Le metamorfosi di Tersite, da Omero al ‘900
Tersite
Tersite è un semplice soldato greco protagonista di un breve celebre episodio del secondo libro dell’Iliade. Dopo avere inveito contro Agamennone e ingiuriato Achille e gli Achei per indurli a ritirarsi dall’impresa troiana, Tersite viene zittito e bastonato da Ulisse con lo scettro regale.
Il personaggio è davvero eccezionale per almeno due motivi: il primo è il realismo della sua descrizione che mette in risalto analiticamente i difetti fisici e morali come in nessun altro personaggio nel poema, eccetto il caso, in qualche misura equivalente, di Dolone (Iliade X, 314); il secondo riguarda la sua esemplarità, che lo pone come archetipo di un particolare ethos comune a una serie di personaggi della letteratura posteriore, fino ai nostri giorni.
Sulla questione del realismo bisogna ancor oggi fare riferimento all’interpretazione magistrale di Giorgio Pasquali che, in un saggio del 1940 intitolato Omero, il brutto e il ritratto, ravvisa nel Tersite omerico il primo “ritratto” della letteratura occidentale e affronta con rigore metodologico il problema formale della rappresentazione linguistica della realtà.
Se, invece, ci atteniamo ai contenuti (temi, motivi e loro articolazione) di cui è possibile riscontrare la permanenza con variazioni, modifiche e stratificazioni, in varie opere di epoche successive, il «paradigma Tersite», nella sua universalità, può diventare un modello euristico attraverso cui interpretare fenomeni non solo letterari, ma anche storici, sociali e politici e, magari, entrare nelle pieghe più intime dell’animo umano, esplorandone i moventi psicologici individuali e collettivi.
Dai primi romanzi fino alle prove della maturità, Feodor Dostoevskij, il maestro del romanzo psicologico moderno, nel ritrarre la condizione degli abietti personaggi del “sottosuolo”, coglie appieno il potenziale del “paradigma Tersite”, richiamandolo esplicitamente (è il caso di Efimov, il musicista fallito di Netočka Nezvanova, romanzo incompiuto del 1849; e anche di Pavel Pàvlovič Trusockij, il funzionario provinciale de L’eterno marito, racconto pubblicato nel 1870), oppure richiamandolo indirettamente, in maniera sottile e penetrante, in altri personaggi (come i Verchovenskij dei Demoni, nell’edizione del 1873).
Proposto dalla cultura alta come antimodello, il personaggio Tersite rimane scolpito nella memoria dei lettori e si impone anche al difuori dei confini della letteratura, venendo a indicare per antonomasia un particolare tipo antropologico. Tuttavia, il “paradigma Tersite”, calato nella realtà storica e sociale delle varie epoche, assume le diverse sfumature e coloriture in cui si manifesta nei singoli casi il “tersitismo”, non genericamente inteso come un “agire alla maniera di Tersite”, ma piuttosto come un agire di senso molteplice e problematico che può essere via via interpretato nell’incontro con i modelli del passato e nella comprensione della loro tradizione.
Tersitismo
Il termine “tersitismo” (Thersitismus) fu coniato da G.F. Hegel nell’Introduzione alle Lezioni di filosofia della storia (edizione postuma, 1837) per indicare un atteggiamento di invidia, ostilità e maldicenza in opposizione ai grandi uomini della storia, da Hegel chiamati gli “eroi di un’epoca” («Die welthistorischen Menschen, die Heroen einer Zeit»). Nella visione hegeliana della storia, le imprese da loro compiute appaiono come una sorta di missione che non segue semplicemente il corso pacato e ordinato delle cose esistenti, ma fa emergere la «volontà dello spirito del mondo». Benché nel perseguire i loro scopi particolari si facciano interpreti del contenuto sostanziale del loro tempo, gli “eroi” moderni subiscono la condanna e la riprovazione generale.
Il “tersitismo” di cui parla Hegel non è il banale mugugno dei subalterni che si oppongono alle imposizioni del potere, mormorando il proprio malcontento in privato o in qualche rara occasione pubblica; il “tersitismo”, secondo Hegel, è come un riflesso connaturato all’uomo e assai diffuso particolarmente nel ceto intellettuale. È tipico, secondo il filosofo, nella storiografia, che tende a denigrare e a svilire l’azione dei moderni “eroi” della storia, proprio perché incapace non solo di indirizzare, come ambirebbe, il corso della storia, ma anche di cogliere il significato e la direzione dei grandi sommovimenti epocali.
Nell’ambito storiografico si trova sempre, scrive Hegel, un qualche Tersite pronto ad abbassare gli “eroi” della storia o a collocarli al di sotto della sua proclamata moralità. Con una metafora caricaturale, utilizzata anche da Goethe, i Tersiti della moderna storiografia vengono ironicamente dipinti da Hegel come “camerieri inclini alla psicologia” che nella loro grottesca e angusta visione del mondo denigrano abilmente i protagonisti della storia e li collocano perfino un paio di gradini al di sotto della loro presunta moralità di raffinati conoscitori dell’animo umano.
Hegel chiosa il discorso con il motto popolare che recita: «Nessun grand’uomo è un grand’uomo per il suo cameriere» («Für einen Kammerdiener gibt es keinen helden», ovvero, «Per un cameriere non ci sono eroi»). Il “tersitismo” non solo propone una visione del mondo “dal basso”, ma si prefigge di distorcere e svilire ogni ideale.
Quali sono, dunque, gli attributi del “tersitismo”? Il “tersitismo” non consiste in una semplice contestazione dell’autorità, del potere e del prestigio, ma si riconosce da alcune caratteristiche concomitanti: abilità di parola e incapacità di agire, moralismo e ipocrisia, viltà e istrionismo, invidia e critica calunniosa e contumeliosa, trasformazione della serietà delle argomentazioni altrui in irrisione e sberleffo, recriminazione e risentimento contro chi eccelle, mancanza di ideali e angustia delle aspirazioni, ricerca del consenso e uso di luoghi comuni.
Il percorso didattico
Il percorso su Tersite e il “tersitismo” propone alcuni testi narrativi, in versi e in prosa, articolati in due sezioni distinte, quella dedicata all’antichità (Sezione A) propone testi dall’Iliade di Omero (Link_1) e dall’Eneide di Virgilio (Link_2), nonché una scheda di approfondimento su Tersite nella letteratura greca e, in particolare, nei Posthomerica di Quinto Smirneo (Link_1bis); quella moderna (Sezione B), facendo riferimento a testi quattro-cinquecenteschi nei quali appare a vario titolo il personaggio di Tersite, prende le mosse da un episodio della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso (Link_3), snodo fondamentale nello sviluppo del modello classico verso la modernità, per poi passare a una rassegna tipologica del “tersitismo” attraverso opere del Novecento italiano: Il diavolo al Pontelungo di Riccardo Bacchelli (Link_4), Rubè di Giuseppe Antonio Borgese (Link_5), il Libro di Tersite di Concetto Marchesi (Link_6), Il giorno del giudizio di Salvatore Satta (Link_7) e L’immortale di Alberto Moravia (Link_8).
Sezione A
(Omero, Iliade II, 211-277)
Nel secondo libro dell’Iliade al verso 211 entra in scena Tersite, un personaggio veramente anomalo rispetto a tutti gli altri del poema. Il contesto è ben noto: Zeus promette a Teti di restituire ad Achille l’onore che Agamennone gli ha tolto sottraendogli pubblicamente Briseide, la schiava che gli era stata assegnata come riconoscimento del suo valore. Dopo una notte insonne il dio decide di mandare ad Agamennone “un sogno funesto” per illuderlo della imminente conquista della città e spingerlo a sferrare l’attacco finale. L’Atride mette allora alla prova la volontà di combattere dell’esercito, lo raduna in assemblea e, fingendo di aver rinunciato all’impresa, propone un immediato quanto disonorevole ritorno in patria. Tra lo sconcerto generale dei capi, gli Achei si precipitano in massa verso le navi e stanno per imbarcarsi, quando Odisseo, ispirato da Era ed Atena, li persuade con un abile discorso a tornare indietro e quietarsi.
A questo punto, mentre tutti sono seduti, solamente Tersite continua a strepitare riversando su Agamennone una serie di accuse ingiuriose, peraltro analoghe a quelle pronunciate da Achille nell’alterco della precedente assemblea: da nove anni gli Achei combattono con coraggio, rischiano la vita sul campo di battaglia, espugnano le fiorenti città della Troade. Agamennone è un comandante vile e arrogante, solo avido di ricchezze e desideroso di scegliere per sé le schiave più belle. Tersite incita gli Achei a correre alle navi e, senza più sopportare come donne pavide i suoi soprusi, ad abbandonarlo a Troia. Le contumelie di Tersite provocano la riprovazione dell’assemblea e la reazione di Odisseo che zittisce Tersite e lo bastona con lo scettro tra lo scherno generale, ingiungendogli di non osare mai più in futuro prendere la parola contro i re.
Link_1_: Omero, Iliade II, 211-277
La prima anomalia dell’episodio riguarda la descrizione di Tersite. Nella lingua artificiale di Omero gli eroi e i personaggi femminili dell’Iliade non vengono mai descritti, perché la loro bellezza è presupposta a priori, astratta e semplicemente enunciata con tratti tipici che spesso generano un confronto, cioè una valutazione quantitativa.
Tersite, secondo la celebre tesi di Giorgio Pasquali, è il primo personaggio della letteratura occidentale ad essere caratterizzato realisticamente. Con le gambe storte, zoppo da un piede, le spalle curve e cadenti, la testa a pera sormontata da una rada peluria: è il ritratto dell’antieroe. La descrizione fisica di Tersite è sintatticamente intricata e intessuta di vocaboli rari di controversa interpretazione, ἅπαξ εἰρημένα in assoluto, o almeno in Omero, che fanno pensare a parole gergali e, pertanto, dotate di breve fortuna e destinate a un rapido oblio. Alla deformità fisica corrisponde una deformità morale: Tersite è un oratore eloquente (λιγύς ἀγορητής), ma scriteriato (ἀκριτόμυθος), senza misura (ἀμετροεπής) e amante di parole senza decoro (ἔπεα ἄκοσμα) e ingiuriose (ὀνείδεια), di discorsi ridicoli (γελοίϊον), di litigi con i re (ἐριζέμεναι βασιλεῦσιν). Insomma, Tersite (Θερσίτης è un nome parlante e significa “sfrontato”, derivando dal sostantivo eolico θέρσος, in attico θρασός, “sfrontatezza”, “impudenza”) non solo è il più spregevole (αἴχιστος) degli Achei venuti a combattere a Troia, ma anche il più odioso (ἔχθιστος), specialmente ad Odisseo e Achille che spesso insolentiva (νεικείεσκε). C’è un’equivalenza fra la deformità fisica descritta con esattezza e l’indegnità del personaggio.
L’aperta contestazione dell’autorità di Agamennone e degli altri re da parte di Tersite avviene sulla base di un atteggiamento antieroico che rifiuta ogni idealità e annulla le distinzioni di valore tra gli uomini, utilizzando la calunnia, la maldicenza, lo scherno. L’irenismo di Tersite non è sincero, ma strumentale e capzioso, perché sfrutta il desiderio di pace dell’esercito acheo, logorato dai lunghi anni di combattimento, per vilipendere, distruggere il potere regale e sostituirsi a esso.
In Omero il rifiuto della logica della guerra e dell’autorità ad essa preposta è talora ammissibile e anzi nobilitato, ma solo se si ispira a profonde motivazioni e principi che corrispondono a una condotta virtuosa, come accade ad esempio in Iliade XXIV, quando Achille si pone a protezione di Priamo contro un eventuale intervento di Agamennone. Il punto di vista di Tersite, quindi, rivela a contrario che il codice aristocratico e l’organizzazione politica dell’Iliade non comportano meccanicamente la lotta spietata tra i popoli e lo scontro perpetuo degli individui, ma si fondano e si sostanziano nell’intuizione del profondo sentimento della vita e nella conoscenza senza illusioni della natura umana. Di questa ampia visione del mondo scrive Giacomo Leopardi in una nota dello Zibaldone: «Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l'Iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è, dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente dell'antico al moderno, e viceversa ec. È anche il poema più Cristiano. Poichè interessa pel nemico, pel misero ec. ec.» (G. Leopardi, Zibaldone, nota, p. 3157, 5-11 agosto 1823)
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(Virgilio, Eneide XI, 122-131; 336-444)
Nella seconda parte dell’Eneide, la parte iliadica del poema, Virgilio introduce il personaggio di Drance che presenta notevoli affinità con il Tersite omerico. In Eneide, XI 122 e sgg. Drance è l’anziano capo della delegazione di ambasciatori latini che ottengono da Enea una tregua per seppellire i caduti sul campo di battaglia. L’episodio corrisponde a quello di Iliade VII, 381 e sgg., in cui sono i Troiani guidati da Ideo a proporre una tregua al fine di seppellire i morti in battaglia. Dal confronto col poema omerico e, soprattutto, da quello con il sobrio e addolorato discorso che Enea rivolge agli ambasciatori (XI, 108-119) comincia a emerge il “tersitismo” di Drance. Il verso XI 122 in cui Drance viene presentato ostile e calunnioso nei confronti di Turno («odiis et crimine…/ infensus») presuppone e amplifica Iliade II 220, dove il greco Tersite è odiosissimo ad Achille e Odisseo (ἔχθιστος). L’ignobile carattere tersiteo dello scaltro uomo politico latino emerge immediatamente dall’avversione pervicace e malevola contro Turno, dall’uso strumentale della profferta di pace, volta unicamente a danneggiare Turno (XI, 127-129), dall’ipocrita benevolenza nei confronti del nemico Enea, capo del popolo dei Teucri (XI, 124-126). Se è individuabile una ragione dell’astio contro il re dei Rutuli, il testo virgiliano (XI, 122-123) sembra voler suggerire che questa è principalmente l’invidia segreta suscitata in Drance più vecchio («senior») dalla giovinezza di Turno («iuvenis»). Il breve discorso che egli rivolge ad Enea per ringraziarlo di aver concesso una tregua è un misto di servilismo e adulazione che arriva addirittura a prospettare come gradito da parte dei latini di trasportare sulle spalle le pietre per erigere la nuova fatale città troiana («saxa subvectare umeris Troiana iuvabit», XI 130-131). Insomma, la conclusione del discorso rappresenta icasticamente l’offerta di asservimento e umiliazione dei latini, ma è soprattutto nel violento scontro con Turno nel successivo concilium regis che emergono le strette analogie del personaggio virgiliano di Drance con il modello del Tersite omerico: il ritratto di Drance (Eneide, XI 336-342) ricalca quello di Tersite (Iliade, II 212-224); l’acre discorso a sfondo irenista (Eneide, XI 343-375) riecheggia le veementi accuse contro Agamennone e Achille (Iliade, II 225-242); il disprezzo che Turno riversa nella replica al discorso del suo avversario (Eneide, XI 378-444 ) rimanda all’implacabile risposta di Odisseo a Tersite (Iliade, II 246-264). Tuttavia la memoria poetica virgiliana è molto più complessa e originale, e anche nel caso di Drance sembra operare, pressoché simultaneamente, una sintesi di molti episodi e personaggi omerici, alternando, parallelamente a corrispondenti passi dell’Iliade, sequenze diegetiche pure, affidate alla voce del poeta-narratore, a sequenze mimetiche, in cui descrizione e narrazione avvengono attraverso il discorso diretto dei personaggi.
LINK_2_Virgilio, Eneide XI, 122-131; 336-444
Elenchiamo schematicamente i passi virgiliani e omerici che possono essere utilizzati (anche parzialmente) per ricostruire in classe un confronto nella tipizzazione dei personaggi virgiliani riconducibili al ‘tersitismo’:
- Drance
2. Discorso contro Turno (Eneide, XI 343-351 → Discorso di Tersite che accusa Agamennone (Iliade 2, 225-42)
3. Richiesta di non gettare i cittadini nei rischi della guerra (Eneide, XI 360-361→ Discorso di Polidamante che consiglia prudenza (Iliade 12, 211-29)
4. Invito a ritirarsi nella città (Eneide, XI 365- 367) → Polidamante invita Ettore a rientrare nella città (Iliade 18, 254-83)
5. Accusa di codardia e invito a sfidare Enea a singolar tenzone (Eneide, XI 220-221, 351, 368-370) → Ettore accusa Paride di viltà e lo sprona a sfidare Menelao (Iliade 3, 39-57)
6. Invita Turno a esporsi in prima persona in battaglia (Eneide XI, 368-370; 373-375) → Ettore accusa Paride di ignavia (Iliade 6, 326-31)
7. Invito a rinunciare al matrimonio con Lavinia (Eneide XI, 354-356; 371) → Discorso di Antenore che suggerisce di restituire Elena agli Achei (Iliade 7, 349-53)
-Turno
1. Accusa Drance di fare discorsi reboanti, ma di essere codardo in battaglia (Eneide XI, 378-391) → Odisseo interrompe il discorso di Tersite (Iliade 2, 246-251).
2. Rassicura ironicamente Drance che teme di essere colpito (Eneide XI, 406-408) → Odisseo minaccia di morte Tersite se in futuro parlerà ancora contro i re (Iliade 2, 246-64).
3. Drance è folle se predica davvero la resa (Eneide XI, 401-402) → Polimadante invita ad arrendersi perché è impazzito (Iliade 12, 233-234; 18, 285-309).
4. Turno accetta di combattere in duello Enea (Eneide XI, 434-444) → Paride accetta l’idea di combattere per Elena in singolar tenzone (Iliade 3, 59-75).
Il raffronto tra i passi dell’Eneide relativi a Drance/Turno e quelli dell’Iliade relativi a Tersite/Odisseo e ad altri personaggi dà un’idea della qualità del classicismo del poeta augusteo e della sua solida erudizione, ma anche dell’estrema abilità tecnica nel “contaminare” vari personaggi ed episodi dell’Iliade, in modo da creare un personaggio originale e coerente come Drance. La genesi del personaggio, tuttavia, non ha radici esclusivamente letterarie e culturali. Partendo dalle differenze con Tersite, in Drance emergono chiari riferimenti a personaggi storici dell’epoca tardo-repubblicana e imperiale. Il personaggio dell’Eneide in particolare:
Virgilio trasforma Tersite, da Omero rappresentato realisticamente e caricaturalmente, nell’odioso personaggio di Drance in cui convergono non solo modelli letterari, ma anche i tratti che hanno connotato i protagonisti della lotta politica romana nella fase tardo-repubblicana. Il “tersitismo” di Drance mantiene la primaria caratteristica del personaggio omerico, ovvero la capacità oratoria («copia fandi») unita alla viltà (Drance viene definito da Turno («lingua melior, sed frigida frigida bello / dextera», Aen. XI, 338), ma è il tipico agitatore aristocratico, in quanto rappresenta nel suo insieme la negazione dei valori etici e religiosi restaurati dal regime augusteo. In lui si riscontrano i riflessi di tipi, tendenze e degenerazioni presenti nella politica e nella società romana dell’epoca. Drance incarna l’ideale negativo del demagogo romano. E’ ricco («largus opum», Aen. XI 338), quindi in grado di corrompere, influente («consiliis habitus non futtilis auctor», Aen. XI 338), agitatore di disordini («seditione potens», Aen. XI 340), cioè abile mestatore delle torbide pulsioni irrazionali che dominano secondo Virgilio l’«ignobile vulgus» (Aen. I, 148 e ss.), non per sovvertire il sistema di potere a cui appartiene, ma solo per conquistarlo eliminando i nemici più pericolosi. Non è un caso che Turno replicando al discorso di Drance sottolinei la stridente incoerenza fra le sue parole e gli atti («An tibi Mavors / ventosa in lingua pedibusque fugacibus istis / semper erit?» Aen. XI, 389). Il passo dell’Eneide (XI, 389) richiama la coeva pseudo-sallustiana seconda Epistula ad Caesarem che descrive Lucio Domizio Enobarbo come «lingua vana, manus cruentae, pedes fugaces» (ad Caes. 2, 9, 2), accuse reiterate anche nei riguardi di Cicerone nell’Invectiva in Ciceronem. Non è certo recente l’interpretazione dei personaggi dell’Eneide in chiave simbolica o allegorica; secondo tali letture Enea sarebbe Augusto, Antonio Turno, Cleopatra Didone, Cicerone sarebbe così Drance. Tuttavia questo accostamento in astratto coerente è del tutto improbabile all’interno della cerchia augustea, se non altro perché, a parte le implicazioni sgradite a Ottaviano derivanti da una eventuale comparazione tra Antonio e Turno, Cicerone non era classificabile tra i demagoghi dei populares e, inoltre, suo figlio, Marco Tullio il Giovane, al momento della composizione dell’Eneide era da tempo uno dei più ferventi sostenitori di Augusto. Nell’episodio di Drance i riflessi della vita politica romana vanno piuttosto inquadrati all’interno del disegno armonico del poema. Il tersitismo di Drance, infatti, risponde pienamente alle esigenze narrative di una vicenda che si avvia all’epilogo completando la costruzione di un personaggio tragico e contraddittorio qual è Turno. È da notare, ad esempio, come Drance ripeta nel proprio velenoso discorso contro Turno concetti sostanzialmente espressi dal re Latino, similmente a Tersite che replica in buona parte il discorso di Achille contro Agamennone. Drance, però, non ha nulla di grottesco e caricaturale, ma distorce in modo capzioso e strumentale quelle proposte che apparivano giuste e naturali nelle parole di Latino, in quanto personificazione del bonus rex. Quando nel concilium regis Venulo riferisce che il greco Diomede, re della città Iapigia di Argiripa, ha rifiutato l’alleanza contro Enea (Aen. XI 243-295), Latino avanza due proposte alternative: cedere ai Teucri una parte delle sue terre occidentali in riva al Tevere, se vogliono stanziarsi pacificamente come alleati, oppure, nel caso vogliano partire per altre terre, fornirli di navi e ricchezze. L’articolata proposta ha due presupposti: la convinzione che la guerra contro Enea sia un «bellum inportunum» (Aen. XI 305) e la volontà di non accusare nessuno («Nec quemquam incusso», Aen. XI 312). La proposta di pace del re Latino, dettata da un’istanza di coscienza e dalla saggezza che riconosce l’inevitabile corso del fato, desidera la concordia dei popoli e fa ancor più risaltare la disperata e inutile opposizione di Turno e la sua progressiva solitudine. Il “tersitismo temperato” di Drance è simmetrico e contrario al discorso di Latino, appunto più odioso e moralmente repellente, ma risponde alle medesime esigenze drammatiche del poema. Drance con una captatio benevolentiae enfatica e servile sembra inizialmente approvare la generosità di Latino, ma in realtà giunge a rendere impossibili entrambe le soluzioni da lui proposte in quanto prospetta, come conditio sine qua non per una vera pace, il matrimonio tra Lavinia ed Enea («nec te violentia ullius vincat / quin gnatam egregio genero dignisque hymenaeis / des, pater, et pacem hanc aeterno foedere iungas», Aen. XI 354-356). L’oratoria di Drance è serrata e infida, dettata dall’invidia e dall’ipocrisia, e propone la pace esclusivamente in modo che renda inevitabile la rovina di Turno; la vuole ottenere in qualunque modo, anche con la resa più irragionevole e umiliante, per un meschino tornaconto personale; infatti il raggiungimento della pace costituisce un suo personale trionfo e implica l’acquisizione del potere che resterebbe altrimenti nelle mani del nobile e giovane Turno. L’abile retorica antibellicista di Drance culmina nell’enunciazione di una sententia tanto efficace e persuasiva da trovare poi regolarmente posto nelle più importanti raccolte paremiografiche delle età successive: «nulla salus bello» (Aen. XI, 362). È lo stesso Turno a cogliere immediatamente l’importanza di questo slogan e per tale motivo nella sua refutatio lo cita letteralmente in funzione antanaclastica (Aen. XI 399). Se mai l’adagio è vero, dice adirato Turno, Drance lo reciti pure per il capo dei Troiani e per i propri affari («Nulla salus bello. Capiti cane talia, demens, / Dardanio rebusque tuis», Aen. XI 399-400). Turno è condannato dal discorso di Drance ad andare incontro alla morte.
Per Virgilio i giovani sono incorrotti, audaci fino all’imprudenza e il loro ardore di gloria è un impulso nobile da ammirare e incoraggiare. Turno è fedele a se stesso e al proprio compito, ma il suo tragico destino individuale si scontra con un ordine e una ragione cosmica, religiosa e storica, che è la missione di Roma e del principato augusteo. All’interno di questa visione teleologica della storia il “tersitismo” di Drance, purgato di elementi parodici, svolge a pieno il proprio compito esaltando il destino tragico individuale di Turno.
Sezione B
(Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, VIII, 57-58; 63; X, 39-52)
In una lettera del luglio 1576 Torquato Tasso scrive che il poema dedicato alla Crociata guidata da Goffredo di Buglione che nel 1099 libera il Santo Sepolcro, poi stampato con il titolo La Gerusalemme Liberata, racconta in venti canti «se non quel solo che, dopo sei anni di guerra, fu fatto in tre o quattro mesi per la espugnazion sola di Gerusalemme» (Lettera a mons. Orazio Capponi, luglio 1576). La “favola” (trama principale) della Liberata è, dunque, imperniata su un evento storico (aristotelicamente trattato alla maniera dell’Iliade in una sua piccola porzione temporale), ma è anche continuamente variata e abbellita da molteplici episodi e personaggi di invenzione, spesso di ispirazione letteraria.
Il Tersite omerico viene così trasformato dal Tasso in Argillano, uomo d’arme violento e riottoso, cresciuto nelle feroci contese civili di una città dell’Italia centrale (G.L. VIII, 58, 3-8). L’episodio viene complicato dall’intervento del meraviglioso, la comparsa in sogno di Alletto come fantasma di Rinaldo, evidente reminiscenza delle apparizioni virgiliane a Enea dei defunti Ettore e Polidoro. A differenza di Tersite Argillano è un combattente coraggioso, destinato a morire in battaglia dopo una lunga aristia (G.L. IX, 74-88), ma viene accecato dalla Furia infernale Alletto che lo induce a sobillare gli Italiani perché si ribellino a Goffredo di Buglione. Argillano, ritratto come «pronto di man, di lingua ardito, / impetuoso e fervido d’ingegno» (G.L. VIII, 58, 1-2), diventa tribuno di una protesta dei soldati contro i capi imbelli e rapaci dell’esercito cristiano, sempre pronti nelle vittorie a impossessarsi dei meriti e dei bottini che spetterebbero invece agli oscuri soldati che sul campo di battaglia combattono in prima fila e muoiono: «Taccio , ch’ove il bisogno e ’l tempo chiede / pronta man, pensier fermo, animo audace, / alcuno ivi di noi primo si vede / portar fra mille morti o ferro o face: / quando le palme poi, quando le prede / si dispensan ne l’ozio e ne la pace, / nostri in parte non son, ma tutti loro / i trionfi, gli onor, le terre e l’oro» (G.L. VIII, 65, 1-8). Argillano sotto il nefasto influsso di Alletto fa proprie le argomentazioni del Tersite omerico e ne assume momentaneamente le funzioni, ma non il carattere vile e caricaturale. È spregiudicato e ardimentoso e la sua retorica ricca di figure ed effetti non ha nulla di grottesco e di plebeo, come si nota innanzitutto dalla praeteritio che costituisce l’ossatura dell’allocuzione ai soldati.
La viltà e l’ipocrisia del “tersitismo”, che manca all’episodio di Argillano, riemerge invece nel campo degli infedeli, quando nel Canto X del poema viene convocato tra i grandi della nazione musulmana un consiglio analogo a quello dell’XI libro dell’Eneide. Aladino re di Gerusalemme si mostra sfiduciato sul corso della guerra e propone di dibattere sull’opportunità o meno di continuare a difendere Gerusalemme dall’assedio dei cristiani. Solimano, infatti, il valoroso campione degli infedeli, ha tentato una sortita con i suoi mercenari arabi contro l’accampamento cristiano, ma è stato sconfitto in una sanguinosa battaglia e non si sa che fine abbia fatto. Nel dibattito prende per primo la parola Argante che con poche vigorose parole, conformi al suo carattere, si fa sostenitore della guerra ad oltranza contro l’esercito dei cristiani; dopo di lui interviene Orcano che in un discorso abile ed insinuante argomenta la necessità di arrendersi al pio Buglione, riconoscendo, da una parte, ad Argante un coraggio pari all’irruenza delle sue irragionevoli parole, ma, dall’altra, insinuando che Solimano, se già non è morto, sia divenuto prigioniero o peggio sia fuggito sottraendosi al combattimento per paura della morte. A questo punto Solimano che ha assistito alla discussione nascosto in una nube creata dal mago Ismeno, si appalesa meravigliosamente e inveisce adirato contro Orcano.
Link_3_Torquato Tasso, Gerusalemme Liberata, VIII, 57-58; 63; X, 39-52
L’episodio è chiaramente orchestrato sulla falsariga dell’XI libro dell’Eneide e la sinossi tra i passi della Liberata e dell’Eneide fa emergere diverse corrispondenze puntuali:
Gerusalemme Liberata, Canto X Eneide, Libro XI
Descrizione del re Aladino: «con lo scettro e co ’l diadema in testa / mesto sedeasi … fra gente mesta» (XXXIV, 7-8)
Descrizione del re Latino: «sedet in mediis et maximus aeuo / et primus sceptris haud laeta fronte» (vv. 237-238)
Dopo la sconfitta di Solimano, la situazione dei musulmani è critica tanto che Aladino prospetta una flebile speranza in un ipotetico soccorso esterno: «sol l’aiuto d’Egitto omai n’avanza» (XXXV, 8)
Sconfitto Turno, la situazione i Rutuli e Latini è critica e il re Latino ha atteso vanamente un aiuto esterno da Diomede re degli Etoli: «Spem si quam adscistis Aetolum habuistis in armis / ponite: spes sibi quisque» (vv. 308-309)
Introduzione al «consiglio» (XXXVI, 4) de «i più saggi… e i più potenti» musulmani (XXXII, 4): Aladino invita ognuno a dare il proprio contributo di saggezza ed esperienza
Il re Latino chiede ai partecipanti al concilium regis di esprimere il loro parere per risolvere la situazione compromessa:
«consulite in medium et rebus succurrite fessis» (v. 335)
Il discorso di Aladino è laconico e guardingo e non dà soluzioni al conflitto (XXXV, 5-8 e XXXVI, 1-4)
Latino avanza all’assemblea due possibili proposte di pace (vv. 316-335)
Quando cessa di parlare Aladino segue un bisbiglio nell’assemblea rappresentato con la similitudine naturalistica delle fronde agitate dal vento che, benché analoga a Eneide X 96-99, è tipicamente tassiana: «Qui tace, e quasi in bosco aura che freme / suona d’intorno un picciol bisbiglio» (XXXVI, 5-6)
Quando termina il discorso degli ambasciatori Latini mandati agli Etoli segue il mormorio del consiglio rappresentato con una più complessa similitudine del rumore dell’acqua dei fiumi trattenuta dai sassi: «Vix ea legati, variusque per ora cucurrit / Ausonidum turbata fremor, ceu saxa morantur / cum rapidos amnis, fit clauso gurgite murmur / vicinaequae fremunt ripae crepitantibus undis» (vv. 296-299)
In questo contesto Orcano, antagonista in campo musulmano di Argante e Solimano, imbastisce un discorso che propugna la resa, ma in modo tortuoso e velato, come si conviene a un cortigiano cinquecentesco «ligio altrui» e abituato alle trame di palazzo: «Così diceva, e s’avolgea costui / con giro di parole obliquo e incerto, / a chieder pace, a farsi uom ligio altrui / già no ardia di consigliarlo aperto.» (G.L. X, XLVIII 1-4). Il “tersitismo” di Orcano risulta ancora più evidente dai richiami precisi al Drance virgiliano che si notano in più passi paralleli:
Gerusalemme Liberata, X Eneide, XI
Descrizione e qualità di Orcano (XXXIX, 3-8)
Descrizione di Drance (vv. 336-339)
Orcano dice che Argante e anche Clorinda sono spesso fuggiti di fronte a i cristiani (XLV, 1-4)
Drance afferma che Turno è scappato (vv. 350-351)
Orcano lamenta che Argante lo minaccia di morte, ma comunque è intenzionato a dire la verità sulla guerra (XLVI, 1-2)
Drance accusa Turno di minacciarlo di morte, ma comunque dirà la verità sulla guerra a favore del popolo che non osa ribellarsi alla prepotenza del re dei Rutuli (vv. 345-346)
Orcano definisce “fatale” la vittoria dei Cristiani: «Veggio portar da inevitabil sorte / il nemico fatal a certi segni» (XLVI, 3-4)
Per Drance la vittoria di Enea è portta dal fato: «Fatalem Aeneam manifesto numine ferri» (v. 232)
Ma oltre i discorsi e le modalità di Drance, Orcano sembra riprendere dall’Eneide molte delle argomentazioni presenti nel discorso del re Latino:
La gente contro cui combattono i musulmani, dice Orcano, è invincibile e protetta dai Numi (XLIV, 5-8)
Latino afferma che i Numi proteggono i Teucri (vv. 305 e ss.)
Orcano dichiara che nessuno è imputabile delle sconfitte (XLV, 7-8)
Latino non vuole incolpare nessuno delle sconfitte (v. 312)
Orcano loda Argante per il coraggio, ma poi disapprova ciò che dice (XL, 1-8 e XLI, 1-8)
Latino elogia il valore di Turno, ma ha idee opposte (vv. 19 e sgg.)
Dal discorso di Orcano spariscono tutti i riferimenti alle sofferenze provocate al popolo dalla guerra che invece erano usati come argomenti suggestivi da Drance, demagogo seditione potens, nell’ XI dell’Eneide: «en supplex venio: miserere tuorum, / pone animos et pulsus abi; sat funera fusi / vidimus ingentis et desolavimus agros» (vv. 365-367). Così sparisce in Orcano il sarcastico attacco anti-tirannico con il quale Drance accusa Turno di disprezzare il popolo a tal punto da sacrificarlo alle proprie ambizioni regali: «Scilicet ut Turnus contingat regia coniunx, / nos animae viles, inhumana infletaque turba, / sternamus campis» (Aen. XI, 371-373).
Drance, come si è detto, mantiene le caratteristiche dei demagoghi protagonisti della feroce lotta politica della Roma tardo – repubblicana, mentre Orcano è un emblematico rappresentante del mondo chiuso e aristocratico delle corti italiane del XVI secolo: infido, imbelle, di nobili natali e con trascorsi guerrieri, ma infiacchito dagli agi derivanti dalla sua condizione e dalla comoda vita familiare a cui approda in età ormai matura: «Orcano, uom d’alta nobiltà famosa, / e già nell’arme d’alcun pregio inante; ma or congiunto a giovanetta sposa, / e lieto omai di figli, era invilito / negli affetti di padre e di marito» (G.L. XXXIX, 4-8).
Il “tersitismo” del nobile Orcano non è dunque solo di carattere storico e politico, riflettendo chiaramente alcuni aspetti della decadenza italiana nell’età controriformistica, ma ha una coloritura affettiva privata, quasi iscritta nella natura stessa dell’individuo, come a dire che la chiave di interpretazione dell’episodio è nell’esplorazione dell’interiorità di un personaggio secondario. Non casuale è la coincidenza con alcuni versi del De rerum natura di Lucrezio che trattano dell’infiacchimento del genere umano, emendati dal Tasso nella parte relativa alla prosopopea di Venere-amore: «Et Venus inmiscuit vires; puerique parentum / blanditiis facile ingenium fregere superbum» (Lucrezio, V 1017-1018). L’incontro con la letteratura classica, principalmente Virgilio, lascia spazio all’espressione di effimere e private passioni che contendono con i valori tradizionali delle armi, dell’onore, della politica, della religione. Benché il Tasso sposti nel campo avverso a quello cristiano il manifestarsi del “tersitismo”, Orcano è evidentemente una rappresentazione dei difetti e della meschinità del gentiluomo di corte, individualista, secolarizzato, edonista; e anche in ciò la poesia tassiana è altamente rappresentativa delle contraddizioni un’epoca storica, ma anche di una riformulazione significativamente nuova del “paradigma Tersite”.
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(Riccardo Bacchelli, Il diavolo al Pontelungo, capitoli IX e X)
Oltre che nella Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso il “tersitismo”, come paradigma tradizionale per la rappresentazione di fenomeni sociali, politici e psicologici ricorre variamente in opere letterarie di epoche e lingue differenti. Solamente a mo’ d’esempio si può menzionare la Hesperis, poema latino quattrocentesco di Basinio Basini (XI, 308 e ss.), l’Orlando Innamorato del Boiardo (II, I, 18 e ss.), l’Orlando Furioso dell’Ariosto (XXXVIII, 37 e ss.), l’Italia Liberata dai Goti del Trissino (I, 357 e ss; XIV, 753 e ss.); ancora nel secolo XVII, un esteso utilizzo del “paradigma Tersite” avviene nel celeberrimo dramma di Shakespeare Troilo e Cressida o nel meno noto poema in ottave di Francesco Bracciolini La croce racquistata (Forestano è novello Tersite in II, 17-26). Nell’età contemporanea le metamorfosi del “tersitismo” risultano dal rifacimento esplicito e diretto, magari in versione aggiornata, del testo omerico e post-omerico, o del Drance virgiliano (è il caso del dramma Thersites di Stefan Zweig del 1907, del poemetto Tersite di Vittorio Locchi del 1916 e del Thersites und Helena di Horst Lommer del 1949), oppure dalla rielaborazione originale di personaggi problematici che rispecchiano, in ambito romanzesco, i nuovi tipi antropologici della modernità.
La prima parte de Il diavolo al Pontelungo (1927), romanzo storico di Riccardo Bacchelli sulla figura dell’anarchico rivoluzionario Michail Aleksandrovič Bakunin, è interamente dedicata alla vicenda della “Baronata”. Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari di Spagna nel 1873, il vecchio Bakunin, malato di cuore e senza un quattrino, si rifugia in incognito in Svizzera, a Locarno sul Lago Maggiore. Qui viene raggiunto da Carlo Cafiero, suo fervente ammiratore e fanatico sostenitore dell’anarchia. Il giovane, erede di una famiglia di latifondisti pugliesi, persuade Bakunin ad accettare in dono una grande tenuta sul lago, la “Baronata”, dove ritemprare il fisico e il morale e fondare una centrale dell’internazionale anarchica, prima di mettersi a capo di una grande e definitiva cospirazione mondiale. Le spese per l’acquisto (improvvido) e poi per la conduzione (dissennata) della proprietà sono onerosissime e portano in breve alla rovina economica Cafiero. Nel frattempo alla “Baronata” si danno convegno e trovano accoglienza rivoluzionari dispersi dalle persecuzioni poliziesche di ogni dove e si crea una sorta di colonia comunista icariana, dove ognuno trascorre il suo tempo nell’ozio o in attività prive di costrutto. Tra i numerosi ospiti appare anche un misterioso individuo, sedicente nobile polacco e sovversivo braccato dalle forze della Reazione, che pretende di essere chiamato solo con un nome in codice, O25. Diffidente, acido e animoso, O25 viene sistematicamente evitato da tutti e in breve diviene l’antagonista di Bakunin, figura ormai leggendaria delle rivoluzioni europee e capo carismatico nella neocostituita comunità della “Baronata”.
L’ostilità politica e umana di O25 contro Bakunin diviene sempre più scoperta e sfocia in una rottura irreversibile. Nella moderna rivalità rivoluzionaria di O25 per Bakunin riemergono coperti da una cortina di fumoso ideologismo i vizi inveterati del “tersitismo”: vanità, eloquenza oltraggiosa e vacua, inettitudine, invidia e diffamazione. Anche dal punto di vista fisico, all’opposto di Bakunin, massiccio, esuberante, generoso ed espansivo, il ritratto di O25 ha qualcosa della degenerata deformità tersitea adattata al ruolo del sobillatore tardo-ottocentesco, tipicamente da personaggio dei Demoni dostoevskijani («alto… secco, allampanato, aveva un pizzo nero, un’aria languente ed esaltata assai spiacevole, due lenti a stanghetta di uno spessore da lenti da faro. Accigliato, indiscreto, magistrale, eloquente, era di difficilissima contentatura», cap. IX); alla giovane donna da lui vanamente corteggiata O25 «pareva una scimmia ripescata dal lago» (cap. IX). La fisiognomica tersitea è evidente ma, per completare il profilo da fanatico dottrinario di O25, Bacchelli aggiunge, non senza sarcasmo, che «era istruito, vegetariano, dilettante di pittura e zoofilo» (cap. IX). Il “tersitismo” rivoluzionario assume così una coloritura flaubertiana, quasi una citazione degli eclettici dilettanti Bouvard e Pécuchet. Nel capitolo X, dopo che Bakunin ha respinto lo statuto “comunitario” che avrebbe trasformato la tenuta della “Baronata” in un falansterio e cancellato la vita piacevole e tollerante della comunità, l’odio di O25 esplode senza ritegno contro Bakunin. In una notte burrascosa, quando dopo cena tutti sono radunati con le sedie in circolo e Carlo Cafiero domanda a Bakunin di raccontare la sua vita. Il “racconto di veglia” autobiografico di Bakunin, che si protrae fino all’alba, accende la discussione e offre a O25 l’occasione di denigrare ripetutamente Bakunin di fronte a tutti, fino a prorompere in un’accusa aperta: «Ma di’ piuttosto […] che da vero russo sei un nemico irriducibile dell’indipendenza polacca. Reazionari o socialisti, siete e foste sempre così, moscoviti, boiardi, tiranni, nichilisti o liberali, tutti così! […] E allora dillo … che non sei altro che uno slavofilo e un patriota nazionale russo, un proprietario, un barin!» (Cap. X)
Eppure lo slancio rivoluzionario del nobile Bakunin è tanto sincero quanto velleitario e si fonda sul presupposto fantastico che ogni azione non deve fare i conti con l’esperienza (ovvero con la realtà). «La scienza – afferma Bakunin – è esperienza concentrata. E cosa è poi mai questa esperienza? Un feticcio reazionario per intimidire e rattrappire le audacie e la buona volontà» (Cap. V, Castelli in aria, p. 74. Le teorie di Bakunin, che proprio nel 1873 dava alle stampe il celebre Stato e anarchia, vengono abbandonate anche da chi fino ad allora ne era rimasto affascinato. Nel Diavolo al Pontelungo la nuova generazione di rivoluzionari è rappresentata dal romagnolo Andrea Costa, un sottile e capace uomo politico che dalla disordinata insurrezione bolognese organizzata da Bakunin nel 1874 ricava una regola ferrea: «Lo statista appassionato impara l’esperienza, raffina la volontà, dominando le cose e prima sè stesso con l’arte senza fondo, ma dalle rive segnate e strette, che è la politica». (Cap. XX, San Cassiano).
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(Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Parte IV, cap. xxiii)
Se Il diavolo al Pontelungo è un romanzo anti-autobiografico, anti-introspettivo, tendenzialmente saggistico e controllato costantemente dalla voce esterna di un narratore “demiurgo”, Rubè di Giuseppe Antonio Borgese, pubblicato nel 1921, è un romanzo psicologico che rappresenta il complicato periodo storico del primo dopoguerra, con i suoi fermenti sociali, politici e ideologici, rifratto nelle coscienze dei protagonisti. È lo stesso Borgese in una pagina di Goliath, The March of Fascism, l’amaro libro sulla dittatura fascista scritto in esilio nel 1937, a definire Rubè «un romanzo in cui si racconta la storia di un piccolo borghese intellettuale, privo di qualsiasi base razionale ed economica, che si fa faticosamente strada fra il fango e la confusione del dopoguerra, finché una carica di cavalleria in una rivolta a Bologna lo schiaccia, spettatore vagabondo, e lo uccide; dopo di che tutte e due le fazioni, bolscevichi e fascisti, se lo contendono come martire. Il simbolo forse fortuito fu una profezia significativa dell’Italia».
Filippo Rubè, protagonista del romanzo, è un avvocato non ancora trentenne salito, come tanti altri giovani, a Roma dalla provincia siciliana, con lettere di presentazione a politici e uomini d’affari. È ambizioso e dotato di «una logica da spaccare il capello in quattro, un fuoco oratorio che consumava l’argomentazione avversaria fino all’osso e una certa fiducia d’essere capace di grandi cose», ma il suo impiego nello studio professionale di un cinico e rozzo deputato del Parlamento si rivela alla lunga infruttuoso e inutile. La svolta avviene con lo scoppio della guerra nel 1915: Filippo, convinto interventista, si affretta ad arruolarsi volontario e parte per il fronte dove stringe una relazione con la bellissima Eugenia Berti, giovane amica romana, ausiliaria di Sanità e figlia dell’ufficiale che gli ha fatto da mentore dopo il suo ingresso nell’esercito. La guerra è la grande occasione per liberarsi dalle costrizioni della vita borghese e superare l’impasse in cui si è infilata la sua vita: «l’aria aperta, la fatica, la rinuncia al libero arbitrio, la franchigia dalle cure del denaro e di carriera gli avrebbero restituito freschezza, spontaneità. La guerra risanatrice del mondo sarebbe stata la sua medicina». Ma indossata la divisa, Rubè si scopre debole, meschino e forse vigliacco, comprende di avere intrapreso l’avventura militare per un calcolo astratto, per non sapersi abbandonato ed escluso dal «flutto dell’umanità». Il campo di battaglia vero e proprio, senza fanfare e senza bandiere, lo trasforma da retorico fautore della guerra, qual era stato nelle discussioni politiche romane, in un uomo che accetta di entrare nell’orbita della morte come una necessità, senza più tremare e senza nutrire nessuna arbitraria illusione. Ferito quasi subito in modo grave ritorna a Roma in convalescenza e viene quindi inviato in un ufficio ministeriale di stanza a Parigi fino alla fine del conflitto. Qui si fa apprezzare dal colonnello a capo dell’ufficio, il quale alla fine della guerra gli propone un lavoro nella sua industria metalmeccanica, la “Adsum” di Milano. Rubè, sposatosi con Eugenia, si trasferisce con lei a Milano, dove nel tormentato dopoguerra la sua vita non cambia segno e anzi diviene ancor più frustrante e senza speranze. Filippo vive da reduce tutte le difficoltà del dopoguerra, è sempre più angustiato dalle ristrettezze economiche, dal grigiore della vita impiegatizia, dall’inautenticità degli affetti e delle relazioni umane. Nei torbidi che sconvolgono la vita civile e preannunciano l’inizio di una nuova epoca egli ondeggia incerto fra una simpatia per il socialismo e l’attrazione esercitata dal nascente fascismo, senza però mai determinarsi e, piuttosto, rimanendo estraneo ad entrambi a causa della sua irresolutezza e del suo individualismo.
Durante un ricevimento organizzato dai proprietari della fabbrica per i dipendenti, Rubè pronuncia un impetuoso discorso di elogio su un recente corteo di protesta di operai in sciopero.
Link_5_: Giuseppe Antonio Borgese, Rubè, Parte IV, cap. xxiii
Le parole, improvvisate al momento da Rubè per vendicarsi dell’umiliazione a cui si sente sottoposto, sono insincere, ambigue e vanamente provocatorie. Nel loro fluire prendono forza da loro stesse, si gonfiano retoricamente dipingendo il corteo di protesta dei lavoratori come «fiume ancora senz’argini, che può diventare selvaggio e sradicare molti grossi tronchi ma finirà per fertilizzare la terra». L’enfasi retorica, l’evocazione estemporanea dei nomi di Marx, Bakunin e Tolstoj, l’equiparazione di un capo sindacalista a un condottiero non bastano ad impressionare il salotto milanese e a dare prestigio a Rubè. Le allusioni rivoluzionarie e il tono di acre polemica vengono naturalmente colti da tutti gli astanti e liquidati, senz’altri commenti nel silenzio interminabile, con un freddo e ironico applauso della padrona di casa. Il “tersitismo” intellettuale di Rubè è contraddistinto da caratteri tradizionali, quali l’eloquenza unita all’inettitudine e alla pavidità, l’invidia per i superiori e l’insofferenza per il proprio status di subalternità, la rivendicazione pubblica e strumentale di diritti usurpati e il disprezzo suscitato negli ascoltatori. A questi tuttavia si aggiungono due elementi che nel romanzo moderno diventano preponderanti: quello economico e quello intellettuale.
L’economia domina il mondo e il denaro è fattore distintivo che divide il mondo in dominatori (i pochi privilegiati che detengono la ricchezza e quindi il potere) e dominati (la grande massa degli uomini che lotta oscuramente per la sopravvivenza). Filippo Rubè proviene da una famiglia piccolo borghese (il padre è un impiegato comunale), è afflitto continuamente da problemi economici che condizionano le sue scelte e lo costringono a una vita grama e per di più tormentata da aspirazioni di continuo frustrate. Inoltre è anche il tipico esponente di un ceto intellettuale provinciale di formazione umanistica che nell’Italia post-unitaria si vede sempre più emarginato e ignorato, a fronte dell’affermarsi di una ben più solida e concreta cultura tecnico-scientifica. Nel romanzo di Borgese, rappresentativo della inquieta temperie storica, politica ed umana del primo dopoguerra, agli albori del fascismo, si assiste all’estrema manifestazione e definitiva sconfitta dell’idea romantica del genio creatore e ordinatore della realtà attraverso la parola. Infatti, l’estremo atto di volontà di Faust, concepire un’utopia di libertà per un popolo concorde e operoso, si dissolve nella grottesca performance oratoria tersitea tenuta da Filippo Rubè durante il ricevimento nella bella e opulenta dimora di un capitano d’industria.
Si riporta per un confronto con il personaggio senza speranza di riscatto del romanzo di Borgese una pagina dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci sulla figura degli intellettuali nel primo dopoguerra:
«Il nuovo intellettuale. Il tipo tradizionale dell’intellettuale: il letterato, il filosofo, il poeta. Perciò il giornalista volgare, che crede di essere letterato, filosofo, artista, crede di essere il “vero” intellettuale. Nel mondo moderno, l’educazione tecnica, implicitamente legata al lavoro industriale anche più primitivo (manovale), forma la base del «nuovo intellettuale»: è su questa base che bisogna lavorare per sviluppare il “nuovo intellettualismo”. Questa è stata la linea dell’«Ordine Nuovo» (ricordare lo spunto per il capitolo «Passato e presente»). L’avvocato, l’impiegato, sono il tipo corrente dell’intellettuale, che si crede investito di una grande dignità sociale: il suo modo di essere è l’”eloquenza” motrice degli affetti. Nuovo intellettuale-costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” e pure superiore allo spirito astratto matematico: dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione “umanistico-storica”, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista della politica)» (A. Gramsci, Quaderno 4 (XIII), 72, 1930-1932).
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(Concetto Marchesi, Il libro di Tersite)
Nel 1920, quasi contemporaneamente alla pubblicazione di Rubè di G.A. Borgese, appare, nella collana «Simpaticissima» dell’editore Formiggini, Il libro di Tersite di Concetto Marchesi, grande latinista e raffinato prosatore, uno dei protagonisti della cultura italiana della prima metà del Novecento.
Nell’epigrafe in exergo Il libro di Tersite viene presentato come frutto estemporaneo di una rammemorazione a carattere prevalentemente ludico: «Pagine sparse – scrive Marchesi – che ho rincorse e adunate per gioco, come fa il vento che ammucchia le foglie per disperderle ancora».
Si tratta, in effetti, di un divertissment erudito fitto di citazioni e allusioni che si intrecciano a episodi di vita quotidiana a sfondo autobiografico, carico di polemici umori giovanili e di una buona dose di critica corrosiva nei confronti del perbenismo imperante e dell’ipocrita conformismo intellettuale, terreno ideale su cui alligna la nascente dittatura fascista. Marchesi abbandona la strada, praticata fino ad allora, di creare personaggi riconducibili con maggiori o minori variazioni al paradigma originario del Tersite omerico e, sovvertendo i più triti luoghi comuni scolastici, ma in realtà rifacendosi all’antica tradizione degli elogi paradossali e, in particolare, all’Elogio di Tersite del retore Libanio, immagina di incontrare direttamente lo spettro di Tersite, riabilitato completamente dopo secoli di accuse infamanti e di ingiuste condanne.
Link_6_: Concetto Marchesi, Il libro di Tersite (cap. 1)
Nel libro di Marchesi Tersite appare all’Io narrante in tre occasioni, ma è nella prima che si afferma con forza il carattere anticonformista di Tersite. È la scena più lunga e importante, ed è un condensato di memorie di alta letteratura (un po’ Amleto di Shakespeare, Faust di Goethe e Ruysch leopardiano). È notte fonda, una di quelle brutte notti insonni e tormentate in cui l’oscurità avvicina pericolosamente la vita alla morte. All’improvviso seduto in un angolo buio della stanza appare Tersite. Passando dallo sbigottimento alla curiosità il narratore interroga Tersite sulla sua esistenza nell’Ade, sugli usi e costumi dei suoi abitanti, sul destino che è spettato ai più celebri eroi, filosofi, poeti dell’antichità. Dopo una carrellata di brevi scenette alla maniera di Luciano che raccontano dei personaggi che popolano il mondo dei morti, Tersite spiega di aver ottenuto post mortem una giusta riabilitazione, inaspettatamente anche da chi lo aveva maggiormente oltraggiato da vivo (Achille, Agamennone, Ulisse). Vituperato da Omero come «l’uomo peggiore di quanti andarono a Troia», Tersite non nega di essere stato vile, maldicente, ingiuriatore, ma in quanto incapace di fare ciò che fanno gli “eroi” della storia, ovvero rubare, stuprare, ammazzare. Tersite ora è rispettato e apprezzato come emblema della rivolta della coscienza contro le prevaricazioni del potere e la cieca ferocia della guerra. Lo spirito ribelle di Tersite calato nel mondo moderno è lo spirito dell’intellettuale critico, tendente allo scetticismo, seminatore di dubbi più che di facili fallaci certezze. «Io solo – dice Tersite nel buio della notte - posso farti da guida per il mondo senza darti noia». Il magistero tersiteo si concretizza in una serie di enunciati lapidari, un decalogo vigorosamente polemico e dalla logica paradossale, analogo alle antiche raccolte di apoftegmi celebri. È come il sigillo della nekuya notturna; l’immagine di Tersite svanisce nelle prime luci dell’alba e al suo posto rimangono sulla parete due mosche inquiete, annuncio prosaico del mondo diurno.
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(Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, cap. XIII)
«Scrivere non è il mio mestiere, e poi ho tante piccole cose da fare, ora che sono stato admis à la retraite, come pietosamente dicono i francesi». Con queste parole si presenta il narratore de Il giorno del giudizio, romanzo apertamente autobiografico di Salvatore Satta, uno dei più insigni giuristi del Novecento, che giunto ormai alla fine dei suoi anni ha voluto fissare e ordinare nella scrittura la memoria lontana di una ridda di personaggi della sua città d’origine, Nuoro: «Come in una di quelle assurde processioni del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la loro storia senza storia del loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano col vento tra i cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un ridicolo dio, che li ha chiamati nel giorno del giudizio, per liberarli in eterno dalla loro memoria».
Il protagonista della storia, ambientata fra fine Ottocento e i primi del Novecento (uno dei rarissimi riferimenti cronologici e terminus ante quem è l’assassinio dell’arciduca Rodolfo nel 1914), è don Sebastiano Sanna Carboni, notaio e gentiluomo, dedito interamente al lavoro e alla famiglia, ma da essa non amato e non compreso. Don Sebastiano è un uomo di legge, probo e rispettato da tutta la comunità nuorese, ma ha un nemico, Don Ricciotti Bellisai, maestro elementare e agitatore politico per rancore e rivalsa sociale. Questi, rovinato economicamente da un padre che ha perduto al gioco tutto il patrimonio familiare, dopo aver tentato di farsi restituire un podere di famiglia comprato in un’asta giudiziaria da don Sebastiano, lo sfida per vendetta alle elezioni. Nella campagna elettorale il “tersitismo” dell’antagonista di don Sebastiano diventa evidente.
Link_7_: Salvatore Satta, Il giorno del giudizio (cap. XIII)
Versione aggiornata del demagogo antico, Don Ricciotti approfitta della povertà dei contadini analfabeti promettendo loro un riscatto sociale ed economico, con il vero obiettivo di riprendersi il prestigio e le proprietà di famiglia perdute per i debiti del padre. La sua retorica è affatto nuova, fondata sul segreto assunto che «dietro le parole incomprensibili si nasconde sempre una volontà di potenza», mescola blasfemamente il linguaggio evangelico della speranza a quello della rivoluzione socialista e a quello crudo e semplice dell’invettiva e dell’accusa personale con cui nel comizio di apertura della campagna elettorale colpisce ad uno ad uno i notabili nuoresi, per arrivare infine al suo vero bersaglio, don Sebastiano Sanna.
Nelle infamie che don Ricciotti mette nelle sue «parlate» non è escluso che ci sia qualcosa di vero, ma, proprio perché vero, l’uso strumentalmente che ne fa la spregiudicata oratoria tersitea del comiziante lo trasforma in falso; in modo lapidario, infatti, scrive Satta: «disgraziatamente le cose che diceva Don Ricciotti erano vere, o meglio erano false perché uscivano dalla sua bocca». E così la rapida fortuna popolare del demagogo declina altrettanto rapidamente quando, durante un affollato comizio, viene smascherato e accusato di agire solamente per personale vendetta e ottenere per sé quello che egli ha perduto e gli altri hanno ancora. Ma non è tutto: per perseguire i suoi veri scopi, al colmo dell’abiezione morale, arriva a trascurare i suoi doveri di maestro elementare e di marito, abbandonando cinicamente nella miseria la propria famiglia. Sul torbido “tersitismo” politico del candidato Don Ricciotti non può che avvenire il trionfo elettorale di don Sebastiano Sanna, che è un tutt’uno con il valore della sua umanità, umiltà, schiettezza e severo senso della giustizia che anche i più poveri non possono non riconoscere.
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(Alberto Moravia, L’immortale)
Apparso per la prima volta sulla «Gazzetta del popolo» del 3 febbraio 1940, quindi inserito nelle raccolte di racconti I sogni del pigro (1940) e L’epidemia (1956), L’immortale è un racconto di Alberto Moravia sulla figura di Erostrato, l’incendiario dell’Artemision di Efeso nel 356 a.C. A differenza dell’Erostrato delirante di Marcel Schwob, che nel rogo del tempio «coglie improvvisamente il senso della parola di Eraclito “la via verso l’alto”» (M. Schwob, Erostrato. Incendiario, in Vite immaginarie, tr. it. a cura di F. Jaeggy, 19843) o di quello tormentato di Fernando Pessoa che «possedendo la raffinata sensibilità e il tranquillo delirio di bellezza che contraddistingue i suoi antenati greci» incendia il tempio di Diana «in un’estasi di dolore, bruciando parte di sé nella furia della sua impresa scellerata» (F. Pessoa, Erostrato o la ricerca dell’immortalità, tr. it. a cura di P. Collo, 2006), l’Erostrato di Moravia è un volgare personaggio alla ricerca di un’effimera celebrità fra i suoi concittadini, molto simile al “successo” dei banali arrivisti della società contemporanea.
Link_8_: Alberto Moravia, L’immortale
La scrittura di Moravia, sempre abilmente orientata a cogliere il lato pratico e utilitaristico dell’esistenza, tratteggia del personaggio un ritratto fisico particolareggiato, il comportamento dissonante nei confronti della comunità dei cittadini, la miseria e le velleità artistiche incrollabili a dispetto degli insuccessi. Erostrato è lo zimbello dei monelli per strada e l’oggetto di scherno e villanie da parte degli adulti, ma è disposto a sopportare tutto con apparente mitezza perché aspira a ricevere dalla città i giusti allori di cui si sente defraudato dai tempi. Sono i tempi dell’erudizione, delle antologie, della critica, delle grammatiche, delle enciclopedie, sono i tempi di una cultura arida e marginale, incapace di concepire il nuovo e solo in grado di inaridire con sterili commenti ciò che è stato creato in passato. A tutto ciò, nell’Immortale, Erostrato, pessimo scrittore, imputa i propri fallimenti e, così, egli «aveva voluto diventare L’Alcibiade della propria città, rendendosi famoso, in mancanza di meglio, con le stranezze. Ma non era riuscito che a diventarne il Tersite».
L’immortale ricorda sicuramente il dostoevskijano Efimov, il musicista fallito di Netočka Nezvanova, ma può essere letto come un apologo sull’artista moderno nella società della comunicazione, della pubblicità, dell’effimero. Non a caso Moravia lo etichetta sommariamente come un “Tersite” e, con l’occhio del moralista laico esperto dei vizi borghesi, fa emergere nel “tersitismo” di Erostrato un nuovo aspetto non meno ignobile di quelli tradizionali, l’“esibizionismo” volgare. Alla fine del racconto, l’incendiario, quando comprende che nessuno lo individuerà come autore del misfatto, preferisce autodenunciarsi dell’incendio ed essere condannato a morte, pur di ottenere in tal modo la celebrità altrimenti irraggiungibile.
28 febbraio 2023