Matteo Di Gesù - L’Università pubblica e la didattica alla “giusta” distanza

Ho trascorso l’intera mattinata di sabato 28 marzo a smanettare su Microsoft Forms, un applicativo della suite di Office 365 alla quale è abbinata anche Microsoft Teams, la piattaforma sulla quale, dal 9 marzo scorso, si è di fatto trasferito l’Ateneo di Palermo, nel quale lavoro: la didattica, certo (lezioni curriculari, lauree, seminari, ricevimento studenti…) ma anche l’attività cosiddetta gestionale (riunioni di commissione) e le adunanze degli organi collegiali (senato accademico, consiglio di amministrazione, consigli di dipartimento e di corso di studio). Mi sono inoltrato avventurosamente nella lussuriosa foresta virtuale di Office 365 perché volevo trovare una modalità di svolgimento dei miei esami dell’appello di aprile non troppo differente da quella prevista prima dell’emergenza e attuata fino alla sessione di gennaio-febbraio. L’appello di aprile è rivolto, ovviamente, agli studenti che hanno seguito l’insegnamento che ho tenuto al primo semestre (Letteratura italiana II per la triennale del CdS di Lettere) e non a quelli del corso di magistrale che sto attualmente svolgendo al secondo. Come consuetudine, l’esame avrebbe dovuto prevedere una prova scritta con sei domande a risposta aperta (almeno due delle quali rimandano a un testo da riconoscere, descrivere e commentare brevemente), oltre a una parte orale. Temevo di dovere ripiegare su moduli di questionari “vero o falso” o a risposta multipla, ma invece l’applicativo, pur richiedendo un ulteriore piccolo sforzo, mi consente di elaborare una prova pressoché identica a quella che ero solito preparare e che avrei assegnato anche in questa sessione. Naturalmente dovrò calibrarla per la modalità “a distanza”, semplificando un minimo le domande e stabilendo la lunghezza massima delle risposte (comunque abbondante), prevedendo e fissando un tempo di svolgimento dell’elaborato più breve del solito, anche per scoraggiare la tentazione di scopiazzare grossolanamente (il più grave motivo di angoscia di alcuni colleghi in queste ore); anche in questo caso, per fortuna, il programma mi viene in soccorso, fornendomi svariate possibilità di tarare la prova al meglio. Pare possa funzionare. Eureka! facciamo perfino la prova scritta!

Mi sono dilungato così diffusamente nella descrizione - noiosa, me ne rendo conto: spero non troppo - dell’uso di uno strumento informatico destinato alla nostra didattica perché mi ha offerto lo spunto per formulare qualche altra considerazione. Anche per la prova d’esame ho cercato di mettere in atto quanto sto provando a sperimentare per le lezioni (come del resto la gran parte dei miei colleghi), facendo in modo che la didattica a distanza sia, per quanto possibile, quello che ritengo debba essere: una supplenza, un surrogato di quanto avrei fatto in presenza. Lezioni dal vivo e non registrate, dunque, tutte le volte che posso, consentendo in questo modo una interazione in tempo reale con gli studenti (in video, in voce o anche solo in chat durante la lezione) e, come ho scritto, un esame che non si discosti troppo da quello che le studentesse e gli studenti avrebbero svolto in condizioni di normalità: una prova scritta e, alcuni giorni dopo, per coloro che avranno superato la prova, un orale in “presenza remota”, per così dire, e la conseguente verbalizzazione. Naturalmente adeguo non poco l’articolazione della mia lezione alla modalità “a distanza” alla quale siamo costretti e sfrutto come posso le opportunità della piattaforma. Come per la prova scritta, anche per le lezioni la tecnologia mi soccorre: alterno blocchi di lezione “frontale” a momenti di discussione in chat, a telecamera disattivata; carico per ogni lezione i materiali che ci serviranno per quella lezione, così da renderli immediatamente disponibili, scaricabili o visibili; preparo spesso qualche attività inerente alle opere di cui trattiamo, per consentire alle studentesse e agli studenti di intervenire attivamente sui testi e sugli autori che andiamo studiando, anche a lezione conclusa, anche allo scopo di alleggerire la noia di sorbirsi per due ore di fila un faccione che parla da uno schermo, che magari, per alcuni studenti, è quello di un telefono cellulare. Insomma: anche durante quarantena, grazie alla tecnologia, ogni cosa sembra funzionare per il meglio. Tocca sgobbare, certo, ma posso essere orgoglioso di poter contribuire a fare andare avanti -neanche troppo male, tutto sommato- i corsi, la didattica, l’Università pubblica statale.

Eppure, la mattina di sabato 28 marzo, un rovello ha cominciato a insinuarsi. E dire che trascorrere quelle ore a imparare a utilizzare un applicativo mai maneggiato fino a quel momento era stata un’attività tutto sommato piacevole e quasi divertente. Se non altro rispetto alle ore del pomeriggio precedente, trascorse, insieme ai miei colleghi della commissione AQ ricerca di dipartimento con i quali ero in riunione (sempre in collegamento su Teams, ovviamente), a compilare qualche altro quadro della relazione di riesame della ricerca: il mio Ateneo, infatti, in osservanza alle direttive dell’ANVUR, nemmeno durante l’emergenza per il covid-19, ha considerato di derogare al monitoraggio dettagliato dell’attività scientifica dei dipartimenti, settore per settore, nonché alla compilazione della relazione, anche e soprattutto in vista dell’imminente tornata della VQR, le cui procedure sono demandate appunto alla commissione AQ di dipartimento. Già, perché il direttivo ANVUR, proprio un paio di giorni prima della nostra riunione, trasmetteva il nuovo crono-programma: giusto una proroga dei tempi del “conferimento” dei prodotti della ricerca, ma, quanto al resto, nessuno sgarro: la VQR si farà comunque.

Così, quella mattina, dicevo, mentre proseguiva il mio allegro apprendistato digitale per diventare un docente smart, inframezzato da qualche scambio in chat con i colleghi dell’AQ (una coda delle nostre discussioni del giorno prima, suscitate dall’irragionevolezza di questa decisione e dalla sgradevole certezza che quanto stessimo facendo avesse poco o nessun senso) il rovello, insinuatosi, ha cominciato a tormentarmi, fino a compromettere la serenità apparente che stava accompagnando il mio lavoro. Esiste un’Università fatta di docenti, amministrativi, tecnici, che, senza alcun clamore, sta lavorando con uno spirito di servizio esemplare, coerente con un’idea condivisa di universitas pubblica, qualificata, aperta e accessibile. Ma esiste altresì l’Università della valutazione permanente, della competizione selettiva e della selezione escludente, della sussunzione delle più brutali logiche dell’economia di mercato e dell’asservimento remissivo a queste stesse logiche, dell’ideologia del merito e della burocratizzazione punitiva, sostenuta da una campagna ormai ventennale fatta di retorica, luoghi comuni e cattiva informazione. Esiste un’Università che, nel pieno di una spaventosa pandemia, mentre il paese si accinge ad affrontare la più grave crisi economica della propria storia recente, ritiene irrinunciabile non sospendere (come è già accaduto in Francia e perfino in Gran Bretagna), o quanto meno semplificare o differire, le procedure di Valutazione della Qualità della Ricerca (e poco importa se, formalmente, demandi il compito a una agenzia delegata) e conseguentemente di destinarvi le risorse pubbliche, tutt’altro che irrisorie, che essa richiede.

Il rovello, dunque, ha fatto il suo lavoro e mi ha indotto a ripensare a quanto sto, stiamo facendo dalla prospettiva di questa Università neoliberista (perdonate se uso questa formula triviale: è giusto per capirci), tanto che i presupposti e le finalità di quanto stavo, stiamo facendo con scrupolo e dedizione mi sono apparsi rovesciati. Questa rapida, faticosa e autonoma estensione delle nostre competenze sulla didattica a distanza è di fatto, nella logica di questa concezione privatistica dell’istruzione superiore, una ulteriore estrazione di valore dal nostro lavoro, che non sappiamo ancora come potrà essere capitalizzato, ma che potrà essere investito per mettere in atto nuove politiche restrittive e selettive. Nessuno ci garantisce che, quando l’emergenza sarà terminata, le lezioni da remoto torneranno utili per altri piani di contrazione al personale docente e amministrativo e a lesinare ulteriori risorse per le strutture (aule, laboratori, attrezzature): basteranno pacchetti di corsi registrati, da caricare sulle piattaforme e da rendere accessibili (acquistabili) da una platea indifferenziata di studenti (clienti), ed ecco che il reclutamento e gli investimenti potranno essere ulteriormente ridotti mettendo a rendita la d.a.d. Ma, a proposito di “distanza”, sempre guardando quello che sta accadendo dal punto di vista dell’Università neoliberista, mi è saltato agli occhi un dettaglio evidente, fino ad ora colpevolmente trascurato: i mezzi e i canali per colmare questa distanza sono privati (appartengono alle corporation informatiche e telefoniche) e rispondono a logiche di mercato; a ben guardare perfino questa distanza stessa, questo spazio virtuale (e materiale) è già, di fatto, privatizzato. L’Università pubblica, di conseguenza, non solo è un cliente munifico di queste multinazionali, ma anche una sorta di gigantesco agente di commercio al loro servizio, essendo un ente che dispone di una enorme platea di utenti da consegnare a chi gli strumenti per colmare questa “distanza”, molto semplicemente, li detiene e li mette in vendita. Corollario di questa logica di predazione degli strumenti pubblici di accesso al sapere, evidentemente, è il non tenere in alcun conto di quel divario digitale che, a causa della disparità di mezzi e di accesso alle reti di connessione veloce, determina già in partenza una selezione brutale tra chi può e potrà fruire con agio della didattica a distanza e chi dovrà arrangiarsi o rinunciare. La d.a.d. abbandona lo studente privo di mezzi alla propria condizione di partenza, a dispetto di quanto è sancito nella Costituzione: lo inchioda là, proprio nel luogo dal quale auspicava di muoversi e gli intima di restare dov’è e per giunta di dotarsi, per conto suo, degli strumenti per collegarsi da remoto; e se non può permetterselo, peggio per lui. In effetti, ho pensato mentre il rovello completava il suo compito, tutto quello che ho appena imparato rischia di essere del tutto funzionale a quanto l’Università neoliberista potrebbe apparecchiare: progressiva rinuncia a una nozione complessa e critica delle conoscenze e del loro insegnamento, a favore di una parcellizzazione dei saperi, da destinare e condividere non più con una comunità di studenti, ma da “rilasciare” a discenti atomizzati e da restituire magari a risposta multipla, proprio con quell’applicativo, Forms, che ho appena imparato a usare, o con qualsivoglia altra risorsa informatica utile all’occorrenza.

Il rovello, trascorsa la mattinata di sabato 28 marzo, finalmente ha cessato di tormentarmi. Ho preparato una bozza di prova da testare e, il lunedì successivo, ho ricominciato le lezioni con il solito piglio, con la solita voglia. Ho continuato a lavorare per l’Università pubblica, qualificata, aperta e accessibile, come migliaia di altri colleghi. E voglio continuare a farlo.

 

2 aprile 2020

 

Matteo Di Gesù

Università di Palermo