– Duro marchese, allor che de la vita
L’arco piega e il pensiero in su le bianche
Urne de’ padri si raccoglie intorno
A i templi noti, oh duro allor, marchese
5 Malaspina, lasciar la patria! A cui
Rida nel core e ne le forti membra
La giovinezza, è un’avventura, un gioco
De la vita che s’apre a nuovi casi,
Con l’esilio mutar le dolci soglie
10 De la magion de’ padri suoi. Ma io
Non vedrò più da l’Apparita al piano
La mia città fiorente; ahi lasso, e lunghi
Corron due lustri omai che aspetto e piango!
Come serena tra le negre torri
15 S’inalza e quanto già de l’aer piglia
Santa Maria del Fiore! Io la mirava
Da’ lieti colli ove lasciai me stesso,
E tutta a gli occhi s’affacciava l’alma,
Allor che il magno imperador s’assise
20 A Firenze con l’oste. Ed io ’l seguiva,
E rividi la mia villa diserta
Da Carlo di Valese; e i luoghi usati
Io non conobbi più, né me conobbe
La nuova gente. Ora il cortese il giusto
25 Il magnanimo Arrigo è morto; e giace
Tutta con lui de gli esuli la speme. –
Tal parlava Sennuccio, un de gli usciti
Cittadin bianchi di Firenze, in rima
Dicitore leggiadro; e fósco in tanto
30 Battea la ròcca di Mulazzo il nembo,
E la tristezza del morente autunno
Umida e grigia empiea le vaste sale
Di Franceschino Malaspina. Acuta
Guaiva a’ tuoni una levriera, e il capo
35 Arguto distendea, l’occhio vibrando
Dardeggiante e le orecchie erte, a le verdi
Gonne de l’alta marchesana. A lei
D’ambo i lati sedean donne e donzelle,
Fior di beltà, fior di guerresche altiere
40 Ghibelline prosapie. E di rincontro,
Ardendo in mezzo d’odorata selva
Il focolar, tu dritto in piedi tutta
Ergei la testa su i minor baroni,
Caro a gli esuli e a’ vati, o Malaspina.
45 Posava in pugno al cavaliere un bello
Astor maniero, e, quando varia al vento
Saltellante la grandine picchiava
Le vetrate e imbiancava il fuggitivo
Balen le appese a’ muri armi corusche,
50 Ei l’ale dibatteva, il serpentino
Collo snodando, e uno stridor mettea
Rauco di gioia: ardeagli nel grifagno
Occhio l’amor de le apuane cime
Natie, libere: ardea, nobile augello,
55 In tra i folgori a vol tender su’ nembi.
E fiso un paggio lo guatava, a’ piedi
Seduto del signor: fuggìasi anch’esso
In su l’ale de’ venti co ’l desìo
Fuor de la sala, e valicava i monti
60 Da l’insana procella esercitati
E le selve grondanti, e tra ’l tonante
Romor de le lontane acque lo scroscio
Del fiume ei distinguea cui siede a specchio
La capanna di sua madre vassalla.
65 Ma non al paggio né a l’astor, trastullo
De gli ozi suoi, volgeva occhio il barone,
Sì atteso egli pendea da la soave
Loquela di Sennucio, e sì ’l tenea
D’un compagno di lui l’alta sembianza,
70 Di Gualfredo Ubaldini. E, poi che tacque
Sennuccio, il pro’ marchese incominciava:
– Deh come par che il cielo anco s’attristi
E pianga di Toscana in su le soglie,
Quando un poeta si dilunga! O cieca
75 E diserta Firenze, or che ti resta
Altro che frati e bottegai! Le vie
De l’esilio fioriscono d’allori
A’ poeti raminghi, e loro è d’ombre
E di corone larga ogni cittade
80 Ogni castello. Oh, quando abbiavi il dolce
Paese di Provenza e voi ristori
Cortesia di signor beltà di donne,
Non v’incresca, per dio, di questa Italia
Vedova trista, ch’ognor più dimagra
85 E di buoni e di ben. Ma, se spiacente
Il castel di Mulazzo e ’l castellano
A voi non parve, se mercé d’amore
Vinca l’ambascia de la dura via,
Non vorrete, Sennuccio, or consolarne
90 D’un amoroso canto? – E pur tacendo
Il marchese chiedeva: un mormorio
D’assenso di preghiere e d’aspettanza
Levossi intorno. S’inchinò il poeta,
E – Tristi – disse – fian le rime, quali
95 Nostra fortuna le richiede e ’l tempo. –
Disse: e intuonava pïetoso il canto.
Amor mi sforza di dover cantare
E lamentare – in questa ballatetta.
Angela venne de la terza spera
100 Qui dove l’aer verna, e chiuse il volo:
Poi, tutta accesa in quella luce mera
Che arde là sovra del nostro polo,
In vista umana patìa noia e duolo
Conversando tra noi quest’angeletta.
105 Ove spirava l’aüra gentile,
Sùbito amore possedea quel loco:
Ivi ridea novellamente aprile
E vampava ne l’aere un dolce foco:
Ma distringeva i cuori a poco a poco
110 Quasi una pena, e dolce era la stretta.
Ognun diceva – Ov’ella gli occhi gira,
Ed ivi tosto ogni virtù è fiorita,
Cade ogni mal volere e fugge l’ira,
E dolce s’incomincia a far la vita:
115 A lei d’intorno a gran diletto unita
La gente per valer sua voce aspetta. –
A più alto sperar n’era argomento
Il riso bel ch’io non saprei ridire.
Io conto il ver: la voce era un concento
120 Di lontane armonie, di strane lire,
E retro la memoria facea gire
Ad una vita che ne fu disdetta.
Miracolo a veder sua gran vaghezza
Facea del cielo ragionare altrui.
125 – Ecco, io vi mostro di quella dolcezza
Che tutto adempie il regno d’ond’io fui –
Queste parole eran ne gli occhi sui;
Pur chini li tenea la verginetta.
Mi fe’ pensoso di paura forte
130 Il portamento suo celestïale.
M’indusser gli occhi a desïar la morte
Ne la lor pace che non è mortale:
Ma poi, temendo non mettesse l’ale,
Dissi, com’uomo in cui desir s’affretta:
135 – Se ben si pare a le fattezze tue,
Tu fusti nata in cielo a l’armonia;
E mi fai rimembrar Psiche qual fue
Quando sposa d’Amor tra i numi uscìa.
Tardi ritorna a la spera natia!
140 Donami ch’io t’adori, o forma eletta! –
Così le dissi ne’ sospiri. Ed ella
De gli occhi suoi levar mi fece dono,
Ahi quanto vagamente! E ne la bella
Vista divenni altr’uom da quel ch’io sono:
145 Visibilmente Amor, come in suo trono,
Luceva in fronte a questa pargoletta.
– Piacer che move de la mia persona
Conforti anco per poco i pensier tui;
Ch’i’sento quel signor che la mi dona
150 Che a sé mi sforza; e cosa i’ son da lui:
Non fa per me di questi luoghi bui
La stanza, e poco vostro amor mi alletta. –
Cotal suonò di quella onesta e vaga
La voce pia ch’ella imparò dal cielo,
155 Gli occhi belli avvallando; e di sé paga
L’alma raggiò desio fuor di suo velo:
Tutta ella ardea di pïetoso zelo
Qual peregrino cui ’l tornar diletta.
Ahi me, la nota del dolente esiglio
160 Quest’angeletta mia presto ebbe stanca!
E venne meno come novo giglio
Cui ’l ciel fallisce e ’l vento fresco manca.
Ella posò come persona stanca,
E poi se ne partì, la giovinetta.
165 Partissi, e si partiro una con lei
Amor e poesia dal nostro mondo.
Da indi in qua cercaron gli occhi miei
Per giocondezza, e nulla è lor giocondo:
Sollazzo e festa per me giace in fondo:
170 Sol chiamo il nome de la mia diletta.
Ahi lasso! e, quando la stagion novella
Rallegra i cori e fa pensar d’amore,
Vien ne la mente mia la donna bella
Che mi fu tolta; ond’io vivo in dolore.
175 Chiamo il suo nome, e mi risponde il core:
Lasso, che cerchi? Altrove ella è perfetta.
Così cantò Sennuccio: e gran pietate
De le donne gentili i petti strinse;
E dolorosa un’ombra in su le fronti
180 De’ guerrieri abbronzate errava, come
Se un gran fato presente a ogn’un toccasse
Le menti; e raro il favellar s’accese
Su l’oscura ed estrema ora del magno
Arrigo. – Al morto imperator conceda
185 Dio la sua pace: a lui gloria ne’ canti,
Imperator de le toscane rime,
Dante darà: noi la vendetta. Ancora
Su le torri pisane ondeggia al vento
Il sacro segno, ed Uguccione intorno
190 Fior di prodi v’accoglie e di speranze.
Lombardia freme; e un cavalier novello,
Sprezzator di riposo e di perigli,
Leva tra i due mastin l’aquila invitta.
Se Dio n’aiuti, rivedrem, Sennuccio,
195 De’ guelfi il tergo; rivedrem le belle,
Che ne disser piagnendo il lungo addio,
Facce d’amore. Oh, di Mugel selvoso
Ne le dolci castella una m’aspetta;
E di memorie io vivo e di speranza.
200 Liete rime troviam. Reca, o fanciullo,
Qua la mandòla; se di Cino usata
E di Dante a gli accordi, essa e la bella
Marchesa Malaspina il canto accolga. –
Così disse Gualfredo. A lui l’azzurro
205 Occhio splendea come l’acciar de l’else;
E su ’l verde mantel di sotto al tòcco
Bianco e vermiglio gli piovea la bionda
Giovenil capelliera a mo’ di nube
Aurea che attinge da l’occiduo sole
210 Le tue valli non tócche, ermo Apennino.
D’un molle riso gli assentì la dama
Donnescamente; e recò destro il paggio
La dipinta mandòla. In su le quattro
Fila correan del cavalier le dita,
215 Piane, lente, soavi; e poi di tratto
Rapide flagellando risonaro.
Come pioggia d’aprile a la campagna,
Che bacia i fiori e su le larghe fronde
Crepita: ride tra le nubi il sole
220 E ne le gocce pendole si frange;
Getta odore la terra; l’ali bagna
La passeretta, al ciel levasi e trilla:
Tal di Gualfredo il suono era ed il canto.
Chi renderlo potrebbe oggi che fede
225 Non tien la lingua a l’abondante core?
Luce d’amore che ’l mio cor saluta
E intelligenza e vita entro vi cria
Move dal riso de la donna mia.
I’ dico che giacea l’anima stanca
230 In su la soglia de la vita nova,
Qual peregrino a cui la forza manca
E vento greve il batte e fredda piova,
Che vinto cade, e lontan pur gli giova
Mirar la terra dolce che il nutria.
235 Così l’anima trista si smarriva
Abbandonata de la sua virtute,
E il caro tempo giovenil fuggiva,
E tutte cose intorno erano mute:
Ma a confortarla di fresca virtute
240 Una beata visïon venìa.
Fanciulla io vidi di gentil bellezza
Creata con desio nel paradiso:
Luceva la sua gaia giovinezza
Nel piacimento del sereno viso,
245 E tutta la persona era un sorriso
E ogni atto ed ogni accento un’armonia.
La bruna luce de’ begli occhi onesti
E la dolcezza del guardo d’amore
Svegliò gli spirti che dormiano, e questi
250 Gridaron forte su ’l distrutto core;
Che levò e disse – L’anima che more
Ne le tue man commetto, angela pia.
Vedi la vita mia com’ ella è forte,
Come ha già da vicin l’ultime strida.
255 O donna, io giaccio in signoria di morte,
E la poca virtute omai ti sfida;
Se non che uno splendor novo l’affida
Ch’or mi s’offerse, e di sua vista uscìa. –
Ella nel suon dei dolorosi accenti
260 Rivolse gli occhi de la sua mercede,
E co’ guardi tenaci umidi e lenti
Diemmi d’amore intendimento e fede:
Quindi un novo desio nel cor mi siede,
Quanto mutato, oh dio!, da quel di pria.
265 Ché Amore io vidi ne l’aperto giorno
Glorïar come re ch’è trïonfante,
E gioia e luce e chiaritade intorno
Ed una pace che non ha sembiante:
Egli si pose in quelle luci sante,
270 Com’angel contemplando arde e s’indìa.
Da indi in qua sonare odo per l’etra
Una soave melodia novella,
Come da ignoti elisi aura di cetra,
Come armonia di più felice stella;
275 E sempre questa creatura bella
D’amor mi parla ne la fantasia.
D’amor mi parla ogni creata cosa,
E il cielo aperto e la foresta bruna,
E la verde campagna dilettosa,
280 E gli silenzi de la bianca luna;
E d’ogni aspetto in cor mi si rauna
Un’alta voluttà che mi disvia.
Cotal si ruppe quel gelato smalto
In che il cuor si chiudea per fatal danno:
285 Quindi d’amarla in me stesso m’esalto,
Quindi per gloria e per virtù m’affanno.
Che se durasse il mio vitale inganno,
Altro lo spirto mio non chiederia.
Lungi io me ’n vo. Ma per paese strano,
290 Per vaga donna o per gentil signore,
Non fia che scordi il bel sembiante umano,
Non fia che scordi il mio solingo amore,
La terra dove s’apre il bianco fiore,
Dove regna virtude e cortesia.
295 Deh la rivegga! E il riso desïato
Ogni nero pensier del cor mi cacci;
E, quando sienmi contro il mondo e il fato,
Mi trabocchi nel seno ella e m’abbracci.
Ben io constretto in que’ soavi lacci
300 Torrò sicuro ogni fortuna ria.
Così cantò Gualfredo: e da i vermigli
Labbri de le fanciulle a lui volaro
I desideri e i baci, qual da’ fiori
Belle, carche di miele, api ronzanti.