#Zich. Scrivere etrusco ad Arezzo e nel suo territorio è un progetto di musealizzazione tematica sviluppato nel 2017. Il progetto è stato concepito come percorso permanente all'interno del Museo Archeologico Nazionale "Gaio Cilnio Mecenate" di Arezzo ed è stato coordinato dalla Direzione Regionale Musei Toscana, in collaborazione con la Cattedra di Etruscologia e Antichità italiche dell'Università di Bologna e con l'Accademia Petrarca di Lettere Arti e Scienze di Arezzo.
Il progetto è stato curato da Andrea Gaucci e da Maria Gatto, Direttore del Museo Archeologico Nazionale "Gaio Cilnio Mecenate".
Qui sotto vengono nuovamente editati tutti i testi dei video, accessibili tramite link cliccando sui titoli dei box.
Ogni video corrisponde a un contenuto presente nei pannelli che accompagnano il percorso tematico che si snoda nelle sale del Museo.
Nello sperimentare un percorso museale innovativo, basato su supporti informatici, in linea con lo sviluppo delle comunicazioni e capace di una implementazione continua, si è scelto di affrontare come tema la scrittura etrusca. L’introduzione della scrittura in Italia, e prima di tutto presso gli Etruschi, è stata una rivoluzionaria innovazione mediata dai Greci a partire dalla fine dell’VIII secolo a.C. Fissare la parola attraverso il testo scritto portò infatti importanti stimoli alle antiche civiltà italiche e contribuì alla formazione di quella società urbana di cui gli Etruschi furono la massima espressione prima del dominio di Roma e che ancora oggi è parte del nostro patrimonio culturale e civile.
L’associazione fra gli antichi testi e gli approfondimenti multimediali accessibili tramite il codice QR presente nei pannelli, vuole stimolare la riflessione nel confronto tra l’apporto che l’antica forma di comunicazione ha dato alla civiltà etrusca nella sua storia e i mutamenti che le più innovative forme di comunicazione stanno maturando nella società moderna. Non a caso il titolo del percorso è Zich, la radice etrusca del verbo scrivere e delle parole derivate.
Il percorso propone una sintesi sulla diffusione della pratica scrittoria nel territorio dell’Arezzo etrusca. Su un totale di circa 125 testi iscritti noti (molti ormai perduti e dispersi), databili tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., si sono selezionati 16 documenti che ci introducono ai diversi usi della scrittura e a tematiche più generali sulla civiltà etrusca.
Come la maggior parte dei testi etruschi (13000 circa quelli noti), quelli di Arezzo sono piuttosto brevi. Infatti, la conoscenza della lingua etrusca è dovuta soprattutto a testi di natura privata, per lo più nomi di persona. La ricerca archeologica e gli studi linguistici hanno tuttavia consentito notevoli progressi nella conoscenza di questa lingua.
La lingua etrusca è sostanzialmente priva di legami familiari con altri ceppi linguistici, come ad esempio quello indo-europeo da cui discendono il Latino e il Greco e che è alla base della maggior parte delle lingue europee attuali, fra cui l’Italiano. L’Etrusco è pertanto una lingua di difficile comprensione. Diversamente, la scrittura etrusca si basa su un alfabeto leggibile senza particolari difficoltà, derivando da quello greco con piccole modifiche ed essendo affine a quello latino da noi usato. La diffusione dell’alfabeto nei territori abitati dagli Etruschi, a nord fino a Mantova in Lombardia e Adria in Veneto, a sud fino a Pontecagnano vicino a Salerno, e il particolarismo che ha sempre caratterizzato le comunità etrusche, hanno comportato da luogo a luogo molteplici varietà nella pronuncia della lingua e nella scrittura delle lettere. Ad Arezzo, le più rilevanti caratteristiche scrittorie sono quelle che accomunano i territori etruschi del nord della Toscana e della pianura padana. Stili e mode della scrittura ebbero inoltre continue modifiche nel tempo, come sarà possibile notare anche dai documenti del percorso.
La scrittura e lo strumento per realizzarla, l’alfabeto, furono acquisite in Etruria alla fine dell’VIII secolo a.C. grazie ai contatti con i Greci di Eubea, che per primi riaprirono le rotte marittime verso l’Occidente già battute dai Micenei nell’età del Bronzo. Proprio gli Eubei avevano fondato in Campania le più antiche colonie greche d’Occidente (Ischia, cioè l’antica Pithecoussai, e Cuma), in stretto contatto commerciale con gli Etruschi. I Greci ebbero quindi un ruolo fondamentale nel trasmettere questo innovativo metodo di comunicazione nella Penisola non solo agli Etruschi, ma anche ai Latini tramite intermediazione etrusca e alle popolazioni dell’Italia meridionale. Gli Etruschi a loro volta trasmisero la pratica scrittoria ad altri popoli che abitavano la penisola fino ai Veneti, Reti e Celti oltre il Po e lungo l’arco alpino.
La formazione delle città e di società più strutturate già nell’VIII secolo a.C. favorì l’accoglimento da parte degli Etruschi di questa innovazione. I testi più antichi, in numero di poche centinaia, si datano al periodo comunemente noto come Orientalizzante (compreso tra la fine dell’VIII e gli inizi del VI secolo a.C.). In questo periodo la conoscenza della scrittura era appannaggio dei ceti dominanti. Di questa fase così antica della scrittura, rimangono infatti per lo più formule tracciate su oggetti che ne dichiarano la proprietà da parte di un individuo oppure che esplicitano il rituale del dono all’interno di cerchie aristocratiche.
Da via Roma, probabilmente in un’area dell’importante santuario le cui decorazioni architettoniche furono ritrovate in San Jacopo, proviene un vaso, forse una brocca, la greca oinochoe, databile alla prima metà del VI secolo a.C. e probabilmente prodotta ad Orvieto. Su una fascia a risparmio del vaso è dipinta una sequenza alfabetica, cioè questa è stata realizzata prima della cottura del contenitore e concepita come parte integrante di questo. A conferma della probabile origine orvietana, l’alfabeto presenta elementi distintivi delle norme scrittorie usate in questa città e nella parte meridionale dell’Etruria (in particolare la presenza della lettera gamma, non usata ad Arezzo fino alla fine del IV secolo a.C.). Se effettivamente questo vaso apparteneva al complesso sacro, non dobbiamo sottovalutare il valore magico che aveva la sequenza alfabetica e più in generale la carica sacrale che ebbe la scrittura per gli Etruschi nel rapporto con le divinità.
Una fra le categoria di testi più antichi è quella degli alfabetari. Si tratta di sequenze alfabetiche redatte su oggetti di prestigio. Non sono da ritenere soltanto strumenti di apprendimento della scrittura, come saremmo indotti a credere, ma hanno invece anche un forte valore simbolico e magico. I più antichi alfabetari di VII secolo a.C. presentavano ancora lettere greche e fenicie che corrispondono a suoni assenti nella lingua etrusca. La presenza di lettere non utilizzate è indizio di una fase ancora sperimentale e di elaborazione della scrittura. Solo con la fine del secolo dagli alfabetari furono eliminate le lettere inutili. Il documento di via Roma presenta una serie alfabetica già riformata, seppure l’omissione di alcune lettere lo renda piuttosto una “evocazione” dell’alfabeto (cioè uno ‘pseudo-alfabetario’).
La scrittura assunse in Etruria un ruolo fondamentale nel rapporto fra uomini e divinità. Infatti quella etrusca era una religione scritta e codificata da un nucleo di libri, cioè quella che è chiamata la disciplina etrusca. Tale religione era inoltre rivelata: infatti i miti narrano che questi libri furono trasmessi agli uomini da creature divine come Tagete, il bambino dalla sapienza di un vecchio, e la ninfa Vegoia (lasa Vecuvia in Etrusco). Non è quindi un caso che i più lunghi e articolati testi etruschi rimasti abbiano un carattere sacro e siano calendari rituali. La pratica del culto si formò in analogia alla liturgia delle corti aristocratiche di VII-VI secolo a.C. e il rapporto con la divinità ricalcava quello dello scambio di doni fra individui di alto rango sociale. In questo modo, l’offerta alle divinità assumeva la forma di un accordo tra privati fissato dal testo scritto in un universo dove anche gli dei sapevano leggere e scrivere. L’uso della scrittura nelle cose sacre si sviluppò infatti in parallelo all’emancipazione dei luoghi sacri dal potere aristocratico, con lo sviluppo delle città e con l’antropomorfizzazione delle divinità (stimolata dal contatto con Greci e Levantini). Con la nascita dei grandi santuari, durante il VI secolo a.C., la pratica scrittoria venne strettamente legata al culto, tanto che proprio questi luoghi del potere religioso ospitavano scuole, divenendo così i centri di riferimento primari per l’elaborazione e l’apprendimento della scrittura.
Nel 1553, presso Porta San Lorentino, fu ritrovata la grande statua in bronzo raffigurante la mitica Chimera, databile agli inizi del IV secolo a.C. La statua presenta lungo la zampa anteriore destra l’iscrizione tinścvil, la quale è stata incisa direttamente sul modello in cera prima della fusione. Tale parola, composta dai termini tinś e cvil, è stata generalmente intesa come “dono a Tina”, seppure si propenda ora verso il significato più generico di “offerta”. E’ stato ipotizzato che la scultura, isolata o assieme al suo avversario Bellerofonte, fosse un dono per un importante santuario sub-urbano, forse dedicato al medesimo Tina, come lascerebbero intuire altri bronzetti votivi rinvenuti assieme alla più grande scultura.
L’iscrizione rientra in una serie di testi etruschi che indicano il dono di un oggetto alla divinità. In età arcaica il testo di dedica conteneva il nome e il verbo usato nel dono fra uomini, esplicitando così una pratica che ricalcava quella in uso fra gli aristocratici; era invece assente il nome della divinità, pertanto sottinteso. Successivamente e su influsso greco, la formula cambiò e si fece sempre più ricorrente il nome della divinità. Tale nuovo formulario rientrava in una pratica di ex-voto legata a grazie ricevute o risposte oracolari. Nella Chimera, l’isolamento della parola tinścvil costituisce il massimo della stringatezza e della discrezione della dedica votiva. L’assenza del donatore potrebbe suggerire una collettività pubblica, e la divinità, in questo caso sottintesa, deve essere stata quella venerata nel santuario.
L’iscrizione della Chimera presenta lettere in uso nell’Etruria meridionale, come dimostra la presenza del gamma, e settentrionale insieme. Questa peculiarità agli inizi del IV secolo a.C. è forse da legare ad una maestranza itinerante composta di artigiani magnogreci ed etruschi provenienti dall’area tra Orvieto e Veio o dai vicini territori falisci, che operarono ad Arezzo attirati dalle possibilità economiche della città.
Dal santuario di Castelsecco, sulla collina di San Cornelio, provengono due mattonelle di pietra, che recano incise in lettere capitali l’una tinś lut e l’altra flere. Con il primo termine va inteso “area consacrata dedicata a Tina”, la massima divinità del pantheon etrusco (Zeus per i Greci), o forse va piuttosto letto come un’unica parola composta tinślut dal più generico significato di “area sacra”. Flere invece significa semplicemente “dio”, e indica una divinità non esplicitamente nominata, forse quella titolare del santuario. Si ritiene che queste mattonelle facessero parte di un’area delimitata con un rituale, liberata da spiriti non graditi e inaugurata, cioè uno spazio consacrato (templum in terris in latino) all’interno dell’imponente santuario di III-II secolo a.C. Tale area è stata interpretata come un auguraculum, cioè un luogo sacro ed elevato da dove osservare i segni del cielo, come i fulmini e il volo degli uccelli, classificati metodicamente dalla disciplina etrusca. Le iscrizioni di queste mattonelle non avevano dunque una semplice funzione monumentale, ma esplicitavano attraverso la parola scritta la pertinenza sacra e le forme del culto del luogo nel quale erano state ritualmente poste.
Nel 1630 fu rinvenuto ad Arezzo uno dei più mirabili specchi dell’arte etrusca, comunemente definito “pàtera cospiana” dal nome del suo più importante e noto proprietario, il Marchese Ferdinando Cospi di Bologna. Lo specchio è oggi conservato al Museo Civico Archeologico di Bologna.
La descrizione del ritrovamento, in un luogo non meglio specificato di Arezzo, ne testimonia l’uso come coperchio di un’urna cineraria. Lo specchio è datato al 330-320 a.C. circa ed è caratterizzato da un lato riflettente e dal retro decorato con una complessa scena incisa. Si tratta della narrazione della nascita di Menerva dalla testa di Tina, trasposizione etrusca del noto mito greco della nascita di Atena dalla testa di Zeus. Le divinità sono indicate da didascalie, assecondando così l’esigenza di individuare i protagonisti dei miti, secondo un uso presente nelle iconografie etrusche dal VII secolo a.C. Al centro della scena siede su un rialzo roccioso Tina, la massima divinità etrusca, corrispettivo di Zeus, assistito da Thalna e Thanr, cioè le Ilizie greche, divinità tutelari dei parti; a lato Sethlanś, il greco Efesto, riposa dopo aver spaccato con l’ascia bipenne la testa del padre. Sopra Tina, piccola e già armata, è Menerva, unica divinità senza didascalia.
Nel VI secolo a.C. il processo di identificazione delle divinità etrusche con quelle greche si era ormai concluso. Questo processo portò in alcuni casi a vere e proprie assimilazioni, in altri a vaghe somiglianze, mentre alcune divinità rimasero tutte locali. Zeus, per esempio, entrò in Etruria con il suo bagaglio greco di miti e immagini, come lo specchio ben dimostra. Il permanere del nome pienamente etrusco rivela tuttavia come Tina, cioè il dio “della luce” (dove tin- è radice comune al nome del dio e alla parola “giorno” in Etrusco), fosse già venerato e parte dell’antico patrimonio religioso locale.
Per gli Etruschi il mondo era pervaso da segni divini che dovevano essere decodificati. Tutti i fenomeni della natura erano quindi catalogati nei libri sacri, per essere poi riconosciuti e interpretati. In alternativa, le divinità potevano essere interrogate direttamente mediante la cleromanzia, arte divinatoria basata su sortes, cioè barrette di metallo o ciottoli iscritti contenenti messaggi la cui estrazione da un contenitore si credeva guidata dal volere divino.
Ad Arezzo doveva essere presente un famoso santuario di Apollo oracolare, come ricordato dal commediografo latino Plauto. La notizia è confermata dal rinvenimento di due sortes datate al III-II secolo a.C.
La maggior parte delle sortes a noi giunte presenta il nome del dedicante e qualche volta della divinità: si tratta forse di semplici riproduzioni votive donate come ringraziamento per un responso favorevole. Un ex-voto doveva essere il disco di piombo dal cimitero di Fratèrnita, che reca inciso il termine Suri, ritenuto un appellativo del dio Manth con il probabile significato di “il Nero”, ad indicare il mondo infero che questa divinità dominava. Già dalla seconda metà del VI secolo a.C. Manth, molto presente nella vita religiosa degli Etruschi, fu assimilato al greco Apollo, con il quale condivideva la connotazione oracolare e in particolare la cleromanzia.
Dalle immediate vicinanze della chiesa di Santa Croce, dove altri resti indiziano la probabile ubicazione del santuario, proviene invece una vera e propria sors: un ciottolo che presenta in ogni faccia una iscrizione excisa, cioè fatta abbassando la superficie attorno alle lettere: le lettere a rilievo erano il simbolo della parola divina presente fatalmente sul ciottolo già prima della sua lavorazione. Su una faccia si legge Aplu Puteś, l’etruschizzazione del greco Apollo Pizio, cioè la divinità oracolante per eccellenza, e nell’altra faccia è il responso, che impone l’offerta, tur in etrusco, ad un genio Farthan. Questo genio è forse il medesimo Aplu o un’altra entità divina attualmente non meglio definibile.
I più antichi testi scritti in Etrusco conservati sono spesso semplici formule che esplicitano il possesso o il dono. Quando apparve la scrittura in Etruria, l’onomastica era ormai sostanzialmente definita. Apprendiamo così nomi di individui che dobbiamo ritenere appartenessero all’élite della società del tempo. Questi avevano un nome individuale, il prenome, accompagnato da un secondo nome ereditario, il gentilizio, che identificava la famiglia di appartenenza come gli attuali cognomi. L’uso dei gentilizi differenziava gli Etruschi e altre popolazioni della penisola come ad esempio i Latini, dal resto dei popoli del Mediterraneo antico, che aggiungevano al nome individuale quello del padre, cioè il patronimico, o soprannomi. Tale importante “invenzione” era strettamente connessa all’ereditarietà della terra e dei possedimenti ed è ancora oggi un significativo lascito dei nostri antenati.
La condizione sociale delle donne etrusche era sicuramente più vicina alla cultura moderna di quanto lo fosse nel mondo latino e greco. Questo è dimostrato da molti documenti archeologici a partire dagli affreschi parietali delle tombe di Tarquinia. I testi etruschi ci conservano molti nomi femminili e pare significativo che le formule onomastiche fossero comprensive del prenome delle donne. Il prenome è infatti espressione dell’individualità e ad esempio nelle iscrizioni latine non era consentito che le donne lo inserissero. Nelle iscrizioni funerarie di età ellenistica, quando i documenti scritti sono in quantità maggiore, emerge tuttavia un dato piuttosto contrastante con questo quadro. Nelle iscrizioni funerarie, soprattutto quelle che rimangono all’interno della visibilità familiare come le urne, l’onomastica femminile spesso era priva di prenomi. Le donne quindi venivano identificate soltanto dal gentilizio e dal nome del marito accompagnato eventualmente dal termine puia, che significa moglie. Così la donna perdeva nel ricordo postumo la sua connotazione individuale e veniva identificata in quanto moglie oppure madre, come suggerisce la diffusa pratica del metronimico.
Il caso dell’urna funeraria in travertino da Casalta di Lucignano ci documenta una donna, identificata dall’iscrizione come “Larthia Spurinei della Tetinei”. Qui abbiamo uno dei rari casi di presenza del prenome, identificato nell’abbreviazione L puntata che sta per Larthia, e, come ci aspetteremo, la connotazione del gentilizio paterno Spurinei e materno Tetinei, entrambi alla forma femminile. Nel caso di Spurinei, la terminazione -nei è il corrispettivo femminile del maschile -na. Nella lingua etrusca non è generalmente attestata la distinzione di genere, ad eccezione appunto dei nomi di persona.
Il santuario di Pieve a Socana fu edificato lungo la via che da Arezzo portava in Casentino e, attraverso i passi appenninici, nella Romagna etrusca e umbra. Oltre agli importanti resti di un tempio tuscanico e di un grande altare, il santuario ha conservato grandi dischi in pietra fetida, che dovevano essere stati posti all’interno del recinto sacro e che furono in seguito ammassati, forse al momento del rifacimento del tempio in età ellenistica.
Benché il loro uso rimanga ancora incerto, questi dischi sono stati recentemente ritenuti altari per il sacrificio, poggiati sul suolo e dedicati ad una divinità solare e ctonia al tempo stesso, da identificare con Manth.
L’altare discoidale di Socana, databile entro i primi decenni del V secolo a.C., tra i molti segni forse legati anche al suo uso per sacrifici cruenti, presenta due testi, uno di difficile lettura e l’altro costituito dal solo nome del donatore, Arut Kreinie. La formula usata è molto semplice, dato che si dichiara solo il prenome Arut e il gentilizio Kreinie, che lascia trasparire un personaggio di rango. In particolare, il gentilizio tradisce inoltre una affinità con l’etnico greco Graios, in etrusco Kraie.
La maggior parte dei testi etruschi conservati sono legati ai luoghi della morte, come avviene anche ad Arezzo e nel suo territorio. Questo dipende dai supporti che venivano usati, molto duraturi, ma anche dall’importanza che veniva data all’individuo e alla sua memoria anche dopo il trapasso. Si possono trovare: iscrizioni su vasi e altri contenitori che fanno parte degli oggetti che accompagnano il defunto e sono pertanto doni funebri; iscrizioni sui contenitori funerari (cioè sarcofagi, urne, vasi), destinati a rimanere chiusi nelle tombe; infine iscrizioni su monumenti funerari all’esterno delle sepolture, che tutti potevano leggere.
I testi di dono funebre riguardano una sfera privata e così troviamo un’onomastica limitata spesso ai soli nomi individuali. I monumenti funerari e i contenitori dei resti dei defunti, visibili a più persone, dichiaravano invece in maniera più articolata l’identità del defunto. Il sito di Marciano, importante centro della Valdichiana occidentale, permette di avere uno spaccato di questi ultime categorie di testi funerari.
Al periodo arcaico si data il frammento di pietra arenaria con un’iscrizione incisa ritrovato nel 1832. Il frammento, tagliato in età moderna per farne pietra da costruzione di un edificio, è da ritenere pertinente ad una stele di grandi dimensioni. Il monumento doveva segnalare il sepolcro di Laris Halasnaś, ricordato dall’iscrizione che corre in verticale lungo il fianco del frammento conservato.
Il prenome Laris è uno dei più diffusi nell’onomastica etrusca. Nel gentilizio Halasnaś, le due lettere aś che abbiamo racchiuso nella trascrizione fra parentesi graffe sono interpretate come errore dello scalpellino, che verosimilmente si dimenticò la lettera ny e quindi ripeté la parte finale correggendola. Questo gentilizio si forma secondo un processo ben noto nell’onomastica etrusca: la terminazione –na, molto diffusa nei gentilizi, significa “appartenenza” ed era usata anche per gli aggettivi, come mostrano ad esempio il sostantivo suthi, che significa “tomba” e il derivato suthina che significa “della tomba”, cioè funerario. Questi nomi erano infatti la fissazione di antichi aggettivi formati con il nome del padre. La speciale terminazione finale con sade veniva invece aggiunta a molti gentilizi, assumendo un valore distintivo sul piano sociale, probabilmente per distinguere le famiglie di più antica nobiltà da quelle di più recente formazione. Il ma finale, ancora di incerto significato, è presente nelle iscrizioni funerarie su stele e cippi.
La posizione di gran lunga prevalente delle iscrizioni è interna alla tomba. Sono da considerare in questa categoria non solo quei testi iscritti direttamente sulla struttura del sepolcro stesso (cioè sulle pareti interne della tomba, graffiti o dipinti che siano), ma anche quelli, molto più numerosi, apposti sui contenitori funerari (sarcofagi, urne, olle e altri cinerari), come il caso delle urne di età ellenistica degli Steprni. Anche se è possibile pensare che le urne, prima della deposizione all’interno della tomba, fossero temporaneamente visibili ai partecipanti alle esequie, non c’è dubbio che i fruitori principali di questi contenitori iscritti dovevano essere coloro che avevano periodicamente accesso alla tomba, ossia gli eredi dei defunti, che potevano riconoscere in questo modo le sepolture dei loro antenati.
In età ellenistica l’onomastica subisce importanti cambiamenti. Si ha infatti una drastica riduzione del numero dei prenomi, che così perdono la loro forza identificativa individuale. Questo porta a scriverli spesso in forma abbreviata e all’esigenza di identificare il defunto con altri elementi propri dell’onomastica. Il formulario più semplice, come in età anteriore, è quello che prevede prenome e gentilizio. L’urna di Avle Steprni è chiara testimonianza di questo costume. Ma in questo periodo troviamo più frequentemente formule più complesse, dove prenome e gentilizio sono affiancati da un ulteriore nome familiare, il cognomen, oppure dal nome del padre, cioè il patronimico, o quello della madre, cioè il metronimico come il caso di Larth Steprni figlio della Authnei. Alcune volte patronimico e metronimico potevano essere seguiti dalle parole figlio (clan) o figlia (sech).
Con le guerre sociali tra il 91 e l’88 a.C., l’estensione della cittadinanza romana a tutte le popolazioni italiche a sud del Po comportò l’adozione di formule onomastiche conformi alla cultura dominante. Le iscrizioni bilingui latino-etrusche presentano la convivenza di una formula onomastica in etrusco ed una in latino: per chi scriveva, questa duplice espressione rappresentava l’esigenza di distinguere nettamente i due sistemi, che vennero comunque usati in parallelo fino ad epoca tarda, almeno fino ai primi decenni del I sec. d.C. Infatti, la formula etrusca e quella latina erano diverse e questo dipendeva primariamente dalla posizione che avevano le iscrizioni funerarie: esposta ai passanti nel mondo romano, chiusa nelle sepolture in quello etrusco. Quindi, mentre le prime avevano una connotazione pubblica, le seconde erano destinate ad una cerchia familiare e potevano essere più libere nel formulario.
In generale, il patrimonio onomastico latino non era molto distante da quello etrusco, avendo in comune molte radici. La latinizzazione del gentilizio, formulata in ottemperanza all’acquisizione della cittadinanza, avveniva adattando il nome etrusco ai suoni diversi della lingua latina. Solo di rado, quando la vocalizzazione avrebbe portato a nomi insoliti, si adottarono gentilizi anche molto diversi dagli originari etruschi. Invece, il numero ridotto e standardizzato di prenomi nel mondo romano comportava una scelta vincolata e ben diversa dall’originario prenome etrusco, appartenente ad una casistica generalmente più variabile soprattutto da città a città.
Nel 1954, nella necropoli aretina in località Pino di Saione datata tra età ellenistica e tardo imperiale, fu rinvenuta in una tomba a pozzetto un’urna in travertino con corredo. L’urna presenta una doppia iscrizione, in latino e in etrusco. Il corredo, composto da vasellame da mensa e per contenere liquidi, oltre che strigili di bronzo, è datato verso il 10 a.C. circa.
Nella formula latina troviamo il prenome, dove Cn. sta per Gnaeus, il gentilizio Laberius e la filiazione A. f., che sta per Auli filius cioè figlio di Aulo, a cui si possono aggiungere la tribù romana a cui la città di Arezzo fu assegnata Pom., che sta per Pomptina. Può inoltre esserci il cognome, non attestato nella nostra iscrizione. Nella formula etrusca troviamo il prenome in forma abbreviata, un a. che sta probabilmente per Arnth, il gentilizio Haprni, la filiazione paterna, dove anche in questo caso la singola a è iniziale del padre, e quella materna, dove achratinalisa significa “quello di Achratinei”. In Achratinalisa il sa finale è un pronome che sottintende la parola clan, cioè figlio, marcando così la discendenza. La presenza della tribù romana a cui la comunità di Arezzo fu designata nella formula latina è indizio di una ufficialità che la formula etrusca non mostra. Notiamo inoltre come non vi sia parallelo onomastico tra l’Arnth Haprni etrusco e la sua identità come cittadino romano, cioè Gnaeus Laberius.
La pratica di marchiare gli oggetti con segni grafici è indipendente dall’introduzione della scrittura e già presente in età pre-alfabetica. Tali segni spesso assumevano un valore funzionale nell’ambito dell’attività domestica e di quella produttiva, come conteggi e operazioni di tessitura. Con l’introduzione dell’alfabeto e la diffusione della pratica scrittoria, singole lettere e numeri furono ampiamente usati, fra le altre attività, ad esempio per conteggiare partite di prodotti nelle botteghe artigianali, guidare il montaggio di oggetti complessi, contrassegnare merci. Questi speciali segni grafici, fra cui soprattutto i numeri e le prime e le ultime lettere dell’alfabeto ad indicare l’inizio e la fine di un lotto, sono per noi maggiormente visibili sui vasi.
Sulla ceramica figurata di Atene, ampiamente apprezzata e richiesta dagli Etruschi, accade di trovare sigle più complesse, come ad esempio monogrammi composti da lettere fra loro legate, abbreviazioni di nomi, altri segni grafici di più difficile decifrazione. Queste sigle erano apposte dai mercanti che hanno agito da intermediari fra le botteghe ateniesi e gli acquirenti etruschi. Se molte di queste sigle sono da attribuire a Greci, emerge sempre più negli studi che anche imprenditori etruschi hanno agito in questo mercato e apposto le loro sigle sui prodotti acquistati. Grazie a questi contrassegni è possibile ricostruire le vie commerciali seguite dai singoli prodotti partiti da Atene, individuare le sedi dei principali mercanti e il loro raggio di azione.
Significativo è il contrassegno graffito con una punta sotto il piede del grande cratere a volute a figure rosse del 510-500 a.C. probabilmente rinvenuto in un luogo non meglio precisato della campagna aretina e realizzato dal celeberrimo Euphronios, uno fra i più importanti maestri e innovatori delle cerchie artigianali ateniesi. Il contrassegno è simile ad altri presenti su vasi attici soprattutto rinvenuti a Vulci e si può interpretare come monogramma, leggendovi za o az, forse l’iniziale di un nome di persona come Zarmaie. La sua funzione è dunque quella di marchio commerciale di un mercante etrusco che lavorava nel mercato greco sia acquistando direttamente dalle botteghe ateniesi quando il marchio è isolato come in questo caso, sia comprando prodotti da altri mercanti quando il marchio è associato ad altri. Vulci doveva essere la piazza d’affari privilegiata di questo intermediario e da qui è probabile che il grande vaso di Euphronios sia partito per raggiungere il suo ultimo proprietario.
I testi etruschi ci documentano un ridotto numero di firme di artisti, apposte su vasi, affreschi, decorazioni fittili. Il numero risulta ancora più esiguo se comparato con la grande quantità di materiale rinvenuto attraverso le ricerche archeologiche. Risulta spesso anche difficile riconoscere queste firme, perché possono essere associate ad un verbo del ‘fare’, come le forme perfette zinake, meneke, akasce, che viene usato anche con diverso significato, oppure essere del tutto prive di verbo (in questi casi è il contesto che guida nell’interpretazione del nome come firma di artista). Dopo una prima fase di dipendenza clientelare degli artigiani nel VII secolo, le firme di età successiva ci restituiscono informazioni anche sulla condizione sociale sia di libertà, con la presenza o meno di gentilizi, che di schiavitù. Fra questi, contiamo alcuni artisti greci che lavorarono in Etruria e firmarono o in Greco o in Etrusco le loro opere. Il più famoso di questi è sicuramente Aristonothos, che significa “il più nobile dei bastardi”, che lavorò nella città etrusca di Cerveteri nel VII secolo a.C.
Fra le firme di artisti si annovera ad Arezzo nel tardo III sec. a.C., in un’Etruria ormai in fase di romanizzazione, quella apposta a crudo sul listello di base di una lastra fittile decorata ad alto rilievo con figure. Il frammento di lastra, che doveva ornare il tetto di un edificio, fu recuperato attorno al 1668 nel corso dei lavori per la realizzazione del Convento dei Gesuiti.
L’iscrizione testimonia l’adozione della lettera gamma per il suono /k/, tipica delle iscrizioni dell’Etruria meridionale come dimostrano l’alfabetario di via Roma della Sala I e l’iscrizione della Chimera nella Sala II del piano inferiore del Museo. Questa lettera fu adottata anche ad Arezzo con la fine del IV secolo a.C. in sostituizione del kappa fino ad allora usato per il medesimo suono. Si legge cnei: urste: il nome è quello di un liberto, cioè una persona liberata dalla schiavitù. Questo liberto assunse il prenome Cnei, corrispondente del latino Gnaeus, conservando come cognome il proprio nome greco di schiavo, Oréstes, etruschizzato Urste. Cnei Urste faceva parte di quel ceto servile che deve aver costituito lo scheletro delle maestranze impegnate nella coroplastica aretina di periodo ellenistico.
Gian Francesco Gamurrini (1835-1923) fu figura di primo piano dell’archeologia aretina e nazionale. Ricoprì prestigiosi incarichi e fu instancabile archeologo militante nel territorio aretino. Uno dei suoi primari interessi fu quello epigrafico, come dimostrano il giovanile lavoro del 1859 dal titolo Le iscrizioni sui vasi fittili aretini e l'Appendice al Corpus inscriptionum Italicarum ed ai suoi supplementi di Ariodante Fabretti, uno dei lavori più significativi dello studioso aretino, edito a Firenze nel 1880. Il monumentale lavoro del Fabretti, con i supplementi e l’Appendice ultima del Gamurrini costituirono per lungo tempo il più importante riferimento per le iscrizioni non latine dell’Italia antica, e sono ancora oggi fondamentali soprattutto per tutti quei testi andati perduti.
L’Archivio di Gamurrini costituisce spesso l'unica fonte per la conoscenza del consistente nucleo di iscrizioni perdute di Arezzo e del suo territorio. E' il caso di una stele in arenaria dal profilo irregolare rinvenuta presso Marciano. L’iscrizione, chiaramente funeraria, correva lungo il profilo superiore e il testo recitava ‘io (sottinteso “sono”) di Venel Velchuzine’. Questa è databile al periodo arcaico e si affianca a quella di Laris Halasnaś della Sala IV, anch’essa documentata dal Gamurrini. Venel, al pari di Laris, è prenome fra i più comuni, mentre il gentilizio Velchuzine è documentato in epoca ellenistica nella vicina Perugia con la forma ormai contratta delle vocali Velchsna, secondo un fenomeno tipico della lingua etrusca dal V secolo a.C. in poi.
Voce: Francesco Botti (Spazio Seme)
Testo e video: Andrea Gaucci
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