamente positiva in quanto innovazione, senza una vera riflessione su mezzi e fini) al calcolo mercantile, ossia l’ennesima valorizzazione in termini economici di beni comuni come la scienza e l’istruzione. Spero di sbagliarmi, ma le gesta dell’università neoliberale negli ultimi due decenni mi hanno reso molto sospettoso.
2) È facile prevedere, infatti, che la didattica a distanza possa diventare il nuovo business di quelle corporation tecnocratiche che sono ormai le nostre università. Anche senza cedere a scenari improbabili e distopici, con prestigiosi atenei fondati nel Medioevo trasformati ipso facto in università telematiche, non ci vuole molto a immaginare un doppio canale: da un lato lezioni in presenza riservate a chi potrà arrivare in classe (perché non dovrà lavorare, perché potrà pagarsi un affitto fuori sede, perché gli strumenti culturali ereditati dalla famiglia gli consiglieranno di farlo), e dall’altro corsi online destinati a studenti confinati dietro uno schermo, che pagano ugualmente le tasse ma che non gravano su strutture e costi di gestione. Un business perfetto, benedetto dalla flessibilità del mercato e alimentato dall’esperienza forzosa di questi mesi, che nel frattempo avrà «implementato» infrastrutture, competenze e soprattutto mentalità diffuse. Che tutto questo sia perfettamente conforme alla vittoriosa cecità ideologica che ha governato gli atenei in questi anni, finalizzata in modo più o meno esplicito a scavare il solco delle diseguaglianze sociali, non ha bisogno di dimostrazioni, almeno per me. Quindi benissimo la didattica a distanza, quando serve; nessuna chiusura apocalittica nei confronti di tecnologia e innovazione, ci mancherebbe; traiamo anzi profitto da questi difficili mesi per arricchire e migliorare il modo di insegnare: ma nessuna speculazione sulla nostra pelle e soprattutto su quella dei nostri studenti. Quanto meno, not in my name.
3) C’è anche una questione più strettamente sindacale, che non è una parolaccia (come ormai nelle connotazioni del linguaggio comune) ma la traduzione nella prassi lavorativa di principi sempre più astratti come il diritto, la giustizia, perfino la dignità. Come molti colleghi stanno sperimentando in queste settimane, insegnare a distanza (come fare esami, lauree, discussioni di dottorato ecc.) non è esattamente una sinecura, anche se possiamo farlo in ciabatte dal salotto di casa (non avrei mai pensato che il dipartimento potesse mancarmi tanto…). Anzi, il lavoro è aumentato in modo sensibile, ha pervaso in modo ancora più capillare ogni interstizio del nostro tempo quotidiano, ha richiesto la preparazione di materiali e strumenti integrativi da trasmettere agli studenti tramite le varie piattaforme online (che peraltro molti di noi utilizzavano già da tempo). Le miracolose invenzioni e improvvisazioni di tanti colleghi sono appunto un fatto eccezionale, non una competenza specifica acquisita sul campo, né tempo-lavoro che si possa moltiplicare all’infinito e diramare sulle reti. Sarebbe una fregatura eccessiva perfino per noi, personale docente e tecnico-amministrativo, sopportare quasi interamente i costi del business di cui al punto 2, nonché l’ennesimo banco di prova e ricatto, soprattutto per i precari. Se negli ultimi anni abbiamo visto inesorabilmente aumentare il nostro carico di lavoro e sminuire la dignità a livello pubblico del nostro ruolo innanzitutto formativo senza levare (quasi) protesta, forse sarà il caso di gridare tutti insieme, e anche con i colleghi della scuola: ora basta!
4) C’è anche un aspetto tecnico spesso trascurato, ma niente affatto secondario. Gran parte degli insegnamenti online attivati in queste settimane dalle università pubbliche sono affidati a sistemi proprietari in mano a multinazionali come Google e Microsoft e a datacenter esteri, con scelte certamente giustificabili per l’urgenza ma comunque preoccupanti, non solo perché la funzione didattica maneggia dati sensibili, ma soprattutto perché chi possiede i nostri dati e costruisce il nostro ambiente di lavoro ha anche il potere di determinare le nostre scelte. È una questione enorme che riguarda anche la nostra vita privata, sempre più virtuale, ma che istituzioni pubbliche (fino a prova contraria) come le università dovranno affrontare in modo serio e attento, anche con investimenti specifici per sviluppare piattaforme informatiche basate su software libero, sullo sviluppo di competenze informatiche locali e sulla custodia attenta dei dati di studenti e docenti.
5) L’ultimo punto dovrebbe essere ovvio, ma la confusione del momento e la dittatura del senso comune costringono a specificarlo. Non c’è equivalenza possibile tra presenza e distanza. Non voglio invocare le ragioni dell’ontologia, qui probabilmente fuori luogo, ma nessun docente che abbia coscienza del suo mestiere potrebbe barattare le facce degli studenti in classe con il rettangolo luminoso di un monitor, a meno che qualche particolare profitto o convenienza lo spingano a farlo (e qui penso ai professionisti, forse ben felici all’idea di non mettere più piede in università e di fare lezione direttamente dai loro studi privati, tra un appuntamento e l’altro dei clienti…). Ripeto, nessuna ontologia o legge di natura, ma un dato storico-culturale consolidato dal tempo e dall’esperienza: la teledidattica, utilissima in condizioni di emergenza, non potrà né dovrà sostituire l’insegnamento basato sull’interazione faccia a faccia e l’idea stessa di universitas in quanto luogo fisico e umano, luogo politico di incontro, dialogo e anche conflitto, dove corpi e soggetti in carne e ossa non si limitano a trasferire competenze ma mettono a confronto idee, modelli di sapere e visioni del mondo. Poi, certo, il mondo universitario è complesso e frastagliato, solcato da mille differenze e articolazioni a seconda dei contesti, delle aree disciplinari e delle specificità metodologiche, ma sarà importante non deflettere da alcuni principi basilari (in primo luogo politici) che fondano l’idea stessa del sapere, della cultura e dell’insegnamento, a partire dal fatto che la didattica in presenza deve rimanere la norma e non diventare un privilegio. In termini operativi si potranno anche adottare soluzioni differenziate, valorizzando la tecnologia senza anatemi o chiusure preventive, ma quello che dobbiamo chiedere al sistema di governo dell’università è un coinvolgimento ampio e partecipato di tutta la comunità, rifiutando le decisioni opache e verticistiche a cui purtroppo ci siamo abituati. Il rischio è che le cose migliori della nostra università, ancora vive nonostante tutto, vengano travolte da un trauma storico dopo il quale, si dice, «nulla sarà come prima». Ma quando c’è una crisi, ci insegna la storia, la direzione del cambiamento dipende anche e soprattutto da noi.
30 marzo 2020
Federico Bertoni
Università di Bologna