Giuseppe e Giosue (e altri amici)

a cura di Roberta Tranquilli

Fu un legame profondo e duraturo quello che legò Giosue Carducci a Giuseppe Chiarini (Arezzo, 1833-Roma, 1908): i due si conobbero appena ventenni nel 1855 e rimasero in contatto per più di cinquant’anni, fino al 1907, anno della scomparsa di Carducci. Il loro rapporto, instauratosi grazie alla comune passione per lo studio della letteratura classica e moderna e per la poesia, fu caratterizzato da stima e fiducia inalterate nel tempo.  

La nascita di questa amicizia è raccontata nella prima biografia di Carducci, scritta proprio da Chiarini: si tratta delle Memorie della vita di Giosue Carducci raccolte da un amico (1905, seconda edizione corretta e accresciuta 1907), che ripercorrono la carriera del poeta, ma non mancano i riferimenti al loro rapporto (evidenziato, tra l’altro, sin dal titolo dell’opera). Il Proemio alla biografia è per la maggior parte dedicato al primo incontro in via Borgo Ognissanti a Firenze, nell’estate del 1855, organizzato dal comune amico Enrico Nencioni (Firenze, 1837-Ardenza, 1896): nel testo Chiarini ricorda anzitutto di essere rimasto affascinato dal precoce talento poetico di Carducci, i cui versi erano diventati famosi tra i compagni delle Scuole Pie di San Giovannino degli Scolopi (Firenze). Con grande precisione descrive poi quel momento rimasto indelebile nella sua memoria, tanto da ricordarne persino i dettagli, anche a distanza di numerosi anni:

«Andammo [ndr. Chiarini e Nencioni] di mattina (era di domenica) fra le nove e le dieci. Egli era prevenuto, sapeva che io era un grande ammiratore, sapeva che io era un grande ammiratore, anzi adoratore, del Leopardi, che amavo i classici, che facevo dei versi, che ammiravo grandemente i suoi. Ci venne incontro in maniche di camicia; ci demmo subito del tu, come s’usa fra i giovani, si cominciò a parlare di letteratura, si parlò del Leopardi, del Giordani; io gli chiesi qualche cosa di suo, egli mi trascrisse lì per lì sopra un grande foglio di carta gli ultimi due sonetti da lui composti, quello che comincia Poi che mal questa sonnacchiosa etade e l’altro Ai sepolcri dei grandi italiani in Santa Croce; dopo di che ci lasciammo, ed io me ne tornai lieto e contento come se portassi meco un tesoro» (Chiarini 1907, p. 2). 

L’ammirazione del giovane Chiarini venne presto ricambiata: dal dialogo sui rispettivi ‘idoli’ letterari nacque un’amicizia fondata sul reciproco sostegno professionale e privato, aperto a confidenze in materia di famiglia, condizione economica, aspirazioni lavorative. 

Al loro sodalizio (e a quello con altri giovani letterati toscani) si lega anche una breve esperienza di critica militante, vale a dire quella degli Amici pedanti: oltre a Carducci e Chiarini, il gruppo era composto da Giuseppe Torquato Gargani (Firenze, 1834-Faenza, 1862) e Ottaviano Targioni Tozzetti (Vernio, 1833-Livorno, 1899). Scelsero un nome ‘parlante’, che dichiarava un ideale comune: secondo la loro prospettiva, la nascente élite culturale borghese necessitava di un nuovo classicismo della lingua e delle forme letterarie – questo il significato da attribuire alla pedanteria – contro l’ormai obsoleto modello romantico. L’attività intellettuale degli amici ebbe inizio il 15 luglio 1856 con la pubblicazione a spese proprie del libretto polemico di Gargani intitolato Di Braccio Bracci e degli altri poeti nostri modernissimi, nel quale la raccolta Fiori e spine. Nuovi canti del poeta Braccio Bracci (Santa Croce sull’Arno, 1830-Livorno, 1904) era presa a paradigma della produzione del momento per essere profusamente criticata. Fece seguito un rincaro delle accuse del gruppo alla letteratura coeva, affidato alla Giunta alla derrata scritta da Carducci. Di quel periodo Chiarini nelle Memorie confida:

«Per noi era questione più che altro di sentimento, non era quindi e non poteva essere questione di serenità di giudizi. Perché le punture della critica fossero più acute, il Gargani elesse pel suo discorso, anzi Diceria, com’egli la chiamò, la forma ironica, esaltando ciò che voleva deprimere, deprimendo ciò che voleva esaltare. Il discorso gli si allargò per via, tanto che il Bracci divenne poco più che il pretesto per assalire tutta la letteratura romantica» (ivi, p. 63).

L’avventura degli Amici pedanti si concluse tuttavia nel 1959, quando chiuse i battenti dopo appena sei numeri la rivista «Il Poliziano», creata dal gruppo nel medesimo anno per dare voce alle nuove istanze della letteratura contemporanea. Altrettanto non può dirsi del rapporto tra gli intellettuali fondatori, che rimasero a lungo in contatto; Carducci e Chiarini ebbero poi modo di approfondire la loro amicizia.

Per i due amici le lettere costituirono infatti progressivamente un terreno di confronto (e conforto), come testimonia il loro vasto carteggio, durato tanti anni quanti il legame che li unì: Carducci tenne in grande considerazione il parere dell’amico sui propri lavori e lo coinvolse infatti in più occasioni – ad esempio, il 15 ottobre 1863 inviò all’amico in anteprima il testo del rivoluzionario Inno a Satana –; allo stesso modo Chiarini sottopose svariati articoli alla lettura di Carducci, come quelli per la «Rivista italiana con le effemeridi della pubblica istruzione», con cui collaborava, in anni coevi (1863-1865), quando era impiegato presso il Ministero dell’Istruzione a Torino (cfr. Pellizzari 1912, pp. 84-86). Ad ogni modo, la presenza di Chiarini non si riscontra unicamente ‘nelle retrovie’ dell’opera carducciana: l’amico di lunga data compare anche – non a caso – come personaggio dei suoi Juvenilia (edizione definitiva 1891). Nel Prologo ricopre un ruolo di primo piano, ovvero quello di consegnatario dell’opera: «Ivi, o mio tenue libro, al Chiarini / Chiedi pe’ profughi genî latini, / Chiedi l’ospizio. Vedi: ei la porta / Già t’apre, ed ilare ti riconforta» (vv. 189-192).

Secondo un topos usuale nella letteratura latina, in questi versi il poeta si rivolge alla propria raccolta di componimenti (l’immagine del libro peregrino riecheggia forse Ovidio, Tristia I 1): l’amico diviene un porto sicuro per la sua poesia, al fine di ottenere conforto dalla frenesia dell’epoca presente e dai possibili detrattori. Più di chiunque altro Chiarini conosce la prassi poetica di Carducci, che sembra ormai perduta (o meglio, profuga) e, soprattutto, la condivide. I versi si realizzano quindi nella prospettiva privata dell’autore, che mette in scena qui un atto di fiducia nei confronti dell’amico, cui affida simbolicamente la materia a lui più cara e amata da entrambi, quella letteraria.

Al componimento d’esordio fa poi pendant nel libro il breve testo che lo segue (A G. C. in fronte a una raccolta di rime pubblicata nel MDCCCLVII), intitolato questa volta in maniera esplicita all’amico Chiarini, o meglio, secondo l’allocuzione che apre il v. 3, «Giuseppe»:

«Forse avverrà, se destro il fato assente / Vóto che surga pio di sen mortale, / Giuseppe, e s’a più ferma età non mènte / Il prometter di questa audace e frale, / Che in più libero cielo aderga l’ale, / D’amor, di sdegno e di pietà possente, / Questo verso, che fioco or passa quale / Eco notturna per vallea silente: / Pur caro a me, che del rio viver lasso / Ma ogn’or di voi, sacre sorelle, amante / Lo inscrivo qui come in funereo sasso: / Pago se alcun dirà – Tra ‘l vulgo errante / Che il bel nome latino ha volto in basso | Fede ei teneva al buon Virgilio e Dante. –»

Il riferimento del titolo è alle Rime giovanili pubblicate a San Miniato nel 1857, inaugurate proprio dal medesimo sonetto a Chiarini (in quella sede denominato A Giuseppe Chiarini), che videro tra i protagonisti – nonché dedicatari – numerosi altri affini al poeta, come il già citato Ottaviano Targioni Tozzetti, Antonio Gussalli (Soncino, 1806-Milano, 1884), Narcisio Feliciano Pelosini (Fornacette, 1823-Pistoia, 1896) e Felice Tribolati (Pontedera, 1834-Pisa, 1898). Il testo rappresenta un autore fiducioso in merito al valore dei propri versi, che vorrebbe distinguersi dal «vulgo errante» (v. 12): in particolare, nel componimento l’io lirico spera che l’ardore poetico della giovinezza – connotata come «audace e frale» (v. 4) – si riveli ancora maggiore nella «più ferma età» (v. 2) adulta. Il desiderio intimo viene indirizzato ancora una volta a Chiarini, spettatore dello sviluppo professionale di Carducci: nel sonetto ricopre pertanto una parte assimilabile a quella di altri amici cui vennero dedicati, nella poesia latina, componimenti con funzione programmatica e proemiale (lo suggerisce ad esempio il registro del lapidario v. 9). Come ha già evidenziato Torchio, qui «Chiarini ha il ruolo di Cornelio nella prima nuga di Catullo e di Mecenate nell’ode iniziale di Orazio» (Torchio 2019, p. 10).

Anche nel tempo della ‘fermezza’ vagheggiato negli Juvenilia il rapporto tra i due amici si mantenne invariato, senza incrinarsi. Ciò fu possibile, forse, poiché il fondamento intellettuale della loro unione non venne mai meno, come emerge, tra gli altri, da un tenero congedo di Carducci all’amico, nella sua lettera del 28 luglio 1897, quando entrambi erano ormai da tempo entrati nell’età adulta: il pensiero è rivolto alla quotidianità di Chiarini, alla moglie Enrichetta Bongini e alla famiglia. Eppure, anche in queste poche righe emerge il ricordo di ciò che li ha legati tanti anni prima, la letteratura, insieme con il ‘loro autore’, Leopardi:

«Scrivimi, ti prego, ma pur non di questo. Ma dimmi, quando vai fuor Roma, dove vai, come sta la signora Enrichetta, come stanno figli e figlie. […] Io sto bene, e leggo del Leopardi su l Leopardi per il Leopardi […]. E scrivo anche versi. Ti abbraccio col pensiero. Tuo» (LEN, vol. XX, pp. 55-56).

Bibliografia di riferimento:

Chiarini 1907 = Memorie della vita di Giosue Carducci (1835-1907) raccolte da un amico (Giuseppe Chiarini), Firenze, Barbèra, 1907.

LEN  = Giosue Carducci, Lettere, Edizione Nazionale, Bologna, Zanichelli, 1938-1968, 22 voll.

Pellizzari 1912 = Achille Pellizzari, Giuseppe Chiarini. La vita e l’opera letteraria, Napoli, Francesco Perrella editore, 1912.

Torchio 2019 = Giosue Carducci, Rime (San Miniato, Ristori, 1857), a cura di Emilio Torchio, Roma, Aracne, 2009.