Nella letteratura europea, da Tucidide a Camus passando per Manzoni, la narrazione di catastrofi naturali come le pandemie, in particolare la pestilenza, ha assunto fin dall’antichità un grande rilievo, in quanto racconto di una crisi non soltanto sanitaria, ma anche morale e sociale.[1] Recentemente, in tempi di coronavirus, si è fatto spesso riferimento alla descrizione della peste nel Decameron di Boccaccio, al fine di trovare analogie con la pandemia attuale. Giustamente anche nei media si è affermato che per l’autore trecentesco il raccontare novelle era un antidoto al morbo pestifero:
Il libro di Boccaccio è tutto qui: il racconto come rimedio efficace in un tempo di profonda crisi della società, le storie come antidoto alla paura della morte. In un certo senso, potremmo andare oltre Boccaccio e riflettere su come dalla notte dei tempi il racconto, soprattutto se condiviso a livello sociale, raccontato in pubblico, insomma, è un modo davvero efficace per non lasciarsi opprimere dalla contingenze del presente lasciando volare la fantasia a briglia sciolta. La scrittura – e, di conseguenza, la lettura – è dunque il fondamento stesso della civiltà umana, l’atto che ci consente di ricordare il nostro passato e l’unico modo possibile per chi non è dotato di fantasia narrativa di scoprire le storie di chi di fantasia ne ha da vendere.[2]
Ma a ben vedere, non sono soltanto le novelle, ma anche l’ambientazione del racconto della cosiddetta ‘cornice’ in loci amoeni a costituire un antidoto alla pandemia il che ancora oggi ci potrebbe insegnare molto, anche a scuola. Nei libri scolastici proprio quelle parti della descrizione dei luoghi ameni nella ‘cornice’ dell’opera boccacciana vengono, a mio avviso, ingiustamente tagliate, come se esse avessero solo la funzione di ‘ornamento’, e quindi fossero trascurabili.
Nella sua bella traduzione intralinguistica del capolavoro boccacciano in italiano moderno, anche Aldo Busi ha tolto il racconto della ‘cornice’ (con la sola eccezione dell’introduzione alla prima giornata), ritendendola superflua, come scrive egli stesso nella «Nota del traduttore»: «Via i preamboli, le canzoni e le sfiziose oziosità in villa delle sette conteuses e dei tre raccontatori fra una giornata e l’altra […]».[3]
Al contrario, come si vuole qui segnalare, i loci amoeni sono fondamentali all’interno dell’architettura narrativa del Decameron, anche per il loro ruolo ‘salvifico’ pari a quello della parola.[4] Nella Conclusione dell’autore, Boccaccio stesso, per difendersi dalle polemiche che potrebbe suscitare la sua opera, insiste esplicitamente sul fatto che le novelle vengono raccontate in luoghi ameni:
Appresso assai ben si può cognoscere queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire, quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte che le scritte da me si truovino assai; né‚ ancora nelle scuole de’ filosofanti dove l’onestà non meno che in altra parte è richesta, dette sono; né‚ tra cherici né‚ tra filosofi in alcun luogo ma ne’ giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani benché‚ mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé‚ era alli piú onesti non disdicevole, dette sono.[5]
Già da queste parole dell’autore si può dedurre che l’ambientazione scelta («giardini») per raccontare le novelle presentate nell’opera boccacciana, cioè l’ambientazione della cosiddetta ‘cornice’ del Decameron, non è affatto casuale. D’altronde non soltanto nella ‘cornice’, ma anche nelle novelle stesse, i loci amoeni, topos della letteratura medievale latina ma non solo,[6] sono rilevanti per lo sviluppo delle novelle. Secondo la definizione di Ernst Robert Curtius, il locus amoenus è «un angolo di natura, bello ed ombroso; in esso si trovano almeno un albero (o parecchi alberi), un prato ed una fonte o un ruscello, vi si possono aggiungere, talvolta, anche il canto degli uccelli e i fiori; la descrizione più ricca comprende anche una tenue brezza».[7]
Con locus amoenus intendo in seguito sia giardini,[8] frutto dell’intervento ingegnoso e creativo dell’uomo, che luoghi naturalistici di straordinaria bellezza. Nel Decameron sono presenti entrambi e, come vedremo in seguito, essi non sono solo uno sfondo piacevole per le novelle raccontate, ma un elemento costitutivo del Decameron che serve al Boccaccio a realizzare il suo obiettivo denunciato nel proemio:[9]
Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno cosí ne’ moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che cosí sia, a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi da’ suoi legami m’ha conceduto il potere attendere a’ lor piaceri.[10]
1. I loci amoeni della ‘cornice’
I loci amoeni della ‘cornice’ del capolavoro boccacciano sono sostanzialmente tre. Fin dai tempi di Ficino si è cercato di identificare tali luoghi, insieme alle ville in cui si rifugiava la ‘lieta brigata’, al fine di scampare dalla peste. Nella sua monumentale opera sui giardini di Firenze e dintorni – rimasta a lungo inedita – Angiolo Pucci (1851-1934), riprendendo una tradizione settecentesca, sosteneva che «la lieta brigata si trasferì dopo aver passato qualche giorno nella villa di Poggio Gherardi» nella villa Palmieri con un giardino che, a suo parere, corrispondeva, ancora all’inizio del Novecento, alla descrizione fatta dal Boccaccio.[11]
La descrizione del primo locus amoenus, in cui si novella durante la prima e la seconda giornata del Decameron si presenta poco dettagliata. Le uniche informazioni che troviamo sono le seguenti: si tratta di un «palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di sé‚ bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte di preziosi vini: cose piú atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne».[12]
Pampinea, regina della prima giornata, precisa che dobbiamo pensare a luoghi dilettevoli e piacevoli: «Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzando si vada; e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi».[13]
Come apprenderà il lettore, nella conclusione della prima giornata, nei dintorni si trova un altro luogo di «sollazzo», verso il quale si dirigono le donne della brigata a fine giornata: «E da seder levatasi, verso un rivo d’acqua chiarissima, il quale d’una montagnetta discendeva in una valle ombrosa da molti albori fra vive pietre e verdi erbette, con lento passo se n’andarono».[14]
Il secondo locus amoenus dove si ragiona durante tutte le altre giornate, con l’eccezione della settima giornata, viene descritto molto più dettagliatamente, nell’introduzione della III giornata (parr- 5 e ss.).
È un giardino – affine a quello di Déduit nel Roman de la Rose e a quello descritto nella Teseida (iv, 65) – di «maravigliosa bellezza» che viene descritto ampiamente.[15] Citiamo qui il passo per intero (che si allega in forma stampabile autonomamente), tratto dall’ per far capire meglio l’importanza che tale luogo ameno assume all’interno della ‘cornice’:
Si tratta dunque di un luogo chiuso (hortus conclusus),[16] in quanto circondato da mura, e quindi separato dall’ambiente circostante.[17] Inoltre viene sottolineato il suo carattere ‘architettonico’, cioè stilizzato, e questo locus amoenus della ‘cornice’ appare meraviglioso agli occhi della brigata proprio a causa del «suo bello ordine». Al centro si trova un prato con una varietà di fiori che emanano profumi che ricordano i giardini del leggendario Oriente. Intorno al prato ci sono svariati alberi fruttiferi in tutte le stagioni che fanno piacevole ombra e emanano a loro volta un odore gradevole. L’elemento centrale è costituito da una fontana di marmo bianco, decorata da una figura che getta tanta acqua verso il cielo. Tutto il prato è circondato da canali d’acqua che danno una sensazione di freschezza, e infine il giardino è pieno di svariate specie di animali «non nocivi» (uccelli, conigli, lepri, caprioli, cerbiatti ecc.), cosicché esso sembra alla brigata il paradiso terrestre. Le analogie con la raffigurazione del Paradiso terrestre nel Purgatorio dantesco sono evidenti, come si può rilevare proponendo in classe una lettura che selezioni i passaggi più significativi in questo senso da Purg. xxviii-xxxiii (ma in particolare xxviii, 1-33, 115-144).[18] A questo proposito (sul piano della traduzione visiva – e meditata in classe – dal testo verbale all’immagine) si segnala un disegno realizzato da uno mio ex studente del Liceo artistico «Virgilio» di Empoli, Lorenzo Santini (dal titolo: Sulla soglia del Paradiso terrestre - Purg. xxviii), che può essere proposto come oggetto di una dettagliata analisi contenutistica in classe.[19]
Da questa illustrazione dantesca si può comprendere facilmente come flora, fauna e uomo convivano armoniosamente in una natura ben ordinata ed edenica. Si badi bene che il Boccaccio sottolinea sempre il bell’ordine dei loci amoeni dove ogni elemento risponde al principio di armonia, in cui arte e natura collaborano nella creazione di un luogo paradisiaco e armonioso.[20] Infatti è proprio l’euritmia che ammirano di più i dieci giovani della brigata.
Questo vale anche per la cosiddetta ‘Valle delle donne’ dove si ragiona durante la settima giornata le cui caratteristiche ‘architettoniche’, cioè di natura stilizzata, vengono ben messe in evidenza:[21]
Si entra nella «Valle delle donne» per un accesso stretto cosicché questo luogo è ben separato dall’ambiente circostante, cioè è isolato come il secondo giardino di cui si è parlato sopra. Il piano della valle è rotondo, quasi geometrico, e ha addirittura la forma di un teatro romano. Tuttavia tale locus amoenus non è del tutto separato dal mondo umano dal momento che è circondato da sei colline sulla cui cima si vedevano dei castelli. Si possono distinguere tre zone della valle: i pendii meridionali delle colline che sono pieni di alberi fruttiferi (viti, ulivi, mandorli ecc.), mentre in quelli settentrionali, come anche nella parte bassa e pianeggiante, si trovano conifere (querce, frassini ecc.) ed allori. Il fondo della valle è costituto da un «prato d’erba minutissima», attraversato da un fiumicello che nel mezzo della valle forma un piccolo laghetto di acqua limpida in cui le tre giovani si rinfrescano con loro grande diletto.
I tre luoghi ameni della ‘cornice’ non sono sconnessi fra di loro, ma il cammino della lieta brigata da un giardino all’altro rappresenta un’ascensione graduale, un climax per così dire, verso quello che sembra il ‘tempio di Venere’ che si trova in una natura ‘ben ordinata’ dove, non a caso, durante la settima giornata si ragiona delle beffe erotiche fatte dalle donne ai loro mariti.
2. I loci amoeni nelle novelle
I loci amoeni non si riscontrano solo nella ‘cornice’ del Decameron, ma sono presenti nelle stesse novelle e, secondo la retorica medievale, sostanzialmente legati all’ambientazione di storie d’amore. Fra i numerosi esempi riporto solo due esempi: la sesta novella della quarta giornata e la prima novella della quinta.[22]
Nel caso della novella iv, 6 tutta la scena dell’innamoramento, dell’amore segreto di Gabriotto e Andreuola, cioè tutta la parte felice della novella prima della catastrofe, si svolge nel «giardino del padre di lei» (iv, 6, 9). Questo giardino è importante per il dramma che vi si svolgerà, ed è anche rilevante il fatto che si tratti di un giardino privato, cioè di un mondo isolato, come nel caso del hortus conclusus sopra menzionato. Lì c’è una «bellissima fontana e chiara» (ivi, 12) ai piedi della quale i due giovani innamorati si incontrano con grandissimo piacere da parte di entrambi:
E per questo, volendo poi Gabriotto la seguente notte venir da lei, quanto poté‚ s’ingegnò di fare che la sera non vi venisse; ma pure, il suo voler vedendo, acciò che egli d’altro non sospecciasse, la seguente notte nel suo giardino il ricevette. E avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò che la stagione era, con lui a piè d’una bellissima fontana e chiara, che nel giardino era, a starsi se n’andò; e quivi, dopo grande e assai lunga festa insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che la venuta gli avea il dí davanti vietata. La giovane, raccontandogli il sogno da lei la notte davanti veduto e la suspizion presa di quello, gliele contò.[23]
Nel giardino il giovane coglie per la sua amata un mazzo di rose rosse e bianche che simboleggiano rispettivamente l’amore puro e la rigenerazione (o risurrezione); fatto che sarà importante per lo svolgimento dell’azione, dal momento che Andreuola farà una ghirlanda proprio con queste rose per il suo amante morto improvvisamente. Il Boccaccio applica qui il topos del locus amoenus proprio ad un amore gentile e giovanile così come volevano le retoriche medievali.[24]
Si possono fare osservazioni analoghe anche a proposito della novella v, 1: anche qui lo scenario dell’innamoramento del protagonista chiamato Cimone è un boschetto bellissimo che «tutto era fronzuto» (v, 1, 6). Inoltre ci troviamo anche in primavera, periodo dell’innamoramento par excellence:
Per lo quale andando, s’avenne, sí come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento indosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea, e era solamente dalla cintura in giú coperta d’una coltre bianchissima e sottile; e a’ piè di lei similmente dormivano due femine e uno uomo, servi di questa giovane.[25]
L’atmosfera evocata da questo luogo ameno ha una valenza chiaramente erotica: la bellissima giovane è coperta solo da un velo sottilissimo, la sua bellezza, offerta agli occhi di Cimone, è senza imperfezioni. Tale paesaggio stilizzato corrisponde proprio al canonico topos antico e medievale dei «loci amoeni [...] quod amorem praestant».[26]
3. Funzione del topos del locus amoenus nel Decameron
In sintesi, i loci amoeni del Decameron, sia nella cornice sia nelle novelle stesse, corrispondono ai precetti della retorica antica e medievale, benché non in maniera stereotipata: essi fungono sì da ambientazione piacevole per le scene d’amore, ma non assolvono soltanto tale funzione.[27]
Per capire meglio la rilevanza dei luoghi ameni della ‘cornice’ dell’opera boccacciana, questi vanno analizzati sullo sfondo della descrizione dell’orrenda pestilenza nell’introduzione del Decameron. In relazione a questa catastrofe, essi sembrano adempire la funzione dell’escape: sono lontani dalle preoccupazioni umane e non sono sottoposti alle leggi umane. Tali luoghi di bellezza perfetta servono a dimenticare tutte le tristezze e preoccupazioni che la ‘lieta brigata’ ha lasciato alle sue spalle, uscendo da Firenze, come dice Dioneo nell’introduzione alla prima giornata e come conferma Pampinea (i, introduzione, 92-95). In tal modo preoccupazioni e tristezza vengono espressamente bandite dai loci amoeni. Nondimeno l’andare nel ‘contado’, cioè frequentare questi luoghi ameni, non è una semplice fuga da una realtà crudele verso un mondo immaginario e perfetto.[28] Infatti lo stesso Boccaccio insiste sul fatto che la pestilenza infuriava anche in campagna, e che anzi, soprattutto là, gli uomini morivano come bestie (ivi, 43-47). Una fuga non avrebbe quindi avuto senso e sarebbe stata anche crudele nei confronti dei parenti e dei concittadini (ivi, 25).
Nell’introduzione alla prima giornata e anche all’opera complessiva, Boccaccio stesso fornisce una spiegazione psicologica per il contrasto tra la descrizione iniziale della pestilenza e la piacevolezza delle novelle – loci amoeni inclusi – che seguono: il piacere e il dolore sono collegati fra di loro in modo tale che si prova piacere soprattutto quando si è provato prima dolore – concetto espresso già da Platone nel Fedone.[29] I luoghi ameni della ‘cornice’ servono, nella strategia complessiva del Boccaccio seguendo i dettami della poetica oraziana, da una parte al delectare, scopo denunciato espressamente del Decameron (ivi, 6), dall’altra al prodesse, che consiste nel riordino del mondo sociale devastato dalla peste tramite l’atto del novellare. Infatti i loci amoeni rappresentano, come detto sopra, una ‘natura ben ordinata’, l’immagine cioè del nuovo ordine stabilito dalla brigata. Quindi essi hanno la stessa funzione come l’atto di novellare stesso, cioè il riordino sociale. Siccome la peste colpiva anche il ‘contado’, la natura vissuta e modellata dall’uomo, anche questa deve essere riordinata come tutte le cose umane. In tal senso i luoghi ameni della ‘cornice’ rappresentano proprio questa natura ‘riordinata’, e quindi il rapporto fra essi ed il novellare consiste nel fatto che rappresentano l’ambito ‘ben ordinato’ in cui, novellando, anche le altre cose umane possono essere ‘riordinate’. Pertanto c’è un rapporto stretto di concordanza fra l’ambientazione, cioè tra i loci amoeni, e il novellare.
Un’analoga concordanza (o corrispondenza) tra luoghi ameni e tema delle novelle sussiste anche nelle novelle stesse, come si poteva evincere dagli esempi delle novelle iv, 6 e v, 1: storie d’amore a fine felice o infelice sono non raramente ambientate in un luogo ameno. Questo vale anche per le altre novelle a cui si è potuto qui solo accennare.
In conclusione, i loci amoeni del Decameron non rappresentano un rifugio idillico e non sono soltanto uno scenario gradevole per il novellare, ma servono anche alla duplice funzione del ‘sollazzo’ e del riordino del dissesto sociale causato dalla peste del 1348:
La strategia impiegata dalla brigata prevede un doppio viaggio, reale e metaforico: da una parte l’allontanamento dalla “città tribolata” e l’avvicinamento alla campagna descritta secondo il topos del locus amoenus, e dall’altra il passaggio dalla parola degradata (le “risa e i motti” che accompagnano i morti di peste) alla parola salvifica (i discorsi ornati dei narratori e i “leggiadri motti” dei personaggi delle novelle). La cura che pertanto la brigata suggerisce alla civiltà moribonda di cui fa parte è la fuga dalla storia verso il regno incantato della letteratura. Ciò che non significa rifiuto della storia, disimpegno morale e politico, bensì distacco dalla storia, impegno letterario e artistico […].[30]
In tal senso i luoghi ameni, sia nella ‘cornice’ sia nelle novelle stesse, sono un elemento costitutivo dell’opera boccacciana: non solo il novellare, ma anche l’ambientazione del racconto delle novelle in loci amoeni hanno un effetto benefico. La loro natura ordinata ed armoniosa si oppone al caos sociale e morale, causato dalla pestilenza, ed assume così un ruolo ‘salvifico’ pari a quello della parola del novellare. «Questa è la magia dei giardini come dei racconti: trasfigurano il reale pur lasciando tutto apparentemente intatto», scrive giustamente Harrison nel capitolo del suo bel saggio sui giardini, dedicato al capolavoro boccacciano.[31]
Questo vale, mutatis mutandis, anche per la pandemia odierna: luoghi di straordinaria bellezza, creati dall’uomo in armonia con la natura (come i paesaggi culturali dell’UNESCO), e la letteratura ci aiutano ad andare oltre il reale, costituendo un formidabile antidoto alla pandemia odierna.
Per questo motivo, ma non solo, le parti della descrizione dei loci amoeni nella ‘cornice’ dell’opera boccacciana andrebbero lette e studiate a scuola, dal momento che non si tratta soltanto di mera scenografia (o ambientazione) che si può anche tralasciare senza tradire la complessità dell’opera.
[1] Questo vale anche per la letteratura distopica italiana degli ultimi decenni. Basti pensare ad un romanzo come ad esempio Anna di Niccolò Ammaniti del 2015 in cui la storia della protagonista Anna è ambientata in uno scenario apocalittico, causato da una pandemia, non dissimile da quella attuale.
[2] P. Boschi, Leggere (e scrivere) ai tempi del Coronavirus, «La Nazione» (Cronaca di Firenze), 8 marzo 2020, p. 6.
[3] A. Busi, Il Decamerone di Giovanni Boccaccio, Milano, BUR, 1990, p. 5.
[4] Per la complessa struttura narrativa dell’opera boccaccciana e l’ambientazione del racconto delle novelle in loci amoeni si confronti M. Picone, Autore/narratori, in Boccaccio e la codificazione della novella. Letture dal Decameron, Ravenna, Longo, 2008, p. 42.
[5] G. Boccaccio, Decameron, a cura di V. Branca, Torino, Einaudi, 1987, p. 1256 (Conclusione dell’autore, 7).
[6] Lo stesso Boccaccio utilizza tale espediente narrativo anche in altre sue opere, come ad esempio nella Teseida, iv, 65, Caccia di Diana, ii, 1 sgg., Comedia delle Ninfe, xxvi, 9 sgg., e nell’Amorosa Visione, xxxix, 49 sgg. e xlix, 4 sgg.
[7] E. R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, trad. it. di R. Antonelli, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 219 [ed. or. Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Tübingen-Basel, A. Francke, 1948].
[8] Per i giardini del Decameron in generale si vedano R. Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, trad. it. di M. Matullo e V. Nicolì, Roma, Fazi, 2017 [ed. or. Gardens: An Essay on the Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 2008], pp. 82-94, 207-208 (bibliografia), M.L. Raja, Le muse in giardino: il paesaggio ameno nelle opere di Giovanni Boccaccio, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2003, pp. 24 sgg. e E.G. Kern, The Gardens in the Decameron Cornice, «PMLA» 66 (1951), no. 4, pp. 505-523.
[9] Al riguardo si veda anche S. Kaiser, Der Gang der Brigata durch die Gärten in Boccaccios «Decameron» [pagina consultata il 11 giugno 2021], München, GRIN Verlag, 2014.
[10] G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 9 (Proemio, 14-15).
[11] A. Pucci, I giardini di Firenze, a cura di M. Bencivenni e M. de Vico Fallani, Firenze, Olschki, 2019, vol. v: Suburbio vecchio e nuovo di Firenze, p. 68. Per la villa di Poggio Gherardi si veda ivi, pp. 43-44. Nel suo fondamentale commento allʾedizione del Decameron, Vittorio Branca si esprime invece a sfavore di tali ricostruzioni (G. Boccaccio, Decameron, cit., pp. 41, nota 1, 324, nota 1 e 777-778, nota 11), bollandole come «suggestioni realistiche» (ivi, p. 778, nota 5).
[12] G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 41 (i, introduzione, 90).
[13] Ivi, p. 45 (i, introduzione, 102).
[14] Ivi, p. 125 (i, conclusione, 15).
[15] Per questo secondo giardino si veda R. Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, cit., p. 86.
[16] Per la definizione di hortus conclusus si veda F. Pasqualini, I confini di un luogo senza confini [pagina consultata il 10 giugno 2021], in B. Alfonzetti, T. Cancro, V. Di Iasio, E. Pietrobon (a cura di), L’Italianistica oggi: ricerca e didattica, Atti del XIX Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Roma, 9-12 settembre 2015), Roma, Adi editore, 2017, p. 1.
[17] Per avere un’idea di un hortus conclusus, ovviamente di dimensioni più piccole rispetto a quello descritto da Boccaccio, basti pensare per esempio al giardino originario di Palazzo Medici Riccardi a Firenze, costruito da Michelozzo tra il 1444 ed il 1460 ca., prima della sua trasformazione in un secondo cortile nella seconda decade del Cinquecento ai tempi di Lorenzo de’ Medici, duca di Urbino (A. Pucci, I giardini di Firenze, a cura di M. Bencivenni e M. de Vico Fallani, Firenze, Olschki, 2016, vol. iii: Palazzi e ville medicee, pp. 323-329).
[18] Purg. xxviii-xxxiii, in particolare xxviii, 1-33, 115-144.
[19] Il disegno è stato pubblicato, insieme ad altri dello stesso autore (e ad altre illustrazioni del suo compagno di classe Alessandro Giuntini) in Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di M. Romanelli e H. Honnacker, nuova edizione, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, 2021.
[20] Al riguardo si veda R. Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, cit., p. 85.
[21] Per questo terzo giardino della ‘cornice’ si veda anche M.L. Raja, Le muse in giardino: il paesaggio ameno nelle opere di Giovanni Boccaccio, cit., p. 89. Questa valle forse è da identificare con quella vicina a villa Palmieri di cui sopra (per la descrizione di questa villa e dei dintorni si confronti A. Pucci, I giardini di Firenze, cit., vol. v, pp. 67-71).
[22] Le altre novelle sono: ii, 6, vii, 9, x, 5, x, 6 e x, 7.
[23] G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 537 (iv, 11-12).
[24] Ibid., nota 4.
[25] G. Boccaccio, Decameron, cit., p. 595 (v, 1, 7).
[26] Ibid., nota 6.
[27] Si veda a tale riguardo M.L. Raja, Le muse in giardino: il paesaggio ameno nelle opere di Giovanni Boccaccio, cit., p. 25.
[28] Di parere diverso è Harrison che parla di una fuga dalla realtà, seppur «giustificata» dalla peste (R. Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, cit., p. 83).
[29] A tale riguardo si confronti Platone, Fedone, 60 c 6-7.
[30] M. Picone, Autore/narratori, cit., p. 42.
[31] R. Pogue Harrison, Giardini. Riflessioni sulla condizione umana, cit., p. 94.
18 ottobre 2021