L’uso di una terminologia agricola per indicare gli organi i noessuali o, più in generale, alcune pratiche erotiche sembra essere stato un fatto piuttosto comune per la Greca antica e per la Commedia in generale (cfr. Henderson 1991, 108-150): oltre al campo semantico connesso a σῦκον(«fico»), si possono citare, per l’apparato maschile, ἀμοργίς, «tessuto di lino»; βάλανος, «ghianda»; ἐρέβινθος, «cece»; κριθή, «orzo»; per i genitali femminili, κόκκος, «chicco»; εὕστρα, «orzo abbrustolito»; μύρτον, «bacca di mirto»; ῥοδόν, «rosa»; βλήχων, «puleggio»; κῆπος, «giardino»; λόχμη, «boscaglia»; νάπος, «valle boscosa»; πεδίον, «pianura». Non tutti questi termini, però, indicavano propriamente le pudende nella lingua greca, ma potevano divenire allusivi all’interno di trasparenti giochi di parole o di metafore. La ricchezza semantica di σῦκον mostra come l’eros fosse solo uno dei possibili aspetti che di questo termine potevano essere declinati: la sua analisi, comunque, mostra come alcuni oggetti e alimenti di uso quotidiano potevano dare adito a esilaranti doppi sensi per chi era abituato a vivere in campagna e di questi oggetti e alimenti faceva comunemente uso. Seguendo le orme dell’analisi di Henderson, suddivideremo in due categorie i restanti termini di origine agricola che indicano, da una parte i feminina pudenda; dall’altra, i virilia.
Di questi ultimi un esempio è l’uso che, nella Lisistrata, si fa del termine ἀμοργίς, che indica il «tessuto di malva»: ai vv. 735-739, che seguono la secessione delle donne scioperanti sull’acropoli, una donna annuncia di voler lasciare temporaneamente la cittadella per occuparsi dell’ἀμοργίς lasciata a casa. «Dopo aver scorticato» – l’oggetto di ἀποδείρασ’(α) è significativamente sottinteso – subito ella tornerà dalle sue compagne (v. 739): il gioco di parole si basa sul fatto che il verbo ἀποδέρω può riferirsi sì alla gramolatura del lino, ma può anche suggerire un icastico gioco allusivo al membro virile e, soprattutto, all’accoppiamento, considerato che – secondo lo scolio ad locum – dalla malva si ricava una tintura di colore rossastro [cfr. schol. Ar. Lys. 735: ἐπὶ τοῦ ἀνδρείου παίζει, ὅτι καὶ βάμμαγίνεται ἐξ αὐτῆς (i.e. ἀμοργίδος) ἐρυθρόν].
Il termine βάλανος, «ghianda» oppure «stanghetta», è foriero di maggiori doppi sensi rispetto all’esempio precedente. Sempre nella Lisistrata, ai vv. 410-413, il probulo riporta una sua conversazione con un orefice: dato che la collana della moglie si è rotta, egli raccomanda all’artigiano di andare da lei e di ripararle il monile, conficcando (v. 413 ἐνάρμοσον) la stanga (τὴν βάλανον). La frase, ovviamente, fa riferimento al fatto che la stanghetta che tiene insieme le pietre si è sfilata dal buco (v. 410 ἡ βάλανοςἐκπέπτωκεν ἐκ τοῦ τρήματος), ma lo scolio al v. 413 (cfr. Suda β 66) spiega – se ce ne fosse bisogno – come l’intero passo abbia un duplice senso, poiché βάλανος può essere la «stanga» dei genitali, oltre a quella da infilare nell’anello della collana. Il termine βάλανος, in sostanza, potrebbe non avere un senso propriamente sessuale, ma solo all’interno dell’icastica immagine creata da Aristofane: si noti, però, che κύτταρος (la «cella dei favi») è spiegato da Esichio (κ 4747, cfr. κ 4639) anche come «ghianda» dei genitali, con possibile allusione ai testicoli (κύτταροι· … καὶ τῶν αἰδοίωναἱ βάλανοι). È possibile, dunque, che l’allusione erotica fosse in greco strettamente connessa a questo termine. Va rilevato, a questo proposito, che ai vv. 1130-1139 il Coro della Pace dichiara di amare il fatto d’abbrustolire i ceci (cfr. infra), di mettere la ghianda della quercia sul fuoco e, approfittando del fatto che la moglie fa il bagno, di baciare la servetta tracia: lo schol. vet. 1137 chiarisce che φηγός («quercia» o «ghianda») possa alludere velatamente alle pudende, poiché alcuni le chiamano appunto βάλανος.
Altri due termini ‘agricoli’ sono riconducibili più propriamente alle pudende maschili, al di là del gioco di parole in cui essi sono inseriti, ossia ἐρέβινθος e κριθή. Come sottolineano Esichio (ε 5683), il lessico di Fozio (ε 1902) e la Suda (ε 2919), ἐρέβινθος, il «cece», poteva indicava anche il membro virile. Come gli esempi precedenti, anche questo termine consentiva divertenti doppi sensi. Al v. 801 degli Acarnesi, il Megarese, giunto ad Atene per vendere le proprie figlie camufatte da porcelline, esalta le qualità della sua ‘merce’: Diceopoli, allora, chiede alle stesse giovani se esse mangino ceci e fichi secchi (v. 802 ἰσχάδας). La scena si fonda sul fatto che la χοῖρος, la «porcella», designa in greco le pudende femminili, come spiega lo scolio vetus 781, sì che la scena dei vv. 799-803 può anche alludere agli appetiti sessuali delle ragazze, dato che il cece indica i genitali maschili (cfr. schol. vet. 801) e i fichi, in particolare quelli secchi, fanno riferimento ai testicoli (cfr. schol. vet. 802a II). Anche gli scoli vetera alle Rane spiegano ἐρέβινθος come virilia pudenda (schol. vet. 545a), un «cece» che Dioniso si dovrebbe afferrare, qualora Santia prendesse le veci del padrone e vivesse mollemente, baciando una ballerina (l’immagine ricorda i vv. 707-709 dell’Ecclesiazuse sopra analizzati). L’erudizione antica, poi, considerava la battuta del Coro ai vv. 1391-1396 delle Nuvole come allusiva alla sfera erotica: a seguito del diverbio fra Strepsiade e Fidippide, il giovane si appresta a parlare e, se lo farà per bene, il Coro non stimerà di un cece la pelle dei vecchi. Lo scolio vetus 1396b così come il Triclinianum, Tommaso Magister, gli anonyma recentiora e Tzetzes considerano ἐρέβινθος come un riferimento ai genitali maschili, evocando fra l’altro il concetto di risparmio (e.g. τοῦ αἰδοίου φεισαίμεθα ἄν dello schol. rec. 1396b); lo scolio recentius 1396c, inoltre, spiega che il locutore lascerà la pelle delle pudende a loro, cioè presumibilmente ai giovani (τῶν αἰδοίων τὸ δέρμακαταλείψομεν αὐτοῖς). Tale esegesi del passo è ripresa anche dalla voce della Suda (ε 2919) poc’anzi citata, che spiega ἐρέβινθος appunto con τὸ τοῦ ἀνδρὸς αἰδοῖον, citando poi il passo delle Nuvole in questione. A meno che il greco conoscesse una espressione similare a quella volgare dell’italiano «non valere un etc.», è presumibile che qui gli scoli sovraintendano: il Coro, infatti, sembra semplicemente alludere a un elemento, il cece, di poco valore. Lo scarso valore del cece può emergere dal v. 45 delle Ecclesiazuse: qui si dice che chi arriverà in ritardo pagherà tre boccali di vino e una misura di ceci, una ‘multa’ comicamente esagerata, ma visibilmente non troppo onerosa. Se lo scolio ad locum spiega come i ceci abbrustoliti potessero fungere da accompagnamento al vino, Vetta (1989, 149) chiarisce come tali ingredienti fossero quelli tipici del simposio rustico, che chiaramente non comportava una spesa eccessiva.
Se, in alcune occasioni, gli scoli vedono allusioni oscene ove non vi sono, in altre non colgono giochi metaforici probabilmente evidenti agli spettatori. Un esempio interessante di ciò è rappresentato da un passo degli Uccelli, in cui Pisetero afferma che il cuculo anticamente regnava sull’Egitto e sulla Fenicia: «quando diceva “cucù”, tutti i Fenici andavano a mietere grano e orzo (τὰς κρίθας) nei campi (ἐν τοῖς πεδίοις)» (vv. 504-506). Gli scoli relativi ai vv. 504-506 non colgono la palese allusione sessuale: l’orzo (κριθή) e la pianura (πεδίον, cfr. infra), infatti, potevano essere referenti rispettivamente per i genitali maschili e per quelli femminili (cfr. Zanetto 1987, 225). Più perspicaci sono gli scoli vetera ab al v. 507, in cui Euelpide così commenta la battuta di Pisetero: «ecco dunque il vero significato dell’espressione “cucù, sprepuziati, andate in camporella”» (v. 507 κόκκυ, ψωλοὶ πεδίονδε). Gli scoli, a questo proposito, evocano sì un improbabile proverbio fenicio, ma almeno il 507b ne coglie il doppio senso osceno, fra l’altro facilmente desumibile da ψωλός, «circonciso». Più acuti sono gli scoli αβ al v. 565 della stessa commedia, dove si prescrive che sia la folaga, la φαληρίς, a sacrificare orzo in onore di Afrodite: gli scoli in questione – da una parte – spiegano che il poeta ha scelto questo uccello per la sua assonanza con φάλλος, mentre – dall’altra – chiariscono che è costume sacrificare del frumento ad Afrodite, perché esso, una volta bollito, favorirebbe l’accoppiamento (οἱ ἑφθοὶ πυροὶ πρὸς συνουσίανἐγερτικοί). Si noti, a proposito di quest’ultima notazione, che, di sovente, ad Afrodite erano effettivamente fatte offerte incruente (cfr. Pirenne-Delforge 1994, 382ss.). Sul doppio senso insito nel termine κριθή gioca anche la scena dei vv. 956-966 della Pace. Trigeo deve consacrare l’altare di Teoria e, come richiede il costume rituale greco (cfr. schol. vet. 957), domanda al servo di lanciare orzo sugli astanti: Trigeo si stupisce della velocità con cui il servo compie questa azione, ma quest’ultimo assicura che tutti gli spettatori hanno già l’orzo, mentre le donne lo avranno a sera dai mariti. Lo scolio vetus 967a spiega che il passo si fonda sul valore ambiguo di κριθή, con cui – oltre a «orzo» – si indicano i genitali maschili; per quelli femminili, invece, si usa μύρτον, «mirto» (cfr. infra). Lo scolio vetus 967b aggiunge che κριθή è il termine osceno per πέος, il «membro virile». Non è un caso, allora, che, secondo Esichio (κ 4106), κρίθων fosse un soprannome per un uomo adultero, lemma che forse è di origine comica.
I termini gergali tratti dal mondo agricolo e che avevano come referente le pudende femminili sembrano essere in numero superiore rispetto a quelli che indicano i genitali maschili. Quello che più propriamente designava il γυνακεῖον αἰδοῖον era μύρτον, la «bacca del mirto» o il «mirto» stesso (detto più propriamente μυρσίνη): lo scolio vetus 967a alla Pace, come abbiamo visto, ne fa menzione. Se si segue la tradizione esegetica testimoniata dalla Suda (μ 1462), a cui si connettono Fozio (μ 611) e Esichio (κ 2917), e che deriva dal trattato De corporis humani appellationibus di Rufo Efesio (147,5-11), μύρτον avrebbe indicato le pudende nel loro complesso o una sua parte centrale, mentre le labbra sarebbero state dette μυρτόχειλα. Se μύρτον era dunque uno dei termini usuali per indicare i genitali femminili (cfr. schol. vet. Ar. Eq. 964a μύρτον δὲ ἐκάλουν οἱ παλαιοὶ τὸ γυναικεῖον αἰδοῖον), il lemma della Suda (μ 1461) che precede quello appena parafrasato connette questo termine direttamente ad Aristofane, in particolare ai vv. 1004-1006 della Lisistrata, in cui l’araldo spartano dice che le donne non permettono agli uomini di toccar loro il μύρτον, glossato dallo scolio al v. 1004 con γυνακεῖον μόριον. Meno evidente è una possibile allusione sessuale nella seconda parabasi degli Uccelli (vv. 1099-1101), in cui il Coro afferma di cibarsi, in primavera, delle virginee e candide bacche di mirto (παρθένια λευκότροφα μύρτα) e dei giardini delle Cariti (Χαρίτων … κηπεύματα). Gli scoli non sembrano cogliere la sfumatura erotica, sebbene sia μύρτον che κηπεύματα (cfr. Henderson 1991, 135) potrebbero suggerirla: lo scolio vetus 1099b (ripreso da Tzetzes) dice semplicemente che le donne e le ragazze amano mangiare le bacche di mirto, mentre il vetus 1100 spiega λευκότροφα con λευκὰ καὶ τρυφερά, ossia tali bacche sarebbero «bianche e delicate», perché non ancora mature (τοιαῦτα γάρ εἰσι μήπωπεπανθέντα). Eppure, l’aggettivo λευκότροφος, che significa piuttosto «che cresce bianco», appare sinceramente inadeguato per le bacche, che sono solitamente di colore bluastro – vi sono, però, anche alcune varietà di colore bianco – mentre sarebbe conveniente per il fiore, che è però difficile ritenere sia considerato dagli uccelli come un cibo; la spiegazione dello scolio al v. 1100, inoltre, non pare perspicua, dato che la tenerezza delle bacche non pare associabile a un frutto non maturo. Bianchi, come si accennava, sono i fiori del mirto, che possono ricordare vagamente quelli della rosa (cfr. infra): entrambi, del resto, «reflétaient, au dire de certains textes anciens, le mystère charnel de la femme», come ricorda Pirenne-Delforge (1994, 380). Possibile, allora, che i versi siano veramente un’allusione erotica, suggerita – oltre che dal concomitante κηπεύματα – non solo dall’aggettivo παρθένιον – le ragazze nubili sono poeticamente sempre al centro dei desideri erotici – ma anche λευκότροφος, se si pensa che il colore bianco contraddistingueva le donne dagli uomini e, in particolare, le pudende delle prime dai genitali dei secondi [cfr. schol. Ar. Lys. 802 μελάμπυγός τε· τοὺς λευκοπύγους ὡς γυναικώδειςἐκωμῳδουν, scilicet «(Mironide) dalle natiche nere: si prende in giro chi ha i glutei bianchi come le donne», vd. anche Henderson 1991, 211. Si noti, a questo proposito, che le donne greche erano solitamente depilate nelle zone intime]. A una possibile allusività sessuale del passo accenna cursoriamente anche Dunbar (1995, 590). Se di altri passi – e a ragione – gli scoli non notano allusioni erotiche (cfr. Lys. 632, Th. 448), una allure sessuale potrebbe avere il nome di Mirrina, che è al centro di una celebre scena di seduzione nella Lysistrata, se si pensa che con μυρρίνηo μυρσίνη si designava l’arbusto che produceva le bacche di mirto (cfr. Hsch. μ 1898).
Si è accennato, a proposito di μύρτον, al fatto che il ῥοδόν, il «fiore della rosa», possa essere allusivo all’intimità femminile. Se alcuni nome di personaggi, come Rodippe nella Lisistrata (v. 370), o alcune provenienze, come il profumo di Rodi sempre nella stessa pièce (v. 944), potrebbero essere allusivi, è uno scolio a Teocrito (11,10) che spiega come la rosa possa riferirsi ai feminina pudenda: la rosa, infatti, simboleggerebbe la giovinezza della donna, poiché la rosa e il roseto (ῥοδωνιά) indicherebbero i genitali femminili, come nella Nemesi di Cratino (fr. 116 K.-A.), in cui, fra l’altro, il locutore si compiace non solo delle rose, ma anche dei pomi, del sedano e della menta (tali elementi, fra l’altro, sono connessi alla vicenda di Adone).
Henderson (1991, 134) evoca come termini allusivi alle pudende femminili anche κόκκος. Ι due passi aristofanei in cui κόκκος compare, tuttavia, non sembrano connotati sessualmente. Nel v. 63 della Pace, Trigeo chiede a Zeus se comprende che sta riducendo a pezzi la Grecia: egli usa la metafora della melagrana che espelle i chicchi (schol. vet. 63b; cfr. Suda ε 524), la quale non pare avere alcuna connotazione erotica; il v. 364 della Lisistrata, poi, presenta il verbo ἐκκοκκίζω, in una scena in cui il corifeo minaccia la corifea, dicendole: «a furia di botte ti sgranerò questa vecchia pelle» (θενών σου ’κκοκκιῶ τὸ γέρας). Se l’immagine, ancora tratta dalla metafora della melagrana, sembra semplicemente denotare come il coro dei vecchi sia assetato di sangue (cfr. schol. 364a), è però opportuno notare che, nei versi immediatamente precedenti (vv. 362 s.), la corifea aveva avvertito il corifeo con le seguenti parole: «mi si colpisca: incasserò senza battere ciglio. Ma, poi, non ci sarà un’altra cagna che ti afferrerà i coglioni» (μή ποτ’ ἄλλη σου κύων τῶν ὄρχεων λάβηται). Possibile, allora, che le percosse promesse dal corifeo e lo «sgranellare» possa riferirsi a un amplesso di una certa violenza, soprattutto se κόκκος aveva veramente fra i suoi sensi direttamente accessibili quello di genitali femminili (τὸ γυναικεῖον μόριον), come riporta Esichio (κ 3288).
Due termini tratti dal mondo rustico, εὕστρα e ἀμφίκαυστις, potrebbero richiamare l’usanza della depilazione intima che contraddistingueva generalmente le donne greche: di questa pratica sono testimonianza i vv. 236 ss. delle Tesmoforiazuse (cfr. Mastromarco 2014, 71 n. 10). Pare che essa prevedesse l’uso di lucerne o torce per bruciare i peli. Eustazio (Od. 1446,22) chiarisce che ἀμφίκαυστις («orzo maturo», «orzo abbrustolito», da καίω, «bruciare») – di uso prettamente comico e tragico secondo lo schol. vet. Ar. Eq. 1236a III – sarebbe stato usato dai poeti comici anche per indicare i genitali femminili, mentre Cratino (fr. 409 K.-A.) potrebbe averlo adoperato per membrum virile (sic Kassel e Austin al locum; cfr. Hsch. κ 1923 Κρατῖνος δὲ ἐπὶ τοὺ μορίου ἔταξεν αὐτό, scilicet ἀμφίκαυστις. Se in Phot. α 1332 si dice semplicemente che il termine per alcuni indica le pudende, Eustazio aggiunge che Cratino avrebbe parlato di ὀσφύς, «lombo», non di αἰδοῖα). Di ἀμφίκαυστις sarebbe stato sinonimo εὕστρα, che, sempre secondo Eustazio (Il. 1146,30), sarebbe il luogo in cui si strinano i maiali (da εὕω, «far abbrustolire», cfr. schol. Ar. Eq. 1236acd). In sostanza, è possibile che εὕστρα e ἀμφίκαυστις indichino i feminina pudenda depilati, sebbene la documentazione non risulti chiarissima.
L’usanza della depilazione è sottintesa anche al v. 89 della Lisistrata, in cui Calloniche dice che la donna della Beozia ha depilato (παρατετιλμένη) con finezza (κοψότατα) il puleggio (τὴν βλήχω). Lo scolio 89b chiarisce che il puleggio, detto più comunemente «mentuccia», indica le pudende femminili: lo scolio 89a spiega κοψότατα, dicendo che il pube di Calloniche risulterebbe composto (κομψῶς ἔχουσα τὸ αἰδοῖον). Le capacità curative della mentuccia (cfr. supra Cratin. fr. 116 K.-A., in cui si parla di σισύμβρια, «menta»), del resto, consentiranno a Trigeo di accoppiarsi con Opora senza danno, nonostante il lungo digiuno (Pax 710-712). Se la scena gioca sia sul piano alimentare che sessuale (cfr. schol. vet. 711 κατελάσας· ἀντὶ τοῦ «συνουσιάσας»), gli scoli vetera al v. 712 chiariscono che l’infuso di puleggio era ritenuto un rimedio contro la nausea e la pesantezza di stomaco. È interessante notare che la Suda (β 339 s.v. βληχωνία), che riprende questa tradizione esegetica, considera Opora una πορνή, una «prostituta». Se Suda β 338 ritiene che Aristofane chiami βλήχων il pube (τὸ ἐφήβαιον), è plausibile che ciò sia tratto dal passo della Lisistrata poc’anzi analizzato, in cui evidentemente il puleggio è metaforico per i peli pubici: in sostanza, non è detto che tale pianta fosse direttamente collegabile alle pudende in greco, perché nei due casi analizzati, soprattutto nel primo, tale accezione è direttamente ricavabile dal contesto.
L’idea di «erbetta», «cespuglio vel similia che ῥοδωνιά o βλήχων possono evocare è insita anche in λόχμη, «boscaglia». Se in Av. 207, dove Pisetero invita l’upupa a entrare nella boscaglia e a svegliare l’usignola, gli scoli non notano alcuna allusione erotica, essa è lampante in Lys. 800, passo di cui si è già trattato in precedenza per le scure natiche maschili contrapposte a quelle bianche delle donne. Le vecchie esclamano ai vecchi, che dichiarano di volerle baciare e, alzata evidentemente la gamba, colpire col piede: «com’è folto il cespuglio che hai» (vv. 777-800). Lo scolio 800a propone come oggetto di ἀντείνας («avendo sollevato»), assente a testo, τὸ σκέλος («gamba») oppure τὸ αἰδοῖον, probabilmente in virtù del fatto che le donne notano immediatamente la peluria fra le gambe dei corifei: anche qui, tuttavia, λόχμη appare piuttosto come una divertente metafora allusiva che come un termine intrinsecamente connesso all’eros (fra l’altro, in questo caso, prettamente maschile, se i peli pubici sono un rivendicato segno di virilità, come sottolineano gli stessi vecchi nei versi immediatamente successivi).
A questo ambito metaforico può connettersi anche il termine νάπος, «valle boscosa», e, per contiguità di significato, anche πεδίον, «pianura». Esichio (ν 78) spiega infatti νάπος con γυναικὸς αἰδοῖον, ma la mancanza di ulteriori riferimenti non consente di comprendere se il contesto in cui era inserito originariamente il lemma fosse veramente comico. Si è invece già incontrato il termine πεδίον ai vv. 504-506 degli Uccelli, commentando gli usi di κριθή. Se gli scoli a quel passo non dicono nulla di πεδίον, lo stesso può dirsi di quelli al v. 88 della Lisistrata, in cui Mirrina dice di una donna beota: «per Zeus, la Beozia/la Beota ha proprio una bella pianura!» (trad. Caciagli). Segue, poi, la battuta relativa al puleggio di cui si è già detto. Lo scolio ad locum non coglie l’accezione erotica di πεδίον, spiegando solo che la Beozia era nota per avere delle belle pianure. Come in altri casi, anche in questo il termine πεδίον potrebbe non aver avuto intrinsecamente un valore sessuale, ma avrebbe assunto tale senso solo all’interno di una esplicita metafora che allude alla regione pubica con una terminologia consueta a una società contadina: tali esempi, in sostanza, sarebbero differenti da κριθή, forse βάλανος, ἐρέβινθος oppure da μύρτον e ῥοδόν che erano più comunemente usati per indicare rispettivamente i genitali maschili o femminili e su cui si potevano innestare giochi di parole meno diretti, come la scena di sacrificio della Pace, dove, senza la nozione dell’identità fra κριθή e pudende maschili, la battuta sull’orzo – forse – non sarebbe stata immediatamente intellegibile. Comunque sia, un dato emerge con chiarezza: in molti casi, i termini agricoli erano polisemici e una stessa parola, quando si riferiva alla sfera sessuale, poteva alludere sia ai virilia pudenda che ai feminina, come accade per σῦκον e, forse, per ἀμφίκαυστις.
Stefano Caciagli © 2017