Pearl Buck: parlare alle masse nell’America della logocrazia

Elena Lamberti

Nel 1938, Pearl Buck (1892-1973) fu la prima scrittrice nordamericana a ricevere il premio Nobel per la letteratura. Alla vigilia della seconda guerra mondiale e in un anno tanto tragico per la storia d’Europa e del Novecento, quel premio letterario venne dato a una scrittrice la cui opera narrava di terre e di tempi remoti: la Cina. 

1. Premio Nobel per la Letteratura alla vigilia della seconda guerra mondiale

2.Pearl Buck oggi: un revival viziato da cliché

3. Nobildonna e filantropa: l’inconografia di Pearl Buck

4. Scrittrice per le masse, non per gli intellettuali

5. Bibliografia

6. Sitografia

 

1. Premio Nobel per la Letteratura alla vigilia della seconda guerra mondiale

Nel 1938, Pearl Buck (1892-1973) fu la prima scrittrice nordamericana a ricevere il premio Nobel per la letteratura “for her rich and truly epic descriptions of peasant life in China and for her biographical masterpieces”. L’anno prima, l’adattamento cinematografico del suo romanzo più noto The Chinese Earth, pubblicato nel 1931, era stato un successo internazionale, con ben cinque candidature agli Oscar (miglior film, migliore regia, miglior montaggio, miglior fotografia e miglior attrice) e un incasso importante al botteghino.

È interessante notare come, alla vigilia della seconda guerra mondiale e in un anno tanto tragico per la storia d’Europa e del Novecento, quel premio letterario venne dato a una scrittrice la cui opera narrava di terre e di tempi remoti, di una Cina medievale e rurale lontana dall’immaginario dei lettori occidentali e dalla contemporaneità. Per la Germania nazista, il 1938 divenne “the fateful year”, l’anno della Kristallnacht e della radicalizzazione delle persecuzioni contro gli ebrei. In Italia, fu l’anno delle leggi razziali promulgate dal regime fascista e in Europa fu l’anno del vergognoso accordo di Monaco, che vide le democrazie occidentali accettare l’annessione nazista della Sudetenland nella Cecoslovacchia occidentale. In Asia, fu l’anno in cui la seconda guerra cino-giapponese subì una escalation, con la Cina impegnata a respingere l’invasione delle truppe giapponesi. Ironicamente, il 30 ottobre del 1938, un giovanissimo Orson Welles causò il panico in diverse regioni degli Stati Uniti con il suo adattamento radiofonico del romance di H.G. Wells La guerra dei mondi; pochi anni dopo, le notizie che vennero trasmesse via radio da Pearl Harbor in seguito all’attacco aereo giapponese portarono un panico molto più concreto, legato a un evento non più immaginato ma reale. In quel contesto storico, Pearl Buck venne acclamata soprattutto come mediatrice culturale, come autrice tesa a sostenere l’amicizia internazionale tra i popoli, a partire dalla riscoperta di tradizioni comuni, prima su tutte l’amore per la terra e per il duro lavoro delle classi più umili.

2. Pearl Buck oggi: un revival viziato da cliché

È interessante notare come oggi, a distanza di ottant’anni da quel riconoscimento letterario e in un momento di rinnovate tensioni economiche e politiche tra Stati Uniti e Cina, Pearl Buck vive un momento di revival, in entrambe le nazioni, sempre come autrice dedita all’accoglienza delle differenze e dell’alterità. In Italia è uscito nel 2018 Pearl Buck: una scrittrice americana in Cina, a cura di Bettina Mottura e Carlo Pagetti. per Tangram Edizioni Scientifiche Trento. Ancora una volta, però, la ricezione di questa donna straordinaria per scelte di vita, per impegno civico e per produzione letteraria, sembra rimanere circoscritta a un cliché interpretativo funzionale a un contesto né ingenuo, né neutrale. Ancora una volta, infatti, il recupero e l’elogio di Pearl Buck è costruito soprattutto a partire da discorsi incentrati su questioni etniche o nazionaliste.

E se, invece, si desse al termine alterità, caro all’autrice, anche una valenza di censo, legata alle differenze di opportunità e di condizione economica, di accessibilità alle risorse, di pari opportunità? Sono, queste, condizioni di vita che portano ogni nazione a fare i conti non solo con ciò che sta al suo esterno (o che irrompe nel proprio ordine), ma anche e soprattutto con ciò che si trova già al suo interno e che potrebbe mettere in discussione l’immagine (spesso positiva e rassicurante) che ogni nazione ha di sé. Per esempio, riflettere sulla diversa distribuzione della ricchezza e sulle diverse opportunità date a ogni cittadino potrebbe portare gli Stati Uniti (e molte democrazie occidentali e non) a mettere in discussione il modello di capitalismo liberal già osteggiato da Pearl Buck, che, a metà del Novecento, lo denunciava come nuova forma di imperialismo.

Certo, non vuol dire abbracciare tout court l’idea di un nuovo comunismo “liberal” made in China, ma vuol certamente dire accettare l’idea che ci siano altri modelli economici possibili in seno a ogni nazione e, dunque, nel mondo. Per questo, è affascinante pensare a Pearl Buck come a una signora che, alla vigilia della seconda guerra mondiale, abbia non solo incoraggiato l’idea di fratellanza (e sorellanza) tra i popoli, ma anche come a una voce critica (e potenzialmente sovversiva) delle politiche economiche che hanno portato l’occidente (gli USA) a creare un modello dominante ma non equo. Come denunciato dalla stessa Buck nei suoi scritti più esplicitamente coraggiosi, il modello liberal statunitense poggiava sullo sfruttamento economico di altre nazioni (in Asia così come in America Latina) finalizzato alla preservazione e al potenziamento del proprio benessere, spesso con il coinvolgimento diretto o indiretto in guerre e politiche di e in altre nazioni. È questa, in fondo, un’idea particolare di amicizia tra i popoli che, nel tempo, è stata definita come “esportazione della democrazia” e che non piaceva a Pearl Buck. 

La sua idea di amicizia era, infatti, incentrata sull’idea di dialogo tra le differenze, sull’ascolto e sul rispetto di tradizioni diverse. Quella di Pearl Buck è un’idea di amicizia che poggia, in fondo, sull’idea che si possa essere vulnerabili alla differenza, ovvero che si possa migliorare imparando dagli altri, accogliendo idee diverse per rivedere e arricchire le proprie. Quella di Pearl Buck è stata dunque un’idea di accoglienza potenzialmente pericolosa perché capace di mettere in discussione il modello di società nordamericana. Non a caso, questa autrice è stata sorvegliata a lungo del Federal Bureau of Investigation (FBI): i dossier che la riguardano sono stati desegretati solo di recente (Valeria Gennero, 2011).

In Cina Pearl Buck ci era arrivata ancora in fasce insieme ai genitori missionari; aveva imparato il cinese prima dell’inglese, pensava in cinese e scriveva in inglese, aveva una profonda conoscenza della cultura e delle tradizioni della nazione che fu per lei una seconda patria. Eppure, questa signora competente e colta non ebbe mai fortuna come consigliera politica dell’establishment americano, anzi. Allo stesso modo, venne sempre guardata con sospetto dal governo rivoluzionario cinese, proprio per il suo essere americana, figlia di una nazione capitalista e neo-imperialista, così come per il suo essere contraria al nuovo comunismo (Michael H. Hunt, 1977). Fu costretta a lasciare, per sempre, la Cina e a rientrare negli Stati Uniti, dove continuò la sua attività di scrittrice integrandola con una grande attività filantropica di assistenza ai bambini asiatici e agli orfani nati da matrimoni misti. Fondò così la Welcome House Inc., la prima agenzia di adozioni interrazziali e la Pearl Buck Foundation, dedita a combattere la povertà e la discriminazione infantile nelle nazioni asiatiche, dalla Corea del Sud al Vietnam, dalle Filippine alla Tailandia. Nell’immaginario statunitense e internazionale, Pearl Buck divenne così una scrittrice attivista e generosa che appagava la buona coscienza degli americani (e, per traslato, degli occidentali), mentre questi erano impegnati a esportare una certa idea di “democrazia” in Asia (dopo la Corea, il Vietnam).

Questa immagine di Pearl Buck filantropa è divenuta, nel tempo, una sorta di cliché interpretativo che ha offuscato ogni altra percezione della sua opera e del suo pensiero politico; un cliché che ha permesso di tenere sullo sfondo alcune idee potenzialmente sovversive potenzialmente pericolose per un establishment che ha saputo utilizzare la comunicazione di massa per educare il popolo, spesso distraendolo per preservare i privilegi meno visibili di pochi. Oggi lo si può dire: Pearl Buck è stata sorvegliata dalla FBI non tanto e non solo per le sue idee contrarie alle politiche americane in Asia, ma soprattutto perché quelle idee costituivano una minaccia per l’essenza stessa del capitalismo americano dato che questa signora, sempre elegante e posata, difendeva per davvero tutto il popolo e non solo pochi privilegiati. Pearl Buck non ha mai fatto parte dell’establishment statunitense e questo a dispetto del suo apparire più come una nobildonna che come una donna del popolo.

 

3. Nobildonna e filantropa: l’inconografia di Pearl Buck

In effetti, pensare a Pearl Buck come a una nobildonna del Novecento non è difficile. Se si ripercorrono le apparizioni pubbliche, Pearl Buck appare sempre elegante, indossa il filo di perle o la borsetta o il cappellino (o tutto), se intervistata risponde con calma e arguzia, la voce acuta ma suadente, cantilenante e dall’accento (quasi) britannico. In tante fotografie, Pearl Buck appare come una lady colta e filantropa, sorridente o intenta alla nobile arte della scrittura (una delle poche arti concesse, quasi da sempre anche alle donne, poiché scrivere un diario o un romanzetto fa parte dell’idea stereotipica della nobildonna); viene mostrata come una signora raffinata, che abbraccia i bambini delle sue Welcome Houses, che la ricambiano e la circondano con affetto e allegria.

Pearl Buck: parlare alle masse nell’America della logocrazia: Pearl Buck

L’immagine pubblica di Pearl Buck si costruisce così su una iconografia ripetuta, perfino rassicurante, che, nel tempo, ha finito col creare una cornice interpretativa importante, che può avere condizionato, non necessariamente in positivo, la percezione delle idee di questa autrice, tanto in Cina quanto negli Stati Uniti. Ci si riferisce in questo senso non tanto alle idee letterarie, quanto a quelle politiche o sociologiche, quelle che, certamente, hanno permeato anche la poetica di Pearl Buck, se al termine poetica applichiamo la nota definizione di Umberto Eco, ossia la poetica di un autore si costruisce a partire da un progetto operativo e da una forma, che è a un tempo originale e tradizionale, ovvero sviluppata a partire dal temperamento dell’autore o dell’autrice, ma comunque inscritta in un vasto repertorio di modelli estetico-formali verso i quali si hanno debiti più o meno importanti.

La forma letteraria di Pearl Buck ha una sua estetica radicata tanto nella tradizione realista americana che in quella del romanzo popolare cinese (come ben ha raccontato lei stessa nel suo discorso di accettazione del premio Nobel). Il suo progetto operativo, invece, era alquanto originale per il periodo storico in cui venne proposto poiché mirava all’amicizia tra popoli tradizionalmente lontani e reciprocamente diffidenti gli uni verso gli altri alla vigilia di una tremenda guerra mondiale che portò (forse) la pace in occidente, ma che pose le basi per altre rovinose guerre in estremo oriente. Eppure, questa immagine di nobildonna elegante e raffinata non ha giovato alla credibilità di Pearl Buck quale consulente per le relazioni internazionali tra USA e Cina, su entrambe le sponde. Questa può sembrare un’affermazione azzardata, comunque da dimostrare. Eppure, vale la pena rifletterci poiché il Novecento è stato anche e soprattutto il secolo dell’immagine e, spesso, la politica si è consolidata anche attraverso iconografie costruite (o argomentate) ad arte. (John Sinclair, 2016). 

Così, se è vero che le opere letterarie di Pearl Buck hanno giocato un ruolo nel supportare la necessità americana di riconsiderare il proprio punto di vista sulla Cina e sulla popolazione cinese più per strategia bellica che per slancio umanitario (alla vigilia della seconda guerra mondiale, il nemico sarà il Giappone e, dunque, occorrerà prendere posizione a favore della Cina), è altrettanto vero che, nel secondo dopoguerra, la popolarità dell’autrice non si è mai accompagnata a una stima politica concreta da parte della governance statunitense.

Nonostante la sua dichiarata avversione per la rivoluzione comunista, l’idea di fratellanza tra il popolo americano e quello cinese non ha fatto breccia nell’establishment, rimanendo imprigionata nella cornice, in fondo ideale e idealizzata, dei romanzi. Nell’America degli anni Cinquanta, questa signora elegante sembrava parlare, appunto, come una nobildonna d’altri tempi, di una Cina ormai passata. Cosa poteva saperne, in fondo, del nuovo assetto mondiale in seno al quale gli Stati Uniti (e non solo loro) promuovevano un’idea di amicizia tra le nazioni costruita più su negoziati e mercati, che su ideali di fratellanza? Benissimo che la signora si occupasse di bambini, per quanto il suo occuparsene fosse, in fondo, atto politico: le Welcome Houses di Pearl Buck, il suo programma di adozione di bambini orfani o abbandonati dal padre, nati da matrimoni misti, così come la sua Fondazione, ricordavano, infatti, agli americani le conseguenza tangibili di quei negoziati, di quei mercati (e delle diverse guerre combattute per consolidarli) sulla gente comune di altre nazioni.

Fedele alla sua iconografia, Pearl Buck sembrava una zia, dolce ma determinata, che si prendeva cura dei figli non riconosciuti dagli americani di stanza, per ragioni diverse, in Cina così come in altre regioni dell’Asia. È stata lei a sollevare il problema; è stata lei a proporre soluzioni; è stata lei a creare programmi di assistenza che prima non esistevano. Per buona parte del secondo Novecento, nell’immaginario americano, la signora Buck è diventata così una figura un po’ familiare e un po’ scomoda, una nobildonna sempre composta, certo sagace ma pronta a rimproverare il comportamento scorretto e, a suo dire, miope dei suoi connazionali (e, soprattutto, della leadership americana). Allo stesso modo, la sua avversione per il comunismo, come già il suo appartenere alla élite americana sul suolo cinese, non le facilitarono le cose con i nuovi leader. Quell’iconografia in fondo un po’ sussiegosa ha certo contribuito a creare anche una certa diffidenza tangibile sul suo amore per il popolo cinese. Cosa aveva a che fare quella signora elegante e privilegiata con il vero popolo cinese che con la rivoluzione voleva sovvertire la gerarchia imperiale? Come si può parlare davvero per il popolo se, da sempre, si vive in una condizione di privilegio e non si pensa che il popolo possa autodeterminarsi, ma abbia bisogno di una guida autorevole?

4. Scrittrice per le masse, non per gli intellettuali

Diventa interessante notare come, nonostante il suo aspetto elitario e distaccato, Pearl Buck sia stata osteggiata anche e soprattutto dall’intellighenzia e da molti intellettuali del suo tempo, piuttosto critici sulla qualità artistica ed estetica della sua vasta produzione. Autrice di grande successo internazionale (è nota la pubblicazione di molte sue opere sul Reader’s Digest, tradotto in più lingue per buona parte del Novecento), Pearl Buck è stata oggetto di critiche feroci da parte di molti intellettuali a lei coevi proprio per il suo non essere interessata a esplorazioni stilistiche, bollata come autrice di lettura fin troppo facile, buona per le masse ma senza qualità letterarie. È ironico notare come i suoi detrattori assomiglino, nel loro modus operandi, a quegli “studiosi cinesi” che lei stessa criticò nel suo discorso di accettazione del premio Nobel, allorché si presentò non come artista, ma come scrittrice popolare:

 

The novel in China was never an art and was never so considered, nor did any Chinese novelist think of himself as an artist. The Chinese novel, its history, its scope, its place in the life of people, so vital a place, must be viewed in the strong light of this fact. It is a fact no doubt strange to you, a company of modern Western scholars who today so generously recognize the novel.

 

A quella “company of modern Western scholars”, l’autrice spiegò come in Cina l’arte e il romanzo fossero state sempre due cose ben distinte:

 

In the past the scholars found their rules in art. But the novel was not there, and they did not see it being created before their eyes, for the people created the novel, and what living people were doing did not interest those who thought of literature as an art”.

 

Nel suo celebre discorso, sono molti i passaggi che la vedono schierarsi a favore degli uomini e delle donne comuni, coloro che non sono perfetti ma sinceri. Quegli uomini e quelle donne “are ugly and imperfect, incomplete even as human beings, But they are people and therefore infinitely to be preferred to those who stand upon the pedestal of art”. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, queste non sono affermazioni paternalistiche tese a riaffermare il cliché che vuole questa autrice come nobildonna affezionata alle masse e, dunque, protettiva se non addirittura populista. Leggendo con attenzione quel discorso, infatti, emerge sia la profonda consapevolezza di Buck delle strategie della nuova comunicazione di massa, sia la sfida che implicitamente lancia agli intellettuali del suo tempo e che, di fatto, la rende loro nemica.

Se, a prima vista, Pearl Buck sembra impartire una lezione sulla storia del romanzo cinese alla raffinata platea occidentale, in realtà questa signora elegante lancia un messaggio molto più pericoloso e pervasivo, capace di suscitare preoccupazione per il suo minare la ragione d’essere di quella stessa intellighenzia. Nel suo discorso, infatti, Pearl Buck prende a pretesto la storia letteraria cinese per parlare, in realtà, di una condizione universale, tanto allora quanto oggi, quella che vede contrapposti, nelle diverse nazioni, coloro che hanno benessere e privilegi e coloro che non li hanno: la classe dominante, l’establishment politico e intellettuale da un lato, la gente del popolo, le masse, dall’altro. Laddove insiste sulla fratellanza, pure ricorda che esiste uno iato tra la massa e l’élite che la governa. Non solo: Pearl Buck denuncia anche come questa élite operi per preservare la propria condizione. Soprattutto nel suo contemporaneo denuncia l’uso strumentale dei nuovi mass media per educare le masse in modo da mantenerle in uno stato di studiata ignoranza, e prevenire una vera e propria presa di coscienza, una vera e propria consapevolezza critica.

Parlando a una platea di intellettuali occidentali e attraverso una retorica obliqua, Pearl Buck mette a nudo i limiti democratici di quella che già Washington Irving aveva chiamato “logocrazia”, quel governo della parola usata per perseguire fini e scopi funzionali a una determinata casta. Non a caso, avviandosi alla conclusione del suo discorso, Pearl Buck insisteva sul fatto che la sensibilità più vera della gente comune era “unspoiled, and their emotions are free”. È questo un magnifico understatement per ricordare come, invece, l’intellighenzia e l’establishment utilizzassero la loro arte e le loro parole per condizionare le emozioni dei lettori e dei cittadini, non per favorirne comprensione o empatia, ma per distrarle e guidarle verso passioni utili a preservare i privilegi di pochi. Così, parlando delle divisioni tra romanzieri e intellettuali, Pearl Buck si schiera senza esitazione a favore di forme di narrazione popolari create dalla gente e per la gente (e non dagli artisti o dagli intellettuali per la loro audience). Sfida gli intellettuali occidentali e dichiara:

 

And like the Chinese novelist, I have been taught to want to write for these people. If they are reading their magazines by the million, then I want my stories there rather than in magazines read only by a few.

 

Quella che a prima vista sembra essere solo un’affermazione populista, in realtà suona particolarmente minacciosa alle orecchie di chi sa intendere, soprattutto se si considera che, nel 1938 nel mondo occidentale, la cultura popolare non era più solo un mero strumento di intrattenimento per farsi beffe della cultura cosiddetta alta. Proprio a partire da quel decennio, e con enfasi crescente, nuove forme e nuove tecnologie della comunicazione avevano trasformato le produzioni popolari in mezzi di manipolazione delle masse al fine di creare consenso senza consenso, quel Profit over People di cui avrebbe parlato Noam Chomsky sul finire del secolo. (Chomsky, 1998) Non a caso, uno dei più grandi oppositori di Pearl Buck fu Henry Luce, uno dei più potenti magnati della stampa statunitense, fondatore di Time e proprietario di Life (che contribuì a rilanciare come rivista di fotogiornalismo proprio nel 1937 con un reportage dal fronte spagnolo). Gli eventi iconici, definiti da Patricia Leavy (2007) come quelle iconografie mass-mediatiche che giocano un ruolo fondamentale nella costruzione della memoria e della identità collettive, hanno origine proprio nel sistema mediatico consolidato nel corso degli Anni trenta da magnati della stampa e dell’informazione come Luce. 

Si può, invece, credere all’onestà delle intenzioni di Pearl Buck laddove dimostra una fiducia sincera, incondizionata e per questo ingenua, nella gente comune in un momento storico in cui anche in seno alle democrazie occidentali quella stessa gente è vista più in termini di audience e profitto, che non come cittadinanza attiva e pensante. Establishment e intellighenzia sanno come utilizzare la comunicazione per plasmare la sensibilità popolare. Il punto è che lo sapeva anche Pearl Buck e, soprattutto, lo rende noto alla casta nel suo discorso di accettazione del Nobel. Lo dice apertamente, anche lei sa come raggiungere milioni di persone e, cosa più importante, anche lei ha un messaggio da diffondere: un mondo diverso, equo e sostenibile è possibile proprio a partire da un rinnovato rispetto delle differenze, da uno scambio reale di pratiche e tradizioni diverse.

Nel suo stile pacato ma implacabile, Pearl Buck suggerisce come il neo colonialismo commerciale non sia né debba essere un modello intoccabile. Così facendo, insinua un’idea pericolosa di soft power ante litteram, evidenziando una crepa in quello che Lewis Mumford chiamerà Il Pentagono del Potere.(Mumford, 1967; 1970) Alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel momento stesso in cui ideologie contrapposte portavano avanti azioni e rivoluzioni sostenendo di agire per il bene del popolo, Pearl Buck incarna così un’idea diversa di cosa si possa intendere per “bene del popolo”.

Inevitabilmente, fu fiera avversaria tanto di un modello capitalista teso verso un nuovo imperialismo (non solo commerciale) che di un modello comunista che negava ogni libero arbitrio. Pearl Buck denunciò con forza ciò che queste due ideologie avevano, di fatto, in comune, ovvero il loro dipendere da un uso strumentale e strategico dei nuovi media e delle nuove tecnologie della comunicazione per manipolare la massa e creare consenso funzionale alla preservazione di un potere al servizio di pochi. Se nel 1948 George Orwell dipinse il comunismo come un Grande Fratello imposto al popolo, negli anni sessanta Marshall McLuhan esplorò il modello capitalista come sistema mediatico complesso fondato sulla interiorizzazione subliminale dell’idea stessa di Grande Fratello postulata attraverso le nuove forme di cultura di massa (“Business and political life will take on mainly the character od diversion and entertainment for the passive public”).

In effetti, come dimostrato da Edward Bernays (1928), non c’è differenza nei meccanismi psicopercettivi adottati dalla propaganda politica e da quella commerciale. Ed è proprio questa consapevolezza che ha reso Pearl Buck testimone importante del suo tempo, attivista garbata ma determinata; è stata lei a ricordarci che anche nelle democrazie occidentali, laddove tutti sono uguali, c’è comunque qualcuno che è “più uguale di altri”. Nell’epoca in cui si continua a ripetere che uno vale uno, forse vale la pena rileggere Pearl Buck, soprattutto negli scritti più politici e a partire dal suo discorso di accettazione del premio Nobel, non fosse altro che per ricordarsi che i proclami ripetuti all’infinito diventano, già nell’immediato, slogan svuotati di sostanza e noi cittadini liberi di assomigliare tutti, seppure inconsciamente, ad un unico modello creato ad arte.

5. Bibliografia

Bernays Edward, Propaganda, 1928

Chomsky Noam, Profit Over People,1998

Ciccotti Claudio,The Good Earth: Alla scoperta della Cina con Pearl Buck, 2017

Gennero Valeria, Intercultural Mediation and Subversive Patriotism, 2011

Hunt Michael H., “Pearl Buck – Popular Expert on China, 1931-1949”, in Modern China, 1977

Leavy Patricia, Iconic Events. Media, Politics and Power in Retelling History, 2007. Mottura Bettina e Pagetti Carlo, Pearl Buck: una scrittrice americana in Cina, 2018

Mumford Lewis, Technics and Human Development: The Myth of the Machine, 1967

Mumford Lewis, The Pentagon of Power: The Myth of the Machine, 1970

Pinotti Andrea, Somaini Antonio, Cultura visuale. Immagini, sguardi, media, dispositivi, 2016

Sinclair John, La società dell’immagine, 1991

 

6. Sitografia

Pearl Buck, Nobel Lecture, nobelprize.org (data di ultima consultazione: 30/08/2021)

 

Foto da theatlantic.com (data di ultima consultazione: 30/08/2021)