Eva Zandonà - Pavese e Leopardi: una proposta di percorso

Per un’indagine sulle ascendenze leopardiane nelle poesie di Lavorare stanca

 

Sommario

 

 I.    Leopardi: un modello intellettuale ed esistenziale per il Pavese «lettore creativo»

II.    Il leit-motiv della rimembranza come polo attrattivo delle tessere leopardiane nelle poesie di Lavorare stanca

III.   Comuni visioni dell’esistenza: le categorie concettuali leopardiane sottese ai versi

 

 

 I.   Leopardi: un modello intellettuale ed esistenziale per il Pavese «lettore creativo»

 

Nell’estate successiva al superamento dell’esame di maturità, un giovane Cesare Pavese, che aveva appena brillantemente concluso il liceo infiammato da un devoto e appassionatissimo studio della letteratura, scrive al suo stimato professore di italiano e latino, Augusto Monti. Nel raccontargli le sue occupazioni quotidiane estive, si preoccupa di giurare «che non imita ora il Machiavelli»; ma alla fine, non riesce a trattenere la confessione di essere in realtà «abbagliato dai grandi nomi» e «infunghito sui libri», sbilanciandosi con affermazioni della seguente portata: «Ma alla fine, se lo debbo dire, io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri. […] Creda che ce ne sono certi nei miei scaffali che solo a guardarli mi corre un brivido di entusiasmo lungo la schiena»[1]. È facile dunque immaginarlo non così dissimile proprio da quel Machiavelli che, nella celebre lettera al Vettori, racconta di recarsi nel suo scrittoio la sera, «nelle antique corti degli antichi uomini» a pascersi del cibo «che solum è mio, et che io nacqui per lui». Si tratta di quella dimensione della lettura che si configura come intimo dialogo con i grandi autori, e che assume i tratti di una sorta di straordinaria «rievocazione negromantica», ricorrendo alla suggestiva espressione di Lina Bolzoni, nel suo saggio incentrato sulla lettura come atto creativo[2]. A tal proposito, si potrebbe ricondurre Cesare Pavese all’ultima tipologia di lettore creativo che Bolzoni individua in un paragrafo del suo saggio intitolato eloquentemente Appropriazione:

 

L’ultimo tipo di lettore […] è per certi aspetti il più radicale: nell’interpretazione va alla ricerca di sé stesso e rimodella il testo così da trasformarlo in uno specchio in cui proiettare, e insieme costruire, la propria immagine[3].

 

L’ipotesi di poter porre Pavese sotto il segno dell’‘appropriazione’ viene legittimata dal modus operandi che lo contraddistinguerà poi per tutta la vita e, in modo particolare, nel volto di lettore e critico che ne emerge da Il mestiere di vivere.  Un metodo ri-creativo, di collazione di pregresse letture e fonti, che ancora una volta trova qualche relazione di somiglianza in quella precisa modalità di lettura della quale Alberto Manguel individua in Petrarca il precursore:

 

[...] è una nuova maniera di leggere: non usare il libro come un sostegno per pensare, né affidarsi ad esso come ci si affiderebbe all’autorità di un saggio, ma prendere da esso un’idea, una frase, un’immagine, collegandole ad altre prese da un altro testo ricordato, unendo insieme il tutto con riflessioni proprie […][4].

 

Ciò trova conferma in una celebre riflessione che Pavese stesso fa a proposito della lettura:

 

Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri da noi già pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra - che già viviamo - e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi[5].

 

Anche il giovane Pavese, proprio come quel Leopardi che scriveva fervidamente all’amico Pietro Giordani «Nondimeno Ella può esser certa che se io vivrò, vivrò alle Lettere; perché ad altro non voglio né potrei vivere»[6], è «librorum avidum»[7] e si entusiasma trepidante al cospetto delle grandi opere che si attinge a studiare, amare, interiorizzare, poiché se la vita trova senso e valore soltanto se interamente votata alla letteratura, è possibile a sua volta assurgere quest’ultima a norma di vita, a efficace bussola per la dimensione esistenziale, in un rapporto eternamente scambievole. Egli tende ad attingere alla materia letteraria come a una sorta di serbatoio, estraendo le sue fonti e appropriandosene in un percorso dal taglio del tutto soggettivo, che accoglie indistintamente tutto quanto giudica come conforme alla sua vitale ricerca in sé stesso, al punto che risulta arduo discernere i diversi materiali che adopera:

 

[…] al testo citato vengono sottratte la sua autonomia e alterità, sempre subordinate ad un’intenzione dominante che ormai da tempo ha imparato ad annullare ogni distinzione tra riflessioni di carattere personale e problemi di critica letteraria, e mediante cui la letteratura è in grado di farsi, senza fratture e passaggi, norma di vita[8].

 

A fronte della crucialità di questa espressione, il «farsi della letteratura norma di vita», si comprende allora come il conferimento di uno straordinario e onnipervasivo valore assegnato da Pavese alla letteratura, al punto da farla intersecare inscindibilmente con la sua vita, sia la premessa necessaria a una più profonda comprensione di quanto Leopardi possa aver rappresentato un modello sul piano esistenziale, prima ancora che sul piano della scrittura, per Pavese. Come acutamente constata Michela Rusi,

 

Ciò che deve aver attratto lo scrittore e gli deve aver fatto sentire Leopardi come proprio antecedente è l’intreccio indissolubile di pensiero - quanto la tradizione critica ha definito come la «filosofia» leopardiana - e scrittura, ma soprattutto quella chiarezza di idee scontate in primo luogo sulla propria carne che rende Leopardi, come poi Pavese, «la prima vittima delle sue scoperte intellettuali»[9].

 

Per quanto ellittico e occultato, il rapporto interlocutorio con Leopardi è una presenza sotterranea che lo accompagna dagli esordi poetici giovanili alle ultime raccolte. Questo contatto rientra nell’eterogeneo fenomeno del ‘leopardismo’ tra Otto e Novecento, quale è stato esaminato da Gilberto Lonardi[10]. Come afferma il critico, l’assenso non è mancato quasi mai a Leopardi nell’epoca immediatamente a lui successiva, con una eterogeneità e poliedricità di approcci motivate dal fatto che l’interazione con il grande scrittore si configura come un’avventura a titolo personale, che vede perlopiù coinvolto un solo versante del così vasto e sfaccettato apporto di Leopardi, che com’è noto spazia dall’ambito filosofico, a quello poetico, al linguistico-filologico. Da tener presente, puntualizza Lonardi, il ruolo in questo quadro dell’aura mitica promanata dal Leopardi-personaggio, di cui anche Pavese subisce il fascino, come quando si accosta ancora ragazzo all’epistolario leopardiano.

Cesare Pavese, infatti, si ritrova a leggere l’epistolario di Leopardi in giovane età, secondo quanto desume Michela Rusi nel suo articolo Postille pavesiane all’«Epistolario» di Leopardi[11], nel quale la studiosa si è occupata di analizzare le note che Pavese ha appuntato alla lettura attenta della prima edizione delle lettere leopardiane. Le annotazioni a matita nera del Pavese giovane studioso rivelano un approccio alla materia leopardiana che si configura come a tratti concorde e a tratti, invece, fortemente ironico e riduttivo, da «lettore novecentesco distaccato e superiore»[12], con quel medesimo duplice atteggiamento che può essere facilmente rintracciato anche ne Il mestiere di vivere. Dalle annotazioni traspare l’impressione che l’attenzione di Pavese sia principalmente orientata verso due direzioni: la lingua del testo e il Leopardi personaggio. Il primo aspetto è coerente con il volto del Pavese che diventerà poi scrupoloso filologo e linguista, sempre affascinato dallo slang e impegnato a inseguire quella che definisce «una nuova vivacità (leopardian. naturalezza[13] della lingua.  Le espressioni, i modi di dire insoliti che sollecitano la sua curiosità vengono infatti da lui sottolineati e ritrascritti a margine del testo, con il diligente intento di porli ulteriormente in risalto. Vale la pena citare, tra questi casi, il modo in cui Pavese ritrascrive nel margine superiore di una pagina il verbo «!Radicarsi!», racchiudendolo tra due punti esclamativi: evidentemente, sente l’esigenza di estrapolare la parola dal testo per isolarla e caricarla di un significato tutto personale ed esistenziale. Un dettaglio estremamente rilevante, poiché connesso con il secondo oggetto dell’attenzione di Pavese nell’ epistolario: il Leopardi personaggio. Pavese fin dalla giovane età è incuriosito dal mito di Leopardi poiché lo avverte come un modello umano a lui affine; e anche una volta superata la fase imitativa della prima esperienza poetica, raramente la meditazione leopardiana costituirà per lui un mero spunto tematico, ma continuerà a fornirgli le categorie concettuali sulle quali poggiare le proprie considerazioni intorno all’infanzia, al ricordo, al piacere, all’esistenza come travaglio, al nulla. E le vestigia di riflessioni di tale portata non potevano che essere raccolte e riverberate anche nella poesia, la lingua naturale di Pavese, il suo primordiale mezzo comunicativo, poiché non bisogna dimenticare che egli nasce, innanzitutto, come poeta[14].

 

II.   Il leit-motiv della rimembranza come polo attrattivo delle tessere leopardiane nelle poesie di Lavorare stanca

 

La silloge Lavorare stanca si presenta come l’esito del drastico gesto di distacco da parte di Cesare Pavese nei confronti della tradizione e dei valori letterari dominanti nella cultura ufficiale del tempo. La raccolta, pubblicata nel 1936, è infatti un «manifesto antiermetico», il documento di una ricerca «programmaticamente rinnovatrice nel quadro della situazione letteraria italiana tra le due guerre»[15]. A questo livello dell’attività poetica pavesiana è stato definitivamente sancito, commenta Lorenzo Mondo, «l’abbandono pressoché subitaneo nei riguardi di autori amati o congeniali per foggiarsi un personalissimo strumento espressivo»[16]. Nonostante ciò, è ancora possibile rilevare, nell’altera facciata dell’isolamento della sua voce poetica, minuscole crepe da cui la tradizione persiste a infiltrarsi, pur senza andare mai a intaccare l’originalità di Lavorare stanca. In questi pertugi gli echi leopardiani paiono insinuarsi con maggior frequenza in quei versi che, in particolar modo, «si sottraggono alle velleità narrative e realistiche», e dunque già «preludono alla dimensione lirica delle ultime composizioni»[17]. Innegabile che alcuni richiami siano, come ha notato Anco Marzio Mutterle, niente più che calchi scolastici ripetuti, senza precisa intenzione allusiva[18]; caso emblematico, la «bambina» che «tornava anche lei col suo fascio d’erba» in Gente che non capisce, lapalissiana imitazione de «La donzelletta» che «vien dalla campagna | in sul calar del sole | col suo fascio dell’erba» de Il sabato del villaggio. Si ritiene in questa sede, tuttavia, che siano diversi i riecheggiamenti che non possono essere ridotti a vuote trasposizioni meccaniche. Alla luce della profonda e consapevole conoscenza di Leopardi che già riaffiora in molteplici passaggi de Il mestiere di vivere, i numerosi rimandi che pertengono alla sfera della poetica della rimembranza in particolare testimoniano che l’approccio alla materia lirica leopardiana non può essere soltanto superficiale, ma che costituisce piuttosto l’esito di un’elaborazione dell’apporto ideologico e filosofico di Leopardi avvenuta a livelli così profondi da essere stata interiorizzata da Pavese, e in secondo luogo declinata sul piano poetico in maniera attiva.

 

In un componimento come Mania di solitudine, ove ricorre il motivo della finestra come medium tra mondo esterno e soggetto, il poeta contempla da un ambiente d’interno gli elementi situati al di fuori ed è stimolato all’atto immaginativo:

 

Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.

Nella stanza è già buio e si guarda nel cielo.

A uscir fuori, le vie tranquille conducono

dopo un poco, in aperta campagna.

Mangio e guardo nel cielo - chi sa quante donne

stan mangiando a quest’ora - il mio corpo è tranquillo;

il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.

 

Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare

sulla larga pianura la terra. […]

Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine

qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.

[…]

 

Allegato: Mania di solitudine_La sera del dì di festa

 

Nel suo saggio La finestra socchiusa, Bruno Basile conduce un’accurata indagine sulla ricorrenza dell’immagine della finestra in una rosa di autori novecenteschi, tra i quali non sorprende figuri anche Pavese. Basile passa in rassegna poesie, racconti, brani tratti da romanzi e saggi dello scrittore, dimostrando quanto questo elemento costituisca effettivamente un motivo non ininfluente della poetica pavesiana. Proprio commentando la lirica Mania di solitudine, Basile osserva il ruolo ricoperto dalla finestra nella specifica situazione ricreata dai versi:

 

La finestra esclude […] il vuoto cosmico, l’infinito della speranza per chiamare una creatura sodale. Il paesaggio delle Langhe si trasforma dunque in femminilità consolatrice, in vita […] che metamorfizza nella donna la percezione sgomenta[19].

 

Pavese torna sul tema della finestra in Stato di grazia, in uno dei rari casi in cui, peraltro, esplicita il nome di Leopardi nella riflessione:

 

So di un uomo che una semplice finestra di scala, spalancata sul cielo vuoto, mette in stato di grazia. Forse ci furono nella sua vita più finestre di scala che in un’altra? Perché di tutte le possibili figure d’infinito, scelse proprio questa? Ognuno è sensibile all’idea d’infinito, e già il Leopardi ne ha chiarito l’operazione, ma perché una finestra [...]?[20]

 

Anche Cesare Pavese effettivamente «postula una relazione finestra-infinito», ma se «in Leopardi la contemplazione delle strutture finite proietta verso orizzonti metafisici, Pavese sembra invece tessere l’elegia della terra, sottolineando un disagio profondo del suo habitat esistenziale», per quanto non manchino casi in cui «in altri testi, lo scrittore ha cercato la vocazione romantica della fuga leopardiana»[21].

 

Michela Rusi, propone inoltre di intravvedere nella riportata poesia Mania di solitudine la medesima situazione della Sera del dì di festa di Leopardi, ma mutata di segno: vengono infatti riproposte l’ambientazione notturna, la serenità del paesaggio, la coscienza da parte del poeta «di una vita che continua a svolgersi nella separatezza delle altre case», ma «laddove nella Sera la tranquillità della natura e della donna si associavano escludendone lo spettatore, in Mania di solitudine esse vengono avvertite come solidali dalla tranquilla padronanza dell’io»[22], un io che gode della sua solitaria autosufficienza e riscontra l’accordo della natura, l’intima comunione con il paesaggio all’esterno:

 

[…]

Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma

Nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.

 

Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,

che l’accettano senza scomporsi: un brusio di silenzio.

[...]

La pianura è un gran scorrere d’acqua tra l’erbe,

una cena di tutte le cose. […]

 

Non importa la notte. Il quadrato di cielo

mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta

si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,

dalle case, diversa. Non basta a se stessa,

e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,

il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.


L’angoscia in cui si dibatte il soggetto de La sera del dì di festa («e qui per terra | mi getto, e grido, e fremo») viene, a giudizio di Michela Rusi[23], in qualche modo captata e raccolta nella poesia di Pavese, proiettata non tanto sul soggetto lirico, ma in quella «stella minuta» che si «dibatte nel vuoto», lontana da tutto, non bastevole a sé stessa, e per questa ragione anelante a instaurare un qualche rapporto con le altre stelle compagne. Un’immagine che, conosciuta l’incomunicabilità con l’Altro che affligge l’uomo Pavese, tradisce la vera condizione esistenziale in cui versa il poeta.

 

La presenza leopardiana nelle poesie è un fil rouge che si origina fin dagli esordi poetici di Pavese, indugiando in modo particolare in quei loci in cui l’io dello scrittore misura «una distanza fra il se stesso del presente e quello del passato»[24]: lo testimonia il componimento che apre Lavorare stanca, I mari del Sud, nel quale effettivamente anche Gianni Venturi scorge l’esalare di una «vaga eco leopardiana»[25], individuabile soprattutto nella quarta strofa di questa lunga «poesia- racconto»:

 

[…]

Oh, da quando ho giocato ai pirati malesi,

quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta

che son sceso a bagnarmi in un punto mortale

e ho inseguito un compagno di giochi su un albero

spaccandone i bei rami e ho rotto la testa

a un rivale e sono stato picchiato

quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi,

altri squassi del sangue dinanzi a rivali

più elusivi: i pensieri ed i sogni.

[…]

 

Il tono esclamativo e venato di nostalgia che profonde dal sintagma quanto + sostantivo è caro alle rievocazioni leopardiane, e rimanda in particolar modo a Le ricordanze[26]:

 

[…]

Quante immagini un tempo, e quante fole

creommi nel pensier l’aspetto vostro

e delle luci voi compagne! Allora

che, tacito, seduto in verde zolla,

delle sere io solea passar gran parte

mirando il cielo, […].

[…] E che pensieri immensi,

che dolci sogni mi spirò la vista

di quel lontano mar, quei monti azzurri

che di qua scopro, e che varcare un giorno

io mi pensava, arcani mondi, arcana

felicità fingendo al viver mio!

[…]

 

Si noti la ripresa da parte di Pavese di due termini-chiave, i «pensieri» e i «sogni», per Leopardi originati dalla contemplazione di un paesaggio lontano, che il poeta immagina di varcare, verso un nuovo mondo e una felicità sconosciuti, perché emblemi della libertà dal giogo della prigionia recanatese; per Pavese, invece, visualizzati come rivali elusivi, motivi di tensione e turbamento («altri squassi del sangue»). L’amarezza derivante dalla constatazione di un tempo ormai affievolito e perduto, contrapposto all’alterità del presente, si esprime anche sul piano retorico, nell’anafora «altri giorni, altri giochi, altri squassi del sangue», che come osserva Michela Rusi,

 

inserisce in una struttura trimembre il categorico «Altro tempo» dell’ultima strofa del canto leopardiano[27]. Si tratta di una memoria formale che scinde e ridistribuisce le unità sintagmatiche del testo originario - «Quante immagini un tempo» e «altro tempo» che diventano quindi «quanto tempo» e «altri giorni» - in un nuovo contesto che rimane semanticamente e metricamente affine[28].

 

Le ricordanze tornano a essere riecheggiate in maniera ancor più spiccata in Indifferenza, poesia scritta da Pavese nel 1937, non ricompresa nella seconda edizione di Lavorare stanca, ma fatta confluire nella rosa delle Poesie del disamore[29]:

 

[…]

Sono morte la carne del mondo e le voci

che suonavano[30], un tremito ha colto le cose;

tutta quanta la vita è sospesa a una voce.

Sotto un’estasi amara trascorrono i giorni

alla triste carezza della voce che torna

scolorandoci il viso. Non senza dolcezza

questa voce al ricordo risuona spietata

e tremante: ha tremato una volta per noi.

[…]

 

Come anche Annamaria Andreoli suggerisce[31], la poesia «sembra costruita con i materiali de Le ricordanze»: la ripresa dell’ultima strofa, per quanto concerne il piano lessicale, è clamorosa. L’espressione pavesiana «Le voci | che suonavano» rimanda all’«Ove sei, che più non odo | la tua voce sonar» leopardiano, e in entrambi i casi la voce udita dal soggetto lirico giunge a «scolorare» il viso: «alla triste carezza della voce che torna | scolorandoci il viso [...]» (Pavese); «quando soleva ogni lontano accento | del labbro tuo, ch’a me giungesse, il volto | scolorarmi [...]?» (Leopardi). L’area semantica della rimembranza leopardiana è il luogo di frequentazione privilegiato del Pavese lirico, a giudicare dall’elevata ricorrenza nei componimenti del repertorio lessicale legato alla sfera del ricordo.

 

Allegato: Le ricordanze_I mari del Sud_Indifferenza

 

Si aggiunga a tal proposito che sovente il leopardismo di un autore si indizia con la ricorrenza dello stilema del verbo «tornare», posto in posizione preminente come nei Canti, riportando così alla memoria i memorabili incipit di Aspasia («Torna dinanzi al mio pensier»), de Il primo amore («Tornami a mente il dì»), de Il sabato del villaggio («Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre»). È inequivocabile che Pavese abbia fatto tesoro della riflessione di Leopardi sulla rimembranza, a ulteriore conferma della tesi che la ripresa poetica non sia vuota e meccanica, ma si sorregga saldamente su una pregressa assimilazione profonda dei versanti del pensiero leopardiano più conformi allo sviluppo di riflessioni personali e autonome. La ripresa dello stilema del verbo «tornare» si configura come una traduzione sul piano della poesia della poetica della memoria che Pavese progressivamente intesse e sviluppa, e il cui fulcro viene così epigrammaticamente sintetizzato in Stato di grazia:

 

Bisogna sapere che noi non vediamo mai le cose una prima volta, ma sempre la seconda. Allora le scopriamo e insieme le ricordiamo[32].

 

Una considerazione che viene ripresa anche nel saggio Del mito, del simbolo e d’altro:

 

Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto […][33].

 

E ancora, in L’adolescenza:

 

Ora, l’ammirazione, e cioè la facoltà di vedere come unica e normativa la forma di una realtà, nasce sempre nel solco di una precedente trasfigurazione di questa realtà. Noi ammiriamo soltanto ciò che abbiamo già una volta ammirato[34].

 

Ci si potrà ineccepibilmente accorgere che tale scoperta di Pavese, quella che Anco Marzio Mutterle definisce una «conoscenza di secondo grado»[35], affonda a pieno titolo le proprie radici nella teorizzazione della doppia memoria elaborata da Leopardi:

 

[…] si perché spessissimo una sensazione provata presentemente, ce ne richiama alla memoria un’altra provata per l’addietro, senza che la volontà contribuisca, o abbia pure il tempo di contribuire a richiamarla. Così un canto ci richiama p. e. quello che noi facevamo altra volta udendo quello stesso canto ec[36].

 

Il debito a Leopardi viene in via definitiva confermato dalle considerazioni di Antonio Prete nel capitolo Una ricordanza, una ripetizione del suo saggio su Leopardi, Il pensiero poetante. Commentando il seguente passaggio dello Zibaldone:

 

Anzi, osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita, non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; […] vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere, ec., perché ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione, immagine, ec. provata da fanciulli, e come la provavamo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un’immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso dell’immagine antica[37].

 

Antonio Prete constata che «la sensazione è costruita su un ritorno. […] Ogni conoscenza è una ri-conoscenza, tutto è già accaduto, […]»[38]. Si deduce pertanto la ragione fondamentale per cui si possa reputare il tema del «ricordo» come il più potente leitmotiv di matrice leopardiana che innerva le poesie di Pavese. Esso può infatti essere ancora una volta rintracciato in un componimento come La notte. Molteplici gli stilemi che indiziano a diversi livelli un rapporto diretto con l’atmosfera lirica dei Canti:

 

Ma la notte ventosa, la limpida notte

che il ricordo sfiorava soltanto, è remota,

è un ricordo. Perdura una calma stupita

fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta,

di quel tempo di là dai ricordi, che un vago

ricordare.

 

Talvolta ritorna nel giorno

nell’immobile luce del giorno d’estate,

quel remoto stupore.

Per la vuota finestra

il bambino guardava la notte sui colli

freschi e neri, e stupiva di vederli ammassati:

[…]

 

Talvolta ritorna

nell’immobile calma del giorno il ricordo

di quel vivere assorto, nella luce stupita.

 

L’aggettivo «vago», che veicola un concetto cardine della poetica di Leopardi, in questa lirica accompagnato a «ricordare» e riecheggiante il sintagma «vago immaginar» de Le ricordanze, unitamente a «remoto», che in Pavese viene ad assumere soprattutto un valore temporale, piuttosto che spaziale com’è invece uso frequente nei versi leopardiani, sono spiccati segnali dell’ampia intertestualità che intercorre tra il testo pavesiano e la materia dei Canti, dai quali, in effetti, viene desunta un’intera serie aggettivale che si avrà modo di riscontrare in seguito, in numerosi altri componimenti: oltre ai già citati «vago» e «remoto», «lontano» e «antico» sono i più significativi nella rosa. In questa poesia in particolare, «remoto» connota lo stupore del fanciullo immerso nella situazione poetica di contemplazione per eccellenza, ancora una volta incentivata dal medium della finestra. In proposito, l’immagine della finestra in questo componimento, secondo la riflessione di Basile,

 

[…] acquisisce ora una notevole complessità. Il protagonista è delineato (il bambino), avviene uno scambio tra vuoto dell’interno e vuoto incorniciato dalla finestra, tra oscurità interiore e tenebre esterne […]. L’adolescente e il giovanissimo bambino anticipano in sé nel rapporto col mondo, mediato dalla finestra, le delusioni dell’uomo adulto a contatto con la natura privata di luce […]. E proprio il bambino è, a livello psicologico, una componente fondamentale dell’immagine, dato che per lui la finestra può aprirsi, secondo Pavese, alla natura amica o promettere un nulla[39].

 

Come puntualizza Annamaria Andreoli[40], l’area semantica dello stupore, evocata nei versi dal fanciullo che si affaccia alla finestra, oltre a rappresentare in qualità di connotato infantile un topos nella tradizione lirica contemporanea[41], compare sovente nella poesia pavesiana. Nel caso del testo ivi riportato, «il bambino» che «guardava […] e stupiva» sembra rievocare quasi letteralmente le movenze del seguente sintagma tratto da Alla Primavera: «il pastorel […] vide, e stupì».

 

Allegato: La notte_Le ricordanze_Alla primavera

 

Pavese riflette sul concetto di meraviglia anche ne Il mestiere di vivere, identificandolo con il fine ultimo dell’arte:

 

[…] bisogna scoprire una strangerness di rapporti - di costruzione - e allora si sarà insegnato a vedere il bizzarro, si sarà mostrato come il bizzarro nasce e vive tra la banalità e serietà universali. Indiscutibile essendo che tutta l’arte mira alla «meraviglia»: meglio, a «insegnare la meraviglia». Stupendosi del «come» e non del «che» ci si potrà stupire poi, sempre che si voglia[42].

 

Si tratta di una considerazione che trae fondamento dal Leopardi dello Zibaldone, ossia dal Leopardi nelle massime vesti di modello conoscitivo per la riflessione pavesiana. Anche Leopardi ritiene, infatti, che uno dei fini primari della poesia sia la meraviglia: «È proprio della poesia il destar la meraviglia e pascerla»[43]. Quest’ultima, ritiene il poeta in un altro passaggio dello Zibaldone, trae la sua origine dallo ‘straordinario’, termine che come nota perspicacemente Rusi[44], in inglese si traduce con il medesimo vocabolo utilizzato da Pavese nella nota del ‘38, «strangerness»:

 

La maraviglia principal fonte di piacere nelle arti belle, poesia, ec. da che cosa deriva, ed a qual teoria spetta, se non a quella dello straordinario[45]?

 

Tornando all’indagine sulla poesia La notte, opportuno ancora rilevare la presenza di un altro pilastro della poetica leopardiana: il concetto di «nulla», che nei versi pavesiani in questione, costituendo la trama di una calma in realtà increspata di irrequietezza, allude alla percezione di un vuoto, a un «presagio di cosmico smarrimento»[46]. Anche ne Lo steddazzu, componimento che suggella la conclusione della silloge, scritto durante il segnante periodo di confino a Brancaleone Calabro, il termine «nulla» ritorna con un’occorrenza elevata: viene iterato ben quattro volte. Guglielminetti concorda sul fatto che Pavese, in questa lirica, pervenga alla percezione del nulla «leopardianamente»[47]:

 

L’uomo solo si leva che il mare è ancor buio

e le stelle vacillano. Un tepore di fiato

sale su dalla riva, dov’è il letto del mare,

e addolcisce il respiro. Questa è l’ora in cui nulla

può accadere. Notturno è il sommerso sciacquio.

[…]

 

Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno

in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara

che l’inutilità. Pende stanca nel cielo

una stella verdognola, sorpresa dall’alba.

Vede il mare ancor buio e la macchia di fuoco

a cui l’uomo, per fare qualcosa, si scalda;

vede, e cade dal sonno tra le fosche montagne

dov’è un letto di neve. La lentezza dell’ora

è spietata, per chi non aspetta più nulla.

 

Val la pena che il sole si levi dal mare

e la lunga giornata cominci? Domani

tornerà l’alba tiepida con la diafana luce

e sarà come ieri e mai nulla accadrà.

[…]

 

 

Giorgio Barberi Squarotti intravvede inoltre nella vacillante «stella verdognola» un sottile, e in ragione di ciò prezioso, legame con l’universo dei Canti:

 

Leopardianamente è l’animazione della figura cosmica: la stella verdognola è imparentata con le vaghe stelle dell’Orsa e con le infinite lune dei Canti. Ma non è significativa se non per il soggetto, che è dietro l’indicazione trasparente dell’«uomo solo». [...] anche la stella verdognola, del tutto esiliata nel paesaggio dell’alba di fronte al falò che l’uomo solo ha acceso sulla spiaggia, solitaria e assonnata anch’essa come l’uomo, non è che la proiezione del soggetto, un dato privato, un evento e un elemento che soltanto il soggetto cura e vede e ritiene che abbia un messaggio per sé, dal momento che lo carica dei propri pensieri, lo anima dei propri sentimenti, gli dà lo stesso atteggiamento nei confronti dell’ora in cui nulla può veramente accadere […][48].

 

La stella cui il soggetto lirico volge lo sguardo ha pertanto le medesime funzioni e sembianze della «cara» luna leopardiana. Come si verificava in Mania di solitudine, l’astro convoglia su di sé le proiezioni dell’interiorità del soggetto, ne diventa figura. D’altro canto, una qualche relazione poetica leopardiana de Lo steddazzu viene attestata implicitamente anche dallo stesso Pavese, mediante due soli termini-chiave bastevoli a rievocarla, quando fa riferimento al componimento nella prosa in appendice A proposito di certe poesie non ancora scritte:

 

[…] le poesie stanche, o poesie conclusione, sono forse le più belle del mazzo, e il tedio che accompagna la loro composizione non è gran che diverso da quello che apre un nuovo orizzonte. Per esempio, Semplicità e Lo steddazzu (inverno 1935-36) le hai composte con inenarrabile noia e, forse proprio per sfuggire alla noia, tratteggiate in modo così bravo e allusivo che più tardi a rileggerle ti sono parse pregne di avvenire. Il criterio psicologico del tedio non è quindi sufficiente a segnare il trapasso a un nuovo gruppo, dato che la noia, l’insoddisfazione, è la molla prima di qualunque scoperta poetica, piccola o grande[49].

 

I lessemi che tradiscono lo stagliarsi dell’ombra di Leopardi sono «noia» e «tedio», come coglie acutamente Gianni Venturi, in una più generale riflessione a proposito della disposizione dei componimenti nella raccolta:

 

L’evidentissima connessione alla poetica leopardiana in questo brano è ulteriormente ribadita da termini come «noia» e «tedio»; quindi per Pavese si tratterebbe di quella propensione psicologica, di quella «molla» che porta al dire poetico. Ma, evidentemente, lo scrittore nella percezione di un leopardismo, assai precoce e molto lontano da quello su cui si sono esercitate generazioni di critici, vale a dire quello che ha permesso d’instaurare il rapporto Dialoghi con Leucò-Operette morali, rivendica un criterio di scelta intenzionale non affidata al tedium ma al punto di vista dell’autore nel considerare la disposizione delle poesie e la loro interconnessione – «l’intenzione» come la chiama – quali promesse di «avvenire» poetico[50].

 

A livello sintattico, concorre a suffragare il leopardismo di questo componimento la clausola lirica a congiunzione, frequente in numerosi testi pavesiani[51]. Si tratta di un uso che Andreoli fa risalire doppiamente a Leopardi («e naufragar m’è dolce in questo mare», Infinito; «e l’infinita vanità del tutto», A se stesso; «e l’atra notte e la silente riva» Ultimo canto di Saffo; e l’aura e il nome e la memoria accoglia», Bruto minore) e all’Ungaretti del Sentimento del tempo[52], il quale è ritenuto essere dalla studiosa la più sicura mediazione degli influssi leopardiani in Pavese, malgrado il proclamato antiermetismo di quest’ultimo. A proposito di una derivazione ungarettiana del polisindeto di Pavese, tuttavia, non si trova concorde Vittorio Coletti, che discerne una sottile, ma diametrale distinzione di fondo:

 

Il polisindeto, esasperazione retorica della «e» coordinante, è la tipica figura pavesiana dell’addizione e della ripetizione; aggrega il nuovo all’identico, il diverso allo stesso. È segno della continuità e della ripetitività, situazioni strutturali caratteristiche di Lavorare stanca e diametralmente opposte a quelle della discontinuità e della irrepetibilità proprie del Sentimento del tempo[53].

 

In effetti il ritmo della ripetitività rientra tra i massimi elementi strutturali che rendono immediatamente riconoscibile la penna di Pavese ogni qual volta ci si ritrovi al cospetto di un suo testo poetico. Resa attraverso gli espedienti dell’iterazione di parole-chiave, del polisindeto, della metrica, si tratta della cadenza, rilevabile soprattutto nelle ultime raccolte, di una martellante percussione ctonia che scuote dal profondo. È il «ritmo della nudità tellurica» - usando la bella espressione di Tiziano Scarpa - «che bussa per uscire allo scoperto»[54]. La ripetitività agli occhi di Pavese ha una ragione costruttiva, costituisce la struttura portante della sua poesia, a un punto tale da ritenerla il nerbo, il nucleo vitale dell’immagine:

 

La ripetizione nelle nuove poesie non ha una ragione musicale ma costruttiva. […] Voglio dire che mi succede in queste poesie di afferrare una realtà attuale, non narrativa ma evocativa, dove accade qualcosa a un’immagine, accade ora, in quanto l’immagine viene ora elaborata […]. La parola o frase ripetuta non è altro che il nerbo di quest’immagine, costruito da cima a fondo come un’impalcatura, il perno per cui la fantasia gira su se stessa e si sostiene appunto come un giroscopio che esiste solo nel presente, in azione, e poi cade e diventa un ferro qualunque[55].

 

I termini-chiave replicati concorrono a ricreare un vocabolario intimo del poeta, il suo personale lemmario di simboli. Ai fini di questa trattazione, colpisce che anche Leopardi venga definito da Vincenzo Mengaldo «poeta della ripetizione»:

 

Accanto alle geminazioni vanno collocate, benché siano meno strette e frementi, più distese, le forme di ripetizione non a contatto, prima di tutte la più strutturata, l’anafora. I Canti, e non solo quelli, ne sono vivacemente pigmentati. Sia questo il luogo per dire che Leopardi, diversamente dall’opinione comune, non è affatto un poeta della variatio – e non potrebbe, essendo come pochissimi altri un poeta del pathos e dell’effusione di un cuore che è sempre uguale a se stesso. Per essere più esatti, la variatio, certamente documentata dal lavoro di elaborazione, riguarda il dettaglio, non importa se a contatto o a distanza, ma per l’essenziale, cioè per i gesti stilistici decisivi, Leopardi è un poeta della ripetizione[56].

 

La ripetizione nella poesia di Leopardi ha un «valore di espansione sentimentale», ritiene Mengaldo, e irradia tutta la sua potenzialità espressiva dal centro o dai dintorni «del vocabolario del cuore leopardiano»[57], esattamente come si verifica nel lemmario di parole-simbolo che finiscono per rivelarsi le strutture portanti dell’intera opera pavesiana.

 

Ma tornando al tema dominante della rimembranza e del ricordo, in Paesaggio VIII esso funge nientemeno che da perno del componimento, attorno al quale gravitano ancora una volta inconfondibili tessere leopardiane[58]:

 

I ricordi cominciano nella sera

sotto il fiato del vento a levare il volto

e ascoltare la voce del fiume. L’acqua

è la stessa, nel buio, degli anni morti.

 

Nel silenzio del buio sale uno sciacquio

dove passano voci e risa remote;

[…]

 

Ogni occhiata che torna, conserva un gusto

di erba e cose impregnate di sole a sera

sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare.

Come un mare notturno è quest’ombra vaga

di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora

 e ogni sera ritorna […].

 

Il medesimo meccanismo attrattivo esercitato dal suddetto leitmotiv si verifica anche nella poesia Estate:

 

C’è un giardino chiaro, fra mura basse,

di erba secca e di luce, che cuoce adagio

la sua terra. È una luce che sa di mare.

Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli

e ne scuoti il ricordo.

 

Ho veduto cadere

molti frutti dolci, su un’erba che so,

con un tonfo. […]

e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale

nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.

 

Ascolti.

Le parole che ascolti ti toccano appena.

Hai nel viso calmo un pensiero chiaro

che ti finge alle spalle la luce del mare.

Hai nel viso un silenzio che preme il cuore

Con un tonfo, e ne stilla una pena antica

come il succo dei frutti caduti allora.

 

Come è possibile osservare dai componimenti riportati, il leitmotiv del ricordo, preso in esame con un approccio sincronico, sembra ricreare una sorta di ecosistema particolarmente favorevole alla germinazione di tessere mutuate dalla lirica di Leopardi, soprattutto per quanto riguarda le serie aggettivali. L’ascendenza leopardiana, dunque, tende a emergere e a risultare più chiaramente visibile laddove la sfera della memoria costituisce l’elemento dominante. Tali scelte lessicali, riprese di sintagmi e vocaboli, tuttavia, raramente sono tessere preziose fine a sé stesse, ma vengono caricate da Pavese di un valore simbolico. A giudizio di Rusi, lo scrittore sembra «farne parole-mito», che usualmente «non tanto ineriscono a un principio poetico di indefinitezza spaziale, ma rimandano a un tempo che sprofonda nell’interiorità del soggetto, ed aspira a evadere dalla storicità»[59]. Si tratta di lessemi, pertanto, di cui il poeta si appropria per rinforzare l’esplorazione del territorio del soggettivo, dell’interiorità, l’ambito che guadagna da sempre il primato del suo interesse.

 

Allegato: Paesaggio VIII_Estate_rimembranza

 

 

III.   Comuni visioni dell’esistenza: le categorie concettuali leopardiane sottese ai versi

 

Vale la pena porre a guisa di sigillo dell’excursus sul tema della memoria il componimento Poetica, ricompreso in quella rosa di poesie non incluse nella seconda edizione di Lavorare stanca, e rimasto inedito fino all’edizione de Le poesie curata da Italo Calvino. Si noti la funzione di vaghezza delle marche temporali «remoto» e «d’allora», che accompagnano rispettivamente, non a caso, vocaboli come «ricordo», «silenzio» e «incanto», e la presenza della sfera mitica dell’infanzia, rappresentata dalla figura del ragazzo protagonista del componimento:

 

Il ragazzo s’è accorto che l’albero vive.

Se le tenere foglie si schiudono a forza

una luce, rompendo spietate, la dura corteccia

deve troppo soffrire. Pure vive in silenzio.

Tutto il mondo è coperto di piante che soffrono

nella luce, e non s’ode nemmeno un sospiro.

[…]

 

Il ragazzo - qualcuno rimane ragazzo

troppo tempo - che aveva paura del buio,

va per strada e non bada alle cose imbrunite

nel crepuscolo. Piega la testa in ascolto

di un ricordo remoto. […]

[…] Quel silenzio remoto

che stringeva il respiro al passante, è fiorito

nella luce improvvisa. Sono gli alberi antichi

del ragazzo. E la luce è l’incanto d’allora.

E comincia, nel diafano cerchio, qualcuno

a passare in silenzio. Per la strada nessuno

mai rivela la pena che gli morde la vita.

Vanno svelti, ciascuno come assorto nel passo,

e grandi ombre barcollano. […]

 

Il sensitivo riconoscimento della silenziosa sofferenza della vegetazione, che si estende in un secondo momento alla dimensione naturale del mondo nella sua totalità, riecheggia il motivo della souffrance leopardiana rispecchiata nella vegetazione del giardino che viene descritto nel noto passo dello Zibaldone:

 

Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di souffrance, qual individuo più, qual meno. […] Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. Quell’albero è infestato da un formicaio, […] questo è ferito nella scorza e cruciato dall’aria o dal sole che penetra nella piaga; […]. Certamente queste piante vivono; […][60].

 

In Poetica, Pavese estende l’aura dell’inconfessato dolore delle piante ai passanti, uomini che si imbattono frenetici l’uno nell’altro, nell’urto che costituisce l’orizzonte entro il quale sussiste l’incomunicabile, celando ciascuno nel proprio silenzio una pena che «gli morde la vita», che gli adombra l’animo, facendolo «barcollare». Nel fare questa operazione di progressivo ampliamento dal generale al particolare, dalla sofferenza della natura a quella dell’uomo, suggerisce Rusi, Pavese inverte l’ordine del passo dello Zibaldone citato, che invece «esordiva scendendo dalla sofferenza degli uomini a quella di tutto l’universo sensibile»[61]:

 

Cosa certa e non da burla si è che l’esistenza è un male per tutte le parti che compongono l’universo. […] il genere umano fu e sarà sempre infelice di necessità. Non il genere umano solamente ma tutti gli animali. Non gli animali soltanto ma tutti gli altri esseri a loro modo. Non gl’individui, ma le specie, i generi, i regni, i globi, i sistemi, i mondi.

 

Da questo confronto emerge un certo grado di affinità di visione dell’esistenza, che scaturisce dal condiviso assunto che «la vita è dolore». Ambedue lo dichiarano nei rispettivi diari intellettuali: «Perché la vita per sua natura è dolore», asserisce con fermezza Leopardi[62]; «Perché la vita è dolore e l’amore goduto un anestetico […]?», si interroga con afflizione Pavese[63].

 

Allegato: Poetica_souffrance Zibaldone

 

Non sarebbe ancora possibile, tuttavia, afferrare del tutto la pienezza della sfaccettata convergenza di meditazioni dei due poeti senza fare accenno al valore assegnato all’area tematica delle illusioni giovanili e più in generale dell’infanzia come spazio ideale della «coscienza prepoetica»[64]. L’infanzia intesa come «vivaio» per eccellenza di simboli costituisce il perno attorno al quale si innesta l’elaborata teoria del mito, la punta di diamante della riflessione pavesiana, che lo scrittore avrà occasione di sviluppare in particolare nel corso del suo soggiorno-rifugio Serralunga di Crea durante la guerra. Pavese ritiene che le scoperte, i luoghi, «i momenti di fondamentale contatto con le cose e col mondo»[65] vissuti nel tempo della fanciullezza vengano rivestiti a posteriori di un’aura di sacralità; si caricano così di valori assoluti, paradigmatici, staccati dalle dimensioni del tempo e dello spazio e contrassegnati dalla peculiare caratteristica dell’unicità[66]:

 

Così a ciascuno i luoghi dell’infanzia ritornano alla memoria; in essi accaddero cose che li han fatti unici e li trascelgono sul resto del mondo con questo suggello mitico. Ma il parallelo dell’infanzia chiarisce subito come il luogo mitico non sia tanto singolo, il santuario, quanto quello di nome comune, universale, il prato, la selva, la grotta, la spiaggia, la casa, che nella sua indeterminatezza evoca tutti i prati, le selve, ecc., e tutti li anima del suo brivido simbolico. Neanche nella memoria dell’infanzia il prato, la selva, la spiaggia sono oggetti reali fra i tanti, ma bensì il prato, la spiaggia, come ci si rivelarono in assoluto e diedero forma alla nostra immagine. (Che poi queste forme primordiali si siano ancora arricchite dei sedimenti successivi del ricordo, vale come ricchezza poetica ed è altra cosa dal loro significato originario)[67].

 

Il mondo dell’infanzia è pertanto la più fertile matrice del simbolo, quello stato aurorale che incapsula la mitologia personale di ciascun individuo, raccogliendo «sensazioni remote che si sono spogliate, macerandosi a lungo, di ogni materia, e hanno assunto nella memoria la trasparenza dello spirito»[68] e che si sono elevate allo status di «fuochi o fari della nostra coscienza»[69], irradiandola. Il brano riportato, con la sua allusione all’indeterminatezza del luogo mitico nella sua accezione di «nome comune, universale», sembra peraltro rievocare lontanamente la poetica del vago e dell’indefinito di Leopardi:

 

All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io son vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose[70].

 

Per Pavese l’emergere di questa seconda serie di oggetti, determinata in Leopardi dalla facoltà della doppia vista, o come la definisce Anna Dolfi, della «vista eidetica»[71], affonda le proprie radici nella coscienza mitica dell’individuo, nell’intima sfera di simboli che contrassegnano la sua esistenza fin dalla fanciullezza. Necessario puntualizzare, tuttavia, che lo scrittore si discosta radicalmente dalla concezione leopardiana dell’infanzia nel momento in cui ritiene che giudicare la fanciullezza poetica sia «soltanto una fantasia dell’età matura», operata a posteriori:

 

[...] Naturalmente a quel tempo la fantasia ci giunge come realtà, come conoscenza oggettiva, e non come invenzione. (Giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura)[72].

 

Con questa affermazione, come suggerisce Rusi, Pavese polemizza con una diffusa idea d’infanzia «che verrà trasmessa al Novecento dal pensiero del Romanticismo e che in Leopardi trova uno dei punti di riferimento principali»[73]. Per tale ragione di fondo si può concordare allora con quanto afferma Elio Gioanola, a proposito delle ascendenze leopardiane dell’idea pavesiana di infanzia:

 

Non è certo effetto di strabismo da predilezioni critiche se, dietro la poetica pavesiana del mito-infanzia, continuiamo a scorgere la presenza di Leopardi: il grande recanatese ha anticipato, col suo anti-razionalismo, le grandi direttrici della rivoluzione simbolistica, destinata a improntare di sé tutta l’arte novecentesca[74].

 

Pavese ha saputo intuire «come il recupero dell’irrazionale», in particolare, «non era affatto un’operazione retrograda»[75] nel suo tempo, e nel giudicare la propria «modernità» risiedere «tutta nel senso dell’irrazionale»[76], approda a identificare Leopardi come «il precursore di una tematica prettamente novecentesca e in particolare della propria»[77]:

 

[…] L’arte del Novecento batte tutta sul selvaggio. Prima come argomenti (Kipling, D’Annunzio, ecc.), poi come forma (Joyce, Picasso ecc.). Leopardi con le illusioni poetiche giovanili ha vagheggiato questo selvaggio, come forma psicologica. […] Tutto ciò che ti ha colpito in modo creativo nelle letture sapeva di questo[78].

 

In una nota del Mestiere del 28 aprile 1936, Pavese si rivolge a sé stesso nominandosi prima «allegro giovanotto» e poi «ragazzo», appellativi familiari che, è bene notare, in altri luoghi del diario utilizza per riferirsi indirettamente a Leopardi[79]:

 

Ma chi ci ha detto che la vita fosse ancora da godere? Ragazzo, abbiamo ancora le illusioni giovanili.

 

È opportuno tenere presente, inoltre, che nello ‘zibaldone’ pavesiano il 1936 costituisce una sorta di anno di bilancio, costellato di esami di coscienza e di consuntivi dell’esperienza di vita e poesia precedenti. Come riflette Rusi,

 

È in questo bilancio che, nel frammento in questione, Pavese inserisce concetti tipici della meditazione leopardiana - godere, illusioni giovanili - in un contesto pratico, dunque, che lo riguarda personalmente e dove essi subiscono una sorta di cristallizzazione in forza della quale potranno poi essere ripresi e riproposti come un linguaggio codificato in cui è stato concentrato un insieme di significati che non è necessario ridiscutere e spiegare[80].

 

Il rimando a Leopardi in relazione alle illusioni della giovinezza è esplicitato in una sentenziosa nota del 1938, sempre scaturita da una vicenda personale dello scrittore, presumibilmente amorosa: «Le illusioni del Leopardi sono tornate sulla Terra»[81]. Secondo Rusi, come prova il frammento riportato, nell’ottica pavesiana le illusioni sono «implicitamente contrapposte ad un “vero” che riguarda non più in generale lo stretto rapporto uomo/natura come nella meditazione leopardiana, ma più specificamente il rapporto con l’altro»[82]. Immediato riconoscere poi come quel movimento di ritorno sulla Terra assegnato alle illusioni denunci chiare ascendenze leopardiane, in particolare dalla Storia del genere umano, «dove “fantasmi” e “meravigliose larve” sono la variante sinonimica di “illusioni”»[83], come d’altro canto conferma Cesare Galimberti: «le varianti di “illusioni” - anche fantasmi, inganni, errori - rappresentano la spia del conflitto non risolto da Leopardi», tra la venerazione delle stesse da una parte e la «sfiducia nella loro realtà oggettiva»[84] dall’altra.

 

Ma il massimo grado di affinità di impostazioni mentali viene raggiunto a proposito della comune constatazione della florida pienezza della giovinezza in relazione alla comunicazione con l’Altro, contrapposta all’impoverimento che connota invece l’età adulta:

 

L’insufficienza dell’entusiasmo giovanile consiste nel rifiutarsi in sostanza di conoscere i propri limiti. La distinzione tra sé e altri, che avviene nell’età matura, tende a convincere il sé che non c’è passaggio agli altri. […] Dato che conoscere gli altri […] è un arricchimento, chi si rifiuta di amarli (=conoscerli) s’impoverisce. Di qua nasce la pienezza giovanile, ché nell’intemperanza di quell’età si prova il brivido della conoscenza universale. Ma siccome quella pienezza non è fondata, ecco le delusioni che l’esperienza della maturità imprime ed ecco il rétrecissement dei trent’anni, a cui sfugge solo chi riconosca i propri limiti senza contrapporsi agli altri […][85].

 

In questa considerazione, Rusi ravvisa una ripresa, effettivamente inconfutabile, di attributi dell’età giovanile che sono propri della riflessione leopardiana:

 

La giovinezza è […] connotata da entusiasmo, ricchezza e pienezza che derivano dalla capacità/illusione di comunicare, contrapposti all’impoverimento e alle delusioni provocate dall’esperienza della maturità. Sono, questi, i medesimi attributi che all’età giovanile fornisce Leopardi […][86].

 

Le antitetiche condizioni esistenziali della giovinezza e dell’età adulta vengono ancora trasposte nei versi di Lavorare stanca in una poesia come Mito, ove l’infrangersi delle leopardiane illusioni dell’infanzia è evocato malinconicamente fin dall’incipit:

 

Verrà il giorno in cui il giovane dio sarà uomo,

senza pena, col morto sorriso dell’uomo

che ha compreso. […]

 

Il «morto sorriso dell’uomo|che ha compreso» è l’inconfondibile sorriso che caratterizza la rassegnazione dell’età adulta, una volta raggiunta l’amara consapevolezza del crollo delle aspettative e delle speranze di una fase dell’esistenza ormai conclusa, quell’unico fiore dell’arida vita[87]. Questa forma di sorriso compare anche in Ritorno di Deola: «Fisseremo i passanti col morto sorriso / di chi è stato battuto […]», ma la sua più alta e toccante formulazione culmina nei Dialoghi con Leucò, nel dialogo Schiuma d’onda:

 

BRITOMARTI: Oh Saffo, onda mortale, non saprai mai cos’è sorridere?

SAFFO: Lo sapevo da viva. E ho cercato la morte.

BRITOMARTI: Oh Saffo, non è questo il sorridere. Sorridere è vivere come un’onda o una foglia, accettando la sorte. È morire a una forma e rinascere a un’altra. È accettare, accettare, se stesse e il destino[88].

 

Così, come riflette Leopardi, «il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura»[89], tanto più che «quanto più l’uomo cresce, […] e crescendo si fa più incapace di felicità, tanto egli si fa più proclive e domestico al riso, e più straniero al pianto […]»[90], poiché la cruda verità contro cui prima o poi bisogna necessariamente arrivare a collidere, e che anche Pavese e i suoi personaggi scontano direttamente sulla propria pelle, è che «tanta occasione ha l’uomo di farsi familiare il dolore»[91].

 

 

Bibliografia

 

Bibliografia primaria

-Edizioni consultate:

 

Leopardi, G., Canti, introduzione di Franco Gavazzeni, note di Franco Gavazzeni e Maria Maddalena

Lombardi, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1998

-, Canti, introduzione e commento a cura di Andrea Campana, Carocci, Roma, 2018

- La vita e le lettere, scelta, introduzione biografica e note di Nico Naldini, prefazione di Fernando Bandini, Garzanti, Milano, 1983

-, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di Rolando Damiani, 3 voll., i Meridiani Mondadori, Milano, 2014

-, Zibaldone di pensieri. Nuova edizione commentata condotta sugli Indici leopardiani, a cura di Fabiana Cacciapuoti, preludio di Antonio Prete, Feltrinelli, Milano, 2019

 

Pavese, C., Lettere 1926-1950, a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, 2 voll., Einaudi, Torino, 1968

-, Vita attraverso le lettere, a cura di Lorenzo Mondo e Italo Calvino, Einaudi, Torino, 1973

-, Il mestiere di vivere, a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, Einaudi, Torino, 1990

-, La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1990

-, Le poesie, a cura di Mariarosa Masoero, introduzione di Marziano Guglielminetti, Einaudi, Torino, 1998

-, Lavorare stanca, nota al testo di Mariarosa Masoero, introduzione di Vittorio Coletti, Einaudi, Torino, 2001

-, Officina Einaudi. Lettere editoriali 1940-1950, a cura di Silvia Savioli, introduzione di Franco Contorbia, Einaudi, Torino 2008

-, Dialoghi con Leucò, introduzione di Sergio Givone, Einaudi, Torino, 2014

-, Le poesie, introduzione di Tiziano Scarpa, Einaudi, Torino, 2020

-, Il mestiere di vivere, introduzione di Domenico Starnone, Einaudi, Torino, 2020

 

Bibliografia secondaria

 

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-, L’immagine arguta. Lingua, stile, retorica di Pavese, Einaudi, Torino, 1977

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18 marzo 2025

 


[1] C. Pavese, Lettera ad Augusto Monti dell’agosto 1926; è possibile leggerla integralmente online sulla rivista «Minima&Moralia», al seguente link: < https://www.minimaetmoralia.it/wp/libri/una-lettera-di-cesare-pavese/ >

[2] L. Bolzoni, Il lettore creativo: percorsi cinquecenteschi fra memoria, gioco, scrittura, Guida, Napoli, 2012, p. 5

[3] Ivi, p. 55

[4] A. Manguel, A history of reading, Penguin, New York 1996, trad. it. Una storia della lettura, Mondadori, Milano 1997, p. 73

[5] C. Pavese, Il mestiere di vivere, introduzione di Domenico Starnone, Einaudi, Torino, 2020, p. 141. nota del 3 dicembre 1938

[6] Lettera a Pietro Giordani, 21 marzo 1817, in G. Leopardi, La vita e le lettere, scelta, introduzione biografica e note di N. Naldini, prefazione di F. Bandini, Garzanti, Milano 1983

[7] L’espressione è tratta da una lettera di Petrarca al Boccaccio del 28 maggio 1362 (cfr. Seniles, I, 5,63)

[8] M. Rusi, Le malvage analisi. Sulla memoria leopardiana di Cesare Pavese, Longo, Ravenna, 1988, p. 24

[9] Ivi, p. 51

[10] G. Lonardi, Leopardismo. Tre saggi sugli usi di Leopardi dall’Otto al Novecento, Sansoni, Firenze, 1990

[11] M. Rusi, Postille pavesiane all’«Epistolario» di Leopardi, in «Studi Novecenteschi», dicembre 1987, vol. 14, n. 34, pp. 233-248, poi pubblicato in appendice a Le malvage analisi. Sulla memoria leopardiana di Cesare Pavese, cit.

[12] Ivi, p. 248

[13] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 261. Nota del 5 ottobre 1943

[14] L. Mondo, Cesare Pavese: Il mestiere di poeta, in «Cuadernos de Filologia Italiana», 2011, n. extraordinario, pp. 257-267

[15] A.M. Mutterle, Appunti sulla lingua di Pavese lirico, in Ricerche sulla lingua poetica contemporanea, presentazione di G. Folena, Liviana, Padova, 1966, p. 263

[16] L. Mondo, Cesare Pavese: Il mestiere di poeta, cit. p. 260

[17] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 87

[18] A.M. Mutterle, Appunti sulla lingua di Pavese lirico, cit., p. 264

[19] B. Basile, La finestra socchiusa. Ricerche tematiche su Dostoevskij, Kafka, Moravia e Pavese, Salerno, Roma, 2003, p.189

[20] C. Pavese, Stato di grazia, in La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino, 1990, p. 279

[21] B. Basile, La finestra socchiusa, cit., p. 211

[22] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 93

[23] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 94

[24] Ivi, p. 85

[25] G. Venturi, La prima poetica pavesiana: Lavorare stanca, in «La Rassegna della letteratura italiana», n. 1, Sansoni, Firenze, 1964, pp.130-152, p. 132

[26] Tutti i componimenti di Giacomo Leopardi riportati in questa sede sono tratti da G. Leopardi, Canti, introduzione e commento di A. Campana, Carocci, Roma, 2018

[27] Cfr.: «[…] Altro tempo. I giorni tuoi | furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri | il passar per la terra oggi è sortito, | e l’abitar questi odorati colli.»

[28] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 86

[29] «Curiosamente sono proprio le poesie non utilizzate per la nuova edizione, che uscirà, si è già anticipato, nel ’43 da Einaudi, a farci capire la possibilità di una poesia lirica che si nutre di ricordi e di riapparizioni di presenze corporee, e che perciò si sottrae alle dimensioni del paesaggio rurale e cittadino, quale si è poco prima delineato. Sono, queste, le cosiddette “poesie del disamore” […].  Ritorno di Deola, in questa mini-raccolta, ha quasi il sapore di una palinodia, ma alcune delle altre […] scoprono, con tenerezza e angoscia, sensazioni d’amore, di un tempo non attuale; e viene da pensare, in opposizione, al duro trattamento riservato nel diario a chi, di ritorno da Brancaleone, l’avrebbe abbandonato. Se così fosse, la poesia non aggraverebbe, ma lenirebbe, com’è nella sua natura, da Petrarca a Leopardi, la ferita della rottura». M. Guglielminetti, nota introduttiva a Le poesie, Einaudi, Torino, 1988, p. XL

[30] I corsivi che d’ora in avanti si incontreranno nei componimenti poetici riportati non sono del testo originario, ma vengono utilizzati per evidenziare i vocaboli e i sintagmi che costituiscono delle tessere leopardiane.

[31] A. Andreoli, Il mestiere della letteratura, Pacini, Pisa, 1977, pp. 105-106

[32] C. Pavese, Stato di grazia, in La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 277

[33] Id., Del mito del simbolo e d’altro, in La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 273

[34] Id., L’adolescenza, in La letteratura americana e altri saggi, cit., p.283

[35] A.M. Mutterle, Rileggendo Pavese, in «Studi novecenteschi», vol.25, n. 56, 1998, pp. 179-204, p. 192

[36] G. Leopardi, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, 3 voll., Mondadori, Milano, 2014, p. 1039. 4 agosto 1821 [1455]

[37] Ivi, p. 435. 16 gennaio 1821 [515]

[38] A. prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi, Feltrinelli, Milano, 1988, p. 42

[39] B. Basile, La finestra socchiusa, cit., p. 187

[40] A. Andreoli, Il mestiere della letteratura, cit.

[41] Montale ne fornisce magistrale esempio in Fine dell’infanzia: «[…] al chiuso asilo/ della nostra stupita fanciullezza».

[42] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 100. 11 maggio 1938

[43] G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 2244. 3-6 ottobre 1823 [3600]

[44] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 63

[45] G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 1301. 14 ottobre 1821 [1916]

[46] L. Mondo, Cesare Pavese: Il mestiere di poeta, cit., p. 262

[47] «A sé, quasi un’allegoria personale sottratta alla categoria del racconto, si pone Lo steddazzu, la calabrese stella del mattino. Pavese perviene leopardianamente, perché astrale e marina sempre, alla percezione del “nulla”». M. Guglielminetti, introduzione a C. Pavese, Le poesie, cit., p. XX

[48] G. Barberi Squarotti, Lettura di «Lavorare stanca», in Atti del Convegno «Il mestiere di scrivere. Cesare Pavese trent’anni dopo», Santo Stefano Belbo, 13 dicembre 1980, Quaderni del centro studi Cesare Pavese, 1982, p. 55

[49] C. Pavese, A proposito di certe poesie non ancora scritte, in Le poesie, introduzione di T. Scarpa, Einaudi, Torino, 2020, p. 130

[50] G. Venturi, L’inutilità del vivere. Per un commento a «Lo steddazzu» di Pavese, in Il commento. Riflessioni e analisi sulla poesia del Novecento, a cura di A. Dolfi, Bulzoni, Roma 2011, p. 280

[51] Cfr. «e la brina toccato che ha il grano non torna» (Gente che c’è stata); «E le cose parleranno sommesso» (L’amico che dorme); «e uscir fuori alla luna | se nessuno l’aspetti, non vale la pena» (Abitudini), etc. Per altri esempi cfr. A. Andreoli, Il mestiere della letteratura, cit., p. 108

[52] «E avrai negli occhi un rapido sospiro», (La madre); «E, finalmente nuova, | O memoria, saresti onesta» (Caino); «E lasci agli altri un fuoco d’autunno» (Canto quinto). Ivi

[53] C. Pavese, Lavorare stanca, nota al testo di Mariarosa Masoero, introduzione di Vittorio Coletti, Einaudi, Torino 2001, p. IX

[54] Id., Le poesie, introduzione di T. Scarpa, cit., p. XXVI

[55] Id., Il mestiere di vivere, cit., p. 52. 9 novembre 1937

[56] P.V. Mengaldo, Sonavan le quiete stanze. Sullo stile dei Canti di Leopardi, edizione online, Il Mulino, Bologna 2009, p. 68

[57] Ivi, p. 69

[58] Evidenziate in corsivo in questa sede.

[59] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 89

[60] G. Leopardi, Zibaldone, cit., pp. 2736-2737. 22 aprile 1826 [4175-76]

[61] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 88

[62] Zibaldone, cit., p. 2627. 19 aprile 1824 [4074]

[63] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 81. 19 gennaio 1938

[64] Ivi, p.  10. 10 ottobre 1935

[65] «Dalla fanciullezza, dall’infanzia, da tutti quei momenti di fondamentale contatto con le cose e col mondo che trovano l’uomo sprovveduto e commosso e immediato, [...], dagli istanti aurorali in cui si formò nella coscienza un’immagine, un idolo, [...] sale, come da un gorgo o da una porta spalancata una vertigine, una promessa di conoscenza, un avangusto estatico. [...] Mitico chiamiamo perciò quello stato aurorale; e miti le varie immagini che balenano, sempre le stesse per ciascuno di noi, in fondo alla coscienza». Id., Il mito, in La letteratura americana e altri saggi, cit., p. 318

[66] «Il mito appare nei suoi scritti come una realtà unica, fuori del tempo e dello spazio, originaria e primordiale in quanto paradigma di tutte le realtà terrestri che le somigliano, alle quali essa conferisce valore». F. Jesi, Pavese, il mito e la scienza del mito, in Letteratura e mito, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1981, p. 135

[67] C. Pavese, Del mito del simbolo e d’altro, in La letteratura americana e altri saggi, cit. p. 271

[68] Id., Mal di mestiere, ivi, p. 288

[69] Id., Il mito, ivi, p. 318

[70] G. Leopardi, Zibaldone, cit., p. 2977. 30 novembre 1828 [4418, 2]

[71]«Giacché Leopardi sembra applicare anche al pensiero quella doppia vista (o vista eidetica) che aveva segnato la differenza tra l’uomo “semplice” e quello “sensibile e immaginoso” (e tra gli oggetti semplici e quelli complessi), quando gradua il passaggio dal contestato mondo dei sistemi preesistenti a una teoria basata proprio sulla loro analisi e destrutturazione». A. Dolfi, Leopardi e il Novecento: sul leopardismo dei poeti, Le lettere, Firenze, 2009, pp. 181-182

[72] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 243. 31 agosto 1942

[73] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., pp. 105-106

[74] E. Gioanola, Cesare Pavese. La realtà, l’altrove, il silenzio, Jaca book, Milano, 2003, p. 123

[75] Ivi, pp. 123-124

[76] «La tua modernità sta tutta nel senso dell’irrazionale». C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 274. 8 febbraio 1944

[77] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 32

[78] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 334. 10 luglio 1947

[79] «[…] È interessante soprattutto l’allusione familiare a Leopardi come giovanotto, […] che è lo stesso appellativo usato in precedenza da Pavese per riferirsi a sé stesso secondo una tecnica di distanziamento personale usata piuttosto di frequente dallo scrittore». M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p. 33

[80] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., pp. 39-40

[81] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 79. 16 gennaio 1938

[82] M. Rusi, Le malvage analisi, cit., p.41

[83] Ivi

[84] G. Leopardi, Operette morali, a cura di C. Galimberti, Guida, Napoli, 1977, p. 16, n. 65 (citazione riportata in nota da M. Rusi, Le malvage analisi, cit. p.41)

[85] C. Pavese, Il mestiere di vivere, cit., p. 149. 9 febbraio 1939

[86] M. Rusi, Le malvage analisi, pp.69-70

[87] L’espressione è volutamente parafrasata da Le ricordanze: «[…] e intanto vola| il caro tempo giovanil: più caro | che la fama e l’allor, più che la pura | luce del giorno, e lo spirar: ti perdo | senza un diletto, inutilmente, in questo | soggiorno disumano, intra gli affanni, | o dell’arida vita unico fiore».

[88] C. Pavese, Dialoghi con Leucò, introduzione di S. Givone, Einaudi, Torino, 2014, p. 48

[89] G. Leopardi, Zibaldone, cit. p. 142. 15 aprile 1820 [107,1]

[90] Ivi, p. 2692. 12 maggio 1825 [4138, 2]

[91] Ibidem