Vecchia nella ricezione

Il panorama letterario successivo all’Archaia nel quale si inserisce l’immagine della graus non prescinde dalla codificazione di questo personaggio realizzata sulla scena comica tra Aristofane e Menandro [cfr. Oeri (1948, 67 s.)]. Gli elementi che alla Archaia giungono sia dall’epos sia dalla lirica a poco a poco diventano canonici ed esclusivi per la figura di questa maschera, che sembra specializzarsi nel profilo di donna dalle inclinazioni negative. Del resto, al di là dell’Ecale di Callimaco, per la quale non è difficile evocare il paradigma della buona nutrice, dell’ospite premurosa, della donna accorta, modellata anche sull’Euriclea omerica, la Vecchia, sia tra mimo ed epigramma e in prosa con il romanzo e con Luciano (Dialoghi delle cortigiane III, VI, VIII e IX, ma anche Alcifrone, per esempio II 25, II 8, IV 6), sia nella produzione latina rivela spesso un’indole scurrile e smodata, un’attrazione indecorosa per i piaceri sessuali, nonché un’inclinazione deleteria al vino secondo il modello della liebestolle Alte e della trunksüchtige Alte. A differenza della commedia, invece, è possibile individuare nella produzione ellenistica e imperiale una minore attenzione per le caratteristiche fisiche della graus: il suo colorito giallastro, la sua pelle raggrinzita, il naso camuso e gli occhi strabici, tipici nella Archaia e presenti ancora nella Nea, sembrano essere elementi ormai assodati. L’epigramma, tutt’al più, per ovvi motivi di genere letterario, segnala con interesse il colore canuto dei capelli delle vecchie defunte, al fine di codificare un tratto comune della graus dai capelli canuti, vale a dire la graus polie. Allo stesso tempo viene meno anche una casistica precisa relativa ai lavori ai quali la graus si dedica, mentre sembra diventare ricorrente il suo ruolo di nutrice. L’attenzione alla marcescenza fisica della donna, condannata alla vecchiaia, al suo inesorabile decadimento fisico, invece, nel segno di una violenta vetula-Skoptik, diventa per lo più abituale e ricorrente con l’Orazio degli Epodi (VIII e XII) e delle Satire (VIII), o con la descrizione della vecchiaia senza grazia che attende Cinzia in Properzio dopo l’abbandono dell’amante (III 25): si tratta di casi di non poco peso ai quali, tuttavia, si intreccia la dissacratoria irruenza di Ipponatte e di Archiloco al modello comico della Archaia [cfr. Watson (2003, 100-121)]. Nella ripresa di questo carattere, dunque, occorre fare attenzione e valutare in generale una tendenza, sviluppata dopo il V secolo, a scorgere nella Vecchia un tipo che ben si presta al dileggio, una maschera dai tratti spesso volgari che però non sempre sono messi in risalto dalla Archaia. Procediamo, dunque, con ordine a partire dall’esame dei primi testi che, cronologicamente vicini alla Archaia, risentono in maniera verosimile della tipicizzazione della graus sulla scena comica.

 

La Vecchia e la chiacchiera

Significativa è la connessione tra le donne, anche quelle anziane, e la chiacchiera vana, di norma condivisa anche con le giovani, un’inclinazione che rompe il doveroso silenzio [per le implicazioni sociali che a riguardo si riflettono nella commedia cfr. Montiglio (2000, 167-176)]. L’inclinazione alla ciarla delle donne, il λαλεῖν, anche di quelle avanti negli anni, sembra essere ben sviluppata in alcune sezioni della Lisistrata, nelle Ecclesiazuse e in generale nella Nea [per il campo semantico della λαλία in commedia, cfr. l’analisi di Beta (2004, 41 s.)]. Nella Lisistrata, ad esempio, Aristofane propone la dialettica parola-silenzio e sfera femminile in una scena centrale della commedia (vv. 506-547). Lisistrata e le Vecchie del Coro rivelano, dinanzi al Probulo, una prassi ormai inveterata per le donne, il silenzio al quale ora si intende porre un termine definitivo, per quanto sia considerato nell’Atene del V secolo segno di ordine sociale e di virtù domestica [cfr. Mastromarco (2006, 359 s.)]. Lisistrata, come la Vecchia, avrebbe voluto spesso parlare con il marito tornato dalle assemblee, chiedere i motivi di una scelta presa in campo politico, non restare muta e inerte osservatrice dinanzi ai problemi dello Stato. Ma la risposta del suo uomo è sempre stata secca e intransigente, risolta nel lapidario «ma non te ne vuoi stare in silenzio?» (v. 515), risposta alla quale segue il costernato commento di Lisistrata «e io tacevo» (v. 516). A questo punto le donne greche, capeggiate dalle Ateniesi, vogliono imporre il silenzio agli uomini. Si tratta di una scelta del tutto inattesa che vede la stizzita reazione del Probulo, al quale la Vecchia dà il canestro della tessitura, secondo un’immagine le cui prime attestazioni si trovano in Omero, quando nella scena di congedo sulle mura di Troia Ettore ricorda ad Andromaca che agli uomini spetta la guerra mentre alle donne si addice la tessitura (Il. VI 520-523). Il desiderio delle donne di avere una voce diventa in commedia un luogo comune ricorrente, codificato spesso come un eccesso, come uno smodato desiderio di chiacchiera, che tuttavia riguarda le donne in generale e non semplicemente o esclusivamente la Vecchia. Non a caso, questo aspetto della ‘psicologia scenica’ della Vecchia è stato ripreso ben presto, ad esempio da Platone. Nel Teeteto Socrate ricorda il chiacchiericcio inutile e sterile delle donne, il graon huthlos (176b), al quale si può avvicinare nella Repubblica (350e) il ritratto di quelle vecchiette abituate a raccontare storielle di nessun conto sugli dei, mythoi il cui valore certo non corrisponde al vero. Una prospettiva analoga traspare, peraltro, in un passo delle Donne alla festa di Adone di Teocrito, influenzate almeno per il motivo della festa, come rivela l’Argumentum (305,7 W.), dal mimo di Sofrone Ταὶ θάμεναι τὰ Ἴσθμια (60-62):

{ΓΟ.} ἐξ αὐλᾶς, ὦ μᾶτερ; {ΓΡΑΥΣ} ἐγών, τέκνα. {ΓΟ.} εἶτα παρενθεῖν εὐμαρές; {ΓΡ.} ἐς Τροίαν πειρώμενοι ἦνθον Ἀχαιοί, κάλλισται παίδων· πείρᾳ θην πάντα τελεῖται.

«(Gorg.) Vieni dal palazzo, mamma? (Vecchia) Sì, figliole. (Prass.) È facile entrarci? (Vecchia) A furia di tentare, gli Achei entrarono a Troia, bella figliola! Tentando e ritentando, si fa tutto!».

In questo caso, a ben vedere, non abbiamo a che fare con una Vecchia che parla molto: il suo intervento nell’idillio ha breve durata e subito la donna sembra essere destinata a sperdersi tra la folla che, ammirata e incuriosita assieme a Gorgò e Prassinoa, cerca di guardare all’interno del palazzo. Colpisce, però, il tipo di risposta che questa donna, definita non casualmente con l’affettuoso mater, «mamma», rivolge alle protagoniste dell’idillio che la interrogano. Si tratta di una morale spicciola, tipica di una donnetta da poco, che si esplicita nell’insegnamento pratico «prova che ti riprova e si ottiene tutto», esemplificato dalla nobile vicenda dei Greci che, tenta che ti ritenta, riuscirono a espugnare Ilio. Abbiamo nelle Siracusane, in altri termini, nella risposta caratterizzata dal buon senso comune della Vecchia il ricorso a un paradigma mitico ormai proverbiale, forse abituale, nel quale si sente l’eco di quelle storielle antiche che, già secondo Platone, le Vecchie sono solite ripetere. In questo caso l’alto exemplum della guerra di Troia diviene un modo arguto per spronare le due donne a non desistere dal loro intento. Certo l’intervento dello straniero che osserva la scena e sente Gorgò e Prassinoa parlare senza requie con la graus non lascia adito a dubbi sul modo in cui è ancora percepito il dialogo tra donne (87 s.): lo straniero invita le Siracusane e la vecchietta a non ciarlare senza requie, παύσασθ’, ὦ δύστανοι, ἀνάνυτα κωτίλλοισαι, / τρυγόνες· ἐκκναισεῦντι πλατειάσδοισαι ἅπαντα, «smettetela, disgraziate, di ciarlare in continuazione, come tortore. Ci uccideranno con la loro pronuncia sguaiata!».

Oltre alla chiacchiera, Platone sembra associare alla donna in là con gli anni anche una predisposizione particolare alle reazioni patetiche e smodate. Di non poco interesse per la figura di questo tipo di graus è Santippe, la moglie di Socrate, che interviene una sola volta nella scena iniziale del Fedone. Santippe ora è una donna non più giovane osservata in uno scorcio tragicomico, veloce ma non poco significativo, del racconto di Echecrate (60a):

εἰσιόντες οὖν κατελαμβάνομεν τὸν μὲν Σωκράτη ἄρτι λελυμένον, τὴν δὲ Ξανθίππην – γιγνώσκεις γάρ – ἔχουσάν τε τὸ παιδίον αὐτοῦ καὶ παρακαθημένην. ὡς οὖν εἶδεν ἡμᾶς ἡ Ξανθίππη, ἀνηυφήμησέ τε καὶ τοιαῦτ’ ἄττα εἶπεν, οἷα δὴ εἰώθασιν αἱ γυναῖκες, ὅτι “Ὦ Σώκρατες, ὕστατον δή σε προσεροῦσι νῦν οἱ ἐπιτήδειοι καὶ σὺ τούτους.” καὶ ὁ Σωκράτης βλέψας εἰς τὸν Κρίτωνα, “Ὦ Κρίτων,” ἔφη, “ἀπαγέτω τις αὐτὴν οἴκαδε.”

«Entrando, trovammo Socrate sciolto da poco, e Santippe – tu la conosci! – che aveva con sé il figlio più piccolo e gli sedeva accanto. Come ci vide, Santippe ruppe in grida e lamenti, e si mise a dire quelle cose che sono solite dire le donne: “Socrate, ecco l’ultima volta che i tuoi amici parleranno con te, e tu con loro…”. E Socrate, voltosi a Critone: “Critone”, gli disse, “che qualcuno la riporti a casa!”».

All’ultimo incontro in carcere tra Socrate e i suoi amici all’inizio prende parte anche Santippe assieme al figlio più piccolo nella cella in cui si trova Socrate, da poco sciolto dai lacci. Non appena vede gli amici arrivare di buon’ora, la donna inizia a urlare e a gemere, come sono solite fare le donne, secondo una consuetudine caratteriale che doveva essere ricorrente per Santippe, visto che l’inciso di Fedone, «conosci vero? come è fatta» (γιγνώσκεις γάρ) sembra dimostrare che questa è l’indole di quella donna. Il dolore di Santippe, che si abbandona a un breve monologo tragico, non commuove Socrate che, al contrario quasi indispettito, chiede a Critone di ricondurre a casa la moglie. Nel Fedone, in fondo, abbiamo l’applicazione dell’esclusione di una moglie o di una donna da fatti e decisioni importanti ai quali, per l’appunto, le donne, come lamenta Lisistrata, sono di norma condannate; ma in più allo stesso tempo abbiamo anche uno schizzo efficace di una moglie, ormai certo in là con l’età, che sembra incarnare il tipo della ciarliera, della gyne che non sa adoperare a tempo debito e con moderazione la parola. Il verbo aneuphemein, ἀνευφημεῖν, «levare l’invito al silenzio», con il quale Platone introduce le patetiche parole di Santippe rivolte a Socrate, testimonia in questo senso, nella misura in cui ἀνευφημεῖν si risolve nei fatti nella rottura del silenzio evocato all’inizio delle cerimonie sacre a causa delle grida smodate e degli strepiti di Santippe [cfr. Rowe (1993, 118)]. Non sorprende che in opposizione a questo atteggiamento lo stesso Socrate ricordi come giusto per la circostanza attuale il silenzio, sottolineando che proprio in vista di ciò ha fatto allontanare le donne (171d-e).

Al di là di questa breve incursione nel dialogo, l’inclinazione alla chiacchiera, non legata esclusivamente alla γραῦς nella Archaia, dopo la commedia trova il suo sviluppo sostanziale soprattutto nell’epigramma ellenistico. Un primo esempio deriva da Basso Smirneo (XI 72). Basso espone un caso di clamorosa longevità femminile, non stranamente paragonata a quella di Nestore, il più vecchio tra tutti gli eroi che hanno combattuto a Troia. Citotaride, infatti, è una Vecchia πολιή, secondo il topos della canizie senile, molto ciarliera, se, come pare verosimile, a πολύμυθος si assegna il senso attivo, presente già in Omero (Il. III 356 s.), piuttosto che quello passivo «molto famigerata» [cfr. Aubreton (1972, 242)]. L’effetto comico dei versi è da cogliere in una sorta di ritorno alla giovinezza di Citotaride, che continua a vivere dopo una serie ininterrotta di anni e sembra in buona salute sia nel passo sia negli occhi, come una giovane sposa. È difficile non individuare in questo epigramma una velata irrisione nei confronti della Vecchia che in filigrana il poeta forse sviluppa segnalando un paradossale appetito sessuale, contro natura, nel malizioso riferimento finale alla nymphe. In altri casi il carattere ciarliero della graus è associato nell’epigramma alla sua indomabile passione per il vino. Antipatro di Sidone offre un eloquente esempio di Vecchia loquax e avvinazzata (VII 353). L’epigramma inciso sulla tomba della vecchia Maronide, anche in questo caso una polie, ricorda le qualità comportamentali della morta, tra cui spicca l’inclinazione alla parola, in quanto Maronide è una aeilalos, ἀείλαλος, e la dedizione al vino, in quanto Maronide è una philakretos, φιλάκρητος, un’amante del vino puro. Non a caso, la chiacchiera della Vecchia sembra essere posta subito in secondo piano nella misura in cui la grande preoccupazione di Maronide, anche da morta, è l’assenza del vino nella coppa scolpita sul suo sepolcro, come indica la comica pointe dell’epigramma. La stessa associazione tra vino e loquacità della Vecchia, in questo caso accompagnata anche dalla passione stigmatizzata per l’amore nei confronti di un Giovane, è il nucleo centrale di un epigramma di Marco Argentario, di chiara impostazione scoptica, che ha quale protagonista Aristomache (VII 384). Anche in questo caso emergono i tratti della Vecchia loquax; il comportamento ciarliero di Aristomache sembra essere però da subito accantonato. Aristomache, infatti, ama il giovane Bromio molto di più della trophos Ino e in maniera evidentemente diversa, ma si tratta di un amore fallace e volgare. Del resto, una volta morta, Aristomache continua a rivelare la sua indole viziosa e subdola: nel momento in cui si trova dinanzi a Minosse, tramite la presunta morte del giovane sposo cerca di persuadere il giudice infernale a darle un’urna leggera per attingere acqua all’Acheronte, in maniera tale da osservare un orcio per il vino anche tra i morti.

 

La Vecchia φιλάκρητος

Il carattere della Vecchia avvinazzata o desiderosa di bere senza moderazione non rappresenta un luogo comune della commedia se non in rapporto alle donne in generale, come abbiamo avuto modo di osservare, ma, coniugato con il suo carattere ciarliero, sembra diventare nell’epigramma un vero e proprio topos. La ripresa della poesia epigrammatica di questo topos sembra testimoniare il fatto che l’associazione tra la Vecchia e il vino è avvertita come un tratto particolarmente capace di suscitare forti effetti di ilarità e di derisione, anche se [cfr. Bremmer (2008, 276-286)] l’ebbrezza delle donne anziane, ricorrente motivo iconografico soprattutto nella produzione ellenistica, non dipende da progressivi deterioramenti delle condizioni sociali, ma probabilmente da una certa indipendenza sociale della quale «godono le vecchie più delle donne sessualmente mature». Ai casi già analizzati di Maronide e di Aristomache si può aggiungere quello della nutrice Silenide, che in un epigramma di Disocuride (VII 456) riceve sepoltura dal suo padrone Ierone in campagna, vicino ai filari di vite, vista la sua passione smodata in vita per le smodate bevute. Silenide non è esplicitamente definita come Vecchia, ma la sua funzione di nutrice è una spia preziosa e a un tempo sufficiente per inquadrare anche lei nel novero delle donne attempate. Del resto ritorna per Silenide lo stesso epiteto raro che caratterizza Maronide: entrambe, amanti del vino puro, sono φιλάκρητοι. In analoga direzione va anche un epigramma di Aristone (VII 457). La vecchia Ampelide, il cui nome rivela da subito una programmatica associazione alla sfera dell’ebbrezza, vista come dedita al vino, φιλάκρητος, e vecchia decrepita, γραῦς … παλαιή, non si è mai mostrata sobria in vita anche nella parte finale della sua vecchiaia, tanto che da morta riceve sul sepolcro un segno distintivo della sua natura di donna vinosa.

 

La Vecchia come nutrice-mezzana

La funzione di nutrice che nell’epigramma di Dioscuride riveste Selenide rappresenta un ulteriore snodo di significativo valore nella codificazione del tipo della γραῦς dopo la Archaia (e.g. Ec. 1112- 1114, Ra. 503, Th. 609) e soprattutto nella Nea. In effetti, la funzione della nutrice è in generale assegnata a donne mature, ormai libere da altri impegni domestici. Appare inevitabile, dunque, che questa figura sia immaginata come dotata delle caratteristiche tipiche di una donna avanti negli anni, anche quando queste non siano esplicitamente affermate. Non solo. La figura della nutrice presto si specializza nella figura triviale della mezzana che va a spronare la giovane figlioccia o una giovane donna sposata a macchiarsi di un terribile peccato: il tradimento del marito. Alcune sintomatiche eccezioni sono presenti: Posidippo testimonia anche un esempio nobile di vecchia nutrice che, una volta morta, riceve dalle giovani che ha cresciuto e allevato l’onore di un sepolcro, quale eterna testimonianza di affetto profondo (ep. 49). Sebbene la Nea possa essere considerata come la prima fase nella quale la vecchia nutrice e mezzana trova una precisa codificazione, è forse opportuno scorgere in una scena del ΙΙΙ libro dell’Iliade un importante precedente della vecchia nutrice che cerca di convincere la sua giovane pupilla a tradire il marito legittimo. Quando al termine della Teichoscopia, infatti, Afrodite appare a Elena per convincerla a tornare al talamo, dove ha messo in salvo Paride dopo l’irrisolto duello con Menelao, la dea si trasforma in una vecchia filatrice spartana che amava molto la piccola Elena, una sorta di nutrice di Elena, una balia che per la principessa bambina intrecciava molte matasse di lana (γρηῒ δέ μιν ἐϊκυῖα παλαιγενέϊ προσέειπεν / εἰροκόμῳ, ἥ οἱ Λακεδαίμονι ναιετοώσῃ / ἤσκειν εἴρια καλά, μάλιστα δέ μιν φιλέεσκε, «… e le parlò prendendo l’aspetto di una vecchia / filatrice che lavorava splendidamente la lana, / quando Elena viveva a Sparta, e lei l’amava moltissimo»; 386-388). E l’equiparazione tra Afrodite e la mezzana in questo caso è ancora più evidente, se si pensa alla retorica della dea: le parole di Afrodite sono persuasive e convincenti, nella misura in cui la dea descrive Paride come un giovane splendente, dal fascino irresistibile, appena uscito dalla danza.

Forse, a ben vedere, il carattere della nutrice nelle vesti di mezzana è ripreso soprattutto nella produzione di Sofrone, all’interno dei cosiddetti mimi femminili. Indubitabile è che il mimo siceliota di Sofrone ha rappresentato per la tipicizzazione della Vecchia una fase di notevole valore: il mimo intitolato Νυμφοπόνος avrà avuto una connessione diretta con il tema delle balie, il titolo Πενθερά è messo in rapporto con le commedie che hanno quale argomento la suocera, mentre il mimo Ταὶ γυναῖκες αἳ τὰν θεὀν ἐξελᾶν avrà probabilmente sviluppato la figura della maga-incantatrice, anche se fossero state presenti donne attempate in questo componimento. Non è sempre facile comprendere, infatti, il ruolo della graus nel mimo di Sofrone e soprattutto se ogni qual volta si presentino figure di nutrici o di maghe queste siano interpretabili come Vecchie. Non è un caso, ad esempio, che le testimonianze antiche su Teocrito ed Eronda confermino una programmatica ripresa di elementi e personaggi da Sofrone soprattutto in rapporto a figure femminili. Nell’Incantatrice, ad esempio, il dramma amoroso di Simeta per il giovane Delfi si consuma in una serie di magici gesti ossessivamente scanditi da un refrain. Nella seconda parte dell’idillio, in un’aperta confessione alla Luna, Simeta va alla ricerca dell’origine della sua passione, individuandola in un’adesione infausta alle richieste della sua vicina di casa, non a caso una vecchia nutrice, che aveva scongiurato Simeta di accompagnarla alla processione (vv. 70-75):

καί μ’ ἁ Θευμαρίδα Θρᾷσσα τροφός, ἁ μακαρῖτις, ἀγχίθυρος ναίοισα κατεύξατο καὶ λιτάνευσε τὰν πομπὰν θάσασθαι· ἐγὼ δέ οἱ ἁ μεγάλοιτος ὡμάρτευν βύσσοιο καλὸν σύροισα χιτῶνα κἀμφιστειλαμένα τὰν ξυστίδα τὰν Κλεαρίστας.

«La nutrice tracia di Teumarida, buonanima, che abitava porta a porta con me, mi pregò e mi supplicò di andare a vedere la processione; e io, sventuratissima, l’accompagnai, indossando una bella tunica di bisso, e ravvolta nel mantello di Clearista».

Teumaride, la makaratis, la buonanima, ormai morta, era una nutrice di origine tracia che viveva vicino a Simeta. In questa donna, che certo dobbiamo immaginare come vecchia già al momento in cui propone l’invito, deve essere individuata, come dice Simeta, l’origine del suo malanno (v. 65): la Vecchia, forse inavvertitamente, non è fonte di saggezza ma provoca la rovina. Le preghiere della Vecchia infatti fanno breccia nel cuore della giovane incantatrice che, dopo aver indossato la veste di bisso e il mantello di Clearista, vede per la prima volta Delfi e impazzisce d’amore per il giovane. In questo caso non è possibile dire che la nutrice tracia fosse la τροφός di Simeta: la donna, infatti, sottolinea solo che Teumaride era una vicina di casa. Né tanto meno è possibile dire che Teumaride fosse una mezzana, anche se effettivamente la sua insistenza nei confronti di Simeta, come parrebbero indicare i verbi κατεύξατο («mi pregò») e λιτάνευσε («mi supplicò»), sembra nascondere una sorta di piano prestabilito da parte della donna. Sicuro è, invece, il rapporto di diretta dipendenza tra la nutrice Gillide e la giovane Metriche, le donne che dominano quali protagoniste assolute il I mimo di Eronda [cfr. Di Gregorio (1997, 46-50)]. La scena è ambientata nella casa di Metriche, alla cui porta bussa improvvisamente qualcuno. È Gillide, un tempo nutrice della padrona di casa, definita ἀμμίη (7), «mammina» (cfr. Men. Dysc. 495), che arriva da molto lontano, dalla campagna [cfr. Mastromarco (1979, 21) per la variante «dalla campagna» e le sue implicazioni nel testo], da una zona piena di fango e di miseria nella quale abita tra gli stenti. I particolari paesaggistici della dimora di Gillide sembrano essere una prima accorta trovata per impietosire la giovane Metriche. Certo, il patetismo iniziale di Gillide trova una buona rappresentazione nella descrizione della vecchiaia che, quasi umanizzata, ormai domina la donna: la vecchiaia è infatti una forza malvagia che trascina Gillide a terra e ne rappresenta la vera ombra. Dopo tale confessione iniziale di debolezza e di sconforto, la natura volgare di Gillide, tuttavia, non tarda a rivelarsi: dopo un invito cortese a non lamentarsi da parte di Metriche, che scorge ancora vigore e forza nella nutrice, Gillide interpreta il complimento come un doppio senso di natura sessuale e inizia la sua tirata da mezzana. Gillide cerca di convincere che la protratta assenza di Mandris, il probabile sposo di Metriche, altro non è che prova del fatto che l’uomo è attratto dai piaceri dell’Egitto. Metriche vive dunque come una vedova, è una sventurata, consuma vanamente la sua giovanile avvenenza. Una domanda sembra essere frutto di curiosità: Gillide chiede a Metriche se qualcuno le è vicino. Alla risposta secca di Metriche, la mezzana sferra il suo attacco e invita la sua pupilla a rivolgere la sua attenzione verso il giovane Grillo, un atleta, vincitore nei giochi Istmici, che, vista Metriche alla processione di Mise, se ne è innamorato. In questo caso ci troviamo in una situazione vicina ma a un tempo diversa rispetto alla passione di Simeta: in entrambi i casi è proposta una processione, ma mentre per Metriche è il giovane uomo a vedere la donna, per Simeta è la donna a vedere il giovane e innamorarsene. Gillide, tuttavia, non riesce nel suo intento, visto che la fedeltà di Metriche è salda come quella di una novella Penelope. Pur rimanendo rispettosa nei confronti della Vecchia, la invita non tornare più a casa sua con un tale discorso. Prima di congedarla però le fa bere una coppa di vino mischiato a qualche goccia d’acqua. Gillide, esempio di graus mezzana, è certo la protagonista assoluta di questo mimo: la sua caratterizzazione deriva dalla commedia (capelli bianchi, linguaggio abile e carezzevole, una velata volgarità di intenti destinata a trasparire in maniera sempre più chiara, la predisposizione al vino), ma rappresenta anche una donna sconfitta nel suo intento dinanzi alla giovane che aderisce in maniera strenua a una morale coniugale salda, tipica di quella che rivela un’eroina della Nea. La vecchiaia inoltre in tutto il mimo è vista come una pena tremenda per gli uomini: lancerà il malocchio togliendo presto le gioie della giovinezza ed è una fase della vita che ottunde le menti. La battuta finale di Gillide dimostra che il suo intento non muterà neanche dinanzi al rifiuto di Metriche: Gillide infatti spera di avere più fortuna con due etere, Mirtile e Sime.

 

La Vecchia come incantatrice e il tipo della Vecchia maliarda, amante dei Giovani

Altra caratteristica che si accompagna alla Vecchia nella poesia e nella prosa ellenistica e imperiale è la sua abilità stregonesca. L’unico appiglio a questo carattere nella Archaia è individuato da Oeri (1948, 21 s.) in casi non del tutto chiari di Cratino e di Eupoli, ma non è possibile stabilire con certezza se il personaggio qui rappresentato come fattucchiera sia una Vecchia. Non sorprende, certo, che la Dipsas di Ovidio (Am. I 8) sia nel contempo vecchia nutrice, mezzana e maga, nel cui nome risuona il richiamo avido al vino in quanto Dipsas è l’assetata, mai sobria, che conosce artes magicae. Già Simeta, del resto, racconta di essersi recata presso la casa di ogni Vecchia (II 78 s.) alla ricerca di formule magiche che sapessero curare il suo mal d’amore, e sempre in Teocrito Dameto (VI 40) afferma che la vecchia fattucchiera Cotittaride gli ha insegnato un ottimo rimedio contro il malocchio: battere tre volte il petto.

Spesso peraltro questi rimedi sono finalizzati alla risoluzione di drammi amorosi e hanno dunque a che fare con la sfera dell’eros. Non è un caso: è stato notato che la Vecchia in commedia è rappresentata anche come una donna dai forti appetiti sessuali, pur essendo ormai sterile [cfr. Totaro (2013)]. Il carattere che Oeri identifica nella cosiddetta liebestolle Alte riceve uno sviluppo sostanziale sia nel mimo sia nel romanzo (con Longo Sofista e Senofonte Efesio), oltre che in Luciano. Un primo esempio di questo tipo giunge di nuovo da Eronda. Il V mimo, infatti, è dedicato alla violenta reazione di Bitinna, la gelosa, nei confronti della mancanza di Gatrone, il suo servo-amante. Non è possibile dire con certezza che Bitinna sia una Vecchia [cfr. Di Gregorio (2004, 51-70)]; di certo però Eronda la rappresenta come una donna avanti negli anni, visto che Bitinna è già madre ed è una ricca possidente, forse vedova [cfr. Finnigham (1992, 22)]. Per quanto riguarda l’aspetto psicologico Bitinna è una donna senza freni sia sul piano sessuale sia su quello verbale: la punizione tremenda della marchiatura alla quale vuole sottoporre Gastrione, accusato di riservare le sue attenzioni a una giovane, è il frutto della violenta collera della padrona. In Bitinna si avverte il dispotismo della donna matura nei confronti dell’amante giovane, più che il vagheggiamento o il desiderio dei piaceri amorosi dettati da una passione sincera. Si ha dunque come l’impressione che il motivo della liebestolle, presente nella commedia, sia stato intrecciato da Eronda a un vizio umano ben preciso, la gelosia eccessiva che sfocia nella collera, della quale Bitinna è certo una superba rappresentante. Più legate alla Vecchia vogliosa della commedia sono infatti, come è naturale per l’evoluzione dei generi, le rappresentazioni della γραῦς nel romanzo [cfr. Oeri (1948, 74 s.)]; si tenga presente tuttavia che il personaggio di Lykainoin in Longo (III 17), il cui nome nell’Onomasticon di Polluce (IV 150) indica una maschera da Vecchia, non è una donna anziana, ma al contrario una giovinetta che impartisce una personalissima ars amandi a Dafni. La vecchia Cibele nelle Etiopiche di Eliodoro (VII 9), nutrice di Arsace e sua intima consigliera, messa a parte del folle amore che la padrona nutre per il giovane, un amore ormai sfociato in una deleteria follia, oltre a risentire dell’influenza della nutrice di Fedra nell’Ippolito (ad esempio, si veda il primo intervento della nutrice dinanzi a Fedra, 176-197), ripresa anche per l’episodio di Mira da Ovidio nelle Metamorfosi (X 298-301), non invita la donna a frenare la sua esiziale passione. Si mostra anzi consapevole della bellezza del giovane, ne elenca con sguardo attento tutte le caratteristiche fisiche che non fanno che aumentare l’amore folle di Arsace e assicura che non ci saranno problemi per la relazione. Cibele, in altri termini, non si mostra come una buona consigliera, non è dotata della saggezza tipica della vecchiaia: continua a incarnare le caratteristiche della Vecchia ruffiana, peraltro ancora attratta dalla bellezza della gioventù. Nelle Storie efesie di Senofonte (III 12), invece, in un breve ma interessante episodio compare la vecchia Cinò che, mossa da un’insana e scorretta passione per Abrocome, non riesce a portare a compimento il suo tentativo di adescare il giovane malcapitato. Sfruttando il motivo della «moglie di Putifarre», Cinò, nel cui nome si avverte la natura immorale che solitamente gli antichi legano all’impudicizia dei cani, si innamora improvvisamente del giovane giunto come schiavo, e dopo aver ucciso il marito per raggiungere il suo scopo dinanzi al rifiuto di Abrocome lo accusa del delitto.

Dino De Sanctis © 2016