Rebecca Peroni
Godless (2017) si propone di sfumare a colpi di revolver i confini tra generi e gender, rompendo i canoni dietro i quali il cinema, proprio come le società moderne, propongono modelli triti e ritriti, che non apportano nuove tonalità significative nel panorama dell’intrattenimento.
La miniserie di Soderbergh e Frank - quest’ultimo molto apprezzato di recente anche grazie a “The Queen’s Gambit” - è un gioco ambizioso di chiaroscuri compromettenti che non può passare inosservato e che rischia consapevolmente di corrompere la sua stessa natura di western per permettersi di sperimentare in direzione di un genere più complesso dell’insieme delle sue singole parti.
Quando lo sceriffo Cook arriva in città, il suo primo pensiero è che tutti siano stati ammazzati come animali. Una sorta di coltre lattiginosa avvolge l’area devastata, come una nebbia bassa che sembra portare ancora il marchio dei mietitori di anime che hanno depredato, giustiziato e abbandonato a cavallo quel luogo, lasciandone i resti fiammeggianti in pasto agli avvoltoi.
Venti, sessanta, un milione: il numero delle vittime è impossibile da stabilire, perché la carcassa del treno deragliato si estende per decine di metri e ha irrimediabilmente corrotto le tracce del massacro.
Uno dei vicesceriffi accenna qualcosa con voce metallica: una ragazza canta, in lontananza, accovacciata davanti al cadavere di un uomo. Dietro, davanti e tutto attorno a lei non ci sono che corpi morti e freddi, con gli occhi ciechi rivolti al sole.
Nella celletta dell'operatore telegrafico, il ragazzo senza vita è stato lasciato con il dito ancora appoggiato all'apparecchio che ha condotto lì Cook e i suoi uomini. Il suo messaggio di SOS si perde nel silenzio tombale di quell’incubo diventato realtà.
Lo sceriffo alza lo sguardo per cercare riparo dalla truculenta strage, ma scorge un bambino impiccato a un palo, macabro vessillo di vittoria che sventola lento, come un pendolo che schernisce gli uomini accorsi in quella landa ormai abbandonata alla morte. La ragazza canta: “Gesù è il potere nella mia anima” ma lo sceriffo ha già capito: sono arrivati troppo tardi.
Quella era diventata una terra senza Dio.
Se siete persone che amano trovare un lieto fine per ogni storia, Godless non è la scelta adatta a voi. Stiamo parlando di una serie originale Netflix, prodotta e distribuita nel novembre 2017, ideata da Steven Soderbergh e Scott Frank, due esimi signori che di cinema ne hanno macinato e diretto parecchio.
Steven è il produttore esecutivo della miniserie, ma anche il regista della fortunata serie di Ocean's Eleven (2001), Twelve (2004), Thirteen (2007), e vincitore della Palma d'oro al 42° Festival di Cannes per il film Sesso, bugie e videotape (1989).
Frank Scott, a sua volta, è lo sceneggiatore di una nutrita collezione di film, alcuni dei quali diventati ormai cari agli amanti di DC Comics e Marvel: Wolverine, L'immortale (2013) e Logan-The Wolverine (2017) nascono dal suo incredibile talento. Nonostante i grandi autori, e gli altrettanto grandi interpreti, questa serie non ha avuto un grosso seguito in Europa e i motivi possono essere molti.
Godless non è una serie per i consumatori “mordi e fuggi”: come ogni western che si rispetti, il telefilm si prende il suo tempo per snocciolare la trama, facendo crescere la coscienza e le abilità dei personaggi al suo interno. Sebbene ci siano soltanto sette episodi, alcuni di essi sono in grado di fermare il tempo in luoghi e situazioni peculiari, che sul momento possono risultare difficili da digerire (e da capire del tutto).
La storia inizia nel 1884, quando un super ricercato chiamato Frank Griffin si trova sulle tracce del figlioccio Roy Goode, il pupillo in cui ha riposto ogni fiducia, insegnamento e “amore” paterno rimasto all'interno della sua corazza di malvagità e follia religiosa. Roy, a dispetto delle aspettative, decide di ribellarsi al controllo dell'anziano patrigno, rubando una grossa somma alla banda di Griffin, decimandoli per poi dileguarsi nel nulla.
Da questo momento in poi assistiamo a un inseguimento serrato: al solo mezzo pettegolezzo su dove si possa trovare questo giovane dallo sguardo corrucciato, Griffin si mette in marcia con la sua orda di fedeli fuorilegge, polverizzando chiunque gli si opponga lungo il cammino. Da qui la mattanza della cittadina di Creede, che ci accoglie con un bel diretto allo stomaco fin dai primi minuti dell'introduzione.
Roy trova rifugio nel ranch di una misteriosa vedova di nome Alice Fletcher, che vive in una sorta di isolamento forzato con il figlio e la suocera, una Nativa d’America dal passato ancora più oscuro. Questi raccontano all’uomo che non possono avvicinarsi alla città limitrofa, La Belle, che ben presto si scopre essere stata teatro di una tragedia a seguito della quale la popolazione era rimasta quasi esclusivamente composta da donne, tutte infuriate con la vedova Fletcher. Saranno proprio queste donne a dover affrontare una lotta impari e destinata a una completa disfatta: quella contro gli uomini di Frank Griffin.
Oltre al lento scorrere del tempo, anche il peggior osservatore si troverà comunque immerso in una cura maniacale del settore fotografico: la drammaticità della storia è imprescindibile, infatti, dalla potenza visiva dei paesaggi, dei contrasti cromatici fra i pochi elementi evocativi che compongono le scene e che mettono in evidenza gli aspetti più materiali e brulli della vita in un ambiente così selvaggio come quello del profondo West. Nessuno ha vita facile in un posto nel quale esistono più modi per morire in maniera atroce che persone in grado di leggere e scrivere.
In Godless non c'è neppure uno svolgimento particolarmente tipico del genere western americano, ma si sente e soprattutto si vede in maniera evidente che gli autori hanno voluto darne una loro personale rilettura, in maniera particolare, attraverso le figure femminili.
Sono immense, formidabili, crude donne forgiate dal dolore di perdite inimmaginabili, eppure, ancora una volta pronte a combattere, perché nessuna di loro ha problemi a imbracciare un fucile o a lavorare in miniera per ricostruire da zero ciò di cui sono state brutalmente private.
È proprio di fronte a queste scene che si può essere quasi tutti concordi nell'affermare che Mary Agnes, interpretata da Merritt Wever, è senza ombra di dubbio la personalità più ingombrante all'interno del cast. Si tratta di una donna che ha stravolto la sua esistenza in ogni aspetto, pur di non permettere alle disgrazie di avere il sopravvento su di lei.
Mary riacquista la sua libertà ideologica, emotiva e amorosa solo dopo una serie di vicissitudini che, in un format più lungo, avrebbero potuto essere sviluppate in modo ancor più interessante. Tuttavia, i flashback che la riguardano danno un bellissimo scorcio sulla metamorfosi di questa leader atipica, consapevole della forza di volontà necessaria per sopravvivere in un mondo fatto da (e ad uso esclusivo degli) uomini.
Vi è poi un inspiegabile e del tutto inaspettato romanticismo, paradossalmente più pronunciato nelle poche figure maschili protagoniste di questa vicenda. Ne è un esempio lo sceriffo di La Belle, Bill McNue, un uomo dai mille difetti, spesso preso poco sul serio dalle donne della città che sembrano più virili di lui, ma che nasconde dentro di sé un’afflizione molto drammatica.
In un mondo dove un uomo deve saper sparare per poter restare in vita, lui sta perdendo la vista, e con essa la capacità di difendere e sostenere la propria famiglia. La sua storia resta una delle più toccanti e la sua crescita è forse una delle parti meglio umanizzate della sceneggiatura.
Al suo fianco troviamo una delicata pennellata di sfrontatezza giovanile, interpretata da Thomas Brodie-Sangster, il sempiterno sedicenne che qui dà prova di saper stare al passo con il resto del cast: è proprio la sua storia che dà vita a uno dei temi razziali affrontati con (forse) poca profondità, ma che resta comunque un buono spunto di riflessione. Il suo amore per una ragazza di colore, esiliata assieme alla sua famiglia in un campo poco lontano dalla città, porta il ragazzino a farsi strada in mezzo agli uomini, contrastandone le ideologie classiste e razziste, a scapito della sua stessa sopravvivenza.
Il pistolero in fuga Roy Goode, che è uno dei personaggi più importanti, ha ben poche battute all'inizio della serie, spesso scarne ma dall'incredibile impatto emotivo. I suoi gesti, il suo impegno silenzioso e costante nel voler creare empatia tra lui, un orfano inselvatichito dalla vita e il figlio della vedova Fletcher, che non ha mai potuto avere una vera figura paterna al suo fianco, fanno riflettere su quanto più complessa e stratificata sia l'immagine che il regista voleva dare alla propria creatura.
Questa caratterizzazione emerge innegabilmente in molti dei personaggi, anche se su diversi livelli di intensità e regala all'intera serie un'atmosfera non prevedibile, a tratti profondamente sentimentale. Perfino con la figura del villain gli spettatori vengono travolti da momenti di puro sfogo emotivo: sembra quasi che Griffin sia più arrabbiato con se stesso che con gli altri. Egli è un uomo dalla morale ambigua, avvinto e marchiato dal suo passato, ormai innegabilmente deplorevole, ma non così del tutto malvagio da non essere afflitto da profondi sensi di colpa.
Guardare questa serie senza ricercare una lettura più profonda dei temi, delle dinamiche di potere atipiche fra i personaggi maschili e quelli femminili e, per concludere, del pastiche stilistico con cui gli autori arricchiscono un genere che è stato già rimaneggiato tanto, non rende giustizia alla sua bellezza complessiva.
Godless resta un piccolo cimelio da vedere almeno una volta, consapevoli del fatto che non ha un impatto scontato. Non è adrenalinico come un telefilm di pura d'azione, ma possiede una gran varietà di sfaccettature emotive e di suggestioni dalle quali vale la pena lasciarsi colpire, per scoprirsi, d’altro canto, tutti più deboli e umani, nei nostri errori, così come nelle nostre paure.
Foto 1 da ign.com
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