Dorothy Parker: tra arte e impegno politico

Elena Lamberti

La fortuna critica di Dorothy Parker ha avuto un andamento decisamente discontinuo: in auge tra gli anni Venti e Trenta come poetessa, autrice di racconti e di pungenti articoli su varie riviste d’epoca, (è tradotta in italiano da Montale e pubblicata nel 1941), già in ombra negli anni cinquanta nonostante qualche riconoscimento pubblico e il conferimento di qualche premio letterario, muore in solitudine a metà degli anni sessanta, proprio alla vigilia della nota “rivoluzione culturale” lei che, a suo modo, rivoluzionaria nei costumi e nello stile di vita lo era da sempre. 

Un primo recupero letterario di Dorothy Parker ha inizio negli anni settanta, anche in Italia (il merito, da noi, è in quegli anni di Fernanda Pivano, autrice delle introduzioni alle edizioni Bompiani e Garzanti, rispettivamente del 1971 e del 1975), ma è solo dalla seconda metà degli anni Ottanta e lungo tutti gli anni Novanta che vengono ripubblicate le opere e che iniziano ad uscire monografie e studi critici sull’autrice. Questo cammino altalenante ha impedito, nel tempo, di inscriverla a pieno titolo nel cosiddetto “canone letterario” nordamericano; la sua è rimasta così a lungo una figura citata in colorite cronache del tempo, ma poco connotata rispetto ai grandi padri del modernismo d’oltreoceano: Eliot, Pound, e.e. cummings per la poesia (ma anche Edgar Lee Masters, che nella sua Antologia di Spoon River offre un modello prezioso al wit della Parker), Hemingway, Fitzgerald per i racconti, ma anche Dos Passos, per l’attenzione politica e il connubio arte/impegno sociale. 

Dorothy Parker

Se i critici sono stati fin da subito concordi nel giudicare bene i suoi racconti, le poesie hanno spesso suscitato reazioni contrastanti: piacevano il wit, il senso dell’umorismo, l’uso del paradosso, l’ironia, ma faceva storcere il naso l’eccessivo sentimentalismo presente, a detta dei critici più severi, nelle liriche della Parker, la sua attenzione esasperata per uno stesso tema, l’amore infelice, quella rilettura quasi maniacale della guerra dei sessi, la perenne battaglia tra uomini e donne, che è al centro di pressoché tutta la produzione poetica della Parker. Tema che si ritrova, naturalmente, anche nei racconti, dove però viene complicato poiché non solo è posto al centro del discorso narrativo, ma viene spesso impiegato come pretesto per riflettere su altre questioni di più ampio respiro: il razzismo, l’alienazione degli individui che vivono in un’America ambigua che nasconde nuove frustrazioni sotto la maschera del divertimento forzato, la crisi della famiglia borghese, le ingiustizie sociali di un mondo dominato da crescenti differenze economiche. 

Sono, quelli della Parker, racconti scomodi e fastidiosi, che, come quelli di Raymond Carver, costringono il lettore ad una smorfia amara proprio per il loro rivelare miserie umane vissute come ineluttabili, situazioni implose in cui la ribellione è spesso immaginata, ma raramente posta in essere. Quello dei racconti è un mondo popolato da personaggi (quasi sempre donne) alienati, passivi, grotteschi e pavidi, e anche la risata che di tanto in tanto l’autrice ci strappa non ci risolleva, non ci conforta.

Il rapporto tra Dorothy Parker e il modernismo è, dunque, un rapporto difficile, almeno per la ricezione critica, così che ancora oggi il nome della Parker è associato soprattutto alla nota “Tavola Rotonda” dell’Algonquin Hotel, versione newyorkese dei più noti cafès e bistrots parigini immortalati nelle memorie di Hemingway e di altri famosi espatriati. Evocare Dorothy Parker in quel contesto vuol dire pensarla come penna pungente e critica spudorata, come maschietta ribelle al centro di cronache rosa più o meno salaci, cronache che però si sovrappongono ai resoconti relativi al suo impegno politico che la vide, nel tempo, marciare contro la condanna di Sacco e Vanzetti (fu arrestata nel 1927 proprio a causa di una marcia di protesta), andare in Spagna come corrispondente per raccontare l’eroismo dei soldati repubblicani, impegnarsi ad Hollywood (dove pure lavora come sceneggiatrice a diverse produzioni) a difesa delle nuove rivendicazioni sindacali, prendere posizione contro la discriminazione razziale e a favore della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People). 

Dorothy Parker

Se questi aspetti della vita di Dorothy la avvicinano ad altri autori engagés attivi negli stessi anni, pure nel contesto tardo-modernista Dorothy Parker deve essere annoverata anche per un altro aspetto importante e caratterizzante, ovvero, per la sua ricerca artistica, che si traduce in una consapevolezza formale lucida e perseguita con una costanza pari a quella dei più celebrati colleghi. E’, la sua, una ricerca formale che si gioca soprattutto nell’ambito del racconto breve, genere in quegli anni ripreso e perfezionato proprio dai grandi autori nordamericani, inscritto in una tradizione che ha radici solide nell’ottocento statunitense (si pensi a Irving, Poe, Melville, tanto per citarne alcuni) e che, negli anni Venti, diventa forma perfetta per rendere le inquietudini e le esplorazioni della nuova generazione perduta. Da Bradbury a Kermode a MacShane, sono molti i critici che hanno definito il racconto, la short-story, come il genere americano per eccellenza. E di questo ne è consapevole anche Dorothy Parker, che proprio a questo genere dedicherà una antologia tematica pubblicata nel 1965 insieme a Frederick B. Shroyer, critico e docente al California State College di Los Angeles (Short Story – A Thematic Anthology, New York: Charles Scribner’s Sons).

Nella breve introduzione all'antologia, la Parker definisce il genere racconto come forma versatile, proteiforme e mutevole e per definire sia il genere racconto, che il rapporto tra lo scrittore e la sua materia, l’esperienza e la resa dell’esperienza in parole, suggerisce una metafora che non può non far pensare subito a Hemingway. Il racconto, ci dice Dorothy:

 

è qualcosa di più di un semplice sguardo nel mondo visto da un autore. E’ il prodotto di un mestiere e di una intelligenza. La sua brevità ne rende difficile la scrittura perché deve arrivare al punto con poche parole. […] In un certo senso, un buon racconto è molto più lungo delle parole che lo formano. Il lettore che lo legge sente di sapere molto di più dei personaggi e delle situazioni della storia di quel che gli ha rivelato l’autore. In un certo senso, un racconto è un po’ come un iceberg: la massa di ghiaccio che si vede sull’acqua è molto più piccola di quella che sta sotto e che la sostiene. L’autore, prima e mentre scrive il suo racconto, vagabonda molto più a lungo tra le vite dei suoi personaggi di quel che gli permette di dire lo stesso racconto in modo esplicito. Il racconto finito si regge proprio su questo grande coinvolgimento intellettuale ed emotivo dell’autore, che resta non detto. E’ questo il legame che il lettore avverte quando legge un buon racconto e sente di sapere molto di più su quella gente e sul loro mondo di quello che l’autore gli rivela direttamente.” (Parker, 1965: vii).

 

L’architettura di un buon racconto, dunque, è paragonabile a quella di un iceberg. È la stessa metafora che ha da poco usato Ernest Hemingway, che in una intervista a cura di George Plimpton e pubblicata nel 1958, affermava:

 

Se uno scrittore smette di osservare è finito. Ma non è che debba farlo consapevolmente, pensando che potrebbe servirgli. Forse all’inizio è diverso, ma col tempo, tutto quello che lo scrittore vede finisce nella grande riserva delle cose che ha osservato o che conosce. Ammesso che a qualcuno possa interessare, io cerco sempre di scrivere secondo il principio dell’iceberg: i sette ottavi di ogni parte visibile sono sempre sommersi. Tutto quel che conosco è materiale che posso eliminare, lasciare sott’acqua, così il mio iceberg sarà sempre più solido. L’importante è quel che non si vede. Ma se uno scrittore omette qualcosa perché ne è all’oscuro, allora le lacune si noteranno.” (Plimpton, 1958: 60-61).

 

Per Hemingway, così come per Dorothy Parker, l’idea dell’iceberg traduce immediatamente una architettura formale costruita su una precisa consapevolezza retorica, a sua volta fondata sul principio della ‘selezione’. Il buon racconto si riduce all’osso, la narrazione si contiene in poche parole e il minimalismo rivela molto più di ciò che non esprime. Il non detto è parte della narrazione, la parte sommersa non si vede ma si avverte e la punta dell’iceberg basta a rendere, per metonimia retorica, il tutto.

Dorothy Parker

E, in comune, le due riflessioni hanno anche la stessa attenzione per l’esperienza dell’autore, per quel suo aver ‘vagabondato’ molto più a lungo nelle vite dei personaggi e nel mondo che essi abitano, al punto che la Parker afferma, nella stessa prefazione:

 

È probabile che vi siano solo due fonti da cui può ricavare qualcosa lo scrittore di racconti: le sue proprie esperienze e le esperienze degli altri. Allora, se il materiale del racconto è derivato dalla vita, che cosa può esserci di creativo nella scrittura? Forse possiamo trovare una risposta se guardiamo per un momento ad un’altra arte, l’architettura. Un edificio bellissimo è fatto di pezzi di metallo, gettate di cemento, e altri materiali derivati dalla terra, dall’aria, dall’acqua. Eppure, quando il costruttore ha completato la sua opera utilizzando tutte queste cose prosaiche, egli ha comunque creato qualcosa di magnifico. Ha sistemato le cose vere in modo creativo. Anche un racconto è il prodotto di una disposizione creativa che lo scrittore ottiene attraverso la selezione dei materiali della vita vera e del mondo reale che ha accumulato direttamente o per esperienza vicaria. Uno scrittore, poiché si interessa al mondo vero, cerca di rendere gli individui così come essi sono per davvero, né scimmie, né angeli – ma solo individui.” (Parker, 1965: vii-viii)

 

Nei suoi racconti, Dorothy racconta il mondo che ella stessa vive e conosce, e lo fa con uno stile in linea con le sperimentazioni più lucide del suo tempo, offrendo ‘immagini’ concrete e solide, mai costruite su un linguaggio astratto o decadente, profondamente intriso di quotidianità. Per questo è più facile inscriverle nella linea di Hemingway che in quella di Fitzgerald, che nei suoi Racconti dell’età del Jazz non disdegna il ricorso al fiabesco o all’iperbole retorica per raccontare il mondo dei giovani americani belli e dannati (si pensi, ad esempio, al bellissimo racconto Il diamante grande come il Ritz).

La figura di Dorothy Parker si giustappone però a quella di Fitzgerald laddove si recupera la dimensione “mitica” del personaggio Parker, ovvero quelle componenti eccessive di una vita vissuta di corsa e con frenesia, comunque al centro della scena. Nonostante l’essere artista seria e consapevole (penso alla poesia Parole Nemiche), nonostante l’essere donna impegnata politicamente e socialmente, Dorothy è anche personaggio inscritto nel nuovo modello di vita americano, legato al boom delle commodities, quei beni di consumo prodotti su larga scala e diffusi in massa, eletti ormai a status symbols di un sistema sociale in cui alto e basso si fondono con sempre maggior facilità e in cui “educazione” e “intrattenimento” si confondono. La Parker vive tutti gli aspetti degli anni ruggenti e così facendo non sfugge agli aspetti più caricaturali del suo tempo: alcool e sbronze celebri, amanti di tutte le età e di ogni estrazione, anticonformismo sfacciatamente urlato. 

Dorothy Parker

Tuttavia, a differenza di Fitzgerald, la Parker non sembra celebrare il mito degli anni Venti tout court, non sembra plasmare la sua vita attorno alla costruzione di quello stesso mito; la riflessione sull’arte e l’impegno politico le offrono appigli importanti. Tuttavia, ella lo attraversa, lo vive anche da protagonista: scriverà per Hollywood, terrà banco nella colonne di Vogue, di Vanity Fair (rivista con la quale collabora dal 1916 fino al 1920, anno in cui verrà licenziata per aver attaccato in una satira la moglie di uno dei maggiori inserzionisti), poi su quelle di Esquire e del New Yorker. È il mondo in cui si riflette una cultura sempre più dominata dai nuovi media, dalle nuove forme di intrattenimento popolare, un mondo che Dorothy racconta nei suoi articoli e nelle sue recensioni (di volumi, così come di spettacoli teatrali) in un modo dalla critica definito “dolce-amaro”, spesso pungente, dissacratorio e dissacrante. È, dunque, una voce non accomodante, scomoda, che siede alla tavola rotonda dell’Algonquin più come Re Artù che come Lancillotto. Ed è certamente la Dorothy delle poesie quella che assomiglia di più alla Dorothy reale (almeno, alla Dorothy che ci racconta il “mito”); la Dorothy dei racconti, invece, mette in scena donne spesso spente, donne che vivono giorno dopo giorno senza slancio, come se fossero bloccate in una cornice, forzate entro un ritmo che le condiziona e che non hanno scelto.

Nei racconti della Parker, sono poche le donne che urlano, che si ribellano: molte vanno avanti per inerzia, intrappolate in cliché culturali opprimenti e perfino patetici. E se nelle poesie il wit, l’ingegno e l’ironia permettono di costruire il paradosso che distrugge e ribalta quello stesso cliché dando così l’illusione della fuga e del riscatto, nei racconti quella stessa ironia diventa spesso sfumatura amara, che sottolinea i tempi sospesi delle nuove Penelopi, di volta in volta presentate come bambolone fatali ormai in decomposizione, mogliettine ordinate e perfette ma vuote che attendono i mariti di ritorno da una banale giornata di lavoro, fidanzatine isteriche perennemente gelose ed insicure, francamente insopportabili. Come si diceva, anche nelle poesie si racconta soprattutto la guerra dei sessi, perenne e costante, una guerra in cui le tregue sono rare e rarefatte, momenti sospesi subito finiti e ricondotti, per sillogismo o per paradosso, per iperbole o per sottotono, alla inevitabilità di uno scontro che lascia sempre almeno una vittima. Eppure, nelle poesie, la voce femminile, pur se quella di una vittima, tradita o abbandonata, è voce graffiante, lucida, voce che irride l’altro, pur nel dolore; è voce che si eleva per difendere se stessa, per dissacrare, per ribaltare il punto di vista, il luogo comune. È la voce di Dorothy che, appunto, siede a capo della tavola rotonda.

Dorothy Parker

Nei racconti questo capita raramente. Le donne della Parker irritano per la passività, infastidiscono per la petulanza e per la dipendenza dall’altro, quasi sempre un fidanzato, un marito o un uomo terribile, grossolano, banale. Certo, le donne della Parker commuovono anche e suscitano spesso compassione, ma resta un certo senso di fastidio proprio per questa loro esagerata fragilità emotiva. E, soprattutto, colpisce la mancanza di una solidarietà vera tra le donne, non solo vittime, dunque, ma spesso anche divise: sono pronte a rubarsi la scena e, perché no, l’uomo. È un modo femminile non sempre solidale, che fa pensare, a volte, alle due donne che conversano sedute in un affollato pub di Londra nel movimento che chiude la seconda parte della Terra Desolata di Eliot, Una partita a scacchi: due donne comuni, che sembrano conversare pacatamente, ma che si stanno invece rinfacciando miserie del quotidiano nell’attesa di un uomo che sta per tornare dalla guerra. Sono due Penelopi dell’oggi, ormai in guerra tra loro, abbruttite e rese goffe da una realtà che non si costruisce più a partire dal mito, ma nella quale il mito diventa contro-canto per mettere a nudo il divenire di un mondo sempre più dominato da nuove solitudini, da nuove indifferenze. È lo stesso mondo che mette in scena Dorothy Parker, che rivela anche scomode debolezze del femminile e si fa, così, scrittrice lucida ma “pericolosa”: è come se si rivolgesse alle lettrici e mostrasse loro uno specchio su cui si riflette il loro profilo peggiore. Imperdonabile.

Il mondo dei racconti di Dorothy è, dunque, reso come se fosse esso stesso una nuova e grande terra desolata, poiché ci viene offerta una immagine dell’America che poco ha a che fare con l’immagine mitizzata che, invece, si costruisce proprio a partire dagli anni Venti. Quella della Parker è l’America che fisserà sulle sue tele Hopper, l’America delle donne e degli uomini soli che vivono come ombre e come ombre ci rendono inquieti, ci tolgono il sonno, ci costringono a porci domande. È un’America che sta camminando verso un futuro che sembra puntare tutto su un modello di società inaridito e votato al perseguimento di un successo materiale e materialistico che non rende necessariamente felici. Forse, le donne e gli uomini della Parker ricordano già gli uomini impagliati di Wyndham Lewis, pupazzi che recitano un dramma di cui qualcun altro ha scritto e continua a scrivere la partitura. È lo stesso dramma che metterà in scena nei suoi racconti Raymond Carver, che del “minimalismo” pur se rivisto nelle ultime produzioni, fa arma efficace per rendere il nulla e il vuoto su cui si regge il “sistema”: nessuna azione forte, nessuna rivoluzione, solo scene di vita quotidiana permeate di grigiore e prive di possibilità di fughe vere.

Dorothy Parker

Inquieta pensare che Dorothy, che muore tristemente e sola a metà degli anni sessanta, smette di fatto di scrivere poesie già a metà degli anni Trenta (pochissime le eccezioni, mai sistematiche): si perde così l’ironia tagliente delle sue liriche, il gioco, il senso del comico (categoria complessa e arma preziosa poiché permette di contenere e capovolgere la trama che si osserva e che si rende), resta quella dei racconti, che però sfocia in una nota in fondo triste incentrata sulla resa di un presente sempre più squallido e abbruttito. Il wit resta negli articoli, nelle recensioni, nei commenti a caldo, nelle conversazioni, appartiene più al “personaggio” Parker che alla scrittrice. Ciò che continua ad accomunare questa produzione e i racconti è la voglia di togliere la maschera perbenista che si indossa nel mondo reale e mostrare il ghigno o il dolore che essa cela. E qui, in fondo, è forse l’aspetto più interessante dell’impegno per così dire politico della Parker: mi sembra, infatti, che si possa rintracciare anche nei racconti apparentemente lontani dalla denuncia politica esplicita, la voglia e il bisogno di partecipare ad un movimento che è comunque di denuncia e di svelamento. 

Nei suoi racconti non appaiono Sacco e Vanzetti (come nei romanzi di Dos Passos), non si parla di Martin Luther King, non si parla di socialismo o di comunismo (sono solo due i racconti dedicati alla guerra di Spagna: Soldati della Repubblica e A chi può interessare?), non si denunciano apertamente le lotte perseguite, non si promuovono le ideologie o i valori che, nella vita vera, Dorothy difendeva. Eppure, molte tra le sue opere rimandano comunque allo stesso contesto socio-politico e confermano, implicitamente, il suo impegno, proprio perché la denuncia di un vacuo perbenismo altro non è che la messa a nudo dei meccanismi che rendono poi possibile l’uccisione di Sacco e Vanzetti, la segregazione degli Afro-Americani e l’indifferenza verso ciò che accade in Spagna o in altre realtà in cui sono in corso guerre dolorose. In quegli stessi anni, smascherare il perbenismo politico, rivelarlo e metterlo a nudo, è atto politico, è atto di accusa, deciso e implacabile: gli uomini impagliati e le donnine isteriche sono complici del sistema, vacui protagonisti incapaci di uscire da schemi che pure li soffocano. La bella bionda e la signora dalla lampada degli omonimi racconti, la signora Bain del Meraviglioso vecchio, la donna dai papaveri di velluto rosa e dai capelli finto oro di Composizione in bianco e nero sono ad un tempo vittime e carnefici: vittime di un sistema che le reifica, ma carnefici verso chi tenta, faticosamente, di uscire da quello stesso sistema.

Bibliografia

 

Parker, Dorothy e Shroyer, Frederick B., Short Story – A Thematic Anthology, 1965.

Plimpton, George, “Ernest Hemingway, The Art of Fiction No. 21”, in The Paris Review, issue 18, 1958.

 

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