Daniele Benati - Gino

Bologna, 29 – 9 – 2023

 

In occasione del pensionamento di Gino Ruozzi, critico e docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna, nonché ex-presidente dell’Adi (Associazione degli Italianisti), il suo grande amico Daniele Benati, autore di Silenzio in Emilia e Cani dell’inferno, ha voluto dedicargli un personalissimo ricordo

 

Gino, e lo dico senza tanti preamboli, è la persona migliore che ho conosciuto. Migliore in tutti i sensi, sul piano umano, sul piano intellettuale e anche come cantante – be’, forse come cantante non proprio il migliore, ma sulla buona strada per diventarlo. In ogni caso, nel complesso, è sicuramente la persona migliore che ho conosciuto. E non lo dico per pigrizia mentale e sbrigare così in quattro e quattr’otto l’incombenza di parlare di lui a questo incontro, ma perché è la verità – una verità che si è continuamente confermata nell’arco di oltre mezzo secolo di amicizia e frequentazione.

E sono parecchie le qualità che in tutti questi anni ho avuto modo di osservare in lui. Non mi occuperò qui di quelle relative alla parte intellettuale, creativa, della sua figura di professore, studioso, saggista e critico – perché di queste si è già parlato. Ma, appunto, di quelle umane. Anche se naturalmente ho sempre avuto grande ammirazione per la pacatezza del suo modo di scrivere e per la chiarezza con cui egli sa dibattere in pubblico gli argomenti che anche a me sono sempre stati a cuore, ossia quelli letterari.

Innanzitutto, vorrei dire che Gino è una persona che c’è, che fa sentire la sua presenza. Come amico, intendo. Con molto garbo, con molta discrezione, e senza mai eccedere. Su di lui si può sempre contare. La sua disponibilità non viene mai meno. E non lo è venuta mai neanche nei periodi che per lui sono stati di maggior impegno, come quelli in cui era ancora insegnante di scuola superiore – quindi con orari di lavoro che davano scarse possibilità di svolgere lavori di ricerca –, e pur garantendo una presenza attiva nell’ambito della propria famiglia, riusciva non solo a battere a tappeto tutte le biblioteche d’Italia in cerca di materiale per quello che sarebbe diventato il suo primo grande studio sulle “forme brevi” e in seguito il doppio Meridiano sugli Scrittori italiani di aforismi, ma anche ad essere sempre presente per gli amici, in particolare alle partite di calcio che all’epoca facevamo una o due volte la settimana per stare un po’ in forma – forma che perdevamo subito dopo, quando la serata si concludeva in una pizzeria di Reggio dalla quale venivamo sbattuti fuori ben oltre l’orario di chiusura e dopo che alla pizza iniziale si erano via via succeduti boccali e boccali di birra nonché bicchieri e bicchieri di vodka e sigarette a non finire.

Ed era proprio in queste situazioni che si rendeva evidente una delle massime qualità di Gino, ossia la generosità. In un modo o nell’altro, infatti, forse per magnanimità sua, o forse perché involontariamente di proposito erano gli altri a sbagliarsi, Gino si ritrovava sempre ad essere l’ultimo a pagare e ogni volta i conti non tornavano, cioè gli amici che avevano già pagato ed erano già usciti dalla pizzeria, evidentemente non avevano pagato tutto quello che avevano consumato e così ogni volta toccava a Gino saldare l’eccedenza che non tornava. Ovviamente lui era troppo signore per farlo notare al resto della compagnia infame e sopportava ogni volta, e questo forse lo faceva sentire più meritevole agli occhi di un altro suo Amico che per lui era ben più importante di noi meschini e bassi approfittatori. Un altro suo Amico che ha il nome non del tutto sconosciuto e secondario di Dio. Proprio lui, Dio.

Gino infatti, come tutti sanno, è un assoluto credente, però ha un’idea tutta sua di Dio, che forse non combacia con quella dei maggiori teologi e forse nemmeno con quella del Papa. Gino infatti sostiene che, a differenza di quello che credono o si aspettano tutti i credenti, ossia che Dio agisca in nome della giustizia, Dio, secondo Gino, invece, è mosso più che altro da un sentimento di simpatia: simpatia nei confronti di alcuni pochi eletti; e indifferenza o addirittura antipatia per tutti gli altri. E questo, ammettiamolo, non è tanto bello. Ma per lui, Gino, le cose stanno così. E stanno così perché lui naturalmente fa parte della schiera degli eletti; ma ormai sono state tante le volte in cui ho potuto appurare la veridicità di questa sua convinzione che ho cominciato a crederci anch’io. Ad esempio, quando alla mattina della seconda domenica del mese andiamo al mercatino che si svolge nella piazza di Gualtieri, nella bassa reggiana vicino al Po, in cerca di qualche rara opera di Papini che purtroppo troviamo sempre – un mercato, quello di Gualtieri che è sempre affollatissimo ed è dunque difficilissimo trovare da parcheggiare – o almeno lo sarebbe per me che non ho la stessa idea di Dio che ha Gino – ecco, Gino, invece, come arriva nei pressi della piazza e anche per lui tutti gli stalli del parcheggio sono occupati – ecco che sono occupati tutti tranne uno che si sta liberando proprio nel momento in cui arriva lui. Succede sempre così. Come se lui anticipatamente si fosse messo d’accordo con l’altro che va via. E io rimango sempre esterrefatto da questi episodi, che appunto però sono riconducibili, come dicevo, a una teoria teologica che sembrerebbe fare acqua da tutte le parti ma che basterebbe stare qualche tempo in sua compagnia per accorgersi invece che è infallibile.

La speranza di tutti noi, sempre, quando siamo in sua compagnia, è infatti che questa simpatia, o benevolenza che il suo famoso e potente Amico gli riserva, si irradi anche intorno a lui e arrivi a lambire le nostre teste. Cosa però che non accade mai e men che meno è accaduta in una particolare occasione, in cui effettivamente una parte di colpa ce l’ha avuta proprio lui, Gino, perché anche lui qualche mancanza o difetto ce li dovrà pur avere. Mi riferisco a un episodio avvenuto vent’anni fa, durante la finale di Coppa dei Campioni fra Juve e Milan, giocata a Manchester. Noi amici lo avevamo invitato a venirla a vedere in modo che la sua presenza fosse di buon auspicio. Invece proprio quella sera, o lui o qualcun altro deve aver fatto cilecca. Non solo, ma lui si è reso colpevole di una leggerezza che gli è costata cinque anni di squalifica – cioè per cinque anni non sarebbe più potuto venire a vedere una partita di calcio con noi, che all’epoca, prima che sulla Juve si abbattesse la sciagura paurosa che ha il doppio nome di Andrea Agnelli e Massimiliano Allegri, eravamo tutti tifosi accaniti della Juve. E anche Gino lo era, ma tiepido tiepido, come tifoso. Non sapeva neanche mai i risultati delle partite e neanche le formazioni e neanche se c’erano degli squalificati e neanche se giocava ancora Sivori. Comunque, come tutti sanno, quella partita in particolare della finale era finita in pareggio e ora si stava concludendo coi rigori. Massima tensione e concentrazione per noi, sigarette a raffica, ansia e paura; e proprio nel mentre che noi tutti eravamo lì tesi come corde di violino perché il Milan era in vantaggio, ecco che squilla il telefonino di Gino e lui per tutto il tempo, anziché dire aspetta un attimo richiamo dopo perché adesso sto facendo una cosa importantissima, e anziché seguire l’epilogo che poi sarebbe stato disastroso per noi, sta lì a parlare con sua figlia bello bello come se niente fosse. Be’, adesso non voglio dire che la partita l’abbiamo persa per colpa sua, ma certo una bella mano gliel’ha dato lui, al Milan quella sera, a forza di star lì a parlare al telefono. E come giusta conseguenza cinque annetti di squalifica non glieli ha tolti nessuno.

Perché, appunto, come dicevo, qualche difettino ce l’ha anche lui. Che poi, a ben vedere forse non si può chiamare neanche difettino, perché si tratta più che altro di un’errata percezione delle cose, anzi più che errata, di una eccessivamente positiva percezione o interpretazione delle cose che non sarebbe giustificabile in alcun modo. E qui mi riferisco all’epoca in cui avevamo fondato un gruppo musicale chiamato I Fagiani, di cui Gino era uno dei due cantanti, diciamo la voce solare, di canzoni che trasmettevano un messaggio positivo; mentre l’altro, Giorgio Messori, era il cantante notturno, più cupo e tormentato. Bene, per il primo concerto in pubblico, un nostro amico fotografo industriale ci aveva messo a disposizione il suo capannone e il palco su cui dovevamo esibirci era stato costruito sul cassone di un camion, sormontato da un telone. Per l’occasione e per farci fare bella figura – si trattava in fondo del nostro esordio – un nostro amico eccellente saxofonista di jazz aveva accettato di accompagnarci col suo strumento, ma, appena sentito il nostro avvio con la prima canzone, aveva rimesso il sax nella custodia e aveva detto buonasera arrivederci. Ma noi avevamo continuato lo stesso, imperterriti anche se non sempre i cantanti erano intonati e gli strumentisti tutti nella stessa tonalità. Il pubblico sembrava non sgradire: non era entusiasta ma neanche fischiava, cioè può darsi che fischiasse ma col volume alto degli altoparlanti non si sentiva. Ma forse a prendersela più di tutti è stato il telone che ci sormontava, a un tratto, forse per le vibrazioni, ci è crollato in testa e questo lo abbiamo dovuto intendere come un segnale che il concerto era giunto al termine. Del resto neanche il tempo che il telone crollasse del tutto che già era partito l’impianto stereo del locale e il pubblico s’era già messo a ballare, e fra il pubblico, quello più in bella vista, raggiante e soddisfatto per il successo che secondo lui, ma solo secondo lui, avevamo ottenuto, c’era Gino, là che ballava con sua figlia neonata in braccio e sua moglie Gloria, che tra l’altro era una delle cantanti del gruppo, mentre noialtri componenti del gruppo ci eravamo andati a nascondere per la brutta figura che avevamo fatto.

E la stessa cosa è successa anche un po’ di tempo dopo, quando si poteva dire che eravamo già più ferrati nel mestiere e pronti ad affrontare un pubblico esigente. Quella sera però il pubblico più che esigente era forse sbagliato, trattandosi di un folto gruppo di focose donne sudamericane che avevano organizzato una festa brasiliana per scatenarsi al ritmo di samba macarena e chissà per quale oscura ragione – tranne forse per il fatto che uno dei nostri chitarristi si dilettava di bossa nova – eravamo stati invitati noi, I Fagiani, ad esibirci. Noi che avevamo solo delle canzoni bolse, tristi e cupe, che facevano venire il latte ai calcagni. E difatti, dopo la prima canzone, è venuta lì una bella mora, brasiliana, sotto il palco e senza tanti mezzi termini ci ha fatto proprio il segno con entrambe le mani di smammare, di prendere su armi e bagagli e di non farci mai più vedere, perché loro si volevano divertire e noi gli eravamo sembrati, prima ancora che cominciassimo a suonare, dei menagramo. Quindi si poteva dire che neanche quella sera fosse stato un gran successo. Invece chi si doveva vedere di lì a due minuti sulla pista là che ballava in mezzo a tutte quelle sudamericane focose, bello bello, e indifferente al dramma che si era appena consumato: lui, Gino, contento di come era andata la serata e a chiunque gli obiettasse che forse non avevamo fatto una gran figura, lui obiettava a sua volta: Perché, diceva, non siamo andati bene? Ed era davvero meravigliato che noi avessimo qualche dubbio al riguardo. Secondo lui infatti avevamo suonato non solo benissimo ma anche in piena sintonia con lo spirito della serata, anzi quello spirito lo avevamo espresso in pieno fin dalla prima canzone che avevamo fatto – che poi era stata anche l’ultima. Ed era così convinto di quello che diceva che a niente era valso fargli presente che proprio loro, quelle donne con cui lui ora stava ballando, ci avevano appena cacciato via, e anche in malo modo, dandoci dei buondaniente. Ma cosa dite, diceva lui dimenandosi in mezzo alla pista coi gomiti tenuti in alto, ma se eravamo andati benissimo, si meravigliava, che meglio di così non si poteva.

Ecco, forse, se proprio bisogna trovare un qualche difettino a Gino, come dicevo, bisogna trovarglielo in questa sua forma, potremmo dire, di leggera allucinazione che ogni tanto lo prendeva, soprattutto quando in ballo c’erano i Fagiani e si doveva fare una valutazione sulla loro esibizione.

Ma, a ben vedere, però, questo suo modo di giudicar le cose – che noi all’epoca trovavamo sbagliato –  non costituisce un travisamento della realtà a suo favore, ma è piuttosto un’emanazione del suo modo di stare al mondo e ha come sua prima e diretta conseguenza un fatto – o, per meglio dire – una qualità che io personalmente ho potuto constatare solo in lui e che si manifesta e si è sempre manifestata in due precise e distinte peculiarità: quella di non lamentarsi mai e quella di non parlare mai male di nessuno. In tanti anni che conosco Gino – più di 50, come dicevo – non l’ho mai sentito dire una parola di traverso contro qualcuno, una sola mezza parola storta su nessuno, nemmeno in maniera ironica o come battuta affettuosa. Mai. E questa è una cosa miracolosa, perché sappiamo tutti benissimo che soprattutto in ambienti come questo – accademico – ma si potrebbe dire in tutti gli ambiti in cui prima o poi ci ritroviamo ad agire nella vita, non si fa mai altro che tagliare i panni addosso a qualcuno, amico o nemico che sia. Ebbene, io, Gino, lo ripeto, non l’ho mai sentito dire qualcosa di negativo su nessuno, neanche forse quando per lui magari poteva essere vantaggioso farlo.

Ma credo che anche questo suo modo di essere sia una diretta manifestazione del suo rapporto con quell’Amico che ha, così potente, anzi, no, con il Figlio di questo suo Amico, secondo il quale fra le cose migliori che come essere umani potremmo fare ci sarebbe proprio quella di non giudicare. Lui, il Figlio del suo Amico, aggiunge di non giudicare per non essere giudicati a nostra volta, e qui il sottinteso è: per non essere giudicati male a nostra volta, perché se il giudizio fosse positivo, non si vede perché dovremmo evitarlo. Invece, già allora, evidentemente, il Figlio del suo Amico sapeva che l’essere umano è una brutta persona e che gode a sentir parlar male degli altri o a farlo lui stesso. Quindi consigliava di non farlo perché poi qualcuno lo avrebbe fatto ai nostri danni. Quindi predicava un comportamento che per l’essere umano sarebbe innaturale e anche un tantino opportunistico.

Ecco, la differenza è che in Gino, invece, e qui concludo, questa propensione a non dir male di nessuno è perfettamente naturale, quindi lui non ha bisogno di sforzarsi, non sta lì a denti stretti in compagnia di altri con la voglia di dire tutto il contrario di quello che gli altri stanno dicendo in bene di una persona – cosa già di per sé rarissima – e nemmeno resiste fino all’ultimo per poi farsi scappare una battutina velenosa. Non lo si vede mai, Gino, in lotta con se stesso per trattenersi dal dire cose come queste. E il sapere invece che tutti gli altri lo fanno me lo ha sempre fatto apprezzare a dismisura. E se oggi siamo qui per festeggiarlo credo che non sia solo per motivi legati al lavoro o alla sua carriera, ma anche per le sue qualità umane che sicuramente non ha lesinato a nessuno.

 

30 settembre 2024