Rebecca Santimaria
Il 12 settembre 1953 a Washington nasce Nan Goldin, figura incollocabile che da decenni si muove tra fotografia e attivismo. Nei suoi racconti fotografici vengono messe in scena le esistenze complesse e contraddittorie delle persone marginalizzate, le loro ferite e le loro gioie. Nan Goldin si serve della macchina fotografica per restituire visibilità a tutti quei corpi considerati devianti, fuori dai confini della normalità e dell'accettazione.
A partire dagli anni Settanta, la fotografa ritrae e assembla, attraverso slideshow (presentazioni in sequenza di fotografie, ndt.), la comunità LGBTQ+, la scena drag newyorkese, le dipendenze e gli abusi. Goldin non si limita a documentare la realtà, ma spesso mette se stessa davanti all’obiettivo, restituendo un corpo fotografico dove intimità e collettività si mescolano indissolubilmente.
Nancy Goldin (vero nome della fotografa) trascorre la sua infanzia nei sobborghi di Boston insieme alla famiglia borghese di origine ebraica. L’ambiente nel quale cresce viene ricordato da Goldin come claustrofobico e pieno di doppi standard, un clima omertoso che si traduce nell’imperativo “Non farlo sapere ai vicini”.
L’unica figura estranea a queste dinamiche è la sorella maggiore Barbara, dal carattere ribelle e anticonformista, che subisce numerosi ricoveri negli istituti psichiatrici a causa di una forte depressione. Il suicidio di Barbara, definito dalla fotografa come il suo più estremo atto di ribellione, segna in modo indelebile l’infanzia di Nancy e influenzerà profondamente sia la sua produzione artistica che il suo impegno politico.
Appena quattordicenne Goldin viene espulsa da scuola e abbandona i genitori. Vive in diverse famiglie affidatarie e termina gli studi alla Satya Community School di Summerhill, nel Massachusetts. Qui incontra David Armstrong, anche lui futuro fotografo, destinato a diventare uno degli amici più preziosi di Nancy. Questo legame essenziale inizia con un atto di liberazione a doppio senso: David la ribattezza Nan e lei è la prima persona a riconoscere e accogliere l’omosessualità del ragazzo.
Questa è stata la prima di una serie di amicizie salvifiche, quelle che Nan ha definito le relazioni più importanti della sua vita. L’incontro tra Armstrong e Goldin, entrambi appassionati di fotografia e cinema, permette all’adolescente Nan di trovare una voce attraverso il mezzo fotografico e di entrare a far parte del mondo queer. Simbolicamente, una delle sue prime fotografie immortala David e il compagno Tommy nella sabbia.
I primi soggetti fotografici di Nan Goldin sono le persone che appartengono alla sua vita quotidiana. Per questo negli anni Settanta comincia a fotografare le sue due coinquiline, entrambe drag queen di Boston.
Lo slideshow The Other Side prende in prestito il nome dal locale di spettacoli drag che Goldin frequenta insieme ai suoi amici. In questo luogo prendono vita gli scatti fotografici degli esordi, pubblicati successivamente in un’omonima raccolta del 1993.
L'obiettivo di Nan registra i volti sorridenti delle drag queen, traducendo in immagine l’euforia di uno spazio in cui questi corpi possono r-esistere insieme, al di fuori dagli asfissianti confini normalizzanti, come ricorda la fotografa nell’introduzione alla raccolta fotografica.
“Questo libro parla di nuove possibilità e di trascendenza. Le persone in queste immagini sono veramente rivoluzionarie; sono loro le vere vincitrici della battaglia dei sessi, perché sono uscite dal ring.”
Nan desidera che le persone nelle sue fotografie riconoscano se stesse e siano orgogliose di essere parte dell’opera.
Alla fine degli spettacoli la fotografa consegna alle drag queen i loro ritratti, impegnate in una competizione giocosa di chi ne possiede di più. Per Goldin il senso del proprio lavoro risiede nel mostrare ai soggetti delle proprie opere la bellezza che non riescono a vedere. Le fotografie di The Other Side racchiudono la gioia della comunità drag di Boston negli anni Settanta, restituendo tutta la vulnerabilità e la ferocia di quei corpi che vivono come desiderano negli spazi che si sono creati, non curanti dell’ostile mondo esterno per qualche ora.
Il lavoro più celebre di Nan Goldin, racchiuso in un libro fotografico omonimo, è The Ballad of Sexual Dependency (1986).
Tra il 1979 e il 1986, dopo essersi trasferita a New York, documenta le vite che si intersecano nel quartiere di Bowery: le relazioni tormentate dell’attrice Cookie Mueller, l’arte di Greer Lankton, la tossicodipendenza, la new wave post punk, i locali della comunità LGBTQ+, l’erotismo e la sessualità.
Il corpo fotografico è composto da circa 700 fotografie, condensate in 45 minuti di slideshow la cui sequenza viene modificata a ogni proiezione. Il montaggio fotografico è accompagnato dalla voce di Maria Callas, una scelta sonora che secondo Goldin incarna perfettamente la sua ricerca artistica che mescola armonia e asprezza.
Il flusso dello slideshow risponde a diverse esigenze estetiche e politiche: permette di organizzare tematicamente le proprie opere e costruisce una narrazione emotiva e attiva la memoria. Inoltre, ponendosi come dispositivo atlante che costruisce il senso e lo decostruisce, consente alla fotografa di rivendicare le sue posizioni politiche e militanti.
The Ballad, come viene rinnominato, diventa un omaggio a quella che Nan Goldin descrive come la sua famiglia: una comunità di persone etichettate come marginalizzate, legate non dal sangue, ma dal bisogno di vivere pienamente ogni attimo delle loro complesse vite.
Eppure il titolo esteso del corpo fotografico suggerisce un ulteriore elemento. Si tratta anche di una raccolta visiva delle zone d’ombra di queste esistenze, in particolare quella della dipendenza affettiva e dell’abuso vissuti dalla stessa Goldin.
La sua relazione con l’ex marine Brian viene registrata dalla macchina fotografica: dai loro momenti di intimità, passando per le numerose discussioni, fino ad arrivare al tragico epilogo. Durante il loro soggiorno a Berlino nel 1984, Nan viene picchiata brutalmente dall’ex fidanzato e rischia di perdere un occhio.
Per testimoniare la violenza subita, Goldin produce una serie di autoscatti del suo processo di guarigione: la fotografia si rivela ancora una volta lo strumento dell’artista per attraversare la paura, proteggersi e trovare una ragione per restare.
Sono passati quasi quarant’anni dalla pubblicazione di The Ballad of Sexual Dependency, ma prosegue il lavoro di Nan Goldin nell’immortalare la tensione continua tra autonomia e dipendenza. Ogni dieci anni, infatti, sente il bisogno di aggiornare la postfazione di The Ballad, rimaneggiando come gli slideshow l’inventario degli eventi e delle persone della sua vita.
“Credo ancora che queste foto raccontino la verità di quel tempo. Per me è importante ricontestualizzare la postfazione ogni dieci anni. La prefazione è per sempre, questa è la vera narrazione di quest’opera. Proprio come rielaboro costantemente i miei slideshow, voglio continuare ad aggiornare il registro della mia vita.”
La perdita della sorella Barbara rimane una costante nelle opere di Nan Goldin: ogni scatto, ogni presentazione, ogni riflessione e ogni lotta la riconducono a questo dolore primigenio.
Alla fine degli anni Ottanta altri due eventi drammatici si sommano a questo: l’epidemia di Aids che colpisce la famiglia LGBTQ+ e l’aggravarsi della sua tossicodipendenza.
Due delle raccolte fotografiche più recenti di Goldin, Witnesses: Against Our Vanishing (1989) e Sisters, Saints, Sibyls (2004–22), raccontano la trasformazione dal dolore personale a quello collettivo, e viceversa. Un passaggio di stato necessario, innescato dall’amico e artista David Wojnarowicz con cui ha portato avanti la lotta contro lo stigma dell’Aids. Il dolore per la sua comunità viene tradotto nella mostra collettiva all’Artist Space di New York, Witnesses: Against Our Vanishing. Goldin fotografa i corpi malati dei suoi amici e conoscenti con l’intenzione di impedirne la loro scomparsa simbolica e di conservarli nella memoria collettiva.
A partire dal 2004 la fotografa realizza le immagini che vanno a comporre Sisters, Saints, Sibyls, uno slideshow nel quale ritorna a raccontare la vita della sorella e la sua dipendenza. Nel trittico di schermi che proietta il corpo fotografico si alternano icone sacre, mitologia, fotografie della sorella, luoghi legati alla sua famiglia e al lutto. A queste si aggiungono immagini che ritraggono amanti, autoscatti delle ricadute nella tossicodipendenza e gli spazi dei diversi ricoveri.
Le parti più tenere sono affidate ai fiori, dettagli alle pareti delle stanze in cui Goldin trascorre la riabilitazione e quelli che posa sulla tomba della sorella Barbara. Questo simbolo ha il compito di riconciliare memoria, dolore e bellezza.
Il percorso di guarigione di Nan Goldin passa anche attraverso l’attivismo contro le case farmaceutiche responsabili dell’epidemia di oppioidi, di cui la stessa fotografa è stata dipendente, rischiando di morire per overdose. Dal 2017 con il gruppo PAIN (Prescription Addiction Intervention Now) organizza interventi diretti di protesta nei musei e nelle gallerie d’arte finanziati dalla famiglia Sackler, magnate del farmaco ossicodone.
Per la studiosa Susan Sontag la fotografia è un atto di non intervento, un modo di testimoniare impotente la realtà fotografata. Nan Goldin, invece, rivendica le potenzialità della fotografia di intervenire nel mondo e di creare una narrazione in cui lo sguardo di chi scatta e quello di chi è osservato si mescolano indissolubilmente.
“È opinione diffusa che il fotografo sia per natura un voyeur, l’ultimo invitato alla festa. Ma non mi ci rivedo; questa è la mia festa. Questa è la mia famiglia, la mia storia.”
Nan Goldin partecipa alla sua ballata non come semplice osservatrice, ma mettendosi davanti all’obiettivo e condividendo risate, lacrime e lividi.
Tutta la bellezza e il dolore (All the Beauty and the Bloodshed), Laura Poitras, 2022
Sesso, arte e dipendenza. La fotografia di Nan Goldin, artista candidata all’Oscar, artslife.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
La fotografia di Nan Goldin, iltascabile.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
NAN GOLDIN, artforum.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Th inside story of how Nan Goldin edited The Ballad, aperture.org (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Nan Goldin’s Life in Progress, newyorker.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Why “The Ballad of Sexual Dependency” Endures in the Twenty-First Century, aperture.org (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Nan Goldin: The Other Side' is a Critic's Pick, pretty much everywhere, artbook.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
The Story Behind Nan Goldin’s Gut-Wrenching Film About Her Late Sister, anothermag.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Book Review: Nan Goldin's The Other Side, museemagazine.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Nan Goldin: 'I wanted to get high from a really early age', theguardian.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Foto 1 da museemagazine.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Foto 2 da matthewmarks.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Foto 3 da doppiozero.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)
Foto 4 da museemagazine.com (data di ultima consultazione: 31/08/2024)