Riflessioni sul Cinema Ritrovato: la Fox Film Corporation

Costanza Salvi

La rassegna sulla Fox Film Corporation, curata dal critico e storico del cinema Dave Kehr, responsabile della sezione Film del MoMA di New York, ha avuto buoni motivi per attirare l’attenzione dei cinefili americanisti. Purtroppo, è stato stimato che il 75% dei titoli Fox realizzati dal 1915 al 1935 siano andati perduti in seguito ad un incendio divampato nel 1937 nei magazzini della compagnia in New Jersey; per riparare questa perdita il Museum of Modern Art si sta impegnando, ormai dagli anni Settanta, nel tentativo di recuperare le copie di lavoro in nitrato che erano conservate nella sede di Los Angeles, da integrare agli eventuali contributi provenienti dalle altre cineteche e archivi sparsi in tutto il mondo. La rassegna presentava, infatti, una selezione dalle opere della collezione della Fox recentemente restaurate dal MoMA e da UCLA Film and Television Archive e presentate sia a New York che a Los Angeles tra l’inverno e la primavera scorsi. La storia della Fox Film Corporation è una delle più interessanti ed emblematiche degli anni della Grande Depressione. 

I racconti from-rags-to-riches che spesso venivano posti al centro dei film prodotti durante gli anni Venti, riletture cinematografiche delle storie che riempivano le pagine delle riviste e delle pubblicazioni a buon mercato almeno fin dall’epoca dei dime-novels di Horatio Alger Jr., erano stati ribaltati in direzione contraria proprio negli anni della crisi. Le precipitose cadute erano all’ordine del giorno e i sogni di crescita e prosperità dovevano essere corretti in forme tendenti a limitarne lo sfrenato individualismo. Almeno fino al suo salvataggio nel 1935 ad opera della 20th Century Pictures di Darryl Zanuck, la storia della Fox fu un perfetto esempio di come le parabole di crescita potevano prendere una direzione contraria. Fondata nel 1915 dall’imprenditore autodidatta William Fox – una specie di Preston Tucker del cinema – la Fox divenne una delle big five, insieme a Paramount, MGM, Warner Brothers e RKO.

Il segreto del successo delle Majors stava nella libertà – goduta senza restrizioni almeno fino al 1938 quando vennero imposte alcune condizioni sull’acquisto di nuove sale – di controllare direttamente la distribuzione. In seguito alla morte nel 1927 di Marcus Loew, magnate della Loew Inc. (grande catena di sale), William Fox cercò in un modo non troppo lineare di acquisire la sua quota di maggioranza per poter espandere ulteriormente il suo potere ma una serie di avvenimenti sfortunati lo fermarono: un grave incidente automobilistico, il crollo di Wall Street nel 1929 e i colpi del dipartimento di Giustizia segnarono il suo tracollo con il successivo voltafaccia di banchieri e soci in affari.

Se non fosse subentrata la 20th Century, il destino della Fox sarebbe finito insieme al suo fondatore, morto nel 1952 praticamente dimenticato da tutti. La fortuna della Fox era anche dovuta alla possibilità di mettere a contratto i registi e i talenti più interessanti del momento, spaziando sul panorama internazionale. Se la MGM si era assicurata gli attori più amati e attraenti del panorama cinematografico degli anni Trenta (Clark Gable, Jean Harlow, Greta Garbo, John Gilbert) o registi come King Vidor e Erich von Stroheim, la Fox aveva messo a contratto artisti del calibro di Frank Borzage, John Ford, Howard Hawks, Raoul Walsh. Anche le tecnologie erano importanti fattori di successo e innovazione: la MGM fu la prima a usare il Technicolor mentre la Fox era stata l’unica, insieme alla Warner Brothers (con la Vitaphone), ad aver comprato i diritti di sfruttamento di un sistema di sonorizzazione della pellicola, la Movietone.

Al Festival abbiamo potuto vedere alcuni film rari e poco conosciuti, oltre che totalmente atipici nella cinematografia dei loro registi, come La trovatella (The Brat, John Ford, 1931) e Sempre rivali (Women of All Nations, Raoul Walsh, 1931). La prima è una social comedy del tutto lontana dalle corde del Ford più noto, ovviamente western, che però dà mostra di alcune interessanti trovate registiche; la seconda è una divertente (e divertita) versione in chiave brillante della rivalità fra due marines che Walsh aveva già raccontato – su uno sfondo drammatico e di guerra – nel film Gloria (What Price Glory?) del 1926. I due protagonisti Jim Flagg e Harry Quirt (interpretati qui dallo straordinario Victor McLaglen e da Edmund Lowe rispettivamente) sono impegnati nel ben più soave compito di dar la caccia al gentil sesso e, in particolare, ad assicurarsi i favori della ballerina svedese Elsa (Greta Nissen), puro pretesto per comicità slapstick e momenti di autentica, scollacciata stravaganza, come nella scena dei miagolii d’amore. Fiore all’occhiello di questa rassegna è stato Settimo cielo (7th Heaven), meraviglioso film muto di Borzage proiettato al Teatro Comunale su partitura originale di Timothy Brock. A parte la raffinata coreografia di chiaroscuri, atmosfere lugubri e momenti di luce, degno di nota è l’uso azzardato di una mobilissima macchina da presa che risente dell’influenza di Karl Freund, il famoso operatore e direttore della fotografia che aveva collaborato con Murnau e che aveva ammaliato moltissimi registi di Hollywood. Pensiamo soprattutto al movimento che si alza in verticale a scorgere i sette piani che rappresentano la salita al mondo privato dei due amanti, una forma di aspirazione che è, insieme, religiosa, spirituale e romantica.

Settimo cielo è certamente uno dei più amati e conosciuti dai cinefili di tutto il mondo, meno, invece lo sono altri due film piuttosto dimenticati che hanno fatto parte di questa rassegna. Si tratta di Now I’ll Tell e di The Mad Game, in cui Spencer Tracy interpreta la parte, rispettivamente, del giocatore d’azzardo e del gangster. Il primo dei due è ispirato alla vita di Arnold Rothstein che fornì spunto anche per il personaggio di Meyer Wolfsheim de Il grande Gatsby. La Fox sfruttò l’immagine e la tempra di tough man che era naturalmente presente in Tracy e gli affidò proprio questi due ruoli in cui poteva emergere la sua personalità di duro. Mentre Now I’ll Tell finisce per rappresentare un perfetto esempio, per quanto minore, di gangster movie degli anni Trenta, finalizzato a descrivere un’America in cui era molto più facile seguire la strada della corruzione che rimanere onesti, lo strano The Mad Game offre spunti di riflessione più sottili.

Prima di tutto perché descrive il pentimento del gangster che, posto di fronte alla proposta del socio di passare al sequestro di bambini di famiglie abbienti dopo la fine del Proibizionismo e del traffico illecito di alcolici, decide prontamente di fermarsi: il tragico caso di Lindbergh era ancora molto recente (1932) e, anche se informalmente, Hollywood si imponeva di stare alla larga da simili piaghe sociali. Tuttavia il film rompe, almeno in parte, il divieto descrivendo il rapimento non di un bambino ma del figlio di un politico e della sua fidanzata. Poi, perché esprime uno dei desideri più ambigui della cittadinanza americana negli anni della Grande Depressione ovvero quello di essere guidati da un potere forte ed accentratore (un altro film uscito nello stesso anno, il 1933, aveva manifestato questi stessi aspetti, Gabriel Over the White House di Gregory La Cava). La commissione federale per la repressione del crimine organizzato con cui il gangster pentito Ed Carson decide, infatti, di collaborare propone una lista di rimedi per il controllo e la lotta al crimine che hanno risvolti piuttosto esagerati. Il povero Ed accetta persino di sottomettersi ad una plastica facciale per avere un nuovo volto ed aiutare la commissione nella caccia ai suoi ex soci. Per bilanciare il toughness del film compare, comunque, una figura femminile particolarmente moderna, interpretata da Claire Trevor: si tratta di Jane Lee, giornalista scaltra e perspicace, economicamente indipendente e single, del tutto in linea con lo spirito di rinnovamento che le donne degli anni Trenta, seppur nel clima stagnante della crisi economica, potevano respirare. Il film forse più interessante di questa piccola rassegna è stato poi Ritornerà primavera (One More Spring, Henry King, 1935). La caratteristica che più risalta in questo film minore degli anni Trenta è proprio la totale e continua presenza di riferimenti alla grande depressione.

Non si tratta, come in molti altri film del periodo, di toccare tangenzialmente o per via di metafora il tema della crisi economica quanto di farne il motore principale, l’atmosfera perenne in cui si svolge il film. In un Central Park visibilmente ricostruito in studio si svolgono, infatti, le vicende di tre personaggi accomunati dalla totale assenza di denaro e lavoro. Si tratta di una aspirante attrice disoccupata (Janet Gaynor), un antiquario fallito (Warner Baxter), un musicista ebreo in fuga dall’Europa, che si ritrovano sotto lo stesso umile tetto, costretti a vivere nel capanno degli attrezzi del custode del parco, in barba alle convenzioni e alle supposte regole del costume. A questi si aggiunge, nella seconda metà del film, un banchiere insolvente (Grant Mitchell) che fornirà, poi, un margine di speranza, appunto la primavera dopo il difficile inverno. Il film è chiaramente diretta espressione del clima di solidarismo che Roosevelt caldeggiava nell’epoca del New Deal e, non di meno, manifesta una certa visione politica del tutto coerente con il clima del Popular Front, nato dalla fusione tra le forze democratiche e quelle più radicali nell’America della seconda metà degli anni Trenta. L’appartenenza politica non è solo visibile nella presenza di alcuni attori che furono parte attiva di quel clima e che ritroveremo in tanti film appartenenti a quel filone (soprattutto Grant Mitchell e Jane Darwell) ma anche nella più palese battuta che – confessiamo – ha fatto scoppiare una sonora risata tra il pubblico del cinema: “questa crisi è tutta colpa dei Repubblicani!”.