L’uso di una terminologia agricola per indicare gli organi sessuali o, più in generale, alcune pratiche erotiche sembra essere stato un fatto piuttosto comune per la Greca antica e per la Commedia in generale [cfr. Henderson (1991, 108-150)]: oltre al campo semantico connesso a σῦκον («fico»), si possono citare, per l’apparato maschile, ἀμοργίς, «tessuto di lino»; βάλανος, «ghianda»; ἐρέβινθος, «cece»; κριθή, «orzo»; per i genitali femminili, κόκκος, «chicco»; εὕστρα, «orzo abbrustolito»; μύρτον, «bacca di mirto»; ῥοδόν, «rosa»; βλήχων, «puleggio»; κῆπος, «giardino»; λόχμη, «boscaglia»; νάπος, «valle boscosa»; πεδίον, «pianura». Non tutti questi termini, però, indicavano propriamente le pudenda nella lingua greca, ma potevano divenire allusivi all’interno di trasparenti giochi di parole o di metafore.
Rispetto a quanto appena affermato, l’esegesi antica relativa all’uso comico di σῦκον mostra bene come l’assimilazione fra il fico e la sessualità non sia sempre stata diretta. L’antichità, del resto, sembra aver connesso questo frutto e il relativo albero, συκέα (cfr. Suda σ 1322), a diversi ambiti, presumibilmente in virtù del fatto che tale alimento era relativamente comune sulle mense degli Ateniesi, almeno in tempo di pace (cfr. la voce sicofante): essenzialmente, i fichi vengono ricondotti al mondo agricolo e, in particolar modo, ai momenti di abbondanza e di gioia festiva; a ciò si allaccia il fatto che i fichi avevano parte in ricette culinarie e in rituali. Se con σῦκον viene identificata anche una malattia, esso è anche allusivo alla sfera sessuale. Il campo semantico connesso a questo termine, inoltre, è usato per riferirsi ai sicofanti, l’origine del cui nome è riconducibile, secondo alcune fonti, a un evento remoto connesso all’esportazione dei fichi (cfr. la voce sicofante).
Come nella lingua italiana, il σῦκον poteva forse indicare i genitali femminili (schol. vet. Ar. Pax 1349), designati propriamente col termine volgare κύσθος (cfr. schol. Tr. Ar. Ach. 782; in Hsch. κ 4738 si parla di κυσός, termine che può indicare anche «ano»). L’italiano, allora, potrebbe aver ereditato il corrispondente termine dal latino tardo, che a sua volta derivava da un calco dal greco [cfr. Battaglia (GDLI 930)], con il consueto passaggio per i nomi dei frutti dal neutro latino al femminile delle lingue romanze: è opportuno mettere in evidenza, tuttavia, come il passo della Pace, dal carattere imenaico, sia l’unico in cui compare σῦκον come pudenda muliebria (cfr. schol. vet. 1349). Gli scoli ad Aristofane paiono certo glissare un po’ sull’argomento, ma è comunque vero che il σῦκον non sembri essere prettamente connesso ai genitali femminili. Al v. 996 degli Acarnesi, il Coro manifesta il proprio desiderio erotico per Riconciliazione: nel quadro di una estesa metafora agricola, vengono citati i nuovi germogli del fico, che lo scolio vetus riconduce, fuor di metafora, alla συνουσία, al «rapporto sessuale». Nelle Ecclesiazuse, invece, ai vv. 707-709 compare l’espressione ὑμᾶς δὲ τέωςθρῖαλαβόντας / διφόρου συκῆς / ἐν τοῖς προθύροισι δέφεσθαι, «e voi intanto, preso il fico munito di due frutti, ve lo menate davanti alla porta d’ingresso» (trad. Caciagli), con Suda δ 296 (cfr. lo schol. 707) che, spiegando il verbo δέφεσθαι («masturbarsi»), chiarisce come le foglie di fico generino un κνησιμός, «un piacevole solletico»; lo scolio al v. 708, invece, sembra associare – in modo in realtà non molto chiaro – la duplicità dell’albero di fico ai testicoli (ὅτι καὶδίφοροίεἰσιν). Al v. 158 degli Acarnesi, del resto, compare il verbo ἀποθριάζω, riferito agli Odomanti, popolazione trace: Esichio (α 6349) spiega che, se il verbo significa propriamente «staccare le foglie del fico» (esse infatti si chiamano θρῖα), impropriamente esso fa riferimento alla circoncisione (cfr. Hsch. α 6706). Il verbo συκάζω, del resto, che significa «raccogliere i fichi» (cfr. anche l’allusivo συκολογοῦντες in Ar. Pax 1348) può valere, oltre che «agire da sicofante», anche «stimolare in rapporti erotici» (Hsch. σ 2220 τὸ κνίζειν ἐν ταῖς ἐρωτικαῖς ὁμιλίαις), senso che, secondo l’Etymologicum Magnum (733,49; cfr. Suda σ 1329), può avere anche il verbo συκοφαντεῖν, come in Platone Comico (fr. 286 K.-A.) e in Menandro (fr. 464 K.-A.); tale accezione, del resto, potrebbe implicare anche una connotazione sessuale per il συκοφάντρια che Cremilo affibbia alla Vecchia nel v. 970 del Pluto. Si noti, infine, che Fozio (γ 152) paragona il fico al frutto della γλυκυσίδη, della «peonia», sfregandosi con il quale le donne si comporterebbero in modo sconveniente (ma cfr. Ath. III 76f, secondo cui tale pianta provocherebbe aborti). In sostanza, il σῦκον è connesso all’intera sfera sessuale, sia maschile che femminile, contrariamente a quanto avviene nella lingua italiana: nel passo della Pace da cui si sono prese le mosse, del resto, σῦκον sembra indicare sia i genitali maschili, con μέγα («grande») e παχύ («grosso») che qualificherebbero quelli di Trigeo, sia quelli femminili, con ἡδύ («dolce») che denoterebbe quelli di Opora [cfr. scholl. vet. 1348 s.: sul passo, vedi Caciagli (2015)]. Come si vedrà nel prosieguo di questa trattazione, la dolcezza pertiene tematicamente al frutto del fico, al di là della sua connotazione sessuale.
Se per i sicofanti si rimanda alla relativa voce, va posto in evidenza come σῦκον, nella stragrande maggioranza dei casi, non abbia un valore prettamente erotico, ma rinvii piuttosto a una vagheggiata abbondanza, generalmente connessa con un periodo di pace, o, al limite, con eventi strettamente associati alla vita dei campi. Al v. 755 dei Cavalieri, ad esempio, si presenta l’immagine di un Filocleone inebetito alle assemblee, «come se masticasse fichi secchi» (ὥσπερἐμπόδιζωνἰσχάδας): tra le diverse esegesi, è degna di nota quella di Aristarco (schol. vet. 755a), che spiega ἐμποδίζων con μασώμενος o ἐμφοροῦμενος, ovvero «mangiare» o «saziarsi», atto che implicherebbe il restare a bocca aperta (χάσκειν). Significativa è la notazione di Simmaco (ibid.), secondo cui l’espressione sarebbe una metafora la cui origine andrebbe ricondotta all’apicultura: d’inverno, infatti, gli apicultori erano soliti dare alle api fichi secchi pre-masticati, affinché esse non morissero di fame [cfr. Taillardat (1965, 264-266)]. Se al v. 558 della Pace il Coro dichiara d’essere felice di abbracciare nuovamente il fico che egli piantò da giovane, in quanto, come spiega lo scolio vetus 558b, la guerra gli aveva impedito di vederlo per lungo tempo, al v. 1165 il medesimo Coro dichiara di amare la vista del fico selvatico, del φήληξ, i cui frutti, come chiarisce lo scolio vetus b ad locum, sono maturi solo quando si gonfiano (cfr. anche Hsch. ε 5864 e ο 658, che riportano i termini ἐρινεός e ὄλυνθος per indicare i fichi selvatici).
Come accennato, è soprattutto l’abbondanza che è di sovente associata alla presenza dei fichi: nel v. 50 delle Nuvole, ad esempio, Strepsiade – offrendo una palese contrapposizione fra città e campagna – ricorda come egli odorasse di mosto, graticci, lana e abbondanza, quando sposò la nipote di Megacle – nome che richiama la nobile famiglia degli Alcmeonidi (cfr. schol. vet. 46a) – mentre la sposa profumava di unguenti preziosi: secondo lo scolio vetus 50b (cfr. Hsch. τ 1272), i graticci di cui Strepsiade parla, i τρασιαί, non sono altro che il luogo su cui venivano seccati i fichi. Se quanto Strepsiade vagheggia come denotante l’abbondanza è riconducibile a ciò che un contadino attico – ossia la grande maggioranza della popolazione ateniese – poteva auspicare di avere con il proprio lavoro, tali beni potevano addirittura essere considerati di lusso in tempo di guerra: al v. 302 delle Vespe, infatti, un fanciullo chiede in dono al padre-Coro dei fichi da mangiare, domanda che suscita nel secondo una risposta quasi risentita, in quanto associa i fichi secchi alla τρυφή, al «fasto» (cfr. schol. vet. ad locum), evidentemente perché tali beni avevano subito notevoli rincari ai tempi della Guerra del Peloponneso: questi beni, come mostra il v. 811 del Pluto, riempivano l’ὑπερῷον, la «dispensa» (cfr. schol. rec. 811b, che glossa il termine con τέγος, στέγος, ἀνώγαιον) delle abitazioni colte dalla ricchezza. In questo contesto, allora, non è forse senza significato che gli αἰδοῖα, ossia i genitali, di Opora nella scena finale della Pace siano chiamati appunto σῦκον, dolci come i desserts che con i fichi si producevano.
Il fico, però, non corrispondeva solo τραγήματα, ossia alle leccornie che presumibilmente concludevano un pasto magari non ordinario (cfr. Ar. Pax 1145), ma erano alla base di ricette che ricordano gli odierni dolmadakia, gli involtini fatti di foglie di vite (dal diminutivo di ντολμάς, che deriva dalla parola turca dolma, «ripieno»): lo scolio al v. 664 della Lisistrata, in effetti, spiega il verbo ἐντευριῶσθαι, «infagottato», come una metafora tratta dalla preparazione degli involtini di foglie di fico, θρῖα (dal nome della foglia di questa pianta, cfr. Hsch. θ 741); al v. 585 della Samia di Menandro, d’altronde, la metafora dell’involtino conduce il verbo a significare «raggirato», come spiega Esichio (ε 3328). Lo stesso lessico (θ 759) offre ragguagli sulla preparazione di questa pietanza: si prendevano tra le foglie non quelle più tenere, poiché esse sono quelle più profumate; per il ripieno, potevano essere usati carne o pesce sotto sale (τάριχος) oppure uova, con l’aggiunta di miele.
I fichi facevano parte anche dell’ambito rituale, sia domestico che pubblico. Al v. 897 delle Vespe, il cane colto a mangiare da solo del formaggio è punito con un τίτημα κῳὸς σύκονος, «l’ammenda di una catena di legno di fico»: gli scoli vetera 897ab spiegano che il collare in questione è quello con cui si legavano i cani in campagna, mentre il tipo di legno dipende dal fatto che esso aveva un basso valore commerciale; è possibile, però, che Aristofane faccia qui riferimento alla collana di fichi portata dai pharmakoi, per cui il cane sarebbe sostanzialmente condannato all’esilio [Wilson (1975, 151)]. Se i fichi, insieme ad altri dolciumi, potevano essere congrui come offerte agli dèi, in particolare i fichi secchi (ἰσχάδες, come spiega lo schol. rec. Ar. Pl. 677b), questi ultimi costituivano gli alimenti da offrire come dono di benvenuto a un ospite: lo scolio vetus 795b al Pluto, spiegando la relativa scena, chiarisce che i καταχύσματα, ossia le «manciate di noci e fichi gettate per benvenuto», si svolgevano presso il focolare. Se la collana rituale detta εἰρεσιώνη era fatta anche di fichi (si veda, a questo proposito, la voce sulla porta), i fichi costituivano uno degli ingredienti per l’ἡγητηρία, una torta di fichi che era portata in processione nel corso della festa ateniese delle Plinterie, nel mese di Targelione (maggio-giugno, cfr. Hsch. η 68 e Suda π 37): il nome della torta deriverebbe dal fatto che il fico fu il primo alimento ‘civilizzato’ che gli Ateniesi gustarono o poiché esso fu il primo frutto coltivato a essere stato scoperto dagli uomini, tanto che ad Atene esisteva un luogo sacro in cui ne era stato scoperto il primo albero (cfr. EM 418,49-55 e, anche, Ath. III 74d).
Ultima accezione del termine σῦκον sembra essere quella di «orzaiolo», che figura nelle Rane, al v. 1247: gli scoli vetera 1247ab (cfr. anche i recentiora ad locum, così come Tzetzes e, inoltre, Hsch. σ 2219) spiegano che tale malattia consiste in un σαρκῶμα, una «escrescenza carnosa», o un ἕλκος, una «piaga», di cui Ippocrate tratta nei De morbis popolaribus III 3,7: possibile che il nome derivi dalla forma che l’orzaiolo assume, simile a un rigonfiamento che può ricordare i fichi appesi ai rami dell’albero.
La ricchezza semantica di σῦκον mostra come l’eros fosse solo uno dei possibili aspetti che di questo termine potevano essere declinati: la sua analisi, comunque, mostra come alcuni oggetti e alimenti di uso quotidiano potevano dare adito a esilaranti doppi sensi per chi era abituato a vivere in campagna e di questi oggetti e alimenti faceva comunemente uso.
Stefano Caciagli © 2016