(per una sociologia del pregiudizio)
Una premessa metodologica
Intertestualità e didattica
Il percorso che qui proponiamo è incentrato su un lettore eccellente di Manzoni, Leonardo Sciascia (1921-1989), che dal grande scrittore milanese non solo trasse suggestioni molteplici e continuate negli anni (a partire dal Consiglio d’Egitto, romanzo storico del 1963, ambientato a Palermo tra il 1782 e il 1795), ma che ai capolavori manzoniani (ai Promessi sposi, naturalmente, ma anche alla Storia della colonna infame) dedicò importanti pagine critiche; fino ad arrivare a quella vera e propria riscrittura manzoniana che è La strega e il capitano (1986).
Il concetto di intertestualità costituisce un fattore fondamentale della teoria e della pratica letteraria. I libri parlano infatti del mondo, ma sempre, o quasi sempre, parlano anche di altri libri (o possono usare altri libri per parlare del mondo) e lo fanno attraverso un meccanismo che non è semplicemente un gioco citazionista (il puzzle combinatorio e spesso superficiale di tanto Postmoderno), ma che usa il richiamo a testi e autori del passato per ampliare la forza semantica, connotativa o ideologica del testo. Così, per Sciascia, richiamare Manzoni significa proporre il modello di un dolente (e irrimediabilmente pessimistico) uso dell’ironia, esercitata in primo luogo contro la stupidità corriva dei luoghi comuni o – per usare un termine caro a Flaubert, altro autore molto amato da Sciascia – delle ideès reçues [letteralmente: le ‘idee acquisite’, quindi ‘i preconcetti’]. Sono, queste, le opinioni che vengono ripetute acriticamente, in uno stupidario diffuso che si cristallizza nella frase fatta, in un vero e proprio formulario rituale che, come tutti i formulari rituali, non sopporta variazioni formali. Uno storico revisionista vi potrebbe forse dire che ‘durante il regime di Mussolini sono state intraprese alcune interessanti politiche sociali’; ma un ultrà neofascista vi dirà, immancabilmente, che ‘Mussolini ha fatto anche cose buone’: a confermare che la forma è sempre anche sostanza - ed è appunto quella forma che indica, nel soggetto che la pronuncia, una volontà esibita di semplificazione, e dunque l’assenza di ogni reale volontà di approfondimento critico, di riflessione e di competenza storica.
Ma non è del fin troppo noto principio teorico di intertestualità che vogliamo qui parlare, ma di una didattica che si valga di dinamiche intertestuali per produrre senso e domande.
In altri termini, vogliamo richiamare l’attenzione sulle potenzialità formative di una didattica che non si limiti a individuare nessi anche sottili tra autori e opere: pratica importante, a condizione che non si concluda in un’operazione fine a se stessa, magari gratificante per il docente, ma incapace di generare curiosità presso gli allievi. Pensiamo invece al lavoro su forme esplicite e ‘forti’ di dialogo tra autori della tradizione e autori recenti o contemporanei, che hanno interrogato le voci del passato, appropriandosene e rivitalizzandole in modo problematico.
Interrogare il passato remoto filtrandolo attraverso l’occhio del passato prossimo è del resto uno dei modi (e forse non il più superficiale) attraverso il quale affrontare in aula temi e questioni del secondo Novecento - che continua ad essere assente, salvo lodevoli ed eroiche eccezioni, dal panorama scolastico. Ed è un dato macroscopico della realtà scolastica italiana. Ci sia consentito dirlo: un dato scandalosamente macroscopico.
Quadro dei testi del percorso
Due testi di apertura:
Testo 1_A – A. Manzoni, “Le cose bisogna averle viste” (da Promessi sposi, cap. XXXIV)
Testo 1_B – L. Sciascia,“Gli manca solo la parola…” (da A ciascuno il suo, cap. 2)
Parte 1a
La storia dei dimenticati: Sciascia e il modello Manzoni
Testo 2 - A. Manzoni / L. Sciascia, La strega e il capitano (incipit)
Testo 3 – L. Sciascia, La strega e il capitano: Il capitano Vacallo
Approfondimento: Manzoni e il racconto dello storico (dal saggio: Del romanzo storico)
Testo 4: Approfondimento. Inferire e raccontare
Testo 5 – L.Sciascia, La strega e il capitano: La funesta circolarità
Parte 2a
Sciascia critico: Manzoni e il carattere nazionale
Testo 6: L.Sciascia: dal saggio Goethe e Manzoni
Due testi di apertura
Alessandro Manzoni, “Le cose bisogna averle viste” / Leonardo Sciascia, “Gli manca solo la parola…”
Apriamo il nostro percorso con due testi che non hanno alcun nesso tematico e di contenuto, ma che possono illustrare le modalità del distacco ironico che accomuna i due autori di cui parliamo; o che – se vogliamo – segnalano uno dei tanti aspetti della narrazione manzoniana che affascinavano Sciascia.
In ambedue i testi l’ironia del narratore si esercita su situazioni in cui l’accettazione passiva del ‘senso comune’ (che può non aver nulla a che fare con il ‘buon senso’, e meno che mai con l’etica della giustizia), passa attraverso il filtro della frase fatta, del luogo comune che, proprio in virtù del suo essere un dato accettato e diffuso, impedisce di cogliere la dimensione reale delle cose, o lo scandalo di un’ordinaria ingiustizia.
Nei due brani compaiono anonimi individui che leggono la realtà adottando appunto un luogo comune (in ambedue i casi riconducibili a diffusissime frasi di sapore proverbiale) che diventano i mezzi attraverso i quali la realtà viene falsificata e travisata. E sono mezzi ‘retorici’, cioè realizzati tramite la parola, che trasforma il luogo comune in un racconto che disimpegna il soggetto dalla fatica del dubbio e della ricerca: o confermando i suoi pregiudizi e trasformandoli in dimostrate certezze (Manzoni); o nascondendo, attraverso un sentimentalismo superficiale, una realtà amorale e in-civile come l’atteggiamento omertoso, atavico retaggio di sospetto nei confronti dello stato e della comunità (Sciascia).
Il primo brano, che è tratto dal cap. XXXIV dei Promessi sposi, racconta un episodio marginale, che capita a Renzo, appena arrivato nella Milano in preda alla peste per cercarvi Lucia. Il giovane montanaro chiede un’indicazione stradale a un casuale passante, che tuttavia lo scambia per un untore (un doloso propagatore del contagio).
Il secondo brano è invece tratto da una delle prime pagine di A ciascuno il suo di Leonardo Sciascia, opera del 1966 ed esempio famoso di romanzo contro-poliziesco. Il romanzo sciasciano costituisce una sorta di parodia del giallo, di cui adotta le formule narrative caratteristiche (un delitto; la ricerca del colpevole, l’interpretazione degli indizi fino a ricomporre un quadro coerente dal puzzle apparentemente insensato di dati ecc.), ma che poi è privo della (consolante) conclusione. Diversamente da quanto succede nel genere poliziesco, nel giallo sciasciano il colpevole non viene affidato alla giustizia, o la sua identità rimane addirittura incerta e solamente ipotetica. Nel caso di A ciascuno il suo il colpevole viene indicato con chiarezza al lettore, ma la parodia del poliziesco consiste nel fatto che l’indagine raccontata porta il detective (qui un dilettante: un professore di Liceo colto e intelligente, ma irrimediabilmente ingenuo) a scoprire quello che era chiaro da subito a tutto il paese: sarebbe bastato interrogarsi su quali interessi patrimoniali e familiari erano in gioco (occorreva insomma chercher la femme e, nel contempo chercher l’argent…).
L’incontro tra Renzo e lo sconosciuto racconta esemplarmente le dinamiche del pregiudizio. Nella Milano dominata dal contagio e dalla morte le paure generano narrazioni immotivate, ma paradossalmente rasserenanti; attribuire infatti la peste a un complotto (magari ordito dalla Francia, la grande avversaria della Spagna, sotto la cui dominazione si trovava nel 1630 Milano), è un modo per accettarlo, limitando l’inquietudine che si prova di fronte a ciò che appare oscuro e indeterminato, dovuto alle potenze misteriose e sfuggenti del caso. Il complotto individua invece una causa determinata, costruisce un nemico, sia pure subdolo e potente, ma pur sempre riconoscibile e dunque, in ultima istanza, affrontabile.
Ma l’ironia di Manzoni, in questa pagina mirabile, non riguarda la nascita della ‘leggenda’ degli untori (lo sguardo dello scrittore non può che essere dolente di fronte al buio della ragione che tocca zone così profonde delle umane paure), ma si esercita bensì contro i meccanismi retorici che trasformano l’anonimo passante in un testimone convinto di avere constatato per ‘esperienza diretta’ l’esistenza degli untori. Come tutti gli sciocchi, il passante non è sfiorato dal dubbio: non solo ha stabilito che Renzo è un untore, ma il pre-giudizio è capace di orientare in modo così potente il suo sguardo da fargli ‘vedere’ con evidenza ciò che ha solo ipotizzato. Vittima di una falsa esperienza (tra lui e la realtà c’è stato un corto circuito, che gli fa ritenere di avere ‘visto’ ciò che era solo nella sua mente), lo sconosciuto può addirittura trasformare il proprio autoinganno (uno sguardo allucinato sulla realtà) in una massima, per così dire, ‘scientifica’, capace a suo dire di zittire gli scettici (“quelli che sostengono ancora che non era vero”), la regola secondo cui si può parlare con cognizione solo di ciò che si è toccato con mano (“le cose bisogna averle viste”).
Il dubbio (qualità per eccellenza dell’uomo intelligente, e della scienza) diventa allora una comica parodia: “non era ben certo” – commenta ironicamente Manzoni - se la pestifera miscela fosse conservata dentro uno “scatolino” o un “involtino”, se fosse insomma unto o polvere…
Link_1_B_Sciascia_I muti testimoni del delitto
Chi è il narratore? E’ un testimone ‘onnisciente’; benissimo informato sui fatti, tanto da descrivere le minute vicende del paese e dell’indagine. E’ un giudice critico di eventi, persone e pensieri, che però si astiene da giudizi diretti ed espliciti, esercitando invece sui fatti la propria ironia.
Il narratore coglie l’involontario grottesco che si colloca nella discrasia tra le parole e le cose, tra il racconto dei fatti e il loro travestimento retorico. Oggetto dell’ironia dello scrittore è lo scandalo ‘mafioso’ dell’omertà, nella quale Sciascia vede l’incompiuto processo di modernizzazione civile del paese, che richiederebbe uno stato giusto, garante dei diritti contro i soprusi selvaggi dei potenti e dei prepotenti e – da parte dei cittadini – il riconoscere collaborativamente allo stato questo ruolo. In questo episodio lo scandalo ordinario dell’omertà viene rivestito, in un coro unanime dei paesani, dalla retorica vieta sui cani (si sa che è il migliore amico dell’uomo…), che avrebbero voluto parlare e denunciare l’infame uccisore del loro padrone. Il racconto banalmente sentimentale (di cui si nutre tanto giornalismo di cronaca) diventa il mezzo con cui il narratore fa emergere la contraddizione profonda della società, che usa il luogo comune senza cogliere l’intima contraddittorietà della situazione: i cani vorrebbero parlare, ma non possono; gli abitanti del paese potrebbero parlare, ma non vogliono.
L’elemento generatore del grottesco è appunto la frase proverbiale secondo la quale ai cani, per essere umani, ‘manca solo la parola’. Un bisogno di ‘ordine’, quello espresso dagli abitanti del paese, che suona ridicolo: incapaci di accettare il ben più banale ‘ordine’ civile e legale, quello che chiede ai cittadini di aiutare a punire reati e ingiustizie attraverso le proprie testimonianze (e invece, se qualcosa sanno, essi diventano muti di fronte agli inquirenti), gli abitanti del paese, per giorni e giorni, si dedicheranno a «sollevare riserve sull’ordine della creazione: poiché non è del tutto giusto che al cane manchi la parola».
Ci limitiamo a segnalare infine come tutta la pagina sia attraversata da un reticolo di spunti ironici che ricorrono a soluzioni colte; che si trovano a diversi livelli di decifrabilità. Il richiamo colto/erudito è impiegato in senso antifrastico, facendo risaltare il contrasto tra linguaggio e situazione descritta (in modo non diverso dall’uso che di erudizione e mitologia faceva Parini per denunciare nel Giorno l’inconsistenza umana del suo ‘giovin signore’…). Immediatamente percepibile per il lettore anche poco attrezzato è il richiamo alle “cacce elisie” (nessuno si stupisce di trovarlo nel discorso di Massino ai suoi cavalieri prima della battaglia nel Gladiatore di Ridley Scott: “If you find yourself alone, riding in green fields, do not be troubled. For you are in Elysium”), o l’accenno al “nulla eterno” (immediato eco del sonetto foscoliano Alla sera). Più complesso e raffinato (che presuppone un lettore particolarmente colto) è l’uso della forma trecentesca/boccacciana di ‘mutolo’ (per ‘muto’), che richiama Decameron III, 1, con la notissima novella del finto ‘mutolo’ Masetto da Lamporecchio. Ancora più sottile, per il gioco di rimandi e allusioni, è l’accenno alla “ultima giornata felice” del farmacista Manno, trascorsa a caccia: che rimanda (anche per il contesto venatorio) a uno dei più bei racconti di Hemingway, La breve vita felice di Francis Macomber.
Parte 1
La storia dei dimenticati:
Sciascia e il modello Manzoni
C’è un aspetto della scrittura manzoniana che interessò Sciascia fin dai suoi primi libri: l’attenzione per coloro che la storia ha dimenticato, per gli esclusi, gli sfruttati, le vittime del potere e della sua ordinaria ingiustizia. Parliamo del Manzoni, dunque, che sceglie come protagonisti due contadini/operai, figure, per usare un’espressione cara allo scrittore milanese, non «di alto affare». Che Sciascia guardi con interesse proprio alla storia degli esclusi e alle colpe dei potenti, ce lo indica il libro di esordio dello scrittore siciliano, Le parrocchie di Regalpetra (Laterza, 1956),che ricostruisce nella forma del saggio, o narra come puro racconto (come vedremo, il tema del rapporto tra forma saggistica e forma narrativa è centrale per Sciascia, e in particolare lo è per Sciascia lettore di Manzoni) varie situazioni ed episodi dimenticati di ingiustizia sociale e di soprusi, dal Seicento al presente, avendo come ambientazione la cittadina siciliana di Regalpetra (nome fittizio dietro cui si cela Racalmuto - in provincia di Caltanissetta - paese natale dello scrittore).
Ma Manzoni non è per Sciascia soltanto un eccezionale modello etico (quello dello scrittore che usa la letteratura per misurarsi con i grandi temi della società e della storia: la giustizia, il rispetto dell’individuo, i doveri delle classi dirigenti, la solidarietà sociale ecc.); Manzoni è anche un maestro di scrittura, che si interrogò a lungo sul rapporto tra ricostruzione storica e invenzione narrativa, e che con i suoi capolavori, I promessi sposi e La storia della colonna infame, offrì due modelli alternativi (per Manzoni, soffertamente alternativi) di scrittura: la narrazione ‘mista di storia e invenzione’, sperimentata nel romanzo storico; e la rigorosa ricostruzione storica sperimentata nella Colonna, dove a parlare sono solo i documenti e nessuno spazio è lasciato alla libera invenzione dello scrittore, al quale non è concesso creare situazioni e personaggi, e neppure può permettersi di entrare nella mente dei protagonisti (la tipica prerogativa del narratore onnisciente), dichiarandone intenzioni, pensieri e stati d’animo (se non nella forma della supposizione e del dubbio: la sola possibile per lo storico).
I due diversi modelli del romanzo storico (Promessi sposi) e del saggio storico (La storia della colonna infame) sembrano intrecciarsi in due libri di Sciascia dei primi anni Sessanta, pubblicati a brevissima distanza l’uno dall’altro: il romanzo storico Il consiglio d’Egitto (del 1963) e La morte dell’inquisitore (1964). Il primo ha come protagonisti due personaggi reali della Sicilia del secondo settecento. Uno è l’abate Giuseppe Vella (1749-1814), autore di un falso che divenne famoso in tutta Europa: una cronaca siciliana del tempo della dominazione araba che avrebbe dimostrato l’inconsistenza storica dei diritti feudali dei grandi Baroni dell’isola; l’altro è Paolo di Blasi (1753-1795), che tentò nel 1795 una fallimentare congiura di ispirazione giacobina (i venti della rivoluzione francese cominciavano a soffiare forte in Italia…). Su questo sfondo storico lo scrittore crea un romanzo in cui è forte la componente dell’invenzione: alla quale Sciascia ricorre nel raccontare la vita privata e la quotidianità di Vella e Di Blasi, o nel trascrivere i loro pensieri intimi e segreti – ovviamente sconosciuti allo scrittore.
La morte dell’inquisitore è invece la ricostruzione storica, compiuta attraverso un’indagine rigorosa dei pochi documenti e testimonianze dell’epoca, di un episodio del 1657-58, quando un frate accusato di eresia, don Diego La Matina (1622-1658), originario di Racalmuto, uccise a Palermo il suo inquisitore Alfonso di Los Cisneros.
Se i due libri del 1963 e del 1964 hanno alle spalle i due modelli di scrittura manzoniana dello scritto ‘misto’ di verità e invenzione (i Promessi sposi) e del saggio storico (la Colonna), il fascino esercitato su Sciascia dai temi cari allo scrittore milanese si riscontra anche su un altro punto: sia La morte dell’inquisitore che Il consiglio d’Egitto toccano il tema della tortura e delle tecniche inquisitoriali che alla tortura ricorrevano, come a un normale strumento per ottenere confessioni e chiamate di correità (quando cioè un inquisito fa il nome dei suoi complici). In altri termini: in ambedue i libri di Sciascia è palpabile la presenza della Storia della colonna infame, e la sua denuncia dello scandalo disumano rappresentato dalla pratica della tortura come strumento accettato della procedura penale.
1.1. Raccontare in forma di saggio: La strega e il capitano (1986) e il modello della Storia della colonna infame.
Nella Morte dell’inquisitore, come si è detto, Sciascia si ispira alla ricostruzione storica e documentaria della Storia della colonna infame. Una scrittura saggistica, in cui non c’è spazio per l’invenzione di personaggi ed episodi, ma in cui tutto è affidato all’interpretazione dei documenti, che possono naturalmente suggerire ipotesi e supposizioni, ma che lo storico deve presentare necessariamente come tali: appunto, ipotesi e supposizioni.
Il modello della Colonna di Manzoni ricompare in alcuni scritti di Sciascia della prima metà degli anni Ottanta. Innanzi tutto le Cronachette (1985), una raccolta di sette brevi scritti che ricostruiscono alcune storie dimenticate o minime, ambientate in epoche diverse, tra il Seicento e il Novecento.
Ma è nel 1986, che Sciascia pubblica un vero e proprio atto di omaggio a Manzoni (di cui per altro era ricorso l’anno prima il secondo centenario della nascita), con il racconto-inchiesta La strega e il capitano, che prende spunto da un episodio ricordato tangenzialmente nei Promessi sposi (il libro di Sciascia si apre proprio con una lunga citazione dal cap. XXXI del romanzo). Se ‘manzoniana’ è la materia, ‘manzoniano è anche il modello di scrittura, dichiaratamente ispirato alla Storia della colonna infame.
Lo spunto manzoniano, da cui la vicenda prende avvio, è dato, come si è detto, da un passo del cap. XXXI dei Promessi sposi, dove Manzoni parla del ‘protofisico’ milanese (la massima autorità sanitaria) Ludovico Settala (1550-1633), che aveva compreso già dai primi segnali che su Milano stava arrivando la peste, e aveva perciò consigliato le autorità cittadine di prendere misure efficaci e immediate (isolare i malati; stabilire rigorosi controlli e quarantene per chi entrava in città). I consigli del Settala, tuttavia, non solo non furono seguiti, osserva Manzoni, ma egli si attirò anche le antipatie popolari, dei più che lo accusarono di essere un menagramo. Ben diverso successo presso l’opinione pubblica, osserva amaramente lo scrittore milanese, il Settala ebbe quando, alcuni anni prima (esattamente nel 1616/17), contribuì con un suo parere medico a mandare sul rogo una povera innocente…
Di qui prende le mosse La strega e il capitano
La vicenda –
La strega e il capitano racconta un episodio svoltosi tra la fine del 1616 e l’inizio del 1617: l’accusa, il processo e la condanna al rogo, per stregoneria, di una certa Caterina Medici, donna di servizio presso un potente nobile milanese, il senatore Luigi Melzi, afflitto da tempo da dolori di stomaco.
La Medici viene sospettata di essere una strega quando giunge ospite a palazzo Melzi un certo Vacallo, un militare (il “capitano” di cui dice il titolo del libro), il quale suggerisce al Melzi che i suoi dolori siano dovuti a un malefizio perpetrato dalla stessa Caterina, che era stata in passato al suo servizio, e che egli aveva cacciato, appunto sospettandola di essere una strega. Dopo una sommaria indagine fatta presso casa Melzi, la donna viene affidata all’inquisizione. I pareri di alcuni autorevoli medici, tra cui Ludovico Settala, sentenziano che i dolori del Melzi potrebbero avere origine non naturale (ed essere cioè il prodotto di un malefizio), I giudici sottopongono Caterina a tortura, inducendola a confessare. Come nel 1630 (al tempo della grande peste raccontata nei Promessi sposi) gli innocenti accusati di essere ‘untori’ (di diffondere cioè in città il contagio) confessarono sottoposti a tortura la loro inesistente colpevolezza (è quanto Manzoni racconta nella Storia della colonna infame), così Caterina Medici non solo confessa le proprie colpe, ma racconta con dovizia di particolari dei suoi incontri con il demonio e delle riunioni notturne, con altre streghe. In altri termini, la donna racconta ai suoi giudici-aguzzini storie piene dei topoi del folklore (probabilmente le stesse storie terrificanti che le raccontavano quando bambina). Il circolo vizioso così si chiude: la donna, distrutta dalla tortura, racconta ai giudici ciò che essi vogliono sentirsi dire; e i giudici ricavano le ‘prove’ della colpevolezza della donna semplicemente dal vedere confermato non ciò che dovevano scoprire, ma ciò che già sapevano, per un meccanismo puramente pre-giudiziale.
1. L’ironia del favore popolare: Manzoni, Promessi sposi, cap. XXXI / L. Sciascia, La strega e il capitano.
La strega e il capitano si apre, come si è detto, con una lunga citazione manzoniana.
La riportiamo, perciò, con l’indicazione della doppia autorialità. Sono parole di Manzoni, naturalmente, ma parole che Sciascia ‘fa sue’, con una adesione al testo di partenza che riguarda sia lo stile che il contenuto morale. C’è infatti la tragica e dolorosa consapevolezza (una vera e propria ironia tragica) di chi guarda con dolente disincanto agli orrori e alle contraddizioni della storia,
E c’è la denuncia degli idoli perversi della folla; la polemica nei confronti della facilità con cui gli uomini si sentono giudici infallibili, anche in ciò di cui nulla sanno, in un perverso rifiuto della competenza e della conoscenza, che sono sempre figlie della fatica e del dubbio.
Link_2_La Strega e il capitano incipit
È dunque il romanzo manzoniano a dare l’avvio al libro di Sciascia. Ma ad essere citato non è il Manzoni ‘narratore’, ma il saggista e lo storico, che in alcuni capitoli del romanzo lascia da parte i suoi personaggi (di invenzione) per ricostruire, documenti alla mano, lo sfondo dei fatti. La tonalità saggistico-documentaria caratteristica della pagina manzoniana viene ribadita da Sciascia, che inserisce il brano dei Promessi sposi all’interno di un contesto di scrittura storico-documentaria rigorosa, in cui – come si fa nella saggistica – vengono indicate fonti e riferimenti bibliografici (in questo caso la Storia di Milano del grande storico e giurista Pietro Verri, il principale animatore de «Il caffé» [1764-1766], la rivista degli Illuministi milanesi).
Quanto al contenuto del brano manzoniano riportato da Sciascia, andrà notata la polemica nei confronti dell’ignoranza che pretende di esprimere giudizi su questioni complesse e che richiedono una raffinata gestione di dati e di saperi.
- L’umore della folla sembra voler negare ogni principio di realtà, muovendosi solo sulla base dei propri desideri: le disposizioni suggerite da Settala non vengono contraddette nel merito (cioè nell’analisi dei fatti), ma solo sulla base di un’argomentazione ad personam (dicendo che «metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia»). Con l’aggravante che l’argomentazione ad personam non riguarda la sua autorevolezza di medico (che nessuno mette in dubbio), ma il suo aspetto esteriore.
- La negazione dell’epidemia e della sua pericolosità passa attraverso un’accusa di sapore complottista: essa non esiste nei fatti, ma è ‘voluta’ da coloro che, per ragioni che restano indeterminate e nebulose, «volevano per forza che ci fosse la peste».
- La peste trova poi una spiegazione fondata sul meccanismo del cui prodest? (che in latino vuol dire ‘a chi giova?’). In altri termini, basta individuare chi trae vantaggio economico da una certa situazione, per avere individuato chi di tale situazione è la causa. Nella Milano del 1630 non possono essere che i medici, che diffondendo la paura del contagio aumentando il loro giro d’affari. In altri tempi saranno le ditte farmaceutiche… Ci ricorda qualcosa?
2. L’apporto di un ‘cretino’: il “capitano” Vacallo
Leggiamo due brani che appartengono ancora alle prime pagine del libro di Sciascia. Il punto di inizio della vicenda tragica, che porterà la sfortunata Caterina Medici ad essere bruciata come strega, è dato dall’arrivo presso casa Melzi – dove Caterina è a servizio – del capitano Vacallo, che ritiene Caterina, un tempo al suo servizio, una strega.
Si ricorderanno (vd Link_2) le poche parole con cui nel cap. XXXI dei Promessi sposi Manzoni (avendo ricavato notizia del processo contro la ‘strega’ Caterina Medici dalla Storia di Milano di Pietro Verri) accennava alla morte di quella «povera infelice sventurata, perché il suo padrone pativa dolori strani di stomaco, e un altro padrone di prima era stato fortemente innamorato di lei».
Sciascia ha tuttavia a disposizione alcuni documenti inediti relativi al processo, tratti dall’archivio della famiglia Melzi, che erano invece ignoti a Verri e a Manzoni. Da essi lo scrittore siciliano ricava alcuni dei retroscena della vicenda. Dalle carte del processo si evince che Vacallo aveva avuto a servizio, non una, ma due donne di nome Caterina: una giovane e bella, che divenne sua amante, e la più vecchia e meno avvenente Caterina Medici.
Vacallo cominciò probabilmente (non può che essere un’ipotesi dello storico) a sospettare che Caterina Medici fosse una strega, quando innamorato della giovane e bella Caterina, non riusciva a liberarsi di una relazione divenuta scomoda (forse la giovane Caterina voleva essere sposata: ma poteva il capitano Vacallo sposare una sua serva senza che ne andasse del suo onore?). Avrebbe allora attribuito quel legame non al proprio innamoramento, ma a una fattura che la più anziana Caterina Medici gli aveva fatto per legarlo alla giovane Caterina…
Per capire certe cose – ci dice Sciascia – bastava riconoscere se stesso nella propria umanità; e conoscere quanto dei sentimenti umani e dell’amore la letteratura ha sempre saputo. Ma la logica cui Vacallo ricorre non è quella, umana e saggia di chi ha imparato a guardarsi dentro: il suo scomodo legame con la giovane e bella Caterina, secondo lui, non può che essere frutto di una fattura, di un complotto ai suoi danni.
Vacallo è un “cretino” – ci dice Sciascia - e lo è nel modo in cui i cretini sempre agiscono: incapaci di comprendere l’altro, perché in primo luogo inconsapevoli di fronte alla propria stessa umanità, al reticolo complesso e contraddittorio del proprio mondo emotivo e della propria interiorità..
E, come tutti i cretini, è pericolosissimo…
Nelle parole della denuncia presentata da Ludovico Melzi, la deplorevole certezza di colpevolezza assume toni ai nostri occhi grotteschi: la precisione che quantifica la sua condizione di strega (tale da «quatordici anni») è associata infatti a un elemento pruriginoso, come il «commercio carnale» con il diavolo. È la spia delle ossessioni di una società in cui il represso (la sessualità e la sua espressione) affiora in maniera indiretta: in questo caso associata al mondo perturbante del diabolico, dell’illecito, dell’orrore notturno in cui si svolgono i sabba delle streghe (su cui vd. il brano successivo: Link_5).
Se la storia del processo per stregoneria è uno dei tanti casi, di cui è piena la storia, di ‘banale’ orrore – quello che rende speciale questo processo, dice Sciascia, è proprio il ruolo fatale che vi ha avuto il “capitano” del titolo. Sciascia lo definisce un «cretino» (e una seconda volta un «nefasto cretino»), che ha messo in moto la tragedia unendo all’incapacità di capire se stesso (la natura del proprio amore) la spiegazione più ‘semplice’ del proprio disagio, quella fondata sul diffuso pregiudizio che il mondo fosse pieno di streghe, pronte a combinare fatture (e, magari, a congiungersi carnalmente con il diavolo).
È una miscela pericolosissima – ci dice in sostanza Sciascia – quella di chi unisce l’incapacità a esplorare l’umanità (la propria e quella degli altri: quel sapere fatto di condivisione e com-passione che da sempre la letteratura ci insegna…) con il facile ricorso al luogo comune, al pregiudizio che crede nell’esistenza delle streghe; o degli untori nella peste del 1630; o dei plutocrati ebrei che affamavano il popolo tedesco negli anni Trenta del Novecento… Una ‘banalità’ dell’orrore (evidente nel testo l’allusione alle analisi di Hannah Arendt), che è anche un richiamo alla stolida ripetitività con cui (pur nelle forme diverse e nelle diverse situazioni), la stessa miscela di ignoranza, incomprensione e stupidità si fa matrice di tragedie.
Da notare, infine, come le modalità narrative rispettino sistematicamente le forme della narrazione storica, non-finzionale, che fa sì ‘parlare’ i documenti (ricavando da essi inferenze: cioè informazioni intuibili attraverso processi logici, ma non esplicitate nel testo), ma lo fa sempre indicando al lettore il carattere ipotetico del dato: “presumibilmente bella”: “forse la portò a familiarizzare”; “si era fatta certamente più spinosa”. Formule dubitative, nella quali tuttavia il lettore è coinvolto in un percorso esplicitato di supposizioni e ipotesi razionali e logicamente motivate che è chiamato, passo dopo passo, a condividere. Ciò che manca, in questo racconto/saggio è la certezza del punto di vista interno: quella che appartiene al narratore onnisciente finzionale, che può riferire i pensieri (la parola interiore, le impressioni e le sensazioni) dei personaggi.
Approfondimento
Può essere utile leggere i passi del saggio manzoniano Del romanzo storico (un’opera ben presente a Sciascia, che ad essa accenna in alcune dei saggi dedicati a Manzoni), dove il grande scrittore milanese si interroga su come si possano raccontare fatti storici senza ricorrere all’invenzione, ma rispettando la verità positiva dei fatti (cioè i dati oggettivi e verificati nella loro verità).
Cominciato nel 1829 – due anni dopo la pubblicazione della prima edizione dei Promessi sposi, il saggio (il cui titolo completo è, Del romanzo storico e, in genere, dei componimenti misti di storia e d’invenzione) bene documenta il travaglio dell’autore sui limiti di un genere, il romanzo storico, che necessariamente inseriva nella ricostruzione storica molti elementi puramente finzionali. Tra le altre cose che rendono questo testo così interessante, è il fatto che si tratta di uno sguardo, per così dire, ‘professionale’ sulla scrittura: vi parla infatti lo scrittore consapevole dei problemi concreti che si pongono al narratore, che deve gestire informazioni (i dialoghi dei personaggi; i loro gesti ecc.) che solo in parte può derivare da informazioni documentate e certe.
Riportiamo (Link_5_Approfondimento) un passo particolarmente interessante, che potrebbe essere il punto di avvio per un approfondimento che coinvolga principalmente l’insegnante di filosofia. In questa pagina Manzoni riflette su alcuni fondamentali meccanismi cognitivi: induzione; compossibilità; relazioni di causa/effetto; concomitanza. Temi che coinvolgono la logica e l’argomentazione e, quindi, coinvolgono il problema del rapporto tra narrazione, storia e verità, così come si è configurato negli ultimi decenni, almeno a partire dagli scritti di Hayden White (1928-2018).
Una utile raccolta di saggi di White è stata recentemente pubblicata da Carocci: Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Roma, 2018.
Sul piano teorico letterario si veda poi il recentissimo Fiction non fiction, a cura di R. Castellana (Carocci, Roma, 2021): e in particolare i saggi del curatore del volume, di F. De Cristofaro/M. Viscardi e di R. Palumbo Mosca.
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3. La tortura e il pregiudizio: la confessione di Caterina
Riportiamo un brano tratto da una delle ultime pagine del libro. L’inchiesta svolta dal tribunale sulla colpevolezza o meno di Caterina Medici, ricorre allo strumento della tortura.
Sciascia, riprendendo la denuncia di Manzoni sulla barbarie della tortura, sottolinea il ruolo che, nella vicenda orribile della condanna di Caterina, assume il luogo comune, l’ordinaria stupidità di chi dà per vero ciò che tale appare soltanto perchè continuamente, e acriticamente, ripetuto.
La tortura, ci dice in sostanza Sciascia – così come è documentata dai tanti processi di stregoneria - non è solo una pratica oscena dal punto di vista giuridico (perché spinge a confessare anche colpe non commesse; e perché infligge una sofferenza a chi, non essendo ancora stato condannato è a tutti gli effetti da ritenere innocente); essa anche amplifica tragicamente l’effetto perverso del pregiudizio.
Sciascia parla di «funesta circolarità», che appunto è come dire ‘circolo vizioso’: cioè la prigione logica prodotta da un cortocircuito del ragionamento. È quello che si stabilisce tra le credenze popolari (le immagini del folklore) e i pre-giudizi – condivisi a quel tempo anche dalle classi colte – sulla magia, sulle streghe e sulle loro pratiche ‘perturbanti’ (e usiamo volutamente la forma che traduce abitualmente il termine freudiano di Unheimlicht – che turba perché lontano dall’esperienza nota, perché diverso o allogeno).
Sottoposta a tortura Caterina confessa esattamente quello che, immagina, i suoi giudici/aguzzini vogliono sentirsi dire. Il suo racconto diventa allora un concentrato dei luoghi comuni ricorrenti sulle streghe e sulle loro riunioni notturne (e, naturalmente, ritornano le immancabili ‘congiunzioni carnali’ con il diavolo, che già avevano attraversato, con un brivido di turbamento, le parole con cui il primo accusatore di Caterina, Ludovico Melzi, aveva redatto la sua denuncia).
Ma è proprio questa fissità nel racconto che dovrebbe indurre al sospetto chi le ascolta: è proprio il ripetersi dei particolari su un canovaccio sempre uguale a se stesso che dovrebbe indurre a pensare di trovarsi di fronte non a esperienze vissute, ma a ‘miti’ (a racconti archetipici o esemplari), come sono appunto le favole e le leggende antiche del folklore, i racconti fantastici che si ripetono generazione dopo generazione.
Ma il sospetto di fronte a tale fissità di topoi ricorrenti, deriverebbe appunto dall’esercizio di un’intelligenza capace di sottrarsi alla prigione del pregiudizio: e invece il pregiudizio miete solo certezze, vede ‘prove’ che non ci sono; e con quelle stesse prove conferma quelle convinzioni che faranno vedere altre ‘prove’ inesistenti.
Leggiamo un brano, ormai verso la conclusione del libro, in cui Sciascia parla di quanto Caterina racconta, confessando la condizione di strega.
Parte 2
Sciascia critico: Manzoni e il carattere nazionale
L’interesse di Sciascia per Manzoni si espresse anche attraverso alcuni veri e propri interventi critici. Saggi brevi, di carattere non accademico, in cui lo scrittore siciliano si misura con i testi manzoniani con la disinvoltura di un lettore curioso e disincantato. L’opera del maestro milanese e la lunga tradizione critica (e scolastica) che ha accompagnato la sua fortuna, divengono per Sciascia l’occasione per parlare dell’Italia stessa e degli Italiani, del loro carattere, dei fenomeni di lunga durata che contrassegnano il loro rapporto con l’etica, con lo spirito civile e con la giustizia.
Nel 1983 Sciascia pubblica presso Einaudi la raccolta di saggi Cruciverba.
Tra i testi lì contenuti c’è un memorabile saggio sulla Storia della colonna infame, nella quale lo scrittore di Racalmuto vede uno dei libri di più arduo rigore morale della nostra letteratura. Un testo – argomenta Sciascia - lontanissimo dallo spirito nazionale, tradizionalmente portato all’autoassoluzione e a diluire le responsabilità del singolo nel grande flusso collettivo della storia: l’idea del ‘così fanno tutti’, che costituisce un alibi straordinario per il singolo, che perciò non si sentirà mai chiamato a rispondere alla propria coscienza dei propri comportamenti.
Come è noto, nella Storia della colonna infame a Manzoni non interessava tanto denunciare la pratica della tortura (l’argomento era stato trattato in modo magistrale e definitivo dagli illuministi Cesare Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene e da Pietro Verri, nelle Osservazioni sulla tortura), quanto dimostrare che i giudici che nel 1630 condannarono a morte alcuni sventurati come ‘untori’ (propagatori dolosi della peste), non furono essi stessi vittime della barbarie del tempo, ma – pur all’interno di un sistema giudiziario iniquo e arretrato - furono personalmente e moralmente responsabili, perché adoperarono la tortura con modalità che gli stessi trattati giuridici del tempo non consideravano legittime. In altri termini: con la Storia della colonna infame Manzoni sottolineava il ruolo della responsabilità individuale (la coscienza e la serietà morale che deve caratterizzare ogni nostra azione) come la sola via possibile per lo sviluppo civile della società italiana. È su questi presupposti che Sciascia interpreta la ‘sfortuna’, altrimenti inspiegabile, di un’opera straordinaria come la Colonna. Un insuccesso, osserva Sciascia alla conclusione del suo saggio (che qui riportiamo) perfettamente previsto da Manzoni (che infatti indugiò a lungo prima di pubblicare l’operetta: solo nel 1840, in appendice all’edizione definitiva dei Promessi sposi):
Rispondendo a Francesco Saverio del Carretto,[1] che gli aveva scritto di essersi prenotato per più copie della Colonna infame e che l’aspettava desideroso, Manzoni diceva: «qualche giornale, seguendo non so quale falso rumore,[2] ne ha parlato come di lavoro di lungo studio, e di qualche importanza; ma in fatto è pochissima cosa per ogni verso, e certamente il pubblico, alla lettura, anzi alla semplice vista di esso, farà scontar questo vanto anticipato dall’autore». Sapeva benissimo che la Storia non era pochissima cosa che per un solo verso: quello della mole; ma non giocava la sola modestia nella previsione dell’insuccesso. Conosceva benissimo gli italiani (…).
Da L. Sciascia, Opere, Milano, Bompiani, 1990, vol. II, p. 1078
Cruciverba contiene un altro importante saggio manzoniano, Goethe e Manzoni, che prende spunto dal giudizio critico che dei Promessi sposi diede il grande scrittore tedesco (1749-1842), che lesse il romanzo italiano poco dopo la sua uscita, nell’estate del 1827.
Leggiamo le pagine conclusive del saggio, nelle quali Sciascia rievoca il suo personale rapporto con il capolavoro manzoniano, ma soprattutto polemizza con due interpretazioni opposte, ma secondo lui egualmente inaccettabili del romanzo: da una parte il Manzoni della ‘provvidenza’ (in ultima istanza, ottimistico) di una consolidata tradizione scolastica; dall’altra il Manzoni di Moravia, che vedeva nello scrittore milanese la perfetta incarnazione del tradizionale cattolicesimo italiano, asservito al potere ed estraneo a una vera istanza di giustizia sociale. A queste interpretazioni Sciascia contrappone un Manzoni che si staglia come voce radicalmente critica, capace di incalzare le coscienze attraverso un pensiero morale rigoroso e inquieto.
A vero protagonista del romanzo, secondo lo scrittore siciliano, assurge perciò Don Abbondio, con il suo egoismo tetragono, capace di sottrarsi con intoccabile serenità a ogni rimorso della coscienza, a ogni sollecitazione morale orientata al bene pubblico e al dovere verso la collettività. Nei Promessi sposi Sciascia coglie così lo sguardo impietoso sui vizi antichi della nazione e sul suo ‘carattere’ profondo: una lettura in cui lo scrittore milanese e quello siciliano sembrano sovrapporsi e scambiarsi i ruoli, nella mai pacificata condizione di chi ha voluto fare della letteratura lo strumento scomodo di denuncia delle ingiustizie del mondo.
Link_6_I Promessi sposi di Sciascia
15 febbraio 2022
[1] (1777-1861) uomo politico, fu ministro di polizia del Regno di Napoli.
[2] ‘indiscrezione’, ‘pettegolezzo’.