Carlo Varotti - Tra Legge e Letteratura: La verità del testimone oculare

 

Molto (e giustamente) a scuola si parla di interdisciplinarità e delle risorse euristiche che essa offre, attivando collegamenti, fornendo stimoli interpretativi, abituando a cogliere i nessi tra le cose e a favorire un percorso dello sguardo che attraversi la profondità dei fenomeni, cogliendo sotto la loro superficie elementi strutturali comuni.

È essenzialmente sulla base di questo scopo formativo - dove il concetto chiave non è ‘collegamento’ o ‘nesso’, ma appunto ‘profondità dello sguardo’ – che un approccio interdisciplinare può giocare un ruolo importante, che aiuti a sottrarre la pratica scolastica dalla prevalenza dello sguardo ‘orizzontale’ che è la modalità dominante della percezione contemporanea del mondo: un insieme simultaneo di stimoli in cui tutto sta assieme a tutto, per puro accostamento.

Capita spesso che in nome della interdisciplinarità si sia portati ad accostare ciò che è semplicemente inutile accostare, di fatto rientrando nel circolo vizioso di un’esperienza estetica e conoscitiva che risulta fine a se stessa: una pura fruizione di oggetti (immagini; parole; concetti) che non fanno che riprodurre le modalità percettive della simultaneità, appiattendo l’attenzione sulla materialità delle somiglianze esteriori, rinunciando a quella profondità che dovrebbe essere alla base di quello sguardo critico sul mondo.

Sarebbe inutile (e probabilmente controproducente) proporre un progetto in cui l’insegnante di Italiano, leggendo la Ginestra, chieda al collega di scienza di parlare dei vulcani (è un caso che si racconta – anche se, con ogni probabilità – è puramente leggendario…). Il senso della interdisciplinarità si dà, evidentemente, nel momento in cui l’utilizzo di problematiche, tecniche e forme peculiari di una disciplina, produce meccanismi reali di interazione con un altro campo del sapere, creando consapevolezza, spunti critici, presa di contatto con il funzionamento di ‘grammatiche’, codici e interpretazioni.

 

Proponiamo un percorso di letture in cui sono coinvolte tre discipline:

 

a) L’analisi del testo narrativo (diciamo ‘narrativo’, non ‘letterario’, perché prenderemo in esame sia testi finzionali che testi non finzionali).

b) Il Diritto

c) La Psicologia e le Neuroscienze.

 

Il nesso tra queste discipline ha alle spalle una consolidata tradizione di studi, che nei paesi anglosassoni risale ai primi decenni del secolo scorso, ma è dagli anni Settanta/Ottanta del Novecento che nelle scuole di Diritto americane è entrato in modo significativo lo studio della letteratura narrativa; sentita non banalmente come strumento di formazione retorico-linguistica, ma come medium fondamentale per un giudice o un avvocato, che possono accedere ai fatti penalmente rilevanti solo attraverso la ‘narrazione’ che di essi fa un testimone (o l’accusato e l’accusatore). Nel 1973 uscì Legal imagination di James Boyde White (purtroppo mai tradotto in italiano), che ha segnato una svolta, con la nascita di un vero e proprio campo specifico di indagine (denominato Law and Literature) entrato a tutti gli effetti (con cattedre e ricercatori) nelle università di Diritto anglosassoni.

Al centro dell’interesse degli studiosi di Law and Literature non c’è tanto lo studio (un campo vastissimo, a partire dalla tragedia ateniese del V secolo a. C.) di come la letteratura ha trattato temi legati al diritto e alla sua pratica (storie di processi e delitti; rappresentazioni di personaggi come: avvocati, giudici, giurati ecc.), quanto lo studio di come i metodi dell’analisi del testo letterario possono risultare utili strumenti per l’interpretazione di testimonianze e la costruzione di norme e sentenze.

Del nesso tra Diritto e Letteratura si è occupato, alcuni anni fa, Remo Ceserani (1933-2016) in Convergenze (Bruno Mondadori, Milano, 2010): un libro che tratta dei nessi tra Letteratura e varie discipline (comprese Matematica, Fisica e Biologia). Ma già nel 1997/98 Ceserani aveva dedicato un corso di studio (insegnava Letteratura comparate all’Università di Bologna) al rapporto tra Diritto e Letteratura, e aveva organizzato a Bologna un seminario in cui intervenne uno dei maggiori psicologi del XX secolo, Jerome Bruner (1915-2016). Da quell’occasione nacque il libro di Bruner La fabbrica delle storie (Laterza, Bari-Roma, 2001), nel quale il nesso tra rappresentazione letteraria e narrazione giudiziaria è considerato non tanto alla luce degli aspetti retorici del discorso, ma soprattutto in relazione al peso che le diverse articolazioni narrative (letterarie e giudiziarie) esercitano sul piano emotivo e psicologico, influendo sugli esiti dei dibattimenti giudiziari.

 

È sullo sfondo di questo nodo di problemi, di metodi e questioni che proponiamo il nostro percorso, che prende le mosse da uno dei primi romanzi di Zola (Thérese Raquin – 1867) e si conclude con il Manzoni della Storia della colonna infame. Scegliendo un aspetto particolare del nesso tra forme della narrazione e Diritto: la testimonianza oculare e la sua interpretazione.

 

Scopo del percorso di letture che qui si propone è quello di utilizzare questioni e temi di cui gli allievi hanno in genere una consolidata fruizione, giacché la narrativa di indagini e inchieste giudiziarie riempie lo spazio mediatico, tra cronaca, cinema e serie televisive. Ma nel contempo esso propone un approccio problematizzante – non solo sul piano dell’extraletterario e della realtà sociale (cos’è una verità giudiziaria; quali sono i suoi limiti?)  – ma capace di attivare interpretazioni che comportano consapevolezza sulle dinamiche di funzionamento dei meccanismi percettivi, della traduzione dello sguardo in linguaggio verbale, delle interferenze (ideologiche ed emotive) che intervengono nella ricostruzione narrativa di un’esperienza percettiva.

 

Schema del percorso

 

E. Zola, Thérese Raquin – L’omicidio del marito di Camille, marito di Thérese.

Cesare Musatti, Elementi di psicologia della testimonianza (1931 e 1989) – Resoconto di un esempio di psicologia sperimentale.

A. Manzoni, La storia della colonna infame (1840) – L’incipit del libro.

 

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L’incrocio tra letteratura e mondo giudiziario costituisce da decenni un consolidato terreno di studio.

Non pensiamo solamente al dato - di per sé macroscopico, ma ovvio - che delitti, omicidi e malavita hanno fornito (soprattutto a partire dal XIX secolo) e continuano a fornire un infinito materiale narrativo alla letteratura e alle più varie forme della narratività contemporanea (dal cinema alle serie televisive); ma ci riferiamo soprattutto al fatto che il mondo del Diritto (avvocati; giudici e filosofi del diritto) hanno da tempo compreso (come si è ricordato sopra) che gli strumenti della critica letteraria possono fornire un importante supporto all’analisi delle narrazioni che hanno rilevanza giudiziaria: e cioè le testimonianze e le confessioni.

Capire come realmente si sia svolto un ‘fatto’ di cui si dibatte in un processo (un omicidio; una rapina; un’aggressione ecc.) non solo è sempre difficile, ma spesso impossibile. Per questo si sente abitualmente parlare di ‘verità processuale’; non intendendo con ciò che la ricerca della verità sia una pia illusione (e tanto varrebbe giocarsi le sentenze ai dadi, come faceva il giudice Brigliadoca di Rabelais [1490 ca-1553]), ma per avvertire che un processo aspira a un avvicinamento alla verità che non può che essere il frutto di una ipotesi ermeneutica tra le diverse versioni narrative con cui giudice e giurati devono misurarsi.

Il ‘fatto’ esiste, naturalmente, ed è costituito da azioni precise che si sono svolte in un luogo determinato, con tempi esatti e coinvolgendo gli stati emotivi dei soggetti che vi hanno partecipato. Ma come non possiamo mai sapere con certezza cosa stia passando nella mente di un individuo (fosse pure il nostro amico o parente più stretto), così una ricostruzione oggettiva, piena e sicura di quanto è successo non potrà mai essere raggiunta. Del ‘fatto’ giudici e giurati sentiranno diverse versioni: quella dell’accusatore (o del Pubblico ministero), quella dell’imputato (e dell’avvocato della difesa); i racconti dei diversi testimoni portati dalla difesa e dall’accusa. Ognuno fornirà narrazioni parzialmente diverse, e il giudizio non potrà che essere l’esito di una interpretazione mediata tra versioni contrastanti.

Il ‘fatto’ esiste dunque, per usare un paragone filosofico, come esiste il ‘noumeno’ di Kant: il termine con cui il grande filosofo indicava la realtà in sé, che non è conoscibile, perché l’uomo può conoscere solo i ‘fenomeni’, cioè quanto della realtà ci arriva attraverso la mediazione dei sensi. Così, noi possiamo solamente accedere a un ‘fatto’ solo attraverso le mediazione di una narrazione, o meglio delle diverse versioni che di un ‘fatto’ vengono narrate.

Ma in quale misura un testimone è attendibile? Ovviamente non possiamo tenere conto della testimonianza di chi ha un interesse concreto a far prevalere una versione piuttosto che un'altra (sarebbe come chiedere a un macellaio se le sue bistecche sono buone: di sicuro non vi manderà dal suo concorrente, due strade più in là, perché le ha più tenere…).

Ma cosa ci può dire un testimone che non ha alcun interesse a mentire; uno che magari si trovava lì per caso, che non conosceva né la vittima né l’accusato? Tutti del resto consideriamo il testimone oculare come il più attendibile (come mettere in dubbio quello che egli ha visto?).

Ma che cosa ha ‘visto’ un testimone oculare? E che cosa ricorda di quello che ha visto (se è trascorso del tempo)? E, nel momento stesso in cui assiste al ‘fatto’, come lo interpreta? E, in ogni modo, il testimone deve tradurre ciò che ha visto in parole e in concetti verbali; deve insomma compiere un’operazione di transcodifica (il passaggio da un codice a un altro, come il passare dalle immagini visive alle parole di un racconto) che sarà influenzata da tanti fattori (la sua cultura; lo status psicologico al momento del fatto o nel momento in cui deposita la sua testimonianza).

Ma soprattutto: cosa vediamo quando vediamo qualcosa? Di fronte a un evento siamo necessariamente portati a ricondurlo alle nostre esperienze e alla nostra soggettiva visione delle cose. Assistendo a un evento costruiamo immediatamente delle attese. Ma tali attese non solo influenzeranno l’interpretazione di ciò che vediamo (questo è ovvio), ma ci faranno vedere alcune cose (che si fisseranno nella nostra memoria) e non ce ne faranno vedere altre.

Capiamo allora come interpretare una testimonianza sia spesso un’operazione non lontana da quella che compie un critico letterario quando deve analizzare un testo. Così come in un testo letterario ci soffermiamo sulle sfumature e sui valori connotativi delle parole, sulle immagini usate dallo scrittore; sui meccanismi intertestuali (allusioni e richiami significativi a topoi, situazioni o personaggi della tradizione antica o recente), così le parole di una testimonianza chiedono di essere interrogate, messe a nudo, anatomizzate.

Che senso bisogna dare alle sfumature delle parole che un testimone usa? In quale misura egli sta ‘traducendo’ ciò che ha visto in un codice linguistico o in una rete di immagini che gli è familiare? In che misura egli, invece, ‘sta vedendo’ quello che è già nella sua mente: frutto di una ossessione, o banalmente derivato da un’associazione mentale (con un evento da lui vissuto; con un film visto; con voci e pettegolezzi).

 

Non è casuale che la letteratura si sia mostrata spesso sensibile a questi temi, arrivando ad intuire – in anticipo su giuristi e tecnici del diritto - problemi rilevanti e punti nevralgici legati alla concreta pratica forense.

 

Testo 1

 

Una perfetta buona fede: i testimoni oculari di un delitto.

(da Emile Zola, Thérese Raquin)

 

 

Del nesso tra letteratura e cronaca giudiziaria abbiamo esempi importanti in Europa già nel XVIII secolo, quando cominciano ad essere stampate (con tirature importanti) resoconti e relazioni di processi celebri.

Ma è soprattutto nell’Ottocento che il fenomeno diventa centrale anche per la storia letteraria. Non solo nascono riviste specializzate (come la “Gazette des Tribunaux” – un giornale tutto dedicato a resoconti giudiziari, che uscì dal 1825), ma gli scrittori cominciano a trarre ispirazione per i loro romanzi dai faits divers (cioè dalla ‘cronaca’ – ma più precisamente dalla cronaca nera). È il caso de Il rosso e il nero (1830) il capolavoro di Stendhal (1783-1842), che trasse spunto da un processo, celebrato in una cittadina di provincia, per l’omicidio della ex amante da parte di un giovane.

L’attenzione per i fatti di cronaca nera e per le condizioni sociali e psicologiche anche di estremo disagio e di emarginazione, fu caratteristica peculiare dei romanzieri della scuola naturalistica francese.

Ed è appunto con un esempio tratto dal caposcuola del Naturalismo francese che prendiamo le mosse.

 

Emile Zola (1840-1902) pubblica Thérese Raquin nel 1867. È il suo primo romanzo ascrivibile alla poetica naturalistica, e all’idea di matrice scientista (che lo scrittore determinerà con più precisa coscienza critica negli anni seguenti) di una letteratura che aspiri a essere una sorta di esperimento di laboratorio: narrare personaggi e avvenimenti che consentano di ricavare una fenomenologia dei comportamenti individuali e sociali, tra psicologia e sociologia.

Romanzo dalle tinte forti – come in genere è la narrativa di Zola, che esplora spesso le aree dell’esclusione sociale o le forme marginali della malattia, fisica o psicologica – Thérese Raquin racconta la storia di una ragazza (Thérese) cresciuta nella squallida merceria della zia, che la induce a sposare il proprio figlio Camille. Camille è una figura scialba e squallida, privo di ogni attrattiva. Thérese, presto insoddisfatta del matrimonio, diventerà l’amante di un amico del marito, Laurent, un pittore spiantato e di nessun talento, ma uomo fisicamente aitante e avvenente. I due amanti decidono di liberarsi dell’incomodo marito. Così una domenica di tarda estate – durante una gita in barca sulla Senna – Laurent annega l’amico e rivale Camille.

Il delitto, che la giustizia cataloga come incidente, non viene punito; ma non porterà ai due amanti l’agognata felicità. Il rimorso si trasformerà presto in un odio feroce, che porterà i due amanti alla morte.

Non è tuttavia la storia clinico-psicologica dei due amanti assassini che ci interessa, ma la pura dinamica dell’omicidio. Quando la barchetta a remi che i tre – moglie, marito e amante – hanno preso a nolo per una gita sulla Senna, si trova abbastanza lontano dalle sponde del fiume, Laurent butta in acqua il povero Camille,  e poi rovescia la barca, per fingere un incidente. Pochi minuti dopo spunterà da dietro un’isola una barca di canottieri, che vedono Laurent aiutare Thérese, mentre non c’è più traccia di Camille, ormai annegato.  Nessuno dei canottieri ha assistito alla scena, se non alla sua parte finale: e tuttavia molti di essi sono pronti a testimoniare di avere assistito a un incidente e di averne ben presente la dinamica.

Proponiamo l’incipit del cap. 11 (siamo circa a un terzo del romanzo, che consta di 32 capitoli), dove la natura del rapporto che lega i due sposi, Thérese e Camille, è ritratta con poche, nette pennellate. Camille è un uomo scialbo e ridicolo, uno sciocco che fa commenti insulsi, inelegante e rigido nell’abito festivo che sfoggia nelle passeggiate domenicali nei Champs-Elysées, (il viale parigino dei negozi di lusso e dei Caffè alla moda), tanto che la moglie si vergogna di lui.

Più raramente i due sposi trascorrono la domenica in campagna, nelle località lungo le rive della Senna. Ed è appunto durante una di queste gite, ormai a fine estate, che a Thérese e Camille si aggiunge Laurent – l’amico di Camille, da tempo divenuto amante di Thérese.

 

Link_1 – Zola_Le domeniche di Thérese e Camille

 

Il luogo in cui si consumerà il delitto è Saint-Ouen: comune attualmente compreso nell’area urbana parigina, ma all’epoca era una località amena, vicinissima alla città (in direzione Nord-Ovest, lungo il corso della Senna), ma già in campagna.

I tre fanno una camminata in un bosco e si fermano a riposare in una radura. Laurent, pazzo di desiderio, perché è divenuto per lui sempre più difficile organizzare incontri d’amore con Thérese, si trattiene a stento dall’uccidere Camille, che si è addormentato sull’erba. Il proposito omicida è però solo rimandato di qualche ora. I tre raggiungono un ristorante sulla riva del fiume. Laurent – in attesa che la cena sia pronta – propone di noleggiare una barca e fare una gita sul fiume…

 

Link_2_Zola_L’omicidio

 

Il delitto si consuma su uno scenario crepuscolare: quello di una sera tra la fine dell’estate e l’inizio dell’autunno, in un’ora in cui i colori si smorzano, e richiamano simbolicamente la morte squallida e ingloriosa che sta aspettando il povero Camille. Dominano colori pallidi e freddi («Sia l’acqua che il cielo parevano ritagliati dalla stessa stoffa bianca e smorta»; i raggi del sole «impallidiscono»), che alludono esplicitamente alla «morte» della natura, nell’incombere dell’autunno; e al sapore della morte allude naturalmente anche l’immagine dei «sudari» che si apprestano a coprire di ombra l’acqua del fiume e le sue rive boscose.

È insomma su questo sfondo cupo e funesto che si consuma il delitto, reso particolarmente sordido da una premeditazione che contempla il tradimento dell’amicizia (Camille vede in Laurent il proprio migliore amico, tanto che scambia inizialmente per un gioco il suo furore omicida), ed è attivato da una violenza tutta animale, innescata dal puro desiderio sessuale e dalla foga del suo appagamento. Non stupisce se presto la relazione tra i due amanti si incrinerà: e il reciproco desiderio diventerà un odio feroce, patologico e autodistruttivo.

Ma ciò che ci interessa in questo brano è la dinamica dei fatti immediatamente successivi all’omicidio che – agli occhi della legge – sarà subito derubricato come un disgraziato incidente.

Laurent aspetta che nessuno da riva possa vedere cosa succede sulla barca in cui si trovano lui, Camille e Thérese. Laurent sente però le voci di alcuni canottieri che stanno vogando sul fiume, ma al di là della stretta isola, posta al centro della Senna, di fronte a Saint-Ouen. Quando la barca dei canottieri comparirà, dietro la punta dell’isola, i canottieri vedono una barca rovesciata, un uomo che cerca di salvare una donna e nient’altro. Nient’altro possono vedere (non certo Camille, già sott’acqua, annegato). Ma soprattutto nulla possono sapere di cosa abbia fatto rovesciare la barca. Eppure molti di loro sono pronti a testimoniare che si è trattato di un incidente; e a descrivere una dinamica che non possono avere visto (qualche ora dopo – come si legge nel capitolo successivo - di fronte al poliziotto chiamato a redigere un verbale dell’incidente, quasi tutti i canottieri saranno pronti a descrivere con dovizia di particolari la dinamica dell’incidente).

 

La parola dei testimoni

 

Il diritto assegna un’importanza capitale al testimone oculare. Una volta stabilito che egli non ha alcun interesse specifico a mentire (non è coinvolto nella vicenda; non ricava alcun danno o vantaggio dallo scagionare o incolpare qualcuno), la parola del testimone ha un valore assoluto. È quello che succede con la morte di Camille. Non verrà neppure aperta un’inchiesta, data l’’evidenza’ del carattere incidentale dell’episodio: una semplice disgrazia, attestata dalle convinte parole di testimoni, che però non hanno visto nulla, che non possono avere visto nulla: se non una barca già rovesciata e un uomo che cerca di salvare una donna.[CV1] 

Ma i canottieri non stanno mentendo. Non hanno interesse a farlo. Sono in perfetta buona fede, nel ritenere di ‘avere visto’ che la barca si è rovesciata.

Hanno però ricostruito mentalmente una scena che non hanno visto; ma che nella loro mente ha assunto la vividezza di ciò che si è realmente svolto sotto i propri occhi: al punto di poterlo raccontare – se occorresse – nell’aula di un tribunale.

Ma che cosa ha fatto sì che una scena mai avvenuta si sia trasformata, nella loro mente, in una scena ‘materialmente vista’? Fondamentalmente due ragioni.

1) La prima ha una matrice psicologica: riguarda alcuni meccanismi con i quali noi percepiamo la realtà e la riorganizziamo dandole una struttura narrativa coerente. Sono questioni, come vedremo, che riguardano dinamiche che la psicologia studia da tempo, e che soprattutto riguardano un ramo specifico della psicologia, molto vicino ai problemi del Diritto e della Giustizia: la Psicologia della testimonianza.

I canottieri hanno applicato alla realtà, inconsapevolmente, un dato probabilistico. Una barca che si rovescia è un fatto comune e frequente. Meno frequente è un omicidio. Essi hanno così interpretato la scena alla luce di esperienze precedenti: hanno di certo visto tante volte barche rovesciarsi, cosicché in quel caso – vedendone una – hanno inerzialmente inserito l’evento in una categoria nota e sperimentata: e infatti alcuni di loro osservano che «una barca non ha la solidità di un pavimento...», a sottolineare che una barca si rovescia facilmente, e che quando si va in barca occorre perciò usare cautela.

In altri termini hanno applicato alla scena ‘vista’ un criterio di razionalizzazione e di riordino della realtà che li ha portati a ’riempire’ i vuoti percettivi: si sono cioè convinti di aver visto ciò che in realtà non hanno visto, ma che è in grado di dare una spiegazione plausibile, razionale ed esauriente alla scena ‘incompleta’ cui hanno assistito.

2) Il secondo punto non riguarda dinamiche psicologiche automatiche: ma chiama anch’esso in causa, per così dire, una ‘narrazione’ (e una ‘messa in scena’). I canottieri sono stati convinti dal racconto che Laurent ha fatto dell’incidente, sia perché esso non confligge con le loro attese (come abbiamo visto nel punto 1), sia perché Laurent ha saputo inscenare abilmente lo stato d’animo della disperazione. È stato in altri termini, un attore convincente, facendo falsi tentativi di cercare l’amico («si tuffò ancora, si mise a cercare Camille in tutti i punti in cui non poteva trovarsi») e mostrando un dolore inconsolabile («ritornò piangendo, torcendosi le mani e strappandosi i capelli»; «‘È colpa mia’, gridava»).

L’efficacia della finzione del dolore messa in scena dall’assassino, si incontra dunque, confermandola, con la ricostruzione dell’incidente operata mentalmente dai canottieri. In questo modo un dato solamente ipotetico (un rovesciamento incidentale e fortuito, non doloso, della barca) si incontra con la bugia dell’assassino (che finge un dolore che, ovviamente, non prova): corroborandosi a vicenda, fino a produrre nei testimoni la convinzione definitiva di avere visto ciò che in realtà non hanno visto.

 

========  Scheda   =========================================================

 

La Senna degli impressionisti.

Per entrare nell’ambientazione della scena può essere utile richiamare alcuni quadri degli impressionisti francesi, di cui Zola fu uno dei primi estimatori. Si veda la Foto 1 (Claude Monet, La Senna a Bennecourt) e un celebre quadro di Pierre Auguste Renoir (La colazione dei canottieri - Foto 2), che richiama l’atmosfera delle gite domenicali lungo la Senna, che fa da sfondo al delitto raccontato da Zola.

Poco più che ventenne, scrivendo come critico d’arte su alcuni giornali, Zola aveva polemizzato contro la critica accademica, celebrando la nuova pittura di Édouard Manet (di cui fu amico – e che ritrasse il giovane Zola in un famoso quadro Foto 3), di Claude Monet e di Paul Cezanne (che fu compagno di classe di Zola al Liceo di Aix-en-Provence: Cezanne vi era nato; Zola vi trascorse l’infanzia e l’adolescenza, perché vi si era trasferito per lavoro il padre, ingegnere idraulico).

 

Foto 1  - Le rive della Senna a Bennecourt di Monet

Foto 2 – Renoir, La colazione dei canottieri.

Foto 3 - Ritratto di Zola di Manet

 

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Parte IIa – Cesare Musatti e la psicologia della testimonianza

(uno storico esperimento)

 

Esiste una specifica disciplina – come si è detto - la Psicologia della testimonianza, che studia con gli strumenti della scienza i meccanismi complessi che possono intervenire nel confondere percezione e memoria di un testimone oculare.

Nel pensare comune una testimonianza oculare è qualcosa di ovvio ed oggettivo: Tizio ha assistito alla scena di un delitto, quindi – una volta appurato che non ci siano ragioni che lo spingano a mentire (perché interessato a farlo, o perché minacciato da qualcuno) – è sufficiente farsi raccontare cosa è accaduto, e la verità è immediatamente stabilita.

In realtà la Psicologia della testimonianza, fin dai suoi inizi (nei primi decenni del XX secolo) ha dimostrato sul piano sperimentale che la memoria è un meccanismo estremamente fallace. Spesso il testimone oculare non racconta affatto quello che è successo, non perché sia un bugiardo, ma perché è effettivamente convinto che le cose siano andate in un certo modo. Egli può aver frainteso in perfetta buona fede quello che ha visto (interpretandolo sulla base delle sue attese o di sue esperienze precedenti) o, più spesso, la sua memoria gli restituisce una scena che è stata da lui mentalmente ricostruita in modo inconsapevole, fissandosi nel suo ricordo, tanto che egli diviene sicuro di avere effettivamente visto (come se l’avesse ‘fotografato’) ciò che invece ha solo immaginato.

E’ quello che capita a tutti noi con molti ricordi della nostra prima infanzia. A volte siamo certi di avere vissuto un certo momento, siamo certi di ricordarlo, lo ‘vediamo’ mentalmente; e invece abbiamo solo immaginato una scena che ci è stata raccontata, e che la nostra mente gradualmente ha inglobato tra i ricordi. Il racconto fatto da altri, senza che ce ne rendiamo conto, è diventato, e ne siamo convinti, una esperienza che riteniamo effettivamente vissuta. È un meccanismo fallace, naturalmente, che svolge però un ruolo fondamentale per il nostro equilibrio mentale: è infatti attraverso questa successione di ricordi, con la quale noi raccontiamo la storia della nostra vita come qualcosa di coerente, che costruiamo la nostra identità.

E’ proprio in questi ambiti che è più evidente il nesso che lega l’arte e la tecnica della narrazione con la realtà giuridica e l’esperienza concreta dei processi. In sede processuale un giudice (o una giuria) devono decidere sulla verità di un evento districandosi tra versioni diverse. Si trovano in un certo senso a compiere un’operazione non molto diversa da quella che fa un critico letterario quando analizza un racconto e cerca di interpretarne la complessità dei significati: i piani temporali, i nessi tra fatti e intrecci, le aporie del racconto, le ambiguità delle parole, il sommerso del non detto o del rimosso.

 

Riportiamo l’esempio di un esperimento condotto da Cesare Musatti (1897-1989), il grande psicologo considerato il padre della psicanalisi in Italia (fondò nel 1925 la Società psicanalitica italiana). Egli descrisse l’esperimento e i suoi risultati in un suo importante saggio del 1931 (Elementi di psicologia della testimonianza)[1]. Come direttore (dal 1928) del Laboratorio di psicologia sperimentale dell’Università di Padova, Musatti si trovò a collaborare con i giuristi di quella Università, e cercò di studiare i meccanismi che possono disturbare la percezione di un evento e il suo ricordo. Musatti verificò sperimentalmente come nelle testimonianze oculari l’errore inconsapevole non è un incidente raro, ma è piuttosto la norma. La scena che un testimone ‘vede’ e racconta non è infatti una fotografia neutra che si imprime nella memoria, ma un processo dinamico, che chiama in causa l’intera attività psichica del soggetto, che percepisce, e ricorda, qualcosa in cui entrano in gioco le proprie stesse emozioni e, soprattutto, le proprie strategie cognitive (i meccanismi inconsapevoli che ognuno adotta per individuare il senso di ciò che vede, per interpretarlo e catalogarlo).

 

L’occasione: il caso dello smemorato di Collegno.

Il saggio di Cesare Musatti fu originato da un caso giudiziario molto famoso, che in quegli anni aveva diviso il paese, appassionando i lettori di giornali e settimanali: il caso dello ‘smemorato di Collegno’. Un uomo era stato arrestato a Torino nel marzo del 1926, mentre rubava oggetti in un cimitero. L’uomo però non aveva documenti e diceva di non ricordare neppure il proprio nome. Un giornalista si interessò al fatto e pubblicò una foto dell’uomo sulla “Domenica del Corriere” (come si fa oggi con trasmissioni come Chi l’ha visto?). Pochi giorni dopo una donna padovana, Giulia Canella, riconobbe nella fotografia il marito, professore e direttore della «Rivista di filosofia Neo-scolastica», Giulio Canella (nato nel 1882), che risultava disperso in guerra dal 1916. Dopo qualche settimana tuttavia anche una donna di Torino riconobbe nell’uomo il proprio marito, Mario Bruneri (nato nel 1886), un ex tipografo già condannato per alcuni reati contro il patrimonio.

Chi era dunque l’uomo: Canella, il benestante e rispettabile filosofo padovano, o il pregiudicato Bruneri? Poiché ambedue le donne sostenevano che quello era il marito, si andò a processo, e solo nel 1931, dopo due sentenze di appello, la Corte di Cassazione stabilì definitivamente che l’uomo era Brunori (che fu perciò incarcerato come impostore). Tuttavia Giulia Canella continuò sempre a sostenere che quell’uomo era suo marito; e lo stesso ‘smemorato’ affermava, sulla base dei vaghi ricordi che affermava essergli affiorati nel corso del tempo, di essere il professor Canella. Sta di fatto che l’uomo, uscito dal carcere per un’amnistia nel 1933, lasciò l’Italia e andò a vivere in Brasile assieme a Giulia Canella (dalla quale ebbe tre figli). Lì morirà nel 1941.

Il caso non solo appassionò l’opinione pubblica, ma pose anche problemi e dubbi che interessavano la psicologia. Come era possibile che i membri della famiglia Canella, non solo la moglie ma anche gli altri parenti stretti o vecchi amici, posti di fronte all’uomo rimanessero inizialmente incerti sulla sua identità, arrivando però alla fine a convincersi che quello era effettivamente il professor Giulio Canella e non un impostore? Quali meccanismi mentali erano intervenuti nel ‘sistema’ della loro memoria, facendo sì che i loro ricordi li portassero a identificare in quell’uomo, senza ombra di dubbio, il marito, il fratello o l’amico intimo, perduto alcuni anni prima?

Fu così che un giurista dell’Università di Padova, il professor Francesco Carnelutti, che era stato incaricato come avvocato difensore dalla famiglia Canella, si rivolse al giovane collega Cesare Musatti, chiedendogli di approfondire il problema sul piano dell’indagine psicologica sperimentale.

 

L’esperimento di Musatti

 

Nel capitolo 4° del suo saggio Cesare Musatti descrive un esperimento fatto utilizzando lo strumento cinematografico. Musatti fece girare un filmato - con l’utilizzo di attori e con una telecamera lasciata in posizione fissa – che conteneva una scena quotidiana molto semplice, in cui si verificava però un evento penalmente rilevante: un alterco tra tre persone e un uomo colpito da un pugno che rimaneva a terra.

La brevissima sequenza (40 secondi di filmato) venne mostrata senza alcuna indicazione introduttiva a 36 persone, alle quali fu poi chiesto di riferire quanto avevano visto.

Riportiamo alcune successioni di fotogrammi del filmato. Nella prima serie di vede una ragazza che cammina verso destra e incrocia una coppia di uomini. Nella seconda e nella terza serie si vedono momenti diversi dell’alterco.

 

Link_ 3_Musatti_alcuni fotogrammi

 

L’episodio venne scomposto da Musatti in elementi narrativi minimi, in una successione analitica accuratissima di 93 movimenti, situazioni, oggetti o persone: creò, di fatto, una sceneggiatura rallentata. La sequenza narrativa/descrittiva molto particolareggiata servì allo studioso per confrontare successivamente i resoconti dei ‘testimoni’, e quantificare con precisione la diverse percentuali di esattezza e di errore.

Riportiamo una selezione di poco più di 50 dei 93 elementi discreti in cui lo sperimentatore divise la scena. Li riportiamo nella forma usata da Musatti per descrivere gesti e oggetti, e lasciando a ogni elemento riportato la numerazione data originariamente dallo sperimentatore.

 

LINK_ 4_ Musatti_Componenti minime della sequenza

 

Raccolte le 36 deposizioni dei testimoni (gli spettatori stessi dello spezzone di film), Musatti conteggiò in una tabella gli elementi esatti e quelli errati – distinguendoli nelle diverse tipologie di errore (ad esempio errori relativi alla posizione spaziale di personaggi e cose; errori nella successione degli eventi; scambi di persona; interpretazioni esplicite che risultano sbagliate o del tutto arbitrarie ecc.).

L’esito complessivo dell’esperimento fu:

1)  la grande diversità delle deposizioni. Sembrava incredibile che quelle persone (che pure avevano seguito la scena in condizioni ottimali e sapendo che stavano per assistere a qualcosa) avessero visto la stessa scena.

2) Una estrema povertà e imprecisione dei particolari colti dai testimoni. A parte pochissime testimonianze abbastanza accurate e precise (ma nessuna esente da fraintendimenti), la maggior parte di esse stravolge completamente l’ordine e la natura dei fatti.

Riproduciamo tre di queste testimonianze (in corsivo gli errori compiuti dai testimoni)

 

Link_5_Testimonianze sulla scena vista

 

1) La prima colpisce per l’estrema povertà dei particolari colti e memorizzati dal soggetto. La dinamica dei movimenti è ridotta. Molte delle azioni importanti (come la presenza di una lettera che innesca l’alterco) non vengono neppure colte.

 

2) La seconda testimonianza è anch’essa molto povera di particolari; e quei pochi contengono elementi sbagliati o apertamente arbitrari e incoerenti. Il testimone vede un furto compiuto («con mossa abile») dalla ragazza elegante che compare all’inizio della scena; ma del furto viene ingiustamente accusato l’uomo che viene atterrato. Non solo mancano particolari importanti, come la presenza della lettera, ma il testimone ‘ha visto’ oggetti inesistenti: come un portafoglio rubato di cui non c’è traccia nel filmato.

 

3) La terza testimonianza è piuttosto dettagliata, ma è piena di errori e fraintendimenti, che portano il testimone a imbastire un’interpretazione non solo di quanto è avvenuto, ma anche dell’antefatto. Come nella testimonianza numero 2 anche in questo caso il testimone coglie una volontà dolosa, attribuendola alla ragazza elegante apparsa per prima sulla scena. Ma colpisce l’assoluta arbitrarietà della sua ricostruzione, che afferma con certezza addirittura l’esistenza di una complicata premeditazione, in cui un intero gruppo di persone, con perfetta sincronia e organizzazione, agisce di concerto.

Il testimone, in questo caso, per complicati e inspiegabili processi associativi (derivati dal suo stato emotivo: forse da una congenita diffidenza, o da specifiche esperienze negative) ricostruisce fatti e eventi che delineano una spiegazione razionale e ordinata della scena (il cui senso non può che essere oscuro). Ne deriva uno sguardo sulla realtà capace di dare ad essa ordine e senso, ma è in ordine puramente immaginato, che non ha alcuna relazione con la natura e la forma dei fenomeni ai quali il soggetto ha assistito.

 

 

Testo conclusivo

 

La perfetta buona fede di Caterina Rosa…

(dalla Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni)

 

Concludiamo il nostro percorso di lettura proponendo una pagina tratta da uno dei libri più grandi (ma meno noti – come polemicamente notava Leonardo Sciascia) della nostra letteratura: ovvero la Storia della colonna infame di Manzoni.

Scrittore di vastissime letture, Manzoni fu uno studioso attento delle discipline strettamente legate alla società civile e ai suoi problemi concreti. Appassionato di Economia politica (una disciplina allora giovane, tra Adam Smith e David Ricardo) fu anche studioso di Diritto (del resto nelle sue vene scorreva il sangue di Cesare Beccaria, uno dei più grandi giuristi dell’Europa moderna): due interessi che bene documentano i suoi legami culturali con il grande Illuminismo milanese del secolo precedente.

Nella Storia della colonna infame, ricostruendo il processo che portò nel 1630 alla condanna a morte degli ‘untori’ accusati di aver diffuso dolosamente la peste a Milano, Manzoni intende dimostrare che i giudici che istruirono il processo ed emisero la sentenza di condanna, operarono contravvenendo in modo grave alle indicazioni della scienza giuridica coeva. Manzoni - esaminando con perizia e competenza i testi dei maggiori giuristi del ‘500 e del ‘600 – dimostra che il ricorso alla tortura per ricavare confessioni, per quanto colpevolmente consentito dalla disumana e incivile pratica giuridica del XVII secolo, era comunque regolato da precise normative; mentre i giudici del processo del 1630 fecero della tortura un uso indiscriminato, abnorme e illecito.

Tragico atto d’accusa delle storture e dei limiti della Giustizia umana, la Storia della colonna infame è anche un testo di straordinaria intelligenza critica e di grande sapienza giuridica. Ed è appunto mettendo a tema un problema fondamentale per il diritto come il vaglio delle testimonianze e la disamina della loro credibilità, che comincia la ricostruzione del ‘caso’ giudiziario.

Nel primo capitolo Manzoni racconta di due donne del popolo (Caterina Rosa e Ottavia Bono) che testimoniano di avere visto, nella loro strada, un ‘untore’ intento a diffondere il contagio (‘ungendo’, appunto, muri e cose, con sostanze infettanti).

Nella Milano devastata dalla peste prende facilmente corpo la leggenda che il contagio non sia causato da ragioni naturali, ma sia l’esito di un complotto, abilmente orchestrato da chi è interessato a seminare il panico in città per ricavarne un qualche vantaggio. Nel caso specifico – essendo Milano e il suo territorio sottoposti al dominio spagnolo - il complotto non può che essere ordito dalla Francia, la potenza nemica della Spagna.

Su questo sfondo, in cui l’ignoranza si mescola con il pregiudizio e con i meccanismi perversi del complotto, le parole delle due donne trovano facilmente credito. Ma sono ascoltate (è questo l’atto di accusa mosso dallo scrittore) non solo dal popolino, ma anche da quei giudici che avrebbero dovuto sottoporle al vaglio della logica e di un pensiero razionale che ne mostrasse l’incoerenza e le assurdità materiali.

 

Link_6_ La Colonna infame

 

Analisi minuta delle fonti e delle testimonianze storiche, il testo della Colonna cita continuamente le esatte parole del documenti (qui in corsivo), sottoponendole a una critica minuta e incalzante.

Gli interventi di condanna dello scrittore sono continui: non solo espressi esplicitamente, nella forma di veri e propri atti d’accusa risentiti, ma anche attraverso minute connotazioni (Caterina Rosa è una «donnicciuola»; si trovava «per disgrazia» alla finestra; il sospetto delle due donne è detto «pazzo»).

L’assurdità del processo mentale che conduce la donna a sospettare che l’uomo sia un untore è bene espresso all’inizio e alla fine del brano riportato. Il primo gesto che colpisce la donna è il fatto che l’uomo aveva in mano una carta, e pareua che scrivesse. La spiegazione più ovvia (la carta viene usata per scrivere…) si affaccia da subito; ma da essa la testimone prende le distanze, introducendo un verbo che indica incertezza (pareva): sottintendendo che non solo non era certo che scrivesse, ma connotando l’atto (innocuo) dello scrivere con i tratti del dolo (non ‘scriveva’; ma ‘pareva che scrivesse’: come se la sua azione non fosse trasparente, ma in qualche modo ingannevole).

Caterina Rosa (colpevolmente seguita dai giudici) attua quello sguardo selettivo della realtà indotto da un’interpretazione pre-determinata. Il dubbio e l’aspettativa di essere di fronte a un untore, fa sì che il gesto comune (scrivere) diventi oscuro e inquietante (qualcosa di sospetto), e porti di conseguenza a vedere nel contenitore per liquidi che l’uomo regge nella sinistra non già, per ovvia associazione, un calamaio (scrittura/calamaio), ma conduca a un’associazione logicamente deviata: il contenitore diventa un vasetto, che richiama imlicitamente unguenti e farmaci: cosicché il termine vasetto non fa che chiudere il cerchio (con la perfetta coerenza di chi vede solo ciò che è già nella sua mente): se l’uomo ha in mano un vasetto non può che essere uno de quelli che, a' giorni passati, andauano ongendo le muraglie, giacché è nei vasetti – non in altri contenitori – che si portano oli e unguenti.

Il meccanismo perverso che porta la testimone Caterina Rosa a predeterminare il carattere delittuoso dell’agire dell’uomo è bene espresso dal particolare del camminava rasente i muri. Anzi, è proprio questo particolare che induce la donna al sospetto («Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case»). Camminare rasente i muri è qualcosa che di per sé, come nota lo scrittore, non necessita di alcuna giustificazione, ma il particolare produce nel ragionamento della donna un conflitto logico evidente, che neppure in questo caso i giudici colgono. Vediamo i passaggi del ragionamento:

a. La testimone è colpita dal fatto che l’uomo cammina rasente i muri: compie cioè un’azione che, per la sua stranezza, la induce al sospetto e a seguire attentamente i movimenti dell’uomo.

b. Quel giorno (nota la testimone stessa) stava piovendo, e dunque tutti camminavano rasente i muri per proteggersi dalla pioggia.

c. L’uomo (interpreta la testimone) cammina rasente i muri perché, camminando tutti in quel modo, sarebbe riescito a ‘ungerli’ (infettarli) meglio.

La testimone non si rende conto che il punto (a) e (b) sono in contraddizione: se piove, e ‘tutti’ camminano rasente i muri per non bagnarsi, allora il sospetto generato dal modo di camminare dell’uomo è del tutto immotivato: l’uomo sta facendo quello che stavano facendo tutti gli altri, quel giorno (e che fanno tutte le persone, quando piove, per non essere bagnate dalla pioggia).

La donna vede una serie di azioni e movimenti nella loro esatta successione, ma il senso logico complessivo dell’azione è stravolto da una spiegazione illogica e contraddittoria, che piega l’interpretazione dei fatti a un giudizio precostituito e predeterminato.

 

 

28 febbraio 2023

 


[1] Il libro, uscito originariamente (1931) per l’editore Cedam di Padova, è stato ripubblicato nel 1989 (Padova, Liviana Editrice). Citiamo dalla seconda edizione.


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