Premio Il portico d'oro - Jacques Le Goff

Il "Portico d’oro" è un premio internazionale, intitolato a Le Goff, che intende valorizzare figure ed opere impegnate con correttezza ed efficacia nella diffusione e nella didattica della storia. Il premio si è avvalso della sovrintendenza di Jacques Le Goff e si avvale tuttora di alcuni dei più apprezzati storici italiani ed europei.

 

Intervista a Jacques Le Goff sullo studio e l’insegnamento della storia medievale (ma non solo)

Daniela Romagnoli Università degli Studi di Parma Intervista a Jacques Le Goff sullo studio e l’insegnamento della storia medievale (ma non solo)

 

Sapete, cari Amici, che varie condizioni, alcune delle quali dolorose, mi impediscono di essere tra voi, ma auguro ai vostri lavori, importanti, il miglior successo possibile, e dico la mia amicizia a tutti e a ciascuno di voi

Questo saluto, rivolto ai partecipanti alla tavola rotonda e agli organizzatori della Festa della Storia, esprime il sincero rammarico del prof. Le Goff per non poter essere presente oggi a Bologna. Ragioni di salute gli impediscono da tempo di affrontare le fatiche di un viaggio, anche se breve. Purtroppo, però, a questo tipo di problemi si è sovrapposto l’immenso dolore per la perdita della moglie, nel dicembre dello scorso anno. Solo la sua viva attenzione per lo studio e l’insegnamento della storia, a cui ha dedicato l’intera vita, lo ha spinto ad accettare di dare il suo autorevole contributo a questo dibattito, contributo dedicato a tutti coloro che credono nell’importanza della memoria, della necessità di conoscerla e trasmetterla per potersi sentire ed essere cittadini - non sudditi – di un’Europa delle nazioni, ma non dei nazionalismi.


D.R. Jacques Le Goff, è possibile studiare la storia recente senza avere una conoscenza, più completa possibile, approfondita, del passato medievale a anche, probabilmente, dell’Antichità?


J.L.G. Se la storia ha conosciuto alcuni grandi sconvolgimenti, come ad esempio la caduta dell’Impero romano, che del resto è stata un lungo processo, o la Rivoluzione francese, che è stata un’eruzione più violenta, essa è però segnata essenzialmente dalla continuità. La storia è memoria. Una memoria che gli storici si sforzano, attraverso lo studio dei documenti, di rendere oggettiva, la più veritiera possibile: ma è pur sempre memoria. Non proporre ai giovani una conoscenza della storia che risalga ai periodi essenziali e lontani del passato, significa fare di questi giovani degli orfani del passato, e privarli dei mezzi per pensare correttamente il nostro mondo e per potervi agire bene. Io sono del resto, come discepolo di Fernand Braudel ma anche in modo per così dire indipendente, partigiano deciso della storia come lunga durata. I più importanti avvenimenti della storia sono quelli che durano, che maturano, quelli che formano l’ humus della nostra esistenza collettiva, come l’humus permette di coltivare e far fruttificare un terreno. Di conseguenza, bisogna sapere che essa - la storia - ci appartiene, e penso che questo sia probabilmente vero, grosso modo nella stessa maniera, per tutti gli europei.

Qual è il passato del quale dobbiamo trasmettere la memoria? Mi sembra indubbio che esso sia innanzitutto il passato greco-romano, cioè lo strato più profondo della civiltà europea. Sappiamo del resto che una delle funzioni, per così dire, dell’impero romano, della cultura romana, è stata quella di continuare, migliorare, diffondere la cultura greca. Anche quelli che non lo sanno, i nostri uomini politici meno interessati alla cultura, più intellettualmente mediocri, agiscono tuttavia avendo in fondo in fondo idee che vengono da Platone, Aristotele o Cicerone. E quando si parla di democrazia, tema di gran moda, di grande attualità, si sa bene che la parola e la cosa sono state inventate nella Grecia antica e in particolare ad Atene, non ostante che la democrazia greca antica fosse molto imperfetta, giacché non comprendeva le donne, gli stranieri, gli schiavi, che costituivano la maggior parte della popolazione. Il secondo strato di civiltà, di cui i giovani devono imparare quello che è stato e quello che ha lasciato, è il medioevo. Qui credo si tratti di qualcosa di essenziale, perché penso che, mentre il mondo greco-romano si incentrava sul bacino mediterraneo e corrispondeva ad una geografia molto diversa da quella della futura Europa, il medioevo ha fatto nascere l’Europa press’a poco entro i limiti geografici che oggi le corrispondono, dall’Islanda alla Sicilia; con un grande problema, che le genti dell’antichità e del medioevo non hanno saputo risolvere e che non sappiamo risolvere neanche noi: quello delle frontiere dell’est. Questo strato europeo è stato, evidentemente, segnato molto fortemente dal cristianesimo, e se la cultura europea contiene per così dire l’eco e l’eredità della filosofia greca e latina, essa contiene a maggior ragione l’eredità del cristianesimo. Però con il problema secondario che ci sono almeno due cristianesimi: il cristianesimo romano-latino e il cristianesimo greco-ortodosso, ciò che non semplifica le cose. Credo di poter dire che il cristianesimo romano-latino sia quello che ha maggiormente segnato l’Europa, ma penso che l’Europa che vogliamo costruire debba tener conto anche dell’altra forma di cristianesimo.

Vorrei sottolineare che il medioevo secondo me è stato un periodo più lungo di quanto si dica nelle scuole, nelle università e nei libri, perché a mio parere si è esteso dal tardo antico (lunga trasformazione dell’Impero romano in altra cosa, tra il III e il VII secolo, in nuove istituzioni e in una nuova cultura) fino a due avvenimenti che meritano il nome di rivoluzione alla fine del XVIII secolo: uno nel campo economico: la rivoluzione industriale, l’altro nel campo politico: la rivoluzione francese. Ma devo dire che già prima di questi grandi avvenimenti politici ed economici, l’Europa aveva attraversato una terza fase di fondazione: quella dell’Europa dei Lumi nel XVIII secolo. Prima di continuare, vorrei ulteriormente sottolineare come la conoscenza di queste diverse fasi sia essenziale per la conoscenza di un paese come l’Italia. Innanzitutto perché nell’antichità, dopo la Grecia, è Roma che ne ha raccolto, arricchito, diffuso l’eredità, e a sua volta ha trasmesso una lingua che si è imposta in direzione di tutte le lingue romanze, tra le quali l’italiano è chiaramente la principale. Importanza del medioevo evidente per l’Italia: il centro della nuova Europa medievale è Roma. Naturalmente ci sono problemi, perché la presenza della Chiesa, del papa, le pretese imperiali, le divisioni italiane, fanno sì che l’Italia abbia tardivamente e difficilmente trovato la propria unità, ma l’Italia c’è, e direi quasi che se non si vuole parlare d’Italia, bisogna almeno parlare degli italiani, che certo ci sono. Ed è proprio degli italiani che vogliamo insegnare ai più giovani chi sono e da dove vengono. Sottolineo che la periodizzazione proposta da me, al contrario di quel che si può pensare, non rifiuta un periodo considerato come essenziale per l’Italia: il Rinascimento. Tuttavia penso che il Rinascimento non costituisca un periodo a sé stante per tutta l’Europa. Penso che faccia parte di quel lungo medioevo che ha conosciuto numerosi rinascimenti: il rinascimento carolingio, il rinascimento del XII secolo (rinascimento nel quale il ruolo dell’Italia non è stato trascurabile) e quello che possiamo chiamare – e che io chiamo volentieri – il grande Rinascimento, del XV e XVI secolo, quando di fatto il ruolo dell’Italia è stato fondamentale. Possiamo aggiungere che ciò che sta per cominciare nell’ambito intellettuale: il passaggio dal medioevo a un’altro periodo in Europa, legato all’ambito scientifico che troverà il suo momento principale, le sue principali creazioni in Inghilterra, è però cominciato in Italia: Galileo Galilei. Una conoscenza della storia che lasciasse da parte Cesare, Cicerone, Carlo Magno, Dante, Giotto, per arrivare fino a Galileo Galilei, equivarrebbe a gettare gli italiani nell’ignoranza di chi essi siano e di cosa sia la loro vita. Infine, beninteso, ci sono – e non li voglio escludere dall’insegnamento della storia nelle scuole – i periodi più recenti: il XIX secolo, che è in particolare quello della formazione dell’unità italiana, e il XX secolo, più vicino a noi. Rimane, evidentemente, un grande problema, cioè che tutto questo è davvero molto.

Tocca dunque agli insegnanti di storia mettersi d’accordo, attraverso commissioni di studio e di riflessione, sul modo di proporre ad allievi e studenti un insegnamento della storia non troppo pesante. Bisogna cioè saper scegliere ciò che è più importante dire sulle epoche passate. Personalmente penso che la conoscenza di qualche data permetta di situare, di registrare meglio le cose, ma soprattutto penso che si debba far presente ai giovani una definizione, anche se rapida, dell’essenziale delle eredità soprattutto culturali e politiche. Penso anche che, aspettando che taluni si specializzino, magari nelle università, nello studio della storia, nelle scuole primarie e secondarie questo insegnamento della lunga durata storica debba avvenire in due cicli. Infatti lo sviluppo della comprensione nei giovani subisce una mutazione importante – non saprei dire quando con esattezza, i pedagogisti lo sanno meglio di me - ma suppongo verso i dodici-tredici anni e quindi ci vogliono i due cicli. Ma, ancora una volta, se l’insegnamento in Italia non partisse dall’antichità, temo che gli italiani avrebbero domani maggiori difficoltà per sapere cosa fare nella storia e per rendere il loro paese più ricco e fecondo di quanto sia stato finora.

 

D.R. Un grande problema oggi è quello della costruzione dell’Europa. Quali sono i valori ereditati dal passato che non possiamo trascurare? Quale il legato del medioevo cristiano?


J.L.G. Come si sa, ci sono state discussioni abbastanza aspre sul problema di sapere se nel progetto di costituzione europea si dovesse menzionare il cristianesimo oppure no. Direi che, se si tratta di ricordare le grandi tappe – ciò che ho chiamato i diversi strati successivi delle culture dell’Europa – la seconda, quella medievale, che considero come importantissima, è stata fortemente segnata dal cristianesimo.

Ma, in generale, ritengo che la costituzione politica di cui l’Europa ha bisogno debba essere una costituzione laica e se essa (la costituzione) vuole fare appello a una nozione, questa deve essere la nozione di laicità. Vorrei però precisare perché la laicità mi appare come il valore sul quale, certamente insieme alla democrazia, deve poggiare la nuova Europa. Infatti questa nozione (laicità) è certo una nozione molto antica, e si è sviluppata proprio in Europa. È una nozione che distingue l’Europa non solo dalle civiltà dell’estremo Oriente e dalle civiltà islamiche, ma anche dalla civiltà americana statunitense. Laicità che non è, o almeno non deve essere, una laicità antireligiosa. Deve essere una attitudine di neutralità rispetto alle religioni, considerate come credenze private, la pratica delle quali, a parte i segni esteriori provocatori, deve essere garantita dalle istituzioni. Ciò che di solito non si dice è che questa nozione, questa pratica della laicità, si è instaurata nel cuore stesso del medioevo, di questo periodo che viene presentato solo come un periodo di fede e di religione. Infatti è durante il medioevo che, in primo luogo, gli europei hanno cominciato a mettere in pratica il precetto evangelico "date a Cesare quel ch’è di Cesare".

Di conseguenza, la separazione tra il pubblico, laico e il privato, religioso, ha il proprio fondamento nel Vangelo stesso. In secondo luogo, la storia dell’evoluzione sociale e intellettuale del medioevo è in certo modo la storia degli sforzi dei laici cristiani per affrancarsi dalla dominazione ideologica della chiesa. Gli europei del medioevo hanno voluto affrancarsi, dal punto di vista sociale, dalla dominazione dal feudalesimo, e dal punto di vista intellettuale e spirituale dalla dominazione della chiesa, ma non hanno voluto essere antireligiosi. Erano laici nella misura in cui il cristianesimo stesso divideva la società tra chierici e laici, ma reclamavano l’indipendenza e i diritti che nel cuore stesso dell’ortodossia cristiana bisognava riconoscere ai laici. Dunque, anche se nei malaugurati conflitti posteriori la laicità ha potuto assumere aspetti aggressivi, essa deve essere riconosciuta come un valore essenziale, e questo esclude che ci sia nella costituzione dell’Europa e dei paesi che la compongono un riferimento esplicito alla religione.

 

D.R. C’è ancora un problema, particolarmente serio, particolarmente grave nella tradizione scolastica italiana, che, come sappiamo, per decenni e decenni ha mantenuto un legame stretto tra l’insegnamento della storia e quello della filosofia, ma non un legame sufficiente tra l’insegnamento della storia e quello della geografia. Oggi, in particolare, questo problema è veramente all’ordine del giorno. Cosa ne pensa Jacques Le Goff?


J.L.G. Sono stato da tempo colpito dal fatto che in Italia l’insegnamento della storia sia soprattutto legato a quello della filosofia; devo dire che si tratta di un orientamento che non condivido, perché secondo me la storia è una scienza positiva e non normativa, e se beninteso la filosofia, o almeno la storia della filosofia, fa parte dei temi di cui la storia deve occuparsi, i concetti che reggono l’esercizio e l’insegnamento della filosofia mi sembrano molto diversi da quelli che devono reggere l’insegnamento della storia, e a volte addirittura un po’ pericolosi.

La tradizione francese è molto diversa. Non voglio affatto che si pensi che sono animato dal nazionalismo - c’è purtroppo molto da ridire sulle tradizioni francesi – ma a questo proposito, uno dei punti forti, a mio avviso, dell’insegnamento della storia in Francia è che questo insegnamento è stato fortemente legato a quello della geografia. A tal punto che gli studenti preparano un’unica disciplina. Preparano (con quella che si chiamava, prima dell’instaurazione dei nuovi sistemi europei, la "licence") la "agrégation" di storia e geografia. Questa specificità si spiega con le particolari condizioni intellettuali e scolastiche della Francia della fine del XIX secolo. Sotto la Terza Repubblica si è instaurato il programma di insegnamento che in fondo non ha successivamente subito modifiche fondamentali. I geografi di quell’epoca, il principale dei quali è stato Vidal de la Blache, si sono interessati molto alla storia, perché erano persuasi che se la geografia studia fenomeni apparentemente naturali, questi stessi fenomeni hanno però subito una forte influenza culturale. Allo stesso modo, gli storici hanno pensato che la storia si fa sempre in un luogo, la storia si fa in uno spazio e che la natura di questi luogo e spazio è essenziale per la comprensione dei fenomeni storici che vi si svolgono. Del resto l’evoluzione di tale spazio è una componente essenziale della storia.

Come comprendere la storia antica, la storia greca antica, senza studiare la colonizzazione greca attraverso il Mediterraneo? Come comprendere Roma senza comprendere la costituzione dell’Impero romano dall’Asia minore fino alla Spagna e all’Inghilterra settentrionale? In particolare, entro lo studio della storia si inserisce lo studio di quel fenomeno essenziale e purtroppo fonte di conflitti: il fenomeno delle frontiere, che è strettamente legato alla geografia. I francesi dell’ epoca dei Lumi e degli inizi della Rivoluzione hanno tentato di costruire una nozione che unisse storia e geografia attraverso la nozione di frontiera naturale. Questo concetto non regge. Ci si accorge dunque che bisogna studiare in modo assai più critico e assai più approfondito i rapporti tra la storia e la geografia. Un altro tentativo, questo di origine tedesca, ha voluto introdurre legami stretti tra storia e geografia: l’idea che ogni popolo sia stato dotato di un suo spazio specifico per costruirvi la propria storia – lebensraum, spazio vitale – e in particolare questa nozione è stata data come giustificazione delle conquiste naziste in quanto sforzo di realizzazione di quel che sarebbe stato, dall’eternità, il lebensraum tedesco, il lebensraum germanico. È chiaro che questa concezione è ancora più ideologica dell’altra e si fonda su basi che non hanno assolutamente niente di scientifico. Tuttavia, una storia "oggettiva", un storia che cerchi di illuminare l’evoluzione storica in quello che ha di essenziale, deve studiare l’evoluzione dei popoli e delle società nello spazio, e quindi deve ricorrere alla geografia. Questo può spiegare al tempo stesso gli avvenimenti che noi consideriamo oggi sia come fenomeni positivi, sia come fenomeni negativi, dalla colonizzazione antica alla quale ho già fatto allusione fino a quelle che sono state chiamate le grandi scoperte e ai movimenti colonialisti che sono, dobbiamo dirlo, una delle grandi macchie dell’Europa: uno dei doveri del mondo attuale è di completarne l’eliminazione.

Ma – e lo vediamo bene, specialmente nelle discussioni per l’elaborazione della nuova Europa – quale è la geografia di questa nuova Europa? Quali ne sono i limiti? A questo proposito, vediamo bene come il problema si presenti ancora oggi a proposito dell’ingresso della Turchia nella comunità europea. Che rapporto c’è tra lo spazio e la storia? In cosa lo spazio e la storia, nell’evoluzione della loro occupazione, hanno potuto produrre gli europei? Come comprendere la storia degli Stati Uniti e dell’inperialismo americano dopo la dottrina di Monroe, senza guardare alla geografia? E del resto come comprendere la cosiddetta spartizione dell’Africa, o la spartizione dell’America da parte delle potenze colonizzatrici, senza fare intervenire la geografia? Possiamo spingerci più lontano. Unire la storia e la geografia equivale a unire i due elementi essenziali e strettamente legati della costituzione e dell’evoluzione delle società: spazio e tempo. Direi addirittura che separare la storia dalla geografia significa spezzare l’unione tra spazio e tempo che è la struttura essenziale delle nostre società e della loro evoluzione.