Martina Ori
Nel corso della storia, negli Stati Uniti, abbiamo assistito a un susseguirsi di crisi e sviluppi, che si sono accompagnati alla nascita di una figura socio-culturale di rilievo: il serial killer.
Cosa si intende con il termine “criminalità”? Cosa definisce quello che per la concezione comune è un reato? La risposta a queste domande è piuttosto complessa, in quanto non esiste una definizione universale. L’identificazione dei crimini è frutto di una convenzione sociale e, pertanto, cambia a seconda delle culture prese in esame. Le stesse leggi penali sono le espressioni più esplicite dei valori dominanti in specifiche aree culturali, dei beni e degli interessi tutelati in un preciso momento storico. Per tutte queste ragioni, i concetti stessi di reato e di criminalità sono relativi.
A sostegno di questo, ad esempio, in Paesi di aree culturali simili, si sono sempre registrate nella stessa epoca delle concezioni diverse della criminalità. La prostituzione, ad esempio, è tutt’ora punita in alcuni stati americani, mentre in altri resta fuori dal perimetro della persecuzione legale. Tutte le società utilizzano degli strumenti per cercare di diminuire le tendenze che deviano dai suoi valori principali. Questi sono chiamati “strumenti di controllo sociale” e presentano una tipologia abbastanza articolata: in primo luogo, troviamo gli strumenti di controllo formale o istituzionalizzati, di cui sono una massima espressione, ad esempio, organismi pubblici e leggi giuridiche; a seguire, vi sono gli strumenti di controllo informale, ossia tutte quelle strutture e istituzioni che fungono da canali di informazione sui valori primari della società (famiglia, scuola, chiesa, sindacato etc.); in ultima battuta, abbiamo il controllo di gruppo,che viene esercitato da persona a persona, e dove ogni individuo è giudicato in base alle sue azioni.
Tali strumenti risultano efficaci nel momento in cui vi è una stabilità sociale e il sistema culturale è accettato e condiviso. Negli studi sociali, è stata confermata più volte la corrispondenza tra alto tasso di criminalità e delinquenza, con la crisi dei valori della società.
Negli Stati Uniti, ad esempio, LaFree nel 2000 è riuscito a delineare la crescita e il successivo calo della criminalità con una teoria denominata “la legittimità delle istituzioni sociali”. Secondo LaFree, i fattori che hanno influenzato l’andamento della criminalità in America sono le crisi delle istituzioni politiche, economiche e familiari. Considerando poco credibili le istituzioni politiche viene meno anche il rispetto delle leggi di cui esse si servono nel controllo della società, risultando quindi organi di protezione poco efficaci contro la criminalità. laFree riscontra un picco massimo della crisi della legittimità delle istituzioni politiche nel periodo del secondo dopoguerra, che si riduce poi nel periodo seguente - a causa della definizione delle discriminazioni razziali, per la guerra del Vietnam e per una serie di scandali che coinvolsero diverse figure politiche – per poi ristabilizzarsi dagli anni novanta. Come ipotizzato, il tasso di criminalità presenta le stesse oscillazioni.
Le istituzioni economiche e di welfare, dal canto loro, indirizzano i tassi di criminalità in quanto l’investimento in programmi assistenziali efficaci riduce il tasso di reati: infatti, negli Stati Uniti la criminalità è calata nel dopoguerra, insieme all’uscita degli USA dal periodo di depressione, così come poi è aumentata alla fine degli anni ‘60 in corrispondenza di una nuova crisi economica. Successivamente, un nuovo calo si è registrato nuovamente nel 1993, proprio in corrispondenza della diminuzione della povertà e delle diseguaglianze nei redditi. Infine, a fronte del cambiamento della concezione della “famiglia tradizionale”, con un crescente numero di “famiglie alternative” negli Stati Uniti (ad esempio: famiglie miste; a doppia carriera, gestite da un uomo; monogenitoriali; omogenitoriali) il tasso della criminalità è notevolmente sceso: la diffusione di questi nuovi modelli familiari ha portato a una minore stigmatizzazione ed etichettamento dei bambini, i quali non si sentono più diversi e non vengono più emarginati.
La massima espressione di violenza è ovviamente l’omicidio. Esso non solo è considerato il crimine più grave, ma è anche quello che provoca più interesse e allarme sociale. Questo fenomeno è fomentato anche dai mezzi di comunicazione, che presentano più volte la notizia, in tempo reale.
Nel corso del Novecento il tasso degli omicidi si è dimezzato, e uno dei fattori principali è da rintracciarsi nel miglioramento economico: la crescita del PIL è collegata alla riduzione della violenza. Questa statistica non funziona però per gli Stati Uniti: nonostante sia un paese industrializzato, esso presenta un alto tasso di omicidi. Perché?
Ci sono ipotesi differenti: secondo alcuni, una delle spiegazioni consiste nella facile disponibilità delle armi da fuoco, nell’abitudine al loro utilizzo e a risolvere i conflitti con la difesa personale; secondo altri invece l’alta violenza statunitense sarebbe da collegare alla deprivazione sociale ed economica (si tratta infatti di un paese ricco ma con un tasso di povertà significativamente elevato). Altre motivazioni non meno rilevanti: l’alto tasso di circolazione della droga (crack in particolare), a cui è dovuto l’aumento degli omicidi soprattutto negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, e l’incremento demografico (con il baby boom degli anni ‘60).
Tendenzialmente, gli omicidi sono compiuti intra-gruppo, ovvero tra persone che hanno contatti frequenti, una provenienza comune e caratteristiche simili (come età ed etnia). Nella seconda metà del secolo scorso però negli Stati Uniti, la figura del serial killer e il suo massiccio aumento di casi nella cronaca nera, ha seguito una controtendenza.
Espressione utilizzata a partire dagli anni ’70, quando negli Stati Uniti vennero alla luce casi più eclatanti come quello di Ted Bundy, un assassino può essere definito serial killer non solo in base al numero di omicidi commessi (tre o più) ma anche quando essi non dipendono da una causa razionale ma da un bisogno pulsionale e psicologico di chi li compie. Nel corso del tempo, proprio da questa premessa, si sono identificati 4 tipi di omicidi seriali: Visionary Motive Type, in cui il soggetto è mosso da allucinazioni che gli ordinano di uccidere una certa classe di persone; Mission Oriented Motive Type, in cui l’autore ha come obiettivo personale quello di eliminare nel mondo una certa fascia di persone; Edonistic, in cui l’assassino appaga libido e piacere del brivido, Power/Control – Oriented Type, in cui il serial killer uccide perché ricava godimento dal potere assoluto che esercita sulla vittima.
Trovandosi nella maggior parte dei casi a difendere un sadico, uno psicopatico e un sociopatico, spesso l’avvocato difensore del serial killer ne invoca l’infermità mentale. Nei sistemi giudiziari come quello degli Stati Uniti questa linea di difesa decade quasi sempre: l’infermità mentale, infatti, negli Usa è identificata come una incapacità di distinguere il bene e il male nel momento il cui l’azione criminosa è stata fatta.
Spesso, è opinione comune che chi commette questo genere di violenze sia privo di un pieno possesso di tutte le facoltà mentali. Purtroppo, è stato riscontrato come siano pochi i casi in cui il serial killer sia effettivamente affetto da una malattia psichiatrica. Nella storia contemporanea degli Stati Uniti, ci sono stati due casi che hanno avuto un forte impatto mediatico negli Stati Uniti e che dimostrano come la follia abbia ben poco a che fare con i fatti accaduti. I protagonisti sono considerati ancora oggi tra i serial killer più famosi e conosciuti negli Stati Uniti: Ted Bundy e Charles Manson.
Nato il 24 novembre del 1946, Theodore Robert Bundy era il figlio illegittimo di una giovane madre e di un padre mai identificato con certezza. Per evitare lo stigma sociale che tale condizione avrebbe potuto procurargli in quegli anni, i nonni crescono Ted spacciandosi per i suoi veri genitori e sua madre come sua sorella, nascondendogli la verità. La menzogna (scoperta solo da giovane adulto) farà sviluppare a Bundy un forte odio nei confronti della madre naturale. Non solo, pur avendone Bundy stesso sempre parlato bene, i nonni furono una delle cause che alimentarono un negativo sviluppo della sua personalità: il nonno era un uomo molto violento, antisemita e anticattolico; sua nonna era una donna molto remissiva e affetta da una grave depressione.
Durante la sua adolescenza, Bundy fu vittima di bullismo anche a causa della sua timidezza, per poi diventare, all’università, un brillante studente di legge e un promettente attivista repubblicano, che collaborò con la polizia di Seattle alla stesura di un opuscolo per le donne sulla prevenzione dello stupro. In quegli anni si legò sentimentalmente a una donna, che in seguito lo lasciò, scatenando in lui un peggioramento delle sue condizioni psicologiche. Da quel momento, la psiche di Bundy fu sempre più instabile. Nel 1974, ad esempio violentò e picchiò selvaggiamente una studentessa universitaria, una delle poche vittime del serial killer a sopravvivere. Da allora, iniziò la sua attività di omicida seriale: stuprò, mutilò e uccise un alto numero di donne, quasi tutte con la stessa fisicità (bianche, capelli castani scuri e lisci con scriminatura laterale) che molti collegarono alle caratteristiche estetiche della sua ex fidanzata.
Il modus operandi di Bundy nel corso degli anni fu piuttosto calcolato: alle volte si fingeva un disabile o faceva finta di avere un braccio ingessato e chiedeva aiuto alle vittime; altre volte si travestiva da poliziotto per adescarle. Subito dopo, con una scusa riusciva a portare le ragazze in luoghi appartati, a stuprarle e poi ucciderle. Spesso, Bundy ritornava sul luogo del delitto per abusare dei cadaveri, quando ancora non erano in un orrendo stato di decomposizione, ed era solito decapitare le sue vittime, conservando le loro teste come trofei.
Le sue azioni vennero fermate solamente per un puro caso: il 16 agosto 1975 alcuni poliziotti fermarono Bundy per eccesso di velocità e trovarono nella sua auto un passamontagna e delle armi. L’uomo venne immediatamente messo in manette.
Le indagini sul suo conto iniziarono anche grazie all’intervento del FBI, ma proprio quando la polizia federale stava per giungere al capo di accusa definitivo, Bundy riuscì a evadere e continuò per un breve periodo ad aggiungere altri crimini alla sua già lunga lista. Fu nuovamente arrestato dopo una colluttazione con un poliziotto, finendo processato e condannato a morte nel 1989. Tra le sue tante dichiarazioni: “L’omicidio non è una questione di lussuria né di violenza. È una questione di possesso”.
Nato il 12 Novembre 1934, anche Manson fu figlio illegittimo di una giovane madre di 16 anni, abbandonata dal compagno proprio a causa della gravidanza. La madre di Manson ebbe una vita piuttosto travagliata: relazioni occasionali, lavori saltuari, furti e altri piccoli crimini e, a detta dello stesso Manson, si guadagnava da vivere anche prostituendosi. Manson fin da adolescente cominciò a commettere piccoli reati ed entrò ed uscì più volte dal carcere, fino a quando non venne rilasciato definitivamente a trent’anni nel 1967. In carcere, ebbe modo di ed imparare diverse tecniche di vendita, manipolazione e persuasione, si avvicinò allo studio delle religioni e si mise in contatto con gli adepti di Scientology. Una volta libero, iniziò a mettere in atto ciò che aveva studiato in carcere, adescando ragazze in difficoltà, per avere rapporti sessuali con loro e convincerle a unirsi al gruppo che stava creando, che con il tempo diventerà una vera e propria setta chiamata “la Famiglia”.
Nell’autunno del 1967 Manson e seguaci si trasferirono da San Francisco a Los Angeles, stabilendosi fuori città, nello Spahn Movie Ranch. La setta era composta da un capo assoluto, Manson stesso, misogino, ma rispettato dagli adepti che eseguivano ogni suo ordine. Indebitatosi con alcuni spacciatori, ne cominciò a uccidere alcuni per impossibilità di poterli pagare. Quando uno dei membri della Famiglia venne arrestato, per scagionarlo ed evitare al tempo stesso che confessasse, ordinò di commettere altri omicidi con le stesse modalità, in modo tale che la polizia pensasse che il vero responsabile fosse ancora in libertà. Prese la decisione che questi omicidi si dovessero attuare nel “modo più brutale possibile” nella notte tra l’8 e il 9 Agosto del 1968, al 10050 di Cielo Drive. A quell’indirizzo, si erano trasferiti da pochi mesi il regista polacco Roman Polanski e sua moglie, Sharon Tate. Nell’Agosto del 1968, Tate era all’ottavo mese di gravidanza e si trovava nell’ abitazione mentre il marito era in Europa a girare un film: per non lasciarla da sola, Polanski aveva chiesto ad alcuni amici di tenerle compagnia.
Tra la notte dell’8 e del 9 Agosto, quattro membri della Famiglia – un uomo e tre donne – si recarono presso la casa della Tate. Per prima cosa uccisero con quattro colpi di pistola Steven Parent, un ragazzo di 18 anni che si trovava li per puro caso. Poi entrarono in villa, legarono e minacciarono quattro degli ospiti, per poi ucciderli. La vittima su cui si accanirono di più fu proprio la Tate, infierendole 16 coltellate. Una degli assassini usò il suo sangue per scrivere sulla parete “Pig”, la stessa firma utilizzata anche per gli omicidi degli spacciatori.
Il giorno dopo, Manson, ordinò un altro omicidio. Alcuni membri della Famiglia uccisero nella loro casa Leno e Rosemary Labianca, una coppia benestante di mezza età. Con il loro sangue, i membri scrissero “Healter Skelter” sulla porta del frigorifero. Nei giorni seguenti altre due persone furono uccise dalla Famiglia sempre con le stesse modalità. I loro crimini si fermarono quando, cercando di rifugiarsi in Nevada, vennero fermati e arrestati dalla polizia per furto d’auto e vandalismo. Nel 1970 iniziò un processo al termine del quale Manson e altri quattro membri della setta furono condannati a morte per 29 capi di accusa. L’anno successivo la pena venne convertita in ergastolo a seguito della sospensione momentanea della pena di morte in California. Charles Manson morì in carcere, a 83 anni, il 19 novembre 2017.
Bundy e Manson sono entrati e sono tutt’ora presenti nella cultura popolare americana, in ambito musicale, cinematografico e letterario come figure di forte influenza e influsso. Ad esempio, Bundy ispirò il famoso personaggio di Buffalo Bill, mentre il cantante Marilyn Manson dichiarò di aver scelto il suo nome d’arte per riunire quelle che secondo lui erano le due figure iconiche degli anni Sessanta, Marilyn Monroe e Charles Manson. Più di recente sono usciti quest’anno nelle sale C’era una volta ad Hollywood (2019) di Quantin Tarantino con riferimento a Manson e Fascino Criminale (2019) sulla storia di Bundy, interpretato da Zac Efron.
I due casi hanno voluto sottolineare come lo stereotipo comune del “delinquenti si nasce” non sia veritiero, ma come in realtà la figura del criminale è il risultato di diverse cause concatenate: famiglie problematiche, gravi frustrazioni affettive e carenze sia educative che economiche. L’America continua tutt’oggi a essere uno dei paesi occidentali ai vertici delle classifiche con i più alti tassi di reati (in particolar modo, di omicidi), tingendo così il sogno americano di rosso.
Ponti G., Bestos Merzagora I. (2008), Compendio di Criminologia, Milano: Raffaello Cortina Editore.
Marino A., “La storia di Ted Bundy: serial killer di notte, politico di giorno”, su Fanpage.it (data di ultima consultazione 09/08/2021)
“La vera storia di Charles Manson e Sharon Tate”, su Il Post (data di ultima consultazione 09/08/2021)
Foto 2 thisinterestsme.com (data di ultima consultazione 09/08/2021)
Foto 3 ilmattino.it (data di ultima consultazione 09/08/2021)