1. La scoperta di Spina
La straordinaria scoperta della necropoli di Valle Trebba, all’inizio degli anni Venti del secolo scorso, sancì l’ingresso di Spina nella storia, rendendo reali le mitiche vicende narrate dagli autori greci e latini.
Dionigi di Alicarnasso, Scilace, Strabone e Plinio il Vecchio, infatti, pur fornendo notizie di fasi diverse della storia di Spina, erano concordi nel collocarla nel delta del Po, nelle vicinanze della foce Spinetica o Eridanea. Scilace e Strabone tramandarono perfino la distanza della città dal mare: venti stadi (circa 3,5 km) per il primo storico - vissuto nel V o secondo alcuni studiosi nel IV sec. a.C. - mentre per il secondo, che scrive all’epoca di Augusto, si trattava di 90 stadi (circa 15 km). Per una città preromana, le informazioni topografiche delle fonti antiche erano del tutto eccezionali, ma non potevano valere nei secoli successivi a causa delle continue trasformazioni del paesaggio deltizio.
Boccaccio fu il primo ad interessarsi al sito nel corso del XIV secolo, affermando la corrispondenza fra la foce Spinetica e quella del Po di Primaro, ipotesi peraltro confermata dalle ricerche di storiografi, archeologi e ingegneri dei secoli successivi.
Quando, poi, a partire dalla metà dell’Ottocento vennero alla luce le tracce di Felsina e Marzabotto etrusche, Spina, che era ancora priva di documentazione archeologica, rimase ai margini del dibattito scientifico. Anzi, per spiegare la presenza delle tante ceramiche attiche nelle necropoli delle due città etrusche, il Brizio pensò allo scalo adriatico di Adria, ritenendo che Spina nel V sec. a.C., epoca dei vasi dipinti di Bologna, dovesse essere ormai molto distante dal mare.
Il casuale rinvenimento di una necropoli etrusca durante le opere di bonifica delle valli paludose nei pressi di Comacchio, pertanto, colse tutti gli studiosi di sorpresa. Nel corso degli anni Venti e Sessanta del XX secolo furono portate alla luce in Valle Trebba e Valle Pega oltre 4000 tombe, fino ad allora protette dalle acque lagunari che le avevano sommerse nell’Alto Medioevo. Le due aree funerarie presenti in tali valli erano parte di un’unica grande necropoli che si estendeva per 4 km ed era delimitata ad est dalla costa e ad ovest dall’abitato. Quest’ultimo venne rintracciato nella Valle del Mezzano solamente verso la fine degli anni Cinquanta ed è attualmente oggetto di nuove indagini.
2. L’abitato
Il sito dell’abitato si trova ai margini del dosso del paleoalveo dello Spinete, all’interno di un paesaggio lagunare. Le prime strutture abitative sorgevano sull’acqua, sostenute da pali e fascine, mentre qualche decennio più tardi, l’impianto abitativo dovette evolversi verso un insediamento su bonifica, caratterizzato da palificate e colmate. Fra il pieno V e IV sec. a.C., infine, nella fase di maggior splendore della città, le abitazioni sembra fossero completamente costruite in ambiente subaereo.
Fin dagli anni Sessanta, furono individuati i limiti del nucleo urbano che si estendeva per circa 6 ha, superficie piuttosto limitata, se la si confronta con altre note città etrusche (30 ha per Marzabotto, 90 ha per Vulci e 100 per Vetulonia). Verso il mare, la città era delimitata dal corso naturale dello Spinete, verso ovest, da un canale artificiale ed il perimetro era rinforzato da opere di contenimento, costituite da più file di palificazioni.
In anni recenti, indagini geognostiche hanno consentito di individuare uno schema urbano rigidamente pianificato, confermando l’ipotesi già avanzata in seguito alle campagne di scavo degli anni Sessanta e Ottanta. Il rinvenimento, infatti, in corrispondenza degli incroci degli assi stradali di decussis, generalmente grandi ciottoli su cui poteva essere incisa una croce, e del cippo con iscrizione mi tular, “io (sono) il confine”, avevano già suggerito un’organizzazione urbana secondo un impianto ortogonale con orientamento NNE-SSO. L’insediamento era attraversato longitudinalmente da un grande canale artificiale, a cui si legavano ortogonalmente canali minori, determinando la creazione di isolati regolari. In questa griglia, si inserivano le strutture edilizie, caratterizzate da una pianta quadrangolare, articolata in due o tre vani, e con funzione sia abitativa che produttivo-artigianale. Gli edifici erano costruiti con materiali deperibili e leggeri, con una struttura di legno assemblato che sfruttava sia la tecnica dell’incastro di travi che del telaio tamponato a graticcio. Le coperture principalmente straminee vennero progressivamente affiancate da tetti in tegole e coppi in tarda età ellenistica.
Le evidenze archeologiche individuano, pertanto, un centro portuale caratterizzato da case, magazzini e impianti produttivi destinati tanto alla ceramica quanto alla fusione dei metalli, in grado di accogliere le merci e stoccarle fino alla loro redistribuzione sul territorio o attraverso il Mediterraneo.
3. Le necropoli
Le bonifiche, realizzate fra gli anni Venti e Sessanta del secolo scorso, restituirono tombe ad inumazione e cremazione, di norma individuali, per un totale di 1413 sepolture in Valle Trebba e 2714 in Valle Pega. In antico, queste due aree funerarie erano parte di un unico vasto complesso che si sviluppava lungo cordoni sabbiosi paralitoranei, geologicamente stabili ed asciutti, frapposti fra il mare e l’abitato.
Le ricerche suggeriscono, inoltre, che importanti vie di acqua endolagunari costituissero gli assi principali su cui la necropoli venne organizzata fin dalla fine del VI sec. a.C. Nello specifico, è probabile che il seicentesco Canale Pallotta ne ricalcasse uno di epoca etrusca. Tale canale doveva partire dal ramo del Po a nord dell’abitato e puntare verso il mare, dividendo in due parti l’impianto funerario, secondo la suddivisione valliva tuttora rispettata, Valle Trebba a nord e Valle Pega a sud. Allo stesso tempo, anche la via diretta a nord, forse comunicante con il Sagis (il medievale Trebba) e da cui partiva la fossa Flavia, che ripercorreva un canale etrusco sfociante nelle paludi del porto etrusco di Adria (Plin. Nat. Hist. III, 120), doveva essere funzionale alla navigazione interna, ma anche a quella endocostiera tra Spina e Adria. Gli studi hanno, inoltre, dimostrato che lungo questo stesso canale paralitoraneo si catalizzarono le sepolture più antiche e che queste, a loro volta, furono per lungo tempo fulcro per il raggruppamento delle tombe successive, seguendo una concezione arcaica ed aristocratica dello spazio funerario. Questi recinti di sepolture si installarono in corrispondenza di rialzi sabbiosi che emergevano dalle acque lacustri, secondo meccanismi di visibilità che si riscontrano anche nella coeva Felsina.
Trattandosi di un ambiente mutevole, i terreni sabbiosi dovettero essere spesso oggetto di interventi di contenimento, dimostrati dal rinvenimento di alcune palizzate; mentre, soprattutto fra il IV e il III sec. a.C., si assiste allo sfruttamento di zone che dovevano essersi progressivamente interrate.
L’analisi del rituale e del dato topografico hanno anche rivelato come le sepolture rispecchino un graduale aumento della strutturazione della società, in cui emerge un ristretto gruppo di persone con importanti ruoli politici e sociali, forse rintracciabile nelle forme di monumentalizzazione esterna (tumuli di terra e segnacoli lapidei) adottate da alcune sepolture del sepolcreto.
Lo sviluppo economico e sociale che interessò la città agli inizi V sec. a.C. pare possa essere messo in relazione con le logiche di organizzazione dello spazio funerario, come suggerito dalla disposizione delle sepolture di pieno V sec. a.C. su file parallele in Valle Trebba. Anche l’aumento delle tombe e i significativi cambiamenti nel rito funerario, nel corso del IV sec. a.C., potrebbero essere spiegati ancora una volta con fenomeni di carattere sociale ed economico, nonché con la crescita demografica.
L’area venne abbandonata sul finire del III sec. a.C., per essere nuovamente frequentata in epoca romana. Fra le testimonianze di questa fase spicca l’edificazione della villa di Bocca delle Menate.
Bibliografia generale:
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