Rebecca Peroni
Negli anni Ottanta del Novecento, il corpo tende a diventare il principale indicatore dell’identità soggettiva, prima di altre variabili sociali ed economiche come l’appartenenza politica, religiosa, il ceto e il percorso d’istruzione. Tutti gli elementi che compongono la corporeità acquistano un valore simbolico che racconta al resto della società chi siamo e, aspetto più sfuggente, cosa potremmo nascondere. Stiamo parlando del segnale più visibile per esprimere i valori prevalenti di una determinata epoca, essendo ogni corpo ri-costruito secondo le ideologie dominanti che in ogni periodo storico hanno introdotto delle pratiche legate ad esso, alle quali abbiamo cercato di conformarci per il timore di sentirci socialmente esclusi.
Anche il mondo dell'industria cinematografica hollywoodiana ha puntato sulla spettacolarizzazione del corpo, con il ribaltamento dei canoni estetici che hanno preso vita a cavallo fra il tramonto della New Hollywood (1967-1975) e l’alba dell’espansione contenutistica degli anni ‘80.
A partire da questi anni, la rappresentazione di genere proposta dalle grandi major cinematografiche presenta al pubblico un ventaglio decisamente più diversificato e sempre meno ancorato agli stereotipi come l’uomo in carriera o la casalinga, eppure per quanto riguarda l’aspetto fisico si tendono a valorizzare, a livello macroscopico, solo due modelli archetipici: da un lato, la corporeità dirompente ed esibita da attori come Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger; dall’altro la tonicità snella e allenata di Jennifer Beals, nel ruolo che la rese celebre in tutto il mondo, ovvero Alexandra Owens in Flashdance (1983).
Entrambi i sessi, inoltre, vengono bombardati da campagne pubblicitarie mirate al mantenimento di un corpo giovane e in salute, attraverso la dedizione all’allenamento e al consumo di prodotti di bellezza che cercano in ogni modo di cancellare i segni del tempo che avanza.
In una società sempre più improntata sull’impatto dell’immagine, i media tendono a fare dell’aspetto esteriore dei modelli ben esposti in tv e al cinema. Inoltre, i media facilitano l’esposizione visiva dei corpi tramite l’avvento di nuove strumentazioni tecnologiche, come il videoregistratore e le televisioni satellitari che, a partire dalla metà degli anni ‘70, cambiano radicalmente le pratiche di consumo cinematografico da parte del pubblico americano.
Per alcuni studiosi, tuttavia, i fenomeni culturali e sociali di questi anni sembrano riflettersi attraverso lo specchio di un prodotto cinematografico decisamente più appariscente e superficiale, che perde la sua profondità concettuale: alla base di questo giudizio fortemente ideologico c’è la moltiplicazione capillare delle strategie pubblicitarie dei film, che aumentano le possibilità di generare profitti su più piattaforme (ad esempio il film in videocassetta, trasmesso sulla tv via cavo, la commercializzazione delle colonne sonore e il merchandising correlato), ma che negli anni ‘70 venivano praticate soltanto in forma germinale e sporadica.
Durante l’epoca della New Hollywood, infatti, i grandi film venivano proiettati in un numero molto limitato di sale in cui le prime proiezioni venivano gestite come degli eventi speciali ed esclusivi.
Gradualmente, la proiezione del film viaggiava seguendo la gerarchia delle sale, estendendosi a macchia d’olio da quelle delle città più importanti fino a quelle più provinciali. Dalla metà degli anni Settanta si ha un’inversione di rotta, sancita da Jaws (Lo squalo, 1975), una delle opere più iconiche di Steven Spielberg. Questa pellicola ottenne risultati eclatanti al botteghino, soprattutto per la martellante campagna promozionale che il regista mise in campo molto prima della sua uscita effettiva nelle sale.
Il brusco cambio di rotta provocò non poche opposizioni e, infatti, molti critici parlarono di un “rimbambimento” del cinema hollywoodiano (in G.King, La Nuova Hollywood), perché si faceva riferimento al fatto che i film venivano resi sempre più mercificabili, perdendo di serietà e complessità nei contenuti. Questo li faceva risultare più attraenti agli occhi di un pubblico meno intellettuale e spesso molto più giovane rispetto alla generazione di spettatori precedente.
Tale convinzione deriva da due aspetti: da un lato, il rimpianto per la stagione della New Hollywood, un’epoca in cui un pubblico maturo e preparato pagava per andare a vedere film impegnati e controversi, che facevano da altoparlante a questioni sociali e politiche come le contestazioni giovanili riguardo l’amministrazione Nixon e la Guerra del Vietnam; dall’altro lato, la difficoltà di riformulare un nuovo modello complessivo in grado di saldare gli aspetti economici e industriali del nuovo cinema dei blockbuster a quelli estetici e culturali.
Sullo sfondo di queste critiche c’era uno zoccolo duro che in qualche modo rifiutava a priori la possibilità che qualcosa di impattante a livello commerciale potesse mantenere una complessità contenutistica. Uno degli aspetti su cui si insisteva di più era la mercificazione di un corpo che mirava alla spettacolarizzazione visiva, piuttosto che alla costruzione di una profondità caratteriale e psicologica.
In realtà, dietro a questa apparente superficialità vi è una scelta estetica ben precisa: I film non hanno più l’obiettivo di coinvolgere emotivamente lo spettatore, facendolo immedesimare nella storia al punto tale da fargli dimenticare di essere davanti a un prodotto filmico. Al contrario, si vuole offrire una nuova modalità di fruizione della pellicola basata, fra le altre cose, sulla contemplazione del corpo - esposto in tutta la sua prestanza dagli attori - e sulla percezione estetica di quest’ultimo da parte del pubblico pagante.
Fredric Jameson, uno dei più importanti critici americani di cinema, nel suo Firme del Visibile (2003) scrive:
“L’atto del guardare è ovunque e da nessuna parte nella società dello spettacolo, e perciò compare una relazione completamente nuova con l’immagine filmica, in cui lo spettatore semplicemente cannibalizza un’opera d’arte, progettata per questo stesso scopo”.
Da qui, il legame dello spettatore con il film non deriva più da un rapporto emotivo con le vicende dei personaggi sullo schermo, ma piuttosto da un legame di edonismo visivo con quello che scorre davanti ad esso.
Prima degli anni ‘80, gli attori emergevano in virtù del loro talento d’introspezione e di profondità interpretativa, ma non ci si soffermava in modo particolare sulla loro imponenza fisica. In questa casistica troviamo attori come Robert De Niro, Al Pacino e Dustin Hoffman, i quali hanno una statura media e una corporatura smilza.
Con l’avvento della nuova generazione, attori muscolosi come Stallone e Schwarzenegger, rompono con il divismo maschile classico, portando in campo nuove abilità recitative. Pensando alla fortunatissima saga di Rocky (1976- 2018), ad esempio, la centralità del corpo viene enfatizzata da una storia interamente basata sulla cura e l’affinamento della propria fisicità.
Sulla stessa lunghezza d’onda, troviamo la serie di The Terminator (1984-2019), che aggiunge un ulteriore strato di complessità, proponendo la figura del cyborg, che fa riflettere sul concetto di ibridazione fra corpo e macchina, organico e inorganico. Dunque, il corpo diventa anche un luogo per potersi interrogare sull’identità dell’individuo che deve relazionarsi con la società che lo circonda, prima di tutto attraverso il suo aspetto esteriore.
Un sintomo emblematico di questa nuova necessità sociale è la diffusione delle palestre e dei centri di bellezza che, fino agli anni ‘70, erano luoghi estremamente rari e riservati a pochi, mentre dagli anni ‘80 diventano veri e propri luoghi di incontro sociale.
Il New York Times in un articolo uscito il 4 dicembre 1981 le descrive come “the single bars of the 80’s”, permettendoci di legare l’affermazione delle palestre o health clubs all’importanza attribuita alla cura del proprio corpo, sia per la propria rappresentazione identitaria, sia perché questi luoghi d’aggregazione sono diventati fondamentali nel gioco dell’attrazione dei sessi.
Non è casuale che questa ossessiva attenzione per la bellezza esteriore si sia espansa a macchia d’olio proprio in questo periodo storico.
Questi anni sono tragicamente celebri anche a causa di una infezione a trasmissione sessuale (IST) che attacca subdolamente il corpo prima nella sua profondità nascosta, per poi alterare irreversibilmente l’aspetto fisico della persona: nel 1981 viene riconosciuta ufficialmente sotto il nome di AIDS (sindrome da immunodeficienza acquisita).
Sin da subito, lo stigma sociale e la repressione omofobica collegano l’infezione alle pratiche omosessuali e all’uso di sostanze stupefacenti, fomentando l’opinione di associazioni religiose che inquadrano l’AIDS come una “punizione divina” per l’estremizzazione dello stile di vita di una parte della comunità americana già martoriata da marginalizzazione e pressioni mediatiche denigranti.
Paradossalmente, negli stessi anni in cui il culto del corpo perfetto affolla le televisioni, i grandi schermi e gli ambienti di incontro sociale, viene testimoniata in modo eloquente la facilità con cui dietro la bellezza di un aspetto possente e attraente possa celarsi la degradazione e deturpazione della propria pelle, mostrando alle società occidentali quanto sia reale la vulnerabilità del corpo e quanto dietro a una esteriorità inappuntabile si possano celare tragiche forme di debolezza mortale.
Tutt’oggi le opinioni su questa infezione a trasmissione sessuale risente dello stigma dei primi momenti e la comunicazione sanitaria fatica sensibilmente a ribaltare ogni stereotipo per promuovere una seria prevenzione da infezioni e virus. Su questo sfondo, l’azione modellante dei media sull’opinione pubblica e sulla creazione di modelli e canoni estetici continua (quasi) indisturbata, mentre esempi molto coraggiosi di campagne pubblicitarie, trasmissioni televisive e cinema promuovo nuove icone e modelli di bellezza pronti a rompere ogni schema in nome della liberazione dei corpi.
Friedrich Jameson, Firme del visibile, Hitchcock, Kubrik, Antonini, Gabriele Pedullà (a cura di), Donzelli Editore, 2003
L. Gandini, R. Menarini, Gli Stati Uniti tra continuità e discontinuità, in C. Uva, V. Zagarrio (a cura di), Le storie del cinema, Carocci, 2020
G. King, La Nuova Hollywood. Dalla rinascita degli anni Sessanta all’era del blockbuster, Einaudi, 2004
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