Raccontare la febbre del boom
Produrre e consumare: raccontare la febbre del boom
L’improvviso esplodere del boom economico, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, non riguardò naturalmente solo le strutture produttive del paese, ma si tradusse in una vera e propria rivoluzione sociale e, ovviamente, culturale, i cui effetti apparvero a chi visse quegli anni come qualcosa di travolgente e di stordente. E la cosa non può stupire: nel giro di vent’anni un paese contadino e sostanzialmente arretrato (ad eccezione di poche e ristrette zone urbane) sarebbe diventato una delle aree più industrializzate del pianeta.
Il percorso di letture che qui si propone intende, ovviamente, documentare alcuni processi socio-economici, ma soprattutto suggerire ai docenti qualche esempio di scrittori e giornalisti che cercarono di descrivere alcuni dei fenomeni più macroscopici che l’improvviso sviluppo industriale e l’esplosione dei consumi produsse nella mentalità, nella cultura e nei comportamenti diffusi della nazione.
La proposta didattica che qui si delinea intende anche sottolineare l’utilità di ampliare a scuola l’utilizzo delle scritture giornalistiche, non solo come strumento di comprensione della storia e della società del secondo dopoguerra, ma anche come educazione a forme di scrittura non letteraria, o poste (come nel caso della forma dell’inchiesta giornalistica) nell’intersezione tra scrittura saggistica e scrittura narrativo-documentaria. Un suggerimento che ovviamente presuppone la rinuncia a una visione strettamente letteraria di ‘canone’.
Oltre a un importante articolo/inchiesta del «Politecnico» di Vittorini (cronologicamente estraneo al discorso che qui si svolge, ma vero e proprio ‘capostipite’ dell’inchiesta giornalistica del Dopoguerra), si proporranno testi (in file separati, che il docente potrà fornire agli studenti; e sui quali potrà intervenire liberamente, con note, evidenziazioni ecc.) di uno scrittore puro come Mastronardi e di un maestro del giornalismo italiano come Giorgio Bocca; per finire con un autore che per tuta la vita lavorò sul doppio fronte della scrittura letteraria e della pubblicistica giornalistica: Luciano Bianciardi.
Il quadro socio-economico
1946-57.
La realtà economico-sociale del paese nel decennio successivo alla fine della guerra è quella di un paese arretrato, con una sola area industriale di un certo rilievo, nel Nord-Ovest (il cosiddetto ‘triangolo industriale’ formato da Milano-Torino-Genova).
Il 42% della popolazione lavorativa era impiegata nel settore primario (agricoltura e pesca), e in gran parte del paese (Centro e Sud e aree collinari e di montagna in genere) era diffusa una piccola proprietà contadina che consentiva un’economia di pura sussistenza. In questo periodo circa 1.100.000 italiani lasciarono il loro paese per una emigrazione definitiva in Sudamerica (soprattutto Argentina), Canada e Australia.
Nel corso degli anni Cinquanta si crearono tuttavia le condizioni tuttavia per il grande sviluppo che segnò la fine del decennio e l’inizio degli anni Sessanta.
1958-1963
Vari sono i fattori che resero possibile l’eccezionale sviluppo economico industriale alla fine degli anni Cinquanta (tanto straordinario da essere passato alla storia con il nome di ‘miracolo italiano’):
Gli anni del dopoguerra furono un periodo di grande espansione del commercio internazionale.
L’industria italiana, anche se sottodimensionata e debole, aveva tuttavia raggiunto negli anni Cinquanta un sufficiente livello tecnologico (non mancavano ingegneri e tecnici preparati).
L’apertura ai mercati internazionali dell’industria italiana non schiacciò, come alcuni temevano, i prodotti nazionali, che rispetto ai prodotti di paesi di più solida tradizione industriale risultarono concorrenziali, soprattutto perché il sistema industriale italiano poteva contare su un costo del lavoro piuttosto basso. Il commercio internazionale funzionò insomma da volano per l’industria italiana.
Risultarono trainanti gli investimenti statali in settori fondamentali come la siderurgia e l’energia; e in settori infrastrutturali come le autostrade. Si crearono così le condizioni per la motorizzazione di massa che divenne uno dei fattori trainanti dello sviluppo industriale italiano; un modello di crescita sul quale la FIAT aveva cominciato a puntare già a metà dei Cinquanta, quando cominciò ad essere prodotta la “Seicento”, la prima auto italiana concepita per una produzione di massa, con l’impiego delle catene di montaggio secondo il modello fordista.
La motorizzazione di massa era destinata a mutare nel giro di pochi anni il volto delle città e le forme della quotidianità (le città di riempiono di automobili, mentre mutano radicalmente anche le forme della socialità), tanto che l’automobile e la figura dell’automobilista diventeranno uno dei simboli più eclatanti della modernità travolgente che stava investendo il paese. Ma non meno determinanti per le forme di vita del quotidiano e per le loro valenze simboliche, furono altri settori industriali, come quello degli elettrodomestici, che ebbe un improvviso ed enorme sviluppo e che fece dell’Italia uno dei maggiori produttori mondiali del settore. Lavatrice e frigorifero assursero presto a simboli di una modernità che aumentava la disponibilità di tempo libero, riducendo l’impegno per il lavoro domestico: un processo che andava di pari passo con la costante crescita del lavoro femminile, che diventerà uno straordinario strumento di emancipazione della donna, sempre più spesso economicamente autonoma all’interno della famiglia.
Gli effetti del boom economico sulla realtà sociale e sulla mentalità degli italiani divenne presto oggetto dell’interesse di giornalisti e scrittori. Tanto più erano eclatanti e traumatici i cambiamenti che il paese stava conoscendo, tanto più urgeva ‘scoprire’ il paese, cercare e descrivere quel mondo che stava cambiando in modo convulso.
Punto A
I prodromi: Fare inchieste / conoscere il paese: Vittorini e il «Politecnico»
C’è un dato di fondo che caratterizza il giornalismo italiano del dopoguerra più politicamente e socialmente impegnato: la vocazione per l’inchiesta.
Dopo gli anni del Fascismo - quando il potere politico aveva esercitato un forte controllo censorio sulla stampa, cancellando o mettendo in secondo piano le notizia sgradite al regime e evidenziando invece quelle che al regime e al suo consenso potevano essere utili – le nuove forze politico-culturali nate dopo la fine della guerra ebbero chiara la necessità di prendere un contatto vero con il paese: ‘fotografarne’ le condizioni; raccontare senza reticenza le condizioni di vita dei suoi abitanti, lo stato reale della sua economia.
Quella ‘scoperta’ del popolo italiano e delle sue (spesso misere) condizioni di vita che caratterizzò sul piano artistico il Neorealismo (con i grandi capolavori cinematografici di De Sica, Visconti e Rossellini) ebbe sul piano giornalistico un corrispettivo nella forma dell’inchiesta, di cui si fece promotore il «Politecnico» di Elio Vittorini. La rivista settimanale (poi mensile) pubblicata da Einaudi (tra il 1945 e il 1947) già nei primi tre numeri propose, in altrettante puntate, una memorabile inchiesta sulla FIAT (nei numeri successivi la rivista proporrà un’inchiesta analoga sulla Montecatini, la principale azienda chimica e mineraria del paese). Gli articoli ricostruivano la storia dell’azienda (la nascita, lo sviluppo, i livelli di produzione nel corso del primo mezzo secolo di vita); le relazioni tra proprietà e sindacati; i rapporti tra la dirigenza della Fiat e il potere politico durante il Fascismo e durante gli anni della guerra di liberazione (è noto che gli scioperi alla Fiat, nella primavera del 1943, ebbero un ruolo importante nell’innescare quella manifestazione aperta di malcontento verso il regime che sfocerà nella sua caduta, il 25 luglio 1943).
Proponiamo la riproduzione del terzo ed ultimo articolo dell’Inchiesta sulla «Fiat», uscito sul n° 3 del «Politecnico», nell’ottobre 1945. Che oltre a descrivere le caratteristiche contemporanee dell’azienda e le sue prospettive future, conteneva (nel taglio basso della pagina) alcune interviste a dipendenti della «Fiat» (non solo operai, ma anche tecnici, impiegati e un dirigente).
‘Fotografare’ l’Italia: Vito Laterza e i «Libri del tempo»
Il modello dell’inchiesta è ben presente nel progetto editoriale che Vito Laterza (1926-2001), nipote del fondatore della grande casa editrice barese, realizzò a partire dal 1951, inaugurando la collana i «Libri del tempo», che puntava a pubblicare testi in cui l’analisi storica si sposasse con uno sguardo attento ai problemi del presente, denunciando ingiustizie, storture e arretratezze del paese. La collana risultò un vero e proprio laboratorio, al quale contribuirono, assieme a nomi noti, giovani giornalisti e scrittori destinati a diventare veri protagonisti della cultura italiana nei decenni seguenti. Basti ricordare che nella collana laterziana uscì il primo libro di Leonardo Sciascia (Le parrocchie di Regalpetra – 1956), nonché l’opera di esordio di Luciano Bianciardi (I minatori della Maremma, scritto a quattro mani con Carlo Cassola, e uscito anch’esso nel 1956). Per la collana laterziana pubblicarono – oltre a tanti altri - un giovane Eugenio Scalfari, il futuro fondatore di «Repubblica» e Antonio Cederna (1921-1996), famoso per le sue battaglie in difesa dell’ambiente e della conservazione paesaggistica dell’Italia; ma pubblicarono per la collana anche autori già affermati come l’economista Ernesto Rossi (1897-1967) e lo storico Gaetano Salvemini (1873-1957).
L’idea che giornali ed editoria libraria dovessero essere impegnati soprattutto nel raccontare e descrivere il paese, per capirne i problemi e avviarlo verso una equilibrata modernizzazione fu insomma un vero e proprio motivo ricorrente della sinistra e dell’editoria impegnata del dopoguerra. Una situazione che uno scrittore ironico e paradossale come Luciano Bianciardi (1922-1971) – che molto amava giocare sui luoghi comuni e con gli idoli culturali del proprio tempo – descrive in un suo romanzo del 1960, L’integrazione.
L’Integrazione racconta di due fratelli che lasciano la provincia (sono nati e cresciuti a Grosseto) per andare a lavorare nell’industria culturale milanese: più esattamente sono assunti dalla neonata casa editrice Feltrinelli (nel romanzo chiamata ‘La grande iniziativa’), fondata da un giovane miliardario comunista (Giangiacomo Feltrinelli, nel romanzo chiamato il ‘Giaguaro’). Ricco di elementi autobiografici (Bianciardi era un giovane intellettuale di Grosseto che effettivamente nel 1954 si trasferì a Milano per lavorare presso la Feltrinelli), il romanzo racconta poi il diverso destino dei due fratelli: uno (Marcello), ribelle e insofferente a regole e gerarchia, vivrà poveramente di traduzioni e articoletti. Mentre l’altro (Luciano), che pure era giunto a Milano con il proposito rivoluzionario di cambiare il mondo e lottare per una società più giusta, senza sfruttatori e sfruttati, diventerà perfettamente ‘integrato’ nel sistema produttivo, mettendo la sua cultura e il suo talento a disposizione del sistema industriale, occupandosi di marketing e pubblicità.
Si veda questo brano, in cui uno dei due fratelli protagonisti del romanzo parla di una riunione di redazione alla Feltrinelli, dove si discute di piani editoriali:
Diceva Marcello che una vera storia d’Italia bisognava ancora scriverla. Avremmo dovuto, nel quadro della grande iniziativa [la neonata casa editrice Feltrinelli], provocare una vastissima serie di inchieste approfondite, ciascuna su un aspetto della realtà italiana.
«Cosa ne sappiamo noi della FIAT, per esempio? Cosa ne sappiamo di quel che succede nella campagna dell’Appennino? Dicono che si vanno spopolando, che i contadini l’abbandonano. Perché? E ancora: quanti sono i preti in Italia, oggi? Quanto comandano? E le donne? Cosa pensano le donne? In che misura e in che modo sono cambiate, negli ultimi cento anni, negli ultimi cinquant’anni, quello che volete?».
Insomma Marcello avrebbe voluto che la grossa iniziativa servisse in primo luogo a scavare pezzo per pezzo il territorio del paese: una specie di moderna campagna archeologica, vastissima (Da L. Bianciardi, L’antimeridiano, Milano, Isbn, 2005, vol. I, p. 492)
Punto B
Le inchieste sul campo di Giorgio Bocca: La scoperta dell’Italia del boom
Giorgio Bocca (1920-2011), uno dei giornalisti più importanti del ‘900, ha pubblicato nel 2007 per l’editore Feltrinelli un libro (Il provinciale) che voleva essere sia un’autobiografia (il ‘provinciale’ è lo stesso Bocca, nato a Cuneo) sia una sorta di storia del paese (e il sottotitolo del libro è, infatti: Settant’anni di vita italiana), come si conviene del resto a un giornalista che fu sì un grande commentatore ed opinionista, ma amò sempre definirsi principalmente un ‘cronista’, attento alla concretezza dei fatti e al loro racconto.
Giorgio Bocca, dopo aver lavorato per la «Gazzetta del popolo» di Torino e per il settimanale «L’Europeo», nel 1961 fu assunto dal quotidiano milanese «Il Giorno», pochi anni prima fondato da Enrico Mattei (il potentissimo presidente dell’IRI, l’Istituto pubblico deputato alla ricostruzione industriale – questo il significato dell’acronimo); una testata destinata a diventare per un decennio una delle più innovative e influenti del giornalismo italiano (vicino al centro-sinistra, la linea editoriale del «Giorno» guardava a un’Italia laica e libera, e all’avanguardia nell’ambito dell’innovazione tecnologica ed industriale).
E’ in questo contesto che Giorgio Bocca scrive una serie di articoli sulle nuove realtà dei cosiddetti ‘distretti industriali’: cioè aree di provincia (Prato; Carpi; Vigevano ecc.) fino a pochi anni prima prevalentemente contadine, e improvvisamente diventate centri caratterizzati da un’industrializzazione diffusa (centinaia di medie, piccole e piccolissime imprese) e specializzata in un solo ambito produttivo (la scarpa a Vigevano; il tessile di Carpi e Prato; la ceramica a Sassuolo ecc.). Allo sguardo del giornalista curioso si presentava un panorama non solo economico, ma anche sociale e culturale straordinario: il ‘miracolo’ economico dell’improvvisa industrializzazione poteva mostrarsi nei nuovi ‘distretti industriali’ con un’evidenza e una forza meno percepibile in ambienti di più consolidata tradizione industriale, come Torino o Milano. Un’improvvisa febbre produttiva aveva afferrato intere città, improvvisamente trasformate in comunità di imprenditori o di aspiranti imprenditori, tutti concentrati sull’imperativo spasmodico e pressante, fino all’alienazione, di produrre e fare denaro, come se ogni altro valore e ogni aspetto del sociale e dei rapporti umani fossero scomparsi di fronte alla sola e pervasiva dimensione economica
Nel libro-autobiografia, il capitolo che rievoca gli anni passati al «Giorno» (per il quale Bocca fu anche spesso e a lungo inviato all’estero, e in luoghi ‘caldi’ del pianeta, come Israele e il Vietnam) è significativamente intitolato La scoperta dell’Italia. Bocca intraprende infatti una serie di viaggi nella provincia italiana, cogliendo quanto stava avvenendo nei piccoli centri, come stavano cambiando modi di produzione, costumi, mentalità e consumi: ne derivarono alcune inchieste memorabili, prima fra tutte quella dedicata a Vigevano, la cittadina in provincia di Pavia divenuta una delle capitali mondiali della scarpa.
Così rievoca quell’esperienza Giorgio Bocca, nel suo libro/autobiografia (G. Bocca, Il provinciale, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 129-130).
Link 2_ G. Bocca_ La scoperta dell’Italia
Nel rappresentare gli anni convulsi del boom e il mondo attivissimo e vitale trovato a Vigevano, Bocca si esprime in uno stile che, pur conservando una tonalità ‘media’ caratteristica della scrittura giornalistica, non disdegna spunti espressivi e icastici: si veda ad esempio l’immagine delle «tribù fameliche» degli migranti che cercavano lavoro, provenendo dal Sud e dal Veneto (che a quell’epoca era in gran parte un’area economicamente depressa, i cui abitanti emigravano, cercando fortuna in regioni più ricche d’Italia o in Germania).
Né manca il ricorso a un’aggettivazione e a metafore fortemente incisive, come la bellissima definizione di «pentecoste industriale» per designare l’improvviso esplodere delle attività produttive scarpiere. Poiché la Pentecoste indica la discesa dello spirito santo sugli Apostoli, cinquanta giorni dopo la morte di Cristo (e dunque segna l’inizio della Chiesa e della missione universalistica della parola cristiana), il termine viene a identificare l’esplodere del boom ‘scarparo’ a Vigevano come una sorta di avvento, che inaugurava non solo una nuova stagione, ma quasi una nuova religione, quella della produzione e del denaro destinati ad essere gli idoli della nuova società.
Né sfugga il felice accostamento ossimorico degli aggettivi «esaltante e oscena», che efficacemente esprime le complesse contraddizioni di quello che Pasolini designerà polemicamente negli anni Settanta come ‘sviluppo senza progresso’, cioè una prorompente crescita della ricchezza e dei beni materiali disponibili, senza che a ciò corrispondesse una crescita civile e culturale adeguata alle nuove possibilità. Una realtà, insomma, in cui lo spettacolo ammirevole e grandioso della nuova energia che anima un’intera comunità si risolve in un anarchico attivismo senza guida e progetto.
Protagonisti di questo mondo sono i nouveau riches [‘nuovi ricchi’, in francese] nuovi soggetti sociali che esprimono un rapporto con il denaro che Bocca designa, con efficace formula, ‘voglia di stupro’: un atteggiamento vorace e ansioso nello stesso tempo.
Il brano si conclude con un accenno allo scrittore vigevanese Lucio Mastronardi (1930-1979), l’autore di una trilogia (Il calzolaio di Vigevano [1959]; Il maestro di Vigevano [1962]; Il meridionale di Vigevano [1964]), che ebbe negli anni Sessanta un vasto successo (Il maestro di Vigevano divenne nel 1964 un film, diretto da Elio Petri e interpretato da Alberto Sordi) e contribuì a rendere nota a livello nazionale la realtà socio-economico della cittadina lombarda. Ma su Mastronardi si rimanda al Punto C di questo percorso.
L’articolo su Vigevano che Giorgio Bocca rievoca (per altro trascrivendone interi brani) nel Provinciale (vd. Link_2) uscì il 14 gennaio 1962.
Era il primo di una serie di sette articoli (l’ultimo uscì il 29 marzo 1962) che poco dopo Bocca raccolse in volume con il titolo di Miracolo all’italiana (Milano, edizioni dell’Avanti, 1962).
Il pezzo su Vigevano, che uscì con il titolo eloquente di Mille fabbriche nessuna libreria, è diventato giustamente celebre. Non a caso esso è accolto nell’antologia Giornalismo italiano, che Franco Contorbia ha curato per la collana mondadoriana dei «Meridiani», nel vol. III (anni 1939-1968), pp. 1367-1375.
Riportiamo alcuni passi di questo testo famoso, che rappresenta davvero un esempio importante del giornalismo italiano degli anni Sessanta.
L’articolo uscì con il seguente Occhiello (nell’impaginazione di un giornale sono così chiamate le parole di presentazione di un articolo, collocate sopra il titolo): «Il miracolo economico visto nella provincia italiana incominciando da Vigevano città campione del nord». E con il seguente Sommario (le parole inserite tra il titolo e l’inizio dell’articolo, che riassumono brevemente il contenuto del testo): «Nella provincia padana accadono strani fenomeni economici: aumentano geometricamente i capitali ma i redditi, stando alle tasse, non si muovono. Modestia in città, vita da texani a debita distanza».
Link 3_ G_Bocca_Mille fabbriche, nessuna libreria
L’articolo di Bocca - che pure non rinuncia alle note di colore e all’ironia – bene individua alcuni problemi strutturali del sistema socio-economico vigevanese: in primo luogo un’evasione fiscale diffusa (per cui l’evidente ricchezza di cui la città gode non ha alcun corrispettivo con i redditi denunciati dai contribuenti al Fisco), segnalata come abbiamo visto nel Sommario dell’articolo. Ma soprattutto il giornalista denuncia una cultura industriale insufficiente e miope, retta sul superlavoro e sull’intuito commerciale dei tanti imprenditori, ma incapace di una visione più vasta e progettuale di sviluppo, che affidi alla formazione e all’innovazione l’aumento della produttività, condizioni necessarie per gettare le basi di una solida e duratura prosperità industriale
Punto C
La Vigevano di uno scrittore: Lucio Mastronardi
Abbiamo accennato sopra alla figura di Lucio Mastronardi (ricordato nella conclusione del brano del Provinciale di Bocca [vd. Link 2_ G. Bocca_ La scoperta dell’Italia]), e alla sua trilogia vigevanese: Il calzolaio di Vigevano (1959); Il maestro di Vigevano (1962); Il meridionale di Vigevano (1964). I tre romanzi dipingono nell’insieme uno spaccato della società della cittadina lombarda, mettendo in scena figure di diverse professioni e ambienti sociali, dal mondo della piccola o piccolissima impresa, al mondo piccolo borghese della scuola e della pubblica amministrazione.
Maestro elementare a Vigevano, Mastronardi aveva esordito come scrittore con Il calzolaio, un romanzo breve pubblicato nel n° 1 del «Menabò», la rivista einaudiana diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino (di cui uscirono solo 10 numeri, tra il 1969 e il 1967, ma «Menabò» ebbe una importanza di primo piano per la cultura letteraria italiana degli anni Sessanta). Ambientato in un recente passato, il Calzolaio racconta la storia di un artigiano (Mario Sala, detto Micca), che negli anni Trenta diventa piccolo imprenditore, ma che poi fallisce. Quello del Calzolaio non è dunque il mondo del boom e dell’industrializzazione postbellica, ma sembra voler ricostruire le radici di quell’ossessione per il lavoro e il guadagno che esploderà nel dopoguerra.
L’opera si segnala soprattutto per l’uso di una lingua fortemente dialettizzata e piena di tecnicismi della gergalità dell’industria calzaturiera (e perciò Vittorini vi vide un esempio importante di adesione alla lingua viva dei ceti popolari), ma colpisce soprattutto per la dimensione alienante che per il protagonista e la moglie ha il lavoro e il denaro. Per Mario Sala non esiste altra dimensione al di fuori del numero di ‘para’ [paia] di scarpe prodotte ogni giorno e la loro immediata traduzione in lire guadagnate. Una vita chiusa nell’orizzonte asfittico della ripetitività degli stessi gesti, senza altro scopo della produzione di pezzi, cioè paia di scarpa, uno dopo l’altro, dozzine dopo dozzine.
Leggiamo un brano dal capitolo 2, in cui compaiono il protagonista, Mario Sala, e altri operai specializzati che un piccolo imprenditore, Padron Bertelli, vuole ingaggiare per alcune ore di lavoro straordinario festivo. Nel dialogo, mosso e vivace (dialettizzato e pieno di espressività popolare e gergale), è ben visibile il modello verghiano.
Ma è soprattutto nel secondo romanzo, Il maestro di Vigevano (1962), ambientato nella contemporaneità, e dunque nel pieno del boom economico, che Mastronardi racconta con forza straordinaria gli effetti traumatici dei cambiamenti sociali in atto.
La vicenda – Molto semplice la trama del romanzo. Il maestro Mombelli, che deve lottare quotidianamente con la povertà di uno stipendio che non gli consente di arrivare alla fine del mese, litiga costantemente con la moglie Ada, che vorrebbe andare a lavorare in una delle tante fabbriche di scarpe come operaia. Ma il maestro, legato ai suoi pregiudizi piccolo-borghesi, trova indecoroso che la moglie di un maestro lavori in fabbrica. Dopo tensioni e litigi (e dialoghi di crudele durezza tra i coniugi) Ada convince il marito. Ma presto la donna aspira a lavorare in proprio, associandosi con il fratello Carlo, anche lui abile operaio scarparo stanco di lavorare come dipendente. I due convincono Mombelli a pensionarsi e a finanziare con i soldi della liquidazione il laboratorio in cui Ada e Carlo produrranno scarpe.
Vantandosi scioccamente con gli ex colleghi maestri (ora sentiti da Mombelli come socialmente inferiori) dei guadagni della sua azienda, Mombelli viene denunciato alla polizia tributaria, che commina ad Ada e al cognato una grossa multa.
Estromesso così dall’azienda di famiglia il maestro decide di rifare il concorso e rientrare nella scuola. Intanto sospetta che Ada lo tradisca, e un giorno, seguendola, ne ha la certezza. Quello stesso giorno tuttavia Ada muore in un incidente d’auto.
Il maestro rimane così solo con il figlio, nel quale ripone i propri sogni di riscatto (sogni di un piccolo-borghese: spera che il ragazzino diventi da grande un funzionario statale di “classe A”…). Ma dichiarando un giorno il disprezzo per la moglie defunta, Mombelli provoca la ribellione del figlio, che per vendicarsi del padre si fa sorprendere con un noto pederasta e compie volutamente un reato per cui viene mandato in riformatorio.
Mastronardi scelse di ambientare il suo secondo romanzo nel mondo della scuola (che come insegnante elementare Mastronardi assai bene conosceva), facendone un ritratto impietoso e feroce: i maestri del romanzo costituiscono davvero una carrellata di macchiette ridicole, divisi tra la mediocrità, la frustrazione o talora una sconsiderata e immotivata presunzione di sé. Ma la scuola diventa nel romanzo un luogo privilegiato per rappresentare (con le armi di un grottesco spesso desolante e feroce) gli effetti traumatici dei cambiamenti sociali e culturali in atto.
Di fronte agli spiriti animali dell’imprenditorialità vigevanese, e ai suoi feticci volgari ma tali da dominare in maniera prepotente l’immaginario e i desideri, lo statale piccolo-borghese – con il suo stipendio modesto i immobile – assume i connotati impietosi del perdente. Ma ad essere sconfitto è soprattutto quell’insieme di valori di cui la scuola dovrebbe essere depositaria e garante: quella cultura (la conoscenza, il sapere critico, la capacità di guardare il mondo secondo prospettive e angolazioni molteplici) che non sembra avere alcun diritto di cittadinanza nella «esaltante e atroce pentecoste industriale» (per citare le parole di Bocca) degli scarpari vigevanesi.
Riportiamo un brano tratto dal cap. 2. La scena di vita coniugale qui raccontata si snoda in gesti e parole in cui la banale insofferenza esplode in forme di vera e propria aggressività verbale. Nello scambio duro di battute e contumelie tra moglie e marito (nella loro sostanziale incomunicabilità) si misura lo scombussolamento di un mondo che ha messo al bando ogni valore che non sia riconducibile al denaro e agli oggetti-feticcio capaci di esibire il raggiunto successo economico.
Link_5_ Mastronardi_Il maestro
Il conflitto di valori non poteva essere espresso con più efficacia e crudezza. La rispettabilità piccolo-borghese alla quale è attaccato Mombelli (e che nel romanzo egli chiama il catrame) nulla ha a che fare con il mondo morale di Ada, che è quello della ricerca spasmodica della ricchezza, di una rispettabilità pubblica tutta giocata sulla conquista e l’esibizione della ricchezza, sull’adeguamento del quotidiano agli standard di vita che mode e consumi vanno imponendo. I personaggi che Ada addita in piazza, durante la passeggiata dopo il cinema, sono connotati unicamente dagli oggetti che possiedono ed esibiscono e, soprattutto, dall’entità del loro capitale industriale (il numero di scarpe prodotte giornalmente dalla loro fabbrica).
Tra il mondo di Ada e quello del maestro Mombelli non c’è confronto possibile: la dignità di un lavoro modesto ma onesto, che sono i valori che Mombelli contrappone all’insofferenza e alle aspirazioni frustrate di Ada, non sono, agli occhi della moglie, che ‘ragionari di maestrucolo’. Ma Ada ha dalla sua parte la forza della maggioranza: è il suo mondo quello vincente, quello in cui l’intera società vigevanese di riconosce.
Punto C – Luciano Bianciardi
Concludiamo la nostra proposta con Luciano Bianciardi (1922-1971), uno scrittore che accompagnò costantemente la scrittura di romanzi (il suo capolavoro, La vita agra, del 1962, è forse uno dei libri che meglio hanno raccontato l’Italia del miracolo economico; ed è certamente una delle vette della narrativa italiana del dopoguerra) con l’attività giornalistica. Dalle collaborazioni alla «Gazzetta di Livorno», nel 1952, fino agli ultimi giorni di vita, Bianciardi collaborò costantemente con giornali e riviste (tra l’altro, scrisse per «L’Unità», «Avanti!» e «Il Giorno»; e nel 1962, dopo il successo travolgente e imprevisto de La vita agra, ricevette da Indro Montanelli una proposta di collaborazione al «Corriere della Sera», di cui Montanelli era allora direttore). Nei suoi articoli Bianciardi impiega in genere la sua penna tagliente per raccontare con ironia, ma spesso anche con risentito sarcasmo, i cambiamenti, non raramente contraddittori e grotteschi di una società in rapidissima evoluzione.
Nato a Grosseto – dove, dopo la laurea a Pisa, lavorò come insegnante di Liceo e poi come direttore della Biblioteca comunale – nel 1954 Bianciardi, trentaduenne, si trasferì a Milano, per andare a lavorare come redattore alla neonata casa editrice Feltrinelli. Presto licenziato, cominciò un’intensa attività di traduttore dall’inglese.
L’arrivo a Milano mise il giovane intellettuale di provincia a contatto con la città simbolo del miracolo economico italiano: non solo capitale finanziaria e industriale del paese, ma anche epicentro di una nuova economia (si parlava in quegli anni di ‘neocapitalismo’), fondata sui consumi di massa, su un complesso e persuasivo apparato pubblicitario, sui nuovi pervasivi mass-media (per altro Bianciardi fu uno dei primi in Italia a tenere una rubrica fissa di commento ai programmi televisivi).
Proponiamo la lettura di un articolo che Bianciardi scrisse per «Avanti!», il quotidiano del Partito Socialista Italiano (P.S.I.), nell’aprile del 1959 (L’epidemia del sabato).
L’articolo descrive la febbre consumistica che stava cominciando a caratterizzare i comportamenti urbani. Il dato cronachistico-giornalistico dell’articolo (la sua novità di ‘crocana’ di costume) va collegata all’apparizione in Italia del ‘supermercato’, a quei tempi una verà novità venuta dagli Stati uniti, dove il modello del supermercato, con scaffali e cibi tutti confezionati, si era diffuso negli anni Trenta. Al momento in cui Bianciardi scrive l’articolo, in tutta Italia i supermercati si contavano sulle dita di una mano: il primo era stato aperto soltanto un anno e mezzo prima, proprio a Milano, in viale Regina Giovanna dai fratelli Caprotti (avrebbe più tardi assunto il nome, di “Esselunga”).
Link_6: Bianciardi_ L’epidemia del sabato
L’articolo non è che un breve bozzetto, che coglie comportamenti e gesti che appaiono ora perfettamente naturali, ma che sono visti, alla fine degli anni Cinquanta, con una curiosità che sconfina nella nota di colore. L’arrivo, proprio in quei mesi, dei primi supermercati, modificava nel fare la spesa il rapporto con gli oggetti e le forme stesse della socialità: i cibi confezionati sostituiscono i cibi (e bevande) sfuse, mentre il compratore si serve autonomamente e si reca alla cassa, senza alcuna mediazione e rapporto umano tra merce, acquirente e venditore.
Novità, dice Bianciardi, dal sapore ‘americanoide’: il supermercato non modifica solo la gestualità e le abitudini, ma introduce la foga consumistica, secondo il modello di vita e di consumo di quell’America che è nel dopoguerra mito pervasivo e onnipresente.
Il testo gioca integralmente sulla metafora della malattia (l’epidemia), che viene descritta con un linguaggio e uno stile che richiama il testo clinico: la descrizione accurata dei sintomi e dei fenomeni morbosi; l’uso di un approccio ‘classificatorio’, che raggruppa i diversi fenomeni per categorie e tipologie; l’uso del latino che ricorda la classificazione botanica e animale di Linneo (anche se è una classificazione comica, a partire dall’uso della paronomasia emitoria/amatoria).
La vocazione irridente dell’articolo si serve del riferimento al sesso mercenario, venduto apertamente nelle strade della città (le case di tolleranza erano state chiuse l’anno prima, il I° gennaio 1958, in virtù della Legge Merlin), suggerendo un nesso malizioso tra la foga consumistica e la voracità sessuale dei clienti delle prostitute, come a indicare un abbattimento della volontà e dell’autocontrollo: la febbre per l’acquisto (‘emitorio’ deriva dal latino emere, ‘comprare) ha la forza dell’istinto pulsionale, non dissimile dalla libido erotica. Il nesso consumismo/prostituzione si apre anche ad altre suggestioni: come gli oggetti del supermercato sono acquistati compulsivamente e indipendentemente dalla loro utilità, così diventano puri oggetti destituiti di senso umano anche i corpi venduti e acquistati nel frettoloso approccio consumato in un’automobile, ai bordi di una strada cittadina. E anche il sesso coniugale («ci sarà festa, a letto») diventa una pratica programmata, all’interno di una vita rigidamente distribuita negli orari del lavoro e dello svago: collocato nell’interstizio – di nuovo un gioco di parole - tra ‘partita doppia’ (il lavoro impiegatizio) e ‘partita di calcio’.
L’articolo si conclude con una nota maliziosa, che ironizza su una società fortemente perbenista, ipocrita e sessuofobica come quella degli anni Cinquanta. I due amanti clandestini che escono furtivi da un albergo a ore, riprenderanno presto i rispettivi ruoli, pronti per andare a messa il giorno dopo, perfettamente calati nei panni del decoro piccolo-borghese e cattolico. Al pari dei mariti, per altro, che, che in preda alla febris amatoria, saranno evidentemente stati i clienti delle passeggiatrici, raddoppiate di numero nel pomeriggio del sabato, per rispondere alla domanda crescente della clientela.