QUANDO PUBBLICÒ IL MARIO SETT. MDCCCLVIII
Quando l’aspro fratel di Cinegira
Ne la sonante scena
Trasse vestita d’ardue forme l’ira
Che propugnò la libertade ellena,
5 Marte, che lui spingea tra i dardi avversi
Su gl’incalzati Persi,
Spirò guerra; e fremean guerra, ascoltando,
Quei che operaro in Salamina il brando.
E tu vedesti, o diva Atene, i padri
10 De’ guerrier trionfati
Nel futuro dolor pensosi ed adri
Gemer da’ figli deprecando i fati,
Neri presàgi ombrar con fóschi vanni
Le sale de’ tiranni,
15 E da la mira visïon percossa
Svegliar ne l’urne ombre di regi Atossa.
Quinci il sepolto Dario a l’aure uscìa
Da la livida sponda,
E nel pianto de’ servi il rege udìa
20 La vittoria de’ liberi seconda;
Udìa ne’ passi de la fuga volto
Il figlio imbelle e stolto,
E sonar alto da l’egea marina
Il fragor de la persica ruina.
25 Deh, che fremito errò di petto in petto
Quando il cacciato Serse,
Gentil città d’Armodio, in tuo conspetto
Narrò gli ancisi prenci e le riverse
Caterve e rotti di sua forza i nervi,
30 E a gli ululanti servi
Mostrò campate a l’infinita clade
Sol la faretra e sua regal viltade!
Tale a la prole achea gli ozi felici
Di canti Eschilo ornava,
35 Se l’Egeo, detestata onda a’ nemici,
Altier de’ vinti re lui rimandava.
Ma pria tra la falange ispida e vasta
Infuriò con l’asta;
E, come de l’Olimpo aquila o d’Ato
40 Piomba tra ’l folgorar del cielo, armato
Cotal su i mille e mille egli irrompea
Fuga spargendo e morte;
Fera coppia fraterna, al fianco avea
L’atroce Cinegira e Aminia il forte.
45 Né de le tibie flebili o del canto
Ozio si fece e vanto;
Ma dal funereo sasso ei Maratone
Ricorda, e tace le febee corone.
Fu pugna e sfida contro i fati ardita,
50 Fu clamor di trofei
D’Eschilo l’arte; e sgorga da la vita
E refluisce vita a’ petti achei.
Non dispetto infingardo o steril ira
Né solitudin dira
55 Cinge il vate; ma luce ampia ma polve
E frequenza di popolo l’avvolve.
Te, vate nostro, a’ rei secoli dato
Quando vita n’è spenta,
Te premea reluttante il grave fato
60 Giù nel silenzio a l’aër putre e lenta.
Te, non furor di libera coorte
Che consacra a la morte
Con quel de’ regi il capo suo, né grido
Di vittoria che introna il patrio lido,
65 Ma lamentar di giovini cadenti
Su la terra pugnata
E tra i cavalli barbari accorrenti
Cupo fremir di libertà calcata,
Spirava. E in te nostr’ultimo dolore
70 Alcun vendicatore
S’ebbe, e de gli oppressori al gener vario
Procida minacciasti, Arnaldo e Mario.
Or d’onde, o sacro veglio, è in te possanza
Tal che di vivi sdegni
75 Armi antiche memorie e la speranza
A noi disfatte e mute anime insegni?
Dunque l’eterna mente ancora è pia
A questa patria mia,
Che pur tu duri in contro al fato ostile
80 Cantor d’Italia a la stagion servile?
E quando più da peregrino impero
L’alta regina è stretta,
Tu affatichi il senile estro e il pensiero
Dietro l’imago de la gran vendetta?
85 Ben venga Mario che del gener reo
Porta il roman trofeo
E nel cor de’ romulëi nepoti
Aderge le speranze e infiamma i vóti!
Ché, se il figliuol d’Euforïon traea
90 Melpomene pensosa
Ad inneggiar la libertade achea
Sedente su lo scudo e glorïosa,
Non è lode minor, s’io ben riguardo,
Or che l’uso codardo
95 Fuor de la vita i sacri ingegni serra,
Almen co ’l verso guerreggiar la guerra.
Or, poi ch’altro n’è tolto, or guerra indìca
Da’ teatri la musa;
Gitti il flauto dolente, e la lorica
100 Stringa, ed a l’aste dia la man già usa.
Quinci altera virtù ne’ nuovi petti
Bevano i giovinetti:
Qui la virile età l’ardir prepari,
E che sia patria l’util plebe impari.
105 E a te, che in vecchie membra alma possente
I tardi ozi ne scuoti,
Qual serba premio, o buon, l’età presente?
Quale i figli crescenti ed i nepoti?
O petto di virtude albergo saldo,
110 O man che scrisse Arnaldo,
Chi a’ miei baci vi porge? una corona
A questo bianco capo oh chi la dona?
Ben io nel gaudio d’un futuro giorno,
Che il ciel mi disasconde,
115 Veggo popolo molto a un marmo intorno
Incoronarlo di civili fronde:
Quel giorno appo una tomba, italo vate,
Da l’alpi al fin serrate
A le verdi tornando etrusche valli,
120 Scalpiteranno gl’itali cavalli.