Nicolò Gavuglio - Un saggio di topologia classica: il ventre

 

L’articolo illustra la circolazione di un τόπος nella letteratura latina antica (e medievale), quello del ventre, riflettendo sulle sue origini, analizzando alcuni autori in cui esso ricorre e tracciandone un’evoluzione concettuale.

 

Facendo seguito ai contributi che hanno proposto una definizione teorica e una pratica esemplificativa, a mero scopo divulgativo, del concetto di τόπος letterario[1], si procede in questa sede con un esempio di cliché attinto alla letteratura antica, ovvero quello del ventre.

Non si tratta, tuttavia, della parte del corpo deputata alla fruizione alimentare e, perciò, intesa in senso anatomico, bensì di una metafora che manifesta l’idea, quasi espressionistica, dell’ingordigia e della voracità dell’essere umano, smodatamente intento ai vizi terreni ed ai piaceri mondani. Il motivo letterario del ventre si colloca, quindi, al di là dell’ovvio problema dell’inedia in ogni società antica, specie per i ceti bassi, e riguarda l’insaziabile propensione al denaro, al sesso ed al potere. Esso sarà rintracciato in modo non totalizzante e sistematico, ovvero logico, percorrendo le fonti del τόπος e verificando tutti i casi in cui esso compaia, bensì occasionale ed accidentale – come spunti di riflessione ed esercizi di analisi, da offrire agli studenti.

Tutto comincia, naturalmente, dalla letteratura greca, anzi, dalla filosofia greca, in specie quella d’età ellenistica, la quale pone al centro della propria ricerca la felicità, perciò tenta di comprendere che cosa renda davvero appagato l’uomo e che cosa, invece, lo gratifichi in modo solo apparente, risultando, in realtà, qualcosa per lui di dannoso.

Già gli epicurei ricordano di diffidare del ventre[2], infatti la vera felicità umana, secondo loro, riposa nell’assenza di dolore, cui si arriva soddisfacendo i soli piaceri naturali e necessari, mentre la ricerca di piaceri innecessari ed innaturali, come potere e gloria, finisce per essere fattore di infelicità, in quanto turbamento dell’animo.

Su posizioni più rigide si collocano invece gli stoici, per i quali la pienezza è il raggiungimento della virtù, cioè l’armonia con la provvidenza che tutto regge e con le sue istanze, liberandosi da ogni altra distrazione, quale non solo autorità e successo, ma anche denaro e famiglia.

Radicali sono, infine, i cinici, in parte anteriori all’età ellenistica, ma già tesi alla ricerca di una felicità estremizzata, poiché ridotta all’eliminazione di ogni desiderio, in una vita dove non si ha bisogno di nulla, se non di sopravvivere. Riassume bene queste ultime due posizioni il filosofo greco Bione di Boristene, che per primo rovescia tali principi in un genere letterario scritto, la diàtriba stoico-cinica, la quale consiste in una predica destinata alla gente comune, chiamata a rifiutare le posizioni convenzionali, anche sulla felicità, invitando a non ricercarla nei beni materiali e nelle aspirazioni personali. Ecco, invero, che Bione rifiuta con disprezzo ricchezza e pinguedine e le collega[3], avvicinandosi a tutto ciò che il ventre rappresenta. Per il tramite di queste filosofie ed anche del genere, prevalentemente orale, della diatriba, nonché attraverso l’immaginario culturale collettivo, questo τόπος approda, dunque, nella letteratura latina.

Persio è uno degli autori a cui il discorso risulta più consono, dato che, nelle sue Saturae, egli si erge a maestro rigorista di stampo neostoico, esplicitando il proprio severo giudizio sulla società coeva, afflitta, a suo dire, dalla decadenza, dal vizio e dal degenero nei falsi valori. Nel manifestare le proprie preoccupazioni etiche, egli attinge sovente al repertorio della diatriba stoico-cinica, appellandosi all’indifferenza verso l’esteriorità ed all’esaltazione dell’interiorità, perciò può da essa aver recuperato anche la presunta immagine del ventre, in lui percepita come simbolo della dissolutezza terrena, soprattutto legata al denaro. Lo dispone fin dai choliambi, dichiarazione di poetica ancor prima che critica[4], dove polemizza contro i poetastri del tempo, i quali imitano banalmente ciò che va di moda e compongono per il solo guadagno, rivelando mancanza di sincera ispirazione e bieco vuoto morale.

  

Magister artis ingenique largitor   [Maestro d’arte e corruttore d’ingegno]

venter, negatas artifex sequi voces.   [il ventre, un artista a trasformare le voci negate] [per la poesia].

 

Lo ribadisce, poi, nel suo sesto componimento[5], quando biasima l’avarizia e la prodigalità, invitando alla moderazione, difatti vitupera il proprio ideale erede, che taglia i fondi a lui, ormai anziano e quasi deperito, pur di godersi le pingui ricchezze tutto da solo.

        

[...] Mihi trama figurae [...]   [A me [solo] l’orlo della forma]

sit reliqua, ast illi tremat omento popa venter?   [è rimasto, ma a quegli tremola per il grasso il ventre carnefice?]

 

Paradossale è, infine, rammentare che le vitae raccontano un Persio deceduto proprio per un morbo allo stomaco, quasi una metaforica somatizzazione, ad esplicitare il suo rifiuto verso la collettività dell’epoca.

Anche l’altro grande poeta satirico della letteratura latina antica, Giovenale, centra almeno una volta questo τόπος, pur respingendo egli, nelle prime sue Saturae, i motivi consolatori della diàtriba storico-cinica. Non c’è, invero, spazio alcuno per gli inviti alla coltivazione della nobiltà dello spirito, ma soltanto una sdegnata pars denstruens contro il suo tempo ed i suoi simili, che avviene con toni rancorosi ed arcigni e la furia del disgusto di un misantropo, a cui non rimane altro che un grido di denuncia e di rabbia. Soltanto nei suoi ultimi componimenti l’autore sembra serbare un atteggiamento più disteso, ripristinando i perduti consigli ad una felicità interiore, come dimostra nell’undecima satira, dove biasima il vizio della gola e la prassi dei banchetti smodati, a dispetto dei quali celebra la vita semplice, imbastendo un convito modesto per il proprio ospite, ben avvisato dei rischi del ventre, ancora una volta concepito come accumulo dell’abiezione materiale, in specie pecuniaria.

  

[...] Quis enim te, deficiente crumina   [...] [Infatti, quale fine ti aspetta,]

et crescente gula, manet exitus, aere paterno   [mancando la borsa e crescendo la gola, una volta che l’eredità]

ac rebus mersis in ventrem [...]?   [paterna e le [tue] sostanze sono state sommerse nel [tuo] ventre [...]?]

 

Link_1_Giovenale (vedi allegato)

 

Il personaggio che maggiormente adopera il motivo letterario del ventre nelle sue opere è, tuttavia, Seneca, il quale – facendo della filosofia stoica la propria Weltanschauung - esorta i suoi lettori a divenire saggi in cammino verso la retta via della virtù, allontanandoli dalle distrazioni dei fattori adiafori. Nelle pagine di Seneca moltissime volte il ventre assurge ad emblema della dedizione dell’uomo sciocco ai fuorvianti piaceri secolari. Il topos per parlare soprattutto del cibo, del vino e del sesso, oppure, per sineddoche, del mero corpo materiale da cui, secondo la filosofia stoica, ciascuno dovrà presto liberarsi.

La presenza di tale immagine in questi autori fa davvero pensare alla diàtriba stoico-cinica come origine comune, ma le fonti sono irricostruibili, poiché il genere diatribico è stato in prevalenza orale, perciò ci si accontenta di notarne la persistenza. Ecco uno dei tantissimi casiin cui Seneca tratta il τόπος, lo declina nell’ambito del cibo e lo innesta alla filosofia, poiché spiega che il saggio è sufficiente a sé, non ha bisogno di grandi risorse, in specie alimentari, e ne è prova il fatto che la provvidenza non abbia dotato l’uomo di uno stomaco così grosso da superare la fame delle bestie.

  

Tam insatiabilem nobis natura alvum dedit, cum   [La natura ci ha dato un ventre così insaziabile, pur]

tam modica corpora dedisset, ut vastissimorum [...]   [avendo(ci) dato corpi così modici, tanto che dei più grandi] [...]

animalium aviditatem vinceremus? Minime!   [animali supereremmo la brama? Nient’affatto!]

 

Link_2_Seneca (vedi allegato)

 

Il cliché è ben presente anche all’interno dei variegati libri biblici, i quali non sono in origine redatti in latino ed in parte precedono la genesi della letteratura romana medesima, ma sono presto in latino tradotti, in particolare nell’esperienza della cosiddetta Vulgata di san Girolamo. Quivi, il ventre si allinea al peccato che, di volta in volta, è necessario rappresentare. Il Libro di Giobbe, scritto in ebraico e certamente posteriore all’esilio in Babilonia, è quello in cui ricorre più spesso, essendo impiegato nei discorsi degli amici del protagonista, i quali sostengono la tesi della giusta retribuzione di Dio, come quando egli manda in rovina l’uomo malvagio, poiché i tesori che la cupidigia gli ha permesso di accumulare non dureranno e non garantiranno l’aldilà[6].

 

nec est satiatus venter eius, et, cum habuerit   [né il suo ventre è stato saziato, e, quando avrà avuto]

quae concupierat, possidere non poterit.   [ciò che aveva bramato, non potrà esserne proprietario.]

 

Nel Nuovo Testamento è san Paolo l’autore che, verosimilmente riprendendolo dai libri sapienziali veterotestamentari, si avvale del motivo del ventre e lo piega in via definitiva all’ambito spirituale, dopo che esso è stato, negli scrittori pagani, un qualcosa di essenzialmente materiale. Tra i pochi esempi, nella Lettera ai Filippesi[7] Paolo lo rende generico simbolo di adulazione da parte dei peccatori che non imitano il modello di perfezione di Gesù.

 

quorum finis interitus, quorum deus venter est et gloria   [e la loro sorte è la perdizione, il loro dio il ventre ed il vanto]

in confusione ipsorum, qui terrena sapiunt.   [di costoro, che conoscono le cose terrene, [è] nel disonore.]

 

Attraverso la Bibbia girolamea, pur con i molteplici ritocchi subiti nel suo corso plurisecolare, sono, infine, gli scriptores medievali a recepire il τόπος del ventre, reperendolo soprattutto nelle lettere paoline, che, seppure lo utilizzano scarsamente, ricostituiscono lettura ed ascolto obbligati di qualsiasi studioso di quel tempo. Nel medioevo, tuttavia, si perde il valore ultrametaforico di questo motivo letterario, nonché la connotazione spirituale ad esso impressa dagli autori cristiani, così diventa bulimia di cibo ed ebbrezza da alcolici, a livello quasi letterale. Questo processo di slittamento è un esito sia sociologico, legato alla maggior concretezza della civiltà medievale, che tende al divino, ma si applica al secolo, sia linguistico, inerente l’uso del latino come idioma non natio e, perciò, meno percepito nelle sfumature. Celebre è il caso di Liutprando da Cremona, il quale, giunto nel 968 a Costantinopoli come ambasciatore del sacro romano imperatore, Ottone I, per richiedere la figlia dell’imperatore bizantino, Niceforo II Foca, in sposa al primogenito del proprio sovrano, dà di ciò un vivace resoconto nella Relatio de legatione Constantinopolitana. In uno degli aneddoti[8], infatti, si narra di come l’imperatore d’Oriente, in risposta a Liutprando stesso, adotti un atteggiamento snobistico nei confronti dei reali occidentali e li accusi di voracità ed ubriachezza.

 

quorum deus venter est, quorum audacia crapula,   [il ventre è il loro dio, la loro audacia la sbornia,]

fortitudo ebrietas; ieiunium dissolutio,   [la [loro] forza l’ebrietà; il digiuno è debolezza,]

pavor sobrietas.   [la sobrietà paura] [per loro].

 

Anche nei Carmina Burana il cliché riemerge con veemenza, essendo in linea con il filone canzonatorio e goliardico di tali liriche, come nella famosa Confessio Goliae del cosiddetto Archipoeta, autore del XII secolo tra quelli tramandati nel codice da cui si deducono le poesie. In questo componimento autoironico[9], nel novero delle accuse, tra sregolatezza e rissosità, figurano insistentemente l’ebbrezza e l’ingordigia, cantate in un’occasione tramite l’immagine del ventre, il quale, se non è sazio, non permette al suo proprietario di poetare.

 

Mihi nunquam spiritus poetrie datur,   [A me lo spirito di poesia non è mai dato,]

nisi prius fuerit venter bene satur;   [se prima il [mio] ventre non sarà ben saziato;]

 

Trasmigrato dalla filosofia ellenistica alla satira latina, dalla letteratura biblica alla lirica goliardica medievale, la rappresentazione della γαστρ lungo i secoli dimostra l’esistenza di un filo sottile, ma ben codificato, che unifica la pluralità dei linguaggi letterari, i quali non smettono mai di raccontare come, pur mutando le epoche ed i gusti, l’uomo rimanga sempre uguale a se stesso, e sempre affamato di vizi e piaceri.



[1] Si tolleri il rimando ai miei N. S. Gavuglio, I τόποι, Curtius e le possibilità dell’antico, in «Nuova Secondaria», 34/IX (2017), pp. 55-56 e N. S. Gavuglio, Un saggio di topologia classica: i gemelli in guerra, in «Nuova Secondaria», 35/III (2017), pp. 55-57.

[2] T. Gargiulo, Epicuro e il piacere del ventre (fr. 409 Us. = [227] Arr.), in «Elenchos», 3 (1982), pp. 153-58.

[3]Ad esempio, Bion. Bor. frr. 32 e 46 Kindstrand, per cui J. F. Kindstrand, Bion of Borysthenes. A collection of the fragments, Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1976.

[4] Pers. Sat. Chol., 10-11.

[5] Pers. Sat. VI, 73-74.

[6] Gb 20, 20.

[7] Fil 3, 19.

[8] Liutprando da Cremona, Relatio de legatione Constantinopolitana, cap. 11 (ovvero MGH, SS. rer. Germ., 41).

[9] Archipoeta, Confessio Goliae, vv. 73-74 (ovvero CB, Carm. lus. et pot., 191).

 

15 febbraio 2021