Elena Lamberti
Quella con Bob è stata la mia prima relazione seria… Bob era carismatico, era una fonte di luce, un faro. Era anche un buco nero. Aveva bisogno di un sostegno devoto e di una protezione che io non ero in grado di dargli con costanza, probabilmente perché ne avevo bisogno a mia volta. Lo amavo, ma non potevo abdicare la mia vita del tutto per il mondo della musica in cui viveva lui. (Rotolo, 2017:160)
Poco più che ventenne, Suze Rotolo, da tutti i fan di Bob Dylan conosciuta come “la ragazza della copertina dell’album Freewheelin”, trova la forza di lasciarlo proprio nel momento in cui la notorietà del bardo errante di Duluth esplode. Giovanissima e innamoratissima, Suze punta tutto su se stessa ed esce dal ruolo che, invece, gli altri le imporranno per decenni, suo malgrado. Lascia Bob e tutti quelli che la cercano solo per potersi avvicinare a lui e si riprende, come dice lei, il suo “pronome”. Il libro di memorie pubblicato ora in edizione italiana dalla Caissa Italia quel pronome lo restituisce anche a noi lettori ed appassionati di letteratura e cultura statunitense. Onore al merito alla Caissa, una casa editrice curiosa, che si occupa prevalentemente di scacchi, di giochi, di golf e di linguistica e che da qualche anno ha aperto sezioni miscellanee (Varia, VAria ed eVentuale, Teatro ad Alta Velocità). Una casa editrice che vale davvero la pena tenere d’occhio, soprattutto se vi piacciono le sorprese letterarie laddove meno ve le aspettereste (nel 2013 è qui che è stato pubblicato il volume I’m Your Man. Vita di Leonard Cohen). La traduzione italiana di Yuri Garrett – bellissima, musicale e diretta – trasforma la lettura di A Freewheelin’ Time quasi in un ascolto: la voce di Suze diventa cantilena sincera, penetra nell’anima e commuove per l’autenticità del racconto.
Racconto che Suze, nata nel 1943 e ‘fidanzata’ di Dylan nei primissimi anni sessanta, si è decisa a fare in prima persona molto tardi (la prima edizione dell’opera è uscita negli Stati Uniti nel 2008), dedicando i suoi ricordi al figlio Luca (“affinché sappia”) e al marito Enzo (“che ha sempre saputo”). Aveva però rotto un silenzio lungo oltre quarant’anni nel 2005, quando aveva accettato di essere intervistata da Martin Scorsese per No Direction Home: Bob Dylan, documentario su Dylan divenuto un ‘cult’ per molti. Morta nel 2011 dopo una lunga malattia (cancro ai polmoni, che ha forse avuto come concausa le terribili polveri respirate nella New York del 9/11, dove Suze abitava), Suze ha lasciato una testimonianza importante non solo e non tanto dei suoi anni con Bobby (come ha ricordato Yuri Garrett in occasione della presentazione del volume al Salone del Libro di Torino, edizione 2017, nessuno tranne lei ha mai potuto chiamare così Dylan), quanto piuttosto per il racconto di una donna che sceglie di essere protagonista della sua vita (di donna e di artista) e non si accontenta di vivere all’ombra del genio. E che vita, quella di Suze!
Nasce in una famiglia ‘rossa’, di origine italiana, diventa adulta negli anni della Guerra Fredda e cresce con una forte coscienza critica, diventando attivista contro le politiche nucleari statunitensi, a favore dei diritti umani, contro la segregazione. Suze partecipa alla marcia di Martin Luther King a Washington nel 1963 e guida i giovani dissidenti americani che sfidando il loro governo e vanno a Cuba nel 1964. Nel libro di memorie, la vita personale si accompagna ad un racconto quasi epico del divenire del secolo americano, Storia e storie si giustappongono fino a creare un quadro potente di un’epoca che, anche grazie ad opere come questa, possono essere rilette in modo originale: un gruppo di giovani farà la rivoluzione culturale e lascerà una traccia importante nel mondo, non v’è dubbio. Ma a volte, le rivoluzioni si fanno nascere dopo, quando si storicizza un fenomeno; all’inizio, molte nascono quasi per caso, mentre si sta andando in un’altra direzione, un po’ come capita con le scoperte scientifiche. Accanto alla passione politica, Suze ne coltiva però un’altra: quella per l’arte, che studia a fondo tanto nelle forme più tradizionali che nelle sperimentazioni a lei contemporanee. Le pagine che Suze dedica alle avanguardie del secondo Novecento americano sono tra le più sincere e aiutano a capire come queste sue memorie non siano scritte per confermare, banalmente, il mito della controcultura di quegli anni, ma per condividere il cammino personale e artistico che la trasformerà dall’essere ‘la ragazza di Dylan’ ad essere “Suze Rotolo, artista e insegnante d’arte”:
Ero cresciuta con i grandi artisti del rinascimento italiano e con i maestri olandesi. Mi piacevano Picasso, Cézanne, Van Gogh e Derain. Era questione di bellezza. L’arte di questa mostra (ndr: mostra di artisti americani al Museum of Modern Art) era imprevista e mi turbava. Non sapevo cosa farne. Avevo difficoltà anche a capire quello che non era sui muri. La prima volta che vidi una combinazione di Robert Rauschenberg – nello specifico la capra con lo pneumatico nel mezzo – pensavo fosse orrenda. Non capivo la mancanza di bellezza. E l’arte che fine ha fatto? (Rotolo, 2017:118)
Nel suo libro Suze racconta come abbia poi imparato ad apprezzare e capire quella nuova ricerca artistica, arrivando lei stessa a creare libri d’artista, mediando esperienze di vita ed oggetti del quotidiano e contribuendo a creare artefatti pienamente inscritti nella cultura anche materiale del suo tempo. E poi c’è Dylan, certo. E, soprattutto, c’è tutto il mondo della nuova musica americana che si sviluppa e si confronta nel Village, ma che resta profondamente radicata nella tradizione americana dei folkies e degli storytellers del sud (molto belle sono, a questo proposito, le pagine dedicate ad “Un viaggio al sud” che Suze e Bob compiono con Paul Clayton ‘Pablo’ nel maggio del 1962 e che li porterà a incontrare “i vecchi musicisti blues che [Paul] aveva conosciuto nel corso dei suoi viaggi”, 99). Il racconto di Suze conferma quello che i critici già sapevano: è anche grazie all’incontro con questa giovane donna artista e attivista di origine italiana che Dylan arriverà ad orientare la propria ricerca musicale sui temi sociali che ben conosciamo. Ed è sempre pensando a Suze che Dylan comporrà alcune delle canzoni più famose, tanto che le parole delle lettere che Bob scrive a Suze durante l’anno che lei trascorrerà in Italia a studiare arte, si ritroveranno poi in molti testi degli anni sessanta:
Alcune delle parole che mi ha scritto in quelle lettere divennero testi di canzoni, altre le virgolettava, per farmi capire che erano tratte da una sua nuova canzone: ho fatto un’altra sessione di registrazione sai – cantato sei altre canzoni – tu ci sei in due – Bob Dylan’s Blues e Down The Highway [….]. Comunque tu sei in queste due canzoni specificamente – e anche in un’altra – I’m in the Mood for You – che è per te ma non faccio il tuo nome….ho scritto una canzone sulla statua di Tom Jefferson che abbiamo visitato a Washington – tu ci sei. Le lettere e le canzoni hanno lo stesso ritmo. Bob è sempre riconoscibile perché scrive fedelmente quello che sente e che vede nel mondo. (Rotolo, 2017:108)
Non c’è rimpianto nei ricordi di Suze e questo fa bene anche al lettore, poiché questa assenza assomiglia, in fondo, a un lieto fine: Suze ha vissuto la vita che ha scelto ed è stata dove voleva essere, con chi voleva essere. Così come Dylan, almeno, stando a quanto racconta Suze. Pensare alla loro separazione fa venire in mente una famosa battuta di Jogy Berra, giocatore di baseball noto anche per gli strafalcioni linguistici spesso giocosi e paradossali, ma sempre intuitivi: “se ti trovi ad un bivio…..PRENDILO”. Suze e Bob lo hanno fatto, ma come ha scritto lo stesso Bob “She took one turn in the road and I took another” (Chronicles, 2004). A Freewheelin’ Time, appunto. Su questo volume segnaliamo anche la bella recensione a firma di Carolina Iacucci, pubblicata di recente su IndieEye.
RotoloSuze, Sulla strada di Bob Dylan. Memorie dal Greenwich Village, Caissa Italia, 2017. Traduzione di Yuri Garrett.