Riccardo Stracuzzi - Ugo Foscolo e la logica del Neoclassicismo

I. L'ultima lettera

 

1. African cottage
Luglio 1826. A Londra, in una casa squallida nella zona di Somers Town, Ugo Foscolo ospita il giovane amico Antonio Panizzi. Il lungo esilio inglese di Ugo, da qualche tempo, si è trasformato in vera e propria clandestinità: il poeta si nasconde sotto i falsi nomi di Mr. Flass, Florian, Mariatt o Emerytt per fuggire la turba dei creditori ai quali deve montagne di sterline. La clandestinità e l’anonimato, oltre alla miseria, lo costringono a vivere in un quartiere popolare, lontano dagli sguardi degli amici o dei conoscenti inglesi.
Un paio d'anni prima ha dovuto abbandonare di corsa la residenza del Digamma Cottage, che aveva amorevolmente scelto, arredato, e organizzato a immagine dell'elegante ritiro di un gentleman dedito agli studi e agli ozi delle lettere. La fuga del Digamma Cottage è stato però l'inizio della fine: è seguita una peregrinazione tra casette, camere e appartamenti miserrimi, fino all'approdo all'African Cottage, anch'esso miserrimo. Sempre da un paio d'anni, però, in Foscolo è rinata la speranza di guadagnare decentemente e di nutrire se stesso e la figlia Floriana (al secolo Mary Hamilton) senza ricorrere a cambiali, stratagemmi e fughe. Poco dopo la fuga dal Digamma Cottage, infatti, ha stretto un contratto con William Pickering, editore in ascesa nel mercato inglese e vero e proprio filibustiere, che lo costringe a lavorare in condizioni disumane. Lo alletta, lo punisce e lo fustiga – per ridurlo a quel lavoro seriale cui uno scrittore italiano non è abituato – con contratti, impegni e cambiali che gli fa firmare, ma di cui non rilascia copia. L'editore vuole così rassicurarsi sul fatto che Foscolo produca a ritmi industriali, senza distrarsi un momento.

2. Un nuovo contratto
L'accordo con Pickering prevede che Foscolo dia alla luce l'edizione di una serie di classici italiani, con prefazioni e commenti (venti gli autori, tra i quali Dante, Petrarca, Berni, Ariosto, Tasso ecc.): 54 sterline per ogni volume, alla consegna dei manoscritti in pulito, pronti per la tipografia. Foscolo si è imbarcato nell'impresa con entusiasmo. Sospira da anni sul progetto di un'edizione annotata e presentata delle opere italiane più illustri nella tradizione: da quando, cioè, verificato che in Inghilterra le sue pagine di prosa o di poesia non dànno pane, si è dedicato al lavoro di storico e critico letterario.
Propositi di farsi editore di letteratura greca, d'altronde, gli vengono da lontano: ha pubblicato, nel 1803, La chioma di Berenice, e più tardi un importante Esperimento di traduzione dell'Iliade di Omero (1807). E nello stesso tempo, allora e in séguito, non ha mai interrotto la lettura e la riflessione sui grandi autori della letteratura italiana. L'accordo con Pickering, dunque, sembra indirizzare tutto per il meglio: proseguendo a dar fuori a ritmi forsennati volumi sui padri della tradizione linguistica e poetica d'Italia, spera di guadagnare con continuità, di pagare i debiti, e di vivere con modesto decoro.
Le cose non vanno così: gli affanni finanziari – e qualche residuo sperpero, suscitato da troppo ottimistici calcoli sulle entrate a venire – sono lontani dall'essere vicenda del passato. Sette mesi dopo l'accordo con Pickering, Foscolo è incarcerato in una delle famigerate Sponging-houses della Londra di allora: un sarto, per un conto non corrisposto di 19 sterline, si è rivolto allo sceriffo. Tre settimane di reclusione, in tutto; ma è quanto basta perché, lasciato una volte per tutte il Digamma Cottage nel quale era tornato a vivere per un momento, e ridatosi alla macchia, Foscolo si richiuda nel lavoro sui classici, incollato al tavolo come alla catena di montaggio, ma itinerando tra gli abituri di James Street, di Hendon, di Totteridge, di Devereux Street, di Duke Street e, in ultimo, di Charlton Street, quartiere di Somers Town, dov'è – per l'appunto – il disperante African Cottage.

3. Echi e ripensamenti
Il corpo, frattanto, frana giorno per giorno verso la malattia. Foscolo non è mai stato di sana e robusta costituzione: in questo momento, però, si manifestano i primi segni dell'idropisia (oggi si parlerebbe di edema), che lo ucciderà poco più di un anno dopo. Non per questo Ugo interrompe il lavoro su Dante e Boccaccio. Mentre è all'opera sulla Commedia e sul Decameron, però, comincia a stendere una sorta di Epistola posteritati, che ha proprio lo stesso scopo che aveva quella di Petrarca: «Et illud forsitan optabis nosse: quid hominis fuerim aut quis operum exitus meorum («E probabilmente ti piacerà sapere che uomo fui o quale fu la ventura delle opere mie)» [Villani 1990, 35]. Con una differenza, tuttavia: Foscolo scrive intenzionalmente ai letterati ita-liani, agli intellettuali, diciamo pure ai professionisti e agli addetti ai lavori, – e non a un postero quale che sia, sperso in chissà quale secolo e in chissà quale luogo del mondo a venire. Così, passati per l'appunto i secoli, l'universalismo preumanistico di Petrarca – nell'Europa postrivoluzionaria di Foscolo – si trasforma in militanza politico-intellettuale di parte.
Che il desiderio di spiegare le vicende politiche e culturali che ha attraversato nella vita, le sue scelte, le ragioni più intime ma anche più pubbliche (nelle loro scaturigini) della sua militanza letteraria venga a Ugo mentre procura il testo di alcuni classici italiani, lo commenta, lo correda di prefazioni e discorsi introduttivi; che questo estremo bisogno di parlare di sé si faccia sentire proprio ora, non è casuale.

Sol che non lascia eredità di affetti
poca gioja ha dell'urna; e se pur mira
dopo l'esequie, errar vede il suo spirto
fra 'l compianto de' templi Acherontei,
o ricovrarsi sotto le grandi ale
del perdono d'Iddio: ma la sua polve
lascia alle ortiche di deserta gleba
ove né donna innamorata preghi,
né passeggier solingo oda il sospiro
che dal tumulo a noi manda Natura,


ha scritto venti anni prima, in un punto dei Sepolcri (vv. 41-50; cfr. EN I, p. 126), poi divenuto notissimo. La sentenza è senz'altro una riscrittura della quartina di settenari – i versi 109-112 – con cui si chiude La vita rustica di Parini («Ah quella è vera fama | d'uom che lasciar può quì | lunga ancor di sé brama | dopo l'ultimo dì!» [Ebani 2010, 50]). Ciò che più conta – in Foscolo – è però l'insistenza materialistica su quello che segue al «ma» del verso 46: colui che non lascia alcuna stima di sé nel mondo è ridotto a un nonnulla. Nemmeno il passante che si trovi lì per caso può sentire il suono debole che proviene dalla morte: la comune esperienza umana, in sé stessa, non rende tutti uguali. Non è sufficiente aver vissuto, infatti, per meritare il ricordo altrui, ma bisogna averlo meritato lasciando nel mondo i segni della propria opera, e dunque un 'affetto' per quei segni. Così Foscolo traduce in italiano («il sospiro | che dal tumulo a noi manda natura»), ma soprattutto riformula politicamente il verso 91 dell'Elegy written in a country Church-Yard, di Thomas Gray («ev'n from the tomb the voice of Natura cries»).

4. Il pantheon
Ecco perché i Sepolcri sono stati, venti anni prima appunto, una poesia di marcato segno politico rivolta agli italiani. A loro si insegnava a guardare le proprie glorie: Giuseppe Parini, anzitutto. E poi il pantheon dei grandi, nella basilica di Santa Croce a Firenze, dove sono le tombe di Machiavelli, di Michelangelo, di Galilei, di Dante e Petrarca. È quello, agli occhi di Foscolo, il luogo metaforico per eccellenza, in Italia, del valore civilizzatore della poesia, e cioè della sua funzione politica. Ecco perché Vittorio Alfieri – sempre nel racconto dei Sepolcri foscoliani – a Santa Croce va a cercare l'esempio che gli serve per scrivere, e per pensare la letteratura: «Che ove speme di gloria agli animosi | intelletti rifulga ed all'Italia, | quindi trarrem gli auspicj. E a questi marmi | venne spesso Vittorio ad ispirarsi» (vv. 186-189 [EN I, 130]).
Valore civilizzatore della poesia? L'aria polverosa e ormai asfittica che ormai si respira in questa, o in simili frasi fatte da manuale scolastico, banalizza e in verità distorce e soffoca il senso politico della posizione di Foscolo. E questo perché l'idealismo primigenio e militante di un giacobino e di un rivoluzionario dei suoi tempi, è passato attraverso le maglie di un idealismo via via più consolatorio e sognante, e via via meno crudo e incisivo: romantico, tardoromantico, positivista, decadente e, in ultimo, patriottardo e fascista (secondo l'evoluzione e progressiva alienazione della coscienza borghese in Italia). Sono i corsi cui va incontro il senso storico della letteratura, che risiede nella concreta eventualità di una deformazione ideologica non sempre innocente.
Sul cosiddetto 'valore civilizzatore della poesia' (quanto a Foscolo, sarebbe decisamente meglio sostituire 'poesia' con 'letteratura'), e sul programma politico che lo ispirava, si tornerà tra un po'. Si appunti, per ora, che il desiderio di scrivere un proprio testamento intellettuale – come si è visto – è progetto che coincide perfettamente con la preparazione di una collana dei classici italiani da parte dello scrittore. Allestire quella galleria dei 'forti' scrittori venuti prima di lui («A egregie cose il forte animo accendono | l'urne de' forti [...]; e bella | e santa fanno al peregrin la terra | che le ricetta», Dei sepolcri, vv. 151-154 [EN I, 129]), significa per Foscolo, ipso facto, collocarsi entro quella stessa galleria, a futura memoria dei 'peregrini', dei 'passeggeri solinghi', degli italiani – in-somma – che l'avrebbero percorsa per visitarla.

5. «Io non so chi voi siate»
Redigendo questa sua lettera ai posteri, Foscolo la invia dunque ai 'letterati': a coloro, cioè, che hanno il compito di preservare la letteratura, di gestirne il patrimonio, di proteggerne e accrescerne il potenziale significato politico. Già ai tempi della prolusione pavese, nel 1809 (sulla quale anche si tornerà più avanti) nei letterati aveva infatti individuato una classe di veri e proprio 'mediatori culturali' tra il potere e il popolo; e l'abbruttimento servile al potere di questa classe comportava ai suoi occhi l'abbruttimento stesso dell'Italia [cfr. EN VII, 17]: ancora da fare, per giunta.
Così nel 1825, mentre lavora a una sua edizione della Commedia dantesca, scrive anche questa estrema apologia, e medita di farla pubblicare da Pickering come prefazione al discorso su Dante che avrebbe dovuto seguire al testo del poema. Indirizza la lettera Agli editori padovani della Divina Commedia uscita nell'anno MD.CCC.XXII dalla tipografia Minerva. Sono suoi colleghi, in certo senso: in quanto letterati, e in quanto editori di Dante. Ma questi corrispondenti dichiarati, dei quali peraltro non fa mai il nome, costituiscono uno scoperto pretesto.
Non è a loro – che oltretutto gli avevano rivolto critiche aspre e non del tutto ragionevoli – che sta effettivamente scrivendo, e lo dice: «A voi non intitolo questo volumetto, quando io non so chi voi siate [...]»: scrive, attraverso di loro, a «tutto il mondo loro» [EN XIII, II: 81], agli intellettuali, insomma. Scrive per giustificare se stesso, per ricordare alcuni episodi e quale atteggiamento egli abbia avuto, per marcare la coerenza e il rigore della sua missione intellettuale. Non scrive per rivalutare, o lodare, la propria attività di scrittore e di poeta, circa la quale non dubita di aver meritato un posto di rilievo nella storia italiana. Ormai un certo processo, avviato proprio con l'insegnamento pavese del 1809, poi sistematicamente sviluppato negli undici anni dell'esilio inglese (1816-1827), ha fatto di Foscolo un ideologo della letteratura.
Ma per lui – lo si è detto – sono ormai gli anni della malattia, del pochissimo denaro faticosamente guadagnato, della vita itinerante e clandestina. Anche questa epistola posteritati risente delle condizioni angosciose nelle quali il suo autore la scrive. E il filo del discorso ne risente: a tratti è troppo allusivo, involuto, franto, insistente su alcuni punti e su alcune figure (quella di Napoleone, anzitutto), e talora propriamente ossessivo.

 

II. Esame di coscienza di un letterato

 

1. Un discorso interrotto
È per questo che Antonio Panizzi, nel luglio del 1826, ascoltando dalla voce di Foscolo ampi stralci di questa Lettera apologetica, ne è sgradevolmente colpito, e nutre riguardo a quello che sente una perplessità radicale. All'amico, infatti, consiglia di non pubblicarla, di non ostinarsi riguardo ad antiche ragioni di rancore e incomprensione, di lasciar correre una volta per tutte. Panizzi, intellettuale acuto e singolarissimo tipo di esule italiano in Inghilterra (sarà uno dei pochissimi, forse l'unico insieme con Giuseppe Pecchio, ad ambientarsi veramente nel paese ospitante [Dionisotti 1998, 179-208]), non è poi un uomo tenero; né tantomeno uno di quegli ex patrioti inclini a dimenticare la coercizione e le infamie subite in Italia prima di esulare. Ma alle sue orecchie, ciò di cui Foscolo scrive, ossia le battaglie di un intellettuale che ha vissuto da protagonista gli anni napoleonici (1796-1814), risuonano di accuse e di rivendicazioni tanto aspre quanto polverose, tarmate e stinte, irrimediabilmente perse in una cronaca lontana e non ancora fatta storia.
Panizzi ha torto, ed evidentemente non ha compreso il senso di quello che ha ascoltato: il suo consiglio, quasi di bon ton [cfr. EN XIII, I: cv-cviii], stona in rapporto al senso della apologia ormai terminale di Foscolo; anche se è vero che la lettera è impervia, e richiede una lettura che sia anche un vaglio. L'autore comunque non presta orecchio ai consigli dell'amico più giovane. Ha consegnato il manoscritto a Pickering già alla fine di dicembre del 1825, benché il testo non sia ancora concluso: progetta prima o poi di terminarlo, e ritiene che sarà pubblicato in volume. La vicenda storica, d'altronde, smentirà questa speranza. Nel suo ultimo anno di vita, infatti, i rapporti con Pickering sono peggiorati sino alla rottura. Le residenze, sempre modeste e spesso periferiche, si moltiplicano, mentre la malattia si fa sempre più grave. In questo quadro desolante, la cura dei volumi dei classici italiani è abbandonata a se stessa, lo scrittoio ormai disertato. Alle 20.45 del 10 settembre del 1827, Foscolo muore nella Bohemia House, al 15 di Russel Place, Turnam Green. Otto giorni dopo il suo corpo è inumato nel piccolo cimitero di Chiswick, un sobborgo a ovest di Londra.

2. Mazzini nella bottega di Pickering
È trascorso solo un anno o poco più dalla visita di Panizzi all'African Cottage: ma Foscolo, frattanto, è morto. Le sue carte sono state chiuse in un baule, e il baule affidato, dalla figlia Floriana, al canonico Riego, un fuoriuscito spagnolo che negli ultimi anni era stato vicino alla famiglia Foscolo. Anni dopo, nel 1838, quel baule è venduto da Riego a Enrico Mayer, Pietro Bastogi e Gino Capponi, grazie anche all'apporto economico di Hudson Gurney (uomo politico, poeta e studioso inglese di antichità, in rapporto con Foscolo negli ultimi anni della vita di questi), i quali portano le carte a Livorno, e le usano per preparare e poi pubblicare una edizione delle Opere edite e postume di Ugo Foscolo, che esce a Firenze, presso l'editore Le Monnier, a partire dal 1850.
Ma l'autografo della Lettera apologetica non è nel baule comprato da Mayer, Bastogi e Capponi. Come s'è detto, la Lettera è stata consegnata a Pickering tra la fine del 1825 e l'inizio del '26; per questo, l'autografo è rimasto nella bottega dell'editore, insieme con altri manoscritti di mano foscoliana. Ed è proprio rovistando in questa bottega che Giuseppe Mazzini, giunto a Londra da poco, scova l'Apologetica. Ora, Mazzini è un intellettuale e un patriota della generazione successiva a quella di Foscolo, ma nutre nei confronti del poeta e del romanziere (nota è la sua passione per l'Ortis) una sconfinata ammirazione: vede in lui un esempio di coraggio, di amore del sacrificio, di dedizione al sogno dell'Italia «virtuosa, magnanima, libera e una», come avrebbe detto l'Alfieri del Misogallo [cfr. Mazzotta 1984, 198]). Insomma, in ottemperanza a quella specie di 'deismo' patriottico che gli è propria, Mazzini di Foscolo si è fatto un idea alquanto martirologica, un po' da ex voto nazionale. Ma è già qualcosa: in quegli anni Foscolo è più che altro oggetto di deprecazioni e di scherno, oppure di ritratti magari scanzonati e gradevoli, ma riduttivi. Come quello che ne ha dato un suo amico dei tempi di Milano e poi dell'esilio inglese, Giuseppe Pecchio, autore nel 1830 della prima Vita di Ugo Foscolo propriamente detta [vd. ora Nicoletti 1974]. In queste circostanze, la famiglia e gli amici di Foscolo progettano di correre ai ripari, e di cercare un biografo che restauri l'immagine del poeta.
Nasce di qui il progetto di Mazzini – candidato ideale agli occhi di Giulio Foscolo e di Quirina Mocenni Magiotti – di dare ai patrioti d'Italia una biografia che si opponga a quella di Pecchio, ossia raccontata dalla parte di Ugo. Il progetto è poi abbandonato, ma nel frattempo Mazzini raccoglie materiali: lettere, testimonianze, inediti ecc. Ed è così che, trovate alcune carte degli ultimi anni di Foscolo – anche Mayer e gli altri le cercavano da tempo – finisce per pubblicare nel 1844 gli Scritti politici inediti di Ugo Foscolo raccolti a documentarne la vita e i tempi: alle pp. 3-145 del volume si legge, per la prima volta, la Lettera apologetica. È anche grazie ad essa, se non solamente, che prende avvio l'erezione di quel marmoreo e romantico monumento al 'genio' foscoliano di cui Mazzini è tra i primi artefici [Binni 1982, 214-217]. Il monumento servirà a rendere tanto fortunata quanto fuorviante, e onestamente querula e trombona, l'immagine dello scrittore.

3. La macchina biografica
Nella seconda metà del 1825, mentre scrive la Lettera apologetica, Foscolo ha quarantasette anni, e guarda indietro alla propria parabola di scrittore nel mondo. Dovendo dichiararsi, spiegarsi, darsi ragione di quello che ha fatto e di quello che ha scritto, riflette anche sull'immagine di sé che il mondo ha acquisito. Su quanto, cioè, si dice in giro di lui. È fatale, così, che si soffermi sulla sua vita pubblica, da un lato; dall'altro, sulla pubblicazione della sua 'vi-ta'.
Il secondo Settecento è anche il tempo di molte macchine biografiche, messe in moto dal lavoro 'dizionariale' ed enciclopedico di cui Bayle e i redattori dell'Encyclopédie – diretti da Diderot e d'Alembert – sono stati i più celebri campioni. Da ultimo queste macchine hanno cominciato a girare anche in Italia, poco prima della fine del regime napoleonico [Dionisotti 1998, 43-53], sotto forma di collezioni editoriali, che hanno già qualcosa degli ormai prossimi romanzi piccolo-borghesi o feuilletons. Sono stampati quaderni periodici, con notizie biografiche sui più 'illustri' scienziati, scrittori, politici ecc. – morti o vivi – accompagnate da incisioni e litografie; e si acquistano per sottoscrizione, si fanno rilegare in bei volumi e si collocano negli scaffali di casa.
Se queste serie di 'vite' hanno perso completamente o quasi i succhi critici, e anche l'atteggiamento demistificatorio e pragmatico dei tempi di Bayle, di Diderot e d'Alembert, d'altro canto hanno acquistato molto sul versante dell'aneddotica: non di rado di quello del pettegolezzo bello e buono. Di questo si è accorto anche Foscolo, già inserito in alcuni di repertori simili: per esempio, per limitarsi a due casi, nella cosiddetta Biographie universelle Michaud, uscita in numerosi volumi a Parigi, per cura dello storico ed editore Joseph-François Michaud appunto, a partire dal 1811; e nel terzo tomo della Serie di vite e di ritratti di famosi personaggi, che Battelli e Fanfani ha stampato a Milano nel 1818 (senza contare il microritratto che di lui, già anni prima, aveva tracciato l'amica Teotochi Albrizzi, in un libretto del 1807 [cfr. Tellini 1992, 119-121], o altri brevi profili biografici che – dopo la sua partenza dall'Italia – sono stati stesi per premettere edizioni più o meno complete, e più o meno scorrette, delle sue poesie e prose).
Il funzionamento della macchina biografica e il ritmo di propagazione delle onde che essa emette sono comparabili, più o meno, al circuito della diceria. Un tizio assiste a un evento, grande o piccolo che sia, e lo racconta a un altro tizio: il quale, a sua volta, lo racconta a un terzo tizio, gonfiandone i contorni. Il terzo tizio lo racconta al quarto, e il quarto a un quinto, il quinto a un sesto ecc., sino a che l'evento – sempre più colorito, manipolato, alterato, contraffatto – si installa nel comune sentire a costo di una reinvenzione leggendaria. Così funziona il gossip, che in qualche senso – sostiene Barthes [1979, 156-158] – ha a che fare con la 'verità' della filosofia. E tuttavia, chi avverta di essere captato dalla macchina alienante e insieme 'veritativa' del gossip non può fare a meno di sperimentare fastidio, disagio o anche radicale malessere; il che lo costringe a dire la sua e a cercare, almeno, di rimettere le cose a posto. Ed è questo che avviene anche a Foscolo, tanto precocemente e largamente biografato, che al riguardo nell'Apologetica annota: «Alcune notizie de' fatti nostri in quasi tutti gli articoli biografici hanno faccia di vero perché derivano tutte da quel tanto che ne disse taluno il quale ci ha veduti da presso» [EN XIII, 125].

4. «Faccia di vero»
È buffo, da un lato; dall'altro, probabilmente, è perturbante, per un intellettuale che voglia raccontare di sé, doversi accorgere che è stato già variamente raccontato da altrui: e il più delle volte colorendo o reinventando. Ma Foscolo, in questi suoi ultimi anni, non è troppo incline a vedere il carattere divertente di ciò che lo riguarda: è piuttosto il perturbamento la sensazione che lo domina, quando si vede tradotto in biografia e quindi in racconto. E la considerazione su quanto ha «faccia di vero» vuole significare propriamente che quelle «notizie de' fatti» suoi hanno solamente la faccia o l'aspetto della verità. Mentre, in verità, vere non sono. Ciò contro cui decide di prendere la parole, e di lottare con le armi della scrittura, sono proprio queste sue 'vite' pubblicate in Italia e fuori d'Italia. Per combatterle, non gli resta che tracciare da solo la propria parabola biografica, sotto la specie intellettuale e militante.
Ma la cosa è più aggrovigliata ancora, e in qualche modo riflette il groviglio potente e fascinoso, ma spesso davvero confuso, di questa estrema testimonianza di questa Lettera apologetica: perché è stato Foscolo stesso, nel corso della sua attività di scrittore, a costituire la sua opera sui 'codici autobiografici' [Gentili 1997]: ossia sulla definizione letteraria di autori immaginari che popolano le sue pagine, dei quali autori immaginari – in quanto scrittore, appunto, – lui stesso ha imbastito analisi, descrizione, racconti e argomentazione. Come a dire che, per una parte consistente, l'opera di Foscolo coincide con una sorta di auto-critica letteraria. Questi autori immaginari sono altrettante maschere (e dunque altrettante 'facce') di Foscolo, suoi sostituti: dove collocare, ora, o anche solo dove cercare il 'vero'?
Questo enigma è rimasto nella storia letteraria a segnare il successo e insieme il conflitto critico e autocritico su cui si fonda la figura di Foscolo, la sua riduzione a una certa 'figurazione', cioè. E non è un caso se, anche calcolando certamente per difetto, le biografie scritte su di lui ammontano a una settantina almeno. Una settantina, in un giro d'anni che va dal 1816-1818 al 1992 (per il momento): c'è di che essere sbalorditi. I numeri sono incomparabilmente inferiori, se si contano le biografie su Alfieri, Leopardi o Manzoni, pur non raramente biografati.

5. Il metro di Parigi e le bio-grafie
Scrivere (gráfein) la vita (bíos) di Foscolo – dopo essersi misurati con questo intreccio di quadri biografici d'autore da un lato, e dall'altro di racconti diciamo allo biografici, pubblicati mentre ancora l'autore è vivo, e poi sempre più estesamente dopo la sua morte – sarebbe un esercizio insieme frivolo, ripetitivo e impossibile. Frivolo (e ripetitivo) perché l'esercizio bio-grafico incorporato al lavoro della scrittura è per l'appunto la prima e più importante strategia di Foscolo, che in questo modo ridefinisce e piega la 'poesia' per spingerla a comprendere quello che essa tendeva a escludere, almeno ai suoi tempi: ossia, propriamente, 'i suoi tempi', la società a lui contemporanea, la politica.
Impossibile, perché districare dalla sua scrittura, e da quella dei suoi biografi contemporanei e successivi che da essa hanno preso avvio, una qualche verità sulla vita e sull'uomo Foscolo, significa usare i testi (il romanzo, le poesie e i saggi) e i paratesti (i carteggi, le notizie d'autore, le prefazioni o le notizie) per spiegare proprio ciò che poi dovrebbe spiegare i testi e i paratesti, almeno in quanto tali. Un circolo tanto vizioso quanto ferreo: cosa sono i carteggi, le prefazioni, gli appunti per letture e scritture ancora da fare, se non peritesti ed epitesti d'autore [Genette 1989, 6-7], già incorporati nel testo che il canone seleziona, allestisce, apparecchia e alliscia con ulteriori esegesi e pa-ratesti di commento; e che, in ultimo porge a noi lettori, in questo modo trasformati in 'opera'?
Il procedimento logico assomiglia moltissimo a quello, paradossale, che consisterebbe nel misurare il metro campione conservato nel laboratorio di Pesi e Misure a Sèvres, presso Parigi (è una barra di platino e iridio) con un qualunque metro da ferramenta, o da sartoria, che teniamo in un cassetto, a casa. Wittgenstein [19952, 50, 37-38] insegna che la misurazione risulterebbe senza senso. Così, la vicenda e il pettegolezzo della vita, o la deriva moltiplicante delle bio-grafie, finisce per essere solamente l'effetto di riflesso di uno specchio: quello della scrittura. In Foscolo, poi, la scrittura gioca a 'fare specchio', e a forgiare maschere. Meglio restare a queste ultime, e lasciare da parte le maschere e agli specchi altrui: quelli dei biografi.

 

III. A scuola dalla Rivoluzione

 

1. Letteratura contemporanea
Marzo-aprile 1818: Foscolo, in esilio ormai da tre anni, ha da poco conosciuto John Cam Hobhouse, e ha accolto la richiesta di questi di stendere per lui appunti e osservazioni sulla letteratura nell'Italia di quegli anni. Ma la vena critica di Ugo tende al disegno organico e ampio, oltre che al quadro biografico. E così gli appunti diventano presto una serie di profili dei maggiori scrittori italiani tra fine Settecento e primo decennio dell'Ottocento: Melchiorre Cesarotti, Giuseppe Parini, Vittorio Alfieri, Ippolito Pindemonte, Vincenzo Monti e – last but not least – Ugo Foscolo in persona.
Le cose singolari, in questo Essay on the present literature of Italy, sono due: intanto, e per l'appunto, che l'autore tratta di se stesso sullo stesso piano degli altri scrittori; e poi che il saggio, una volta tradotto in inglese, sarà pubblicato a nome di Hobhouse (in appendice agli Historical Illustrations of the Fourth Canto of Childe Harold di quest'ultimo), e quindi l'autore non solo tratta di sé, ma lo fa in terza persona, un po' come aveva fatto Cesare raccontando della guerra in Gallia e di quella civile contro Pompeo.
Parlando di sé in terza persona, Foscolo scrive qualcosa che Hobhouse traduce così: «in spite of his opposition to the French [...] it is easy to discern that Foscolo is a pupil of the Revolution» («Malgrado la sua opposizione ai francesi, [...] appare chiaramente che Foscolo è uno scolaro della rivoluzione») [EN XI, 488]. Ecco, a pupil of the Revolution: la definizione segna l'unico punto di fuga con cui è possibile tracciare storicamente la prospettiva di questo scrittore: quanto alla Storia, cioè, e quanto alla sua storia individuale. Si può discutere, poi, circa l'evoluzione di questo apostolato rivoluzionario: e giungere al risultato, con ottimi argomenti, di una sua vocazione politico-giacobina fondamentale [Del Vento 2003]; o si può credere – forse sovrapponendo la storia individuale alla Storia, però – che il suo giacobinismo sia stato solo un breve trascorso di giovinezza, poi abbandonato [Campana 2009, 14-23]. Ma queste distinzioni, vengono dopo, e la domanda da fare è: quale tipo di scrittore sarebbe stato, Foscolo, se fosse nato per esempio dieci anni prima, nel 1768 e non nel 1778?

2. L'Arcadia e la Rivoluzione
La storia non si fa con 'se' e con i 'ma', si dice (anche se forse è vero il contrario). Alla domanda dei 'dieci anni prima', per dir così, Dionisotti risponde così: «se il Foscolo fosse venuto al mondo dieci anni prima, probabilmente sarebbe uscito dal seminario di Spalato per entrare a Venezia, come segretario o precettore, in qualche casa patrizia, e di qui sarebbe uscito poi, nel 1797, per ingrossare la schiera dei Gianni e dei Monti, "persone" – a giudizio del Cesarotti – "il cui nome non ebbe mai altra fama che poetica, scrittori incendiari, entusiasti di tutte le massime rivoluzionarie le più esagerate, de-trattori violenti della religione dei loro padri", insomma arcadi e abati sempre, fino all'osso, comunque si rivestissero, uomini veramente e in tutto dell'età rivolta, come del resto anche era, e a maggior ragione, il vecchio Cesarotti» [Dionisotti 1988, 35].
Il che significa ribadire, e insieme circostanziare, una semplice osservazione: non ci sono scrittori, della generazione precedente a quella di Foscolo, che abbiano goduto di una condizione storica e sociale tanto speciale. Tra i suoi contemporanei, si potrebbe distinguere tra: quelli che hanno fatto appena in tempo a vedere i tempi nuovi, come Parini, Alfieri e tanti altri; quelli che li hanno vissuti, essendo tuttavia scrittori avanti negli anni e formati in tutt'altro contesto culturale – come Cesarotti – o, se più giovani, già noti e consueti alla precedente condizione cortigiana del letterato, come Monti; e, in ultimo, quelli che li hanno vissuti in condizioni intellettuali comparabile a quelle di Foscolo, benché incomparabile a lui sia la loro posizione nella letteratura italiana (p.es. Giovanni Fantoni, o Edoardo Calvo [Cerruti 1969, 115-226]).
Insomma: l'Arcadia deve chiudere i battenti una volta per tutte, mentre la Rivoluzione («the Revolution», scrive Foscolo, e intende per antonomasia quella francese) trasforma l'Italia, e così la coscienza politica dell'intellettuale italiano. Comincia in questo modo a farsi strada – al momento si tratta ancora di una strada impervia, fitta di ostacoli e di fallimenti, come sarà per Ugo – quel genere di scrittore che non è né un aristocratico né un chierico: quel genere di scrittore, cioè, che vive della propria scrittura. Una strada lunga, a volerla tracciare; che probabilmente finisce direttamente a d'Annunzio, e alla sua figura 'pubblicitaria'. Negli ultimissimi anni del Settecento, però, non esiste in Italia una società di massa o una coscienza egemonica della classe borghese, né esiste ancora il primo abbozzo di una industria culturale moderna. E quindi la figura dello scrittore di professione si esplica attraverso una militanza – nella quale si intrecciano realismo e utopia – che è più che altro il progetto di convertire integralmente il letterario nel politico.

3. Il 1796
«L'epopea dell'Armata d'Italia e del generale Napoleone Bonaparte viene inaugurata dalle vittorie di Montenotte, Millesimo, Dego e Mondovì (12-21 aprile [1796]), che costringono Vittorio Amedeo III, re di Sardegna, ad accettare l'armistizio, siglato a Cherasco il 28 aprile. Con la pace di Parigi del 15 maggio il Piemonte rimane formalmente autonomo sotto il suo sovrano legittimo, dovendo però cedere Savoia e Nizza alla Repubblica francese. In quello stesso giorno, dopo aver sconfitto gli austriaci a Lodi il 10 maggio, Bonaparte fa il suo ingresso a Milano» [Banti 2004, 3].
È iniziata così la formazione di un primo abbozzo, ancora molto approssimativo e non durevole, d'Italia: sotto il comando del governo francese. La vicenda segue i passi della Repubblica cispadana (1796-1797), della Repubblica cisalpina (1797-1799, 1800-1802), Repubblica italiana (1802-1805) e del Regno d'Italia (1805-1814). Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone (1815), verranno la lunga pausa della Restaurazione, i moti del 1820-1821 e del 1830-1831, le guerre d'indipendenza e, alla fine, il processo dell'unificazione d'Italia, durato in effetti per un decennio: dal 1861 all'annessione di Roma (1870) [Banti 2004 e Beales e Biagini 2005, per una rapida panoramica].
Tutto ciò è ancora molto lontano. Siamo al 1796, con i soldati francesi che dilagano nel Nord d'Italia. Foscolo, in questi mesi è a Venezia, dove l'Armata d'Italia di Napoleone arriverà solamente l'anno dopo (dalla fine di febbraio dilaga nei territori della Repubblica veneziana, che cadrà definitivamente il 12 maggio). Ugo attende, e intanto scrive. Negli anni subito precedenti ha fatto il suo noviziato, mettendo insieme un bel fascio di versi: inni, elegie, anacreontiche, canzonette, odi, traduzioni dei classici (Anacreonte, Saffo, Orazio) e dai moderni (Gessner). Alcuni di questi versi sono andati perduti, altri ci restano perché copiati in bella e spediti all'amico Costantino Naranzi (1794), altri ancora sono usciti su fogli e gazzette, oppure hanno circolato spar-samente tra i corrispondenti del giovane poeta [EN II].
Si tratta di esperimenti interessanti, per fare dell'archeologia poetica foscoliana: vi si vede l'apprendistato tutto settecentesco del giovane autore, e i numerosi echeggiamenti da Metastasio, Rolli, Savioli. Ma per vedere dove lo scrittore andrà a parare, più interessante è seguire un po' alla volta i segni delle sue letture più moderne: Cesarotti da un lato; e dall'altro Alfieri e Parini, maestri poetici assai poco comuni alla società letteraria veneziana.

4. La letteratura straniera
Perché in questo 1796, a diciotto anni, Foscolo redige un Piano di studi che è ancora più interessante. La frequentazione, diretta e indiretta, con intellettuali magari un po' appartati (Cesarotti, Bertola e Pindemonte), ma scaltriti e tutt'altro che di corte vedute e letture, sospinge il giovane poeta verso quella biblioteca ideale europea, e più tardi verso il palcoscenico europeo, che resteranno sempre i suoi.
Il Piano registra una sorta di immenso e dispersivo progetto culturale, tanto letterario quanto saggistico-trattatistico, composto di letture e di scritture da portare a termine entro un decennio. Le discipline che vi si contano sono la morale, la politica, le metafisica, la teologia e la storia. Quanto agli autori da leggere, tuttavia, ed eccettuati i numerosi scrittori classici e italiani, si contano Montesquieu, Rousseau, Locke, Voltaire, Gray, Young, Gessner, Swift, Klopstock, Richardson, Marmontel, Mengs e Winckelmann [EN VI, 1-9]. Impossibile dire cosa effettivamente, di tutto ciò, Foscolo legga ora, cosa legga in séguito e cosa invece si limiti a sognare di leggere. Ma resta che molti di questi autori affioreranno effettivamente nelle prose e nelle poesie degli anni successivi.
Frattanto, però, l'influenza di Alfieri e di Parini – ai quali del resto non mancava un respiro culturale europeo, per dire così – sposta Foscolo verso l'altro corno del suo noviziato: ossia verso il grande tema politico della critica dell'esistente. Il che, aggiungendosi anche l'epopea napoleonica insorgente, lo conduce verso il teatro e verso la lirica di impianto militante. Scrive una tragedia, in questo 1796, e un sonetto dedicato alla sua patria, Venezia.
La tragedia è il Tieste [EN II, 3-57], che andrà in scena nel gennaio del 1797. Il sonetto si intitola A Venezia – vedrà la luce anch'esso nel 1797, sull'Anno poetico quinto – ed è una dura requisitoria nei confronti della Repubblica che, ancora nell'ottobre 1796 ha rifiutato l'alleanza con la Francia, portatrice del vento rivoluzionario in Italia. Alla Repubblica il giovane Foscolo rimprovera il colpevole immobilismo, che prolunga condizioni di ingiustizia sociale, e prevede che l'effetto sarà la prossima caduta. In effetti è questione di pochi mesi: «Già striscia il popol tuo scarno e fremente, | e strappa bestemmiando ad altri i panni, | mentre gli strappa i suoi man più potente. || Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta | sublime esempio, ch'ei de' suoi tiranni | farà col loro scettro alta vendetta» (vv. 9-14 [EN II, 313]).

5. Un 'Alfieri' a Venezia
Al teatro Sant'Angelo, il 4 gennaio 1797, va in scena il Tieste, ossia la tragedia di argomento greco del giovanissimo Niccolò Ugo Foscolo. Il successo, a quanto pare, è notevole: così Foscolo in quel gennaio o nel febbraio si affretta a scrivere a Cesarotti, al quale parlava della tragedia già dal 1795 (senza ottenere da lui, va detto, un parere proprio favorevole): «Mio Padre – si vide il Tieste; si tacque, si pianse. Ecco l'elogio ch'io faccio al Foscolo diciottenne [...]: felice dunque l'autore di diciott'anni che seppe carpire la fama dalla bocca di una capitale mal prevenuta per lo stile, per la semplicità, e quel ch'è più per le passioni grandi ed energiche» [EN XIV, 39]
Nell'aprile successivo (prima del 22), il testo della tragedia è stampato nel tomo X del Teatro moderno applaudito, con il corredo di alcune Notizie storico-critiche. La collana è assai prestigiosa, e approdarvi significa per l'autore, non ancora diciannovenne alla data della prima, una consacrazione letteraria e pubblica di tutto rispetto: di quelle che molti altri scrittori hanno atteso anni, o non hanno mai ottenuto.
Che la pubblicazione avvenga prima del 22 aprile si sa perché, a quella data, Foscolo invia una copia del volume a Vittorio Alfieri, che vive a Firenze, con una lettera di accompagnamento che ha inizio così: «Al Tragico dell'Italia oso offrire la prima tragedia di un giovane nato in Grecia ed educato fra i Dalmati Forse l'avrei presentata più degna di Alfieri, se la rapacità de' Tipografi non l'avesse carpita e stampata aggiungendole a' propri difetti le negligenze della lor arte. Ad ogni modo accoglietela: Voi avete i diritti su tutti coloro che scrivono agli Italiani, benché l'Italia "vecchia, oziosa e lenta" non può, né vuol forse ascoltare» [EN XIV, 42]
Alla lettera, Alfieri non risponde né ora né in séguito. Da anni vive ritirato dal mondo, ed è vecchio. Probabilmente prende quell'invio come un rituale tentativo di captatio benevolentiae, e non ha nemmeno torto. La tragedia, oltretutto, non è un granché. Anche il suo giovane autore, di là dalle pose un po' enfatiche, è poco tenero con quel primo esperimento teatrale. Nella lettera citata prima a Cesarotti, ne ha messo in luce alcuni difetti. E altri se ne potrebbero trovare: personaggi un po' bozzettistici, scene ripetute, scarsa progressione drammaturgica, stile poco e male variato e così via.
Ma nonostante il silenzio di Alfieri, il Tieste è importante nella carriera di Foscolo, perché segna un passaggio storico: l'opera tragica di Alfieri, che in questi anni è tutt'altro che indiscussa e universalmente apprezzata, con Foscolo viene eretta a modello per eccellenza dei tempi. Dal modello, infatti, Foscolo dipende per il piccolo numero dei personaggi (solo quattro), per la cupezza di un argomento efferato e volutamente sanguinario, per la creazione di un personaggio (Atreo) che incarna il tiranno alfieriano: massimo idolo polemico della nuova letteratura libertaria.

6. Pochi mesi di libertà
Aprile 1796: gli eventi rivoluzionari incalzano. Dopo aver spedito una copia del Tieste ad Alfieri, Foscolo lascia Venezia per correre incontro all'avventura napoleonica, cui per il momento Venezia sembra impermeabile. Raggiunge Bologna, dove si arruola volontario nei Cacciatori a cavallo, e dove stampa – a metà maggio – l'«oda» Bonaparte liberatore. Succede però che l'apparente impermeabilità veneziana alle sorti della trasformazione politica in atto venga improvvisamente meno.
Venezia, il giorno 12 maggio, è conquistata dai francesi e 'democratizzata' a forza. Così Ugo torna a casa, e prende parte alle vicende della effimera Municipalità di Venezia: partecipa alle sedute della Società d'Istruzione pubblica come socio, come membro del Comitato d'Istruzione e poi redattore per la Municipalità delle sedute della Società. E stampa, questa volta proprio a Venezia, l'ode Ai novelli repubblicani, adatta ai tempi per il tono tribunizio e giacobino, e per l'esplicito invito a una violenza rivoluzionaria qui più che altro sognata (vv. 10-18):

Voi, che ignari di voi, già un tempo feste [leggi: faceste]
di mille regi sanguinarj al soglio,
cui cingeva Terror, Morte ed Orgoglio,
sgabello eccelso dell'oppresse teste;
e de gli ottimi al sangue inutil pianto
(di tirranide vanto!)
mesceste a' piè degli empj;
sorgete: il giorno è giunto
di vendetta e di scempj. [EN II, 327]


La vicenda della Municipalità veneziana, si diceva, è effimera: nata il 12 maggio 1797, il 17 ottobre è già morta. Napoleone, su ordine del Direttorio, cede Venezia all'Austria. È la conseguenza del trattato di Campoformio, che resterà sempre – nella storia personale e soprattutto nell'esperienza letteraria di Foscolo – una data capitale. La data di una svolta politica, e della fine dell'ottimismo acritico nei confronti dell'evoluzione progressiva del bene e della giustizia nella Storia. Anche dopo l'evento di Campoformio, su cui si aprirà l'Ortis, Foscolo resta uno scolaro della rivoluzione: ai cui effetti, tuttavia, guarda con una intelligenza dialettica nuova e più rigorosa. Mentre militanti rivoluzionari, storici e intellettuali, nella cultura italiana, guarderanno alla Rivoluzione francese il più delle volte con ostilità e prevenzione ideologica, spesso propriamente classista [Sorge 1973, e soprattutto Diaz 1989], Foscolo sarà uno dei pochi a riconoscere in essa il più importante e necessario evento storico della sua generazione e degli anni a venire. Il che, tuttavia, non gli impedirà di osservare criticamente quali effetti – fuori di Francia, e specialmente in un'Italia ancora lontana da qualunque vera spinta unitaria – che la Rivoluzione produrrà dopo aver partorito il regime napoleonico.
E infatti, dopo Campoformio, l'immagine di Napoleone sarà agli occhi di Foscolo quella del tiranno necessario, del nemico della libertà cui bisogna però riconoscere di avere iniziato a salvare le coscienze in Italia [sul Napoleone 'visto' dagli italiani, cfr. Pillepich 2005, 13- 41 e 131-149; Schipa 1969 e Gallingani 1996). L'immagine odiata e amata intorno alla quale, per certi versi, circola tutto il suo lavoro letterario e culturale, come la Lettera apologetica testimonia.

 

IV. «Larvatus prodeo»

 

1. A Napoleone
Il passaggio dal prima al dopo il trattato di Campoformio è segnato proprio da questo rivolgimento intellettuale, per Foscolo: strenuo e forse acritico rivoluzionario, prima; e dopo, giacobino critico e a tratti pessimista. Tanto critico da essere apparso, da allora, quasi un oppositore del regime napoleonico nel corpo del regime stesso (al quale partecipa come militare e come uno degli intellettuali più in vista). Agli occhi di Foscolo non esistono altre strade, oltre a quella napoleonica, per avviare l'Italia verso l'unità e la libertà politica. Nello stesso tempo, però, quella strada dispotica rischia di condurre solamente all'asservimento italiano allo straniero.
Tutto ciò si vede bene nelle dediche di due tra le otto versioni a stampa dell'«oda» Bonaparte liberatore. La prima è quella di Bologna – lo si diceva – dove, all'inizio del maggio 1797, la poesia esce «a pubbliche spese per decreto della Giunta di difesa generale della Repubblica allor Cispadana» (ricorda un anno dopo l'autore [EN II, lxxv]). Il 26 novembre 1799, Foscolo ne cura una ristampa a Genova: arruolato da tempo nell'esercito napoleonico, Ugo vi è arrivato qualche mese prima con le truppe del generale McDonald. Le due versioni della poesia sono accompagnate entrambe da una dedica: nel primo caso alla città di Reggio Emilia (benemerita ai patrioti, perché il 30 dicembre 1796 vi era stata proclamata la Repubblica cispadana); nel secondo a Napoleone stesso. È questa l'unica dedica che Foscolo faccia a un potente: tutte le altre saranno alla madre, agli amici, a scrittori come lui, alle donne amate o desiderate [Terzoli 2000, 25]. Unica dedica a un potente, questa è severa, aspra, in tono più alfieriano di quello di un Alfieri [Dionisotti 1988, 35]: difficile forse oggi comprenderlo, ma in quelle circostanze storiche una dedica che contenga una esplicita polemica è qualcosa di estremamente audace.
La poesia è larga e magniloquente: in 9 stanze e 234 versi, si snoda una complicata allocuzione alla Libertà, con movimenti lirici improvvisi, perifrasi laboriose sul «guerrier [...] di fiorente alloro | cinto le bionde chiome» (Napoleone, vv. 37-38 [EN II, 334]), e un tessuto discorsivo fitto di anticipazioni, di riprese e di quadri allegorici. Più che la poesia, in séguito non raccolta in volume dall'autore, qui contano le due dediche, che sono due lettere inviate al «Liberatore». Nella prima il messaggio è indiretto e rituale: il poeta scrive ai cittadini di Reggio, radunandoli metonimicamente sotto il nuovo tricolore d'Italia. Semmai interessa che si dichiari «Giovane, [...] nato in Grecia, educato fra Dalmati, e balbettante da soli quattr'anni in Italia», e «Uomo, Libero, e Cittadino di patria non in sorte toccata, ma eletta»: ciò che gli dà il diritto «dell'Italiano», gli «presta repubblicana energia». Donde, la conclusione: «alzato su me medesimo canto BONAPARTE LIBERATORE, e consacro i miei canti alla Città animatrice d'Italia» [EN II, 331].
La seconda dedica, quella del '99, è differente. A Napoleone non si guarda più come a un idolo della libertà, ma come un potente che ha bisogno di consigli; e dei consigli di un uomo «oscurissimo», ma che è «degno» di rivolgergli una lode proprio perché sa dirgli «fermamente la verità» (supponendo, cioè, che questa verità sia anche sgradevole). All''idolo', questa volta, si addebita la colpa di aver svenduto la Libertà, dando via Venezia con Campoformio: «tu [sei] in dovere di soccorrerci non solo perché partecipi del sangue italiano, e la rivoluzione d'Italia è opera tua, ma per fare che i secoli tacciano di quel Trattato che trafficò la mia patria, insospettì le nazioni, e scemò dignità al tuo nome» [EN II, 332]. E quasi lo si minaccia, alla fine, per spronarlo ad essere ciò che per ora non è stato: «Anche negli in felicissimi tempi le grandi rivoluzioni destano feroci petti e altissimi ingegni. Che se tu aspirando al sommo potere sdegni generosamente i primi, aspirando all'immortalità, il che è più degno delle sublimi anime, rispetterai i secondi. Avrà il nostro secolo un Tacito, il quale commetterà la tua sentenza alla severa posterità» [EN II, 333].
Questa chiusa fulminante di Foscolo, in largo anticipo di anni, consuona decisamente con i versi 31-32 – oggi proverbiali – del Cinque maggio (1821) di Manzoni, scritto dopo la morte di Napoleone a Sant'Elena: «Fu vera gloria? Ai posteri | l'ardua sentenza...» (miei i corsivi). Che Manzoni abbia preso l'idea proprio da qui? Difficile dire. In ogni caso, il senso di questo minaccioso consiglio dell'«oscurissimo» Foscolo, allora ventunenne, è chiaro: si guardi, Napoleone, dalla severità di questo storico a venire. A suo modo Ugo, nella Apologetica, cercherà di essere questo Tacito.

2. La capitale
Novembre 1897: dopo Campoformio, restare a Venezia non è più pensabile per Ugo. Come lui, tutti i patrioti che si sono esposti pubblicamente abbandonano la città: anzitutto per mettersi in salvo dalla repressione che li attende, da parte del nuovo governo austriaco. E poi perché la battaglia per l'Italia non è finita. Venezia ne resta fuori, ma oltre i confini veneti si estende la Repubblica cisalpina: il cuore pulsante della nuova Italia napoleonica.
Cuore pulsante nel cuore pulsante, è Milano. Qui Foscolo arriva tra il 10 e il 20 novembre. Chiede la cittadinanza cisalpina, che ottiene. E chiede un impiego presso l'amministrazione del governo, che invece non ottiene. Farà il giornalista, proseguirà la militanza, partecipando alle rumorose e battagliere assemblee del Circolo costituzionale, frequenterà il bel mondo, si arruolerà nell'esercito e scriverà.
Milano non è, in questo e negli anni che stanno per arrivare, l'unica sede di Foscolo: viaggerà tra Bologna, Genova, la Francia (al séguito dell'esercito) e Firenze. Ma resta comunque il luogo dove tornare, e quello in cui vivrà – con rare pause – dal 1801 al 1812. E poi ancora dal novembre 1813 al 1815, durante le convulse fasi della caduta del regime napoleonico e le primissime della nuova occupazione da parte degli austriaci.
Malgrado a Milano, dunque, Ugo passi la fase centrale della sua vita, e quella più produttiva o, almeno, più felicemente produttiva, della sua carriera letteraria; malgrado queste ragioni importanti, la capitale lombarda non gli piace, né mai gli piacerà. Lo infastidiscono i milanesi, di cui disapprova il prosaico pragmatismo: li chiama «stomachi», per la loro fissazione per il cibo e per le chiacchiere al caffè. E chiama Milano «paneròpoli», la città della panna. I milanesi, d'altronde, gli ricambiano il disprezzo, e glielo ricambieranno nei secoli a venire: almeno fino a Carlo Emilio Gadda, autore di un radiodramma antifoscoliano anche per ragioni municipalistiche: Il guerriero, l'amazzone lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo [Vela et al. 1992, 375-429].
Qui, comunque, Ugo ritrova Monti, con il quale stringe un'amicizia importante (destinata a rompersi dopo alcuni anni). Qui, soprattutto, conosce Parini, che già era stato negli anni precedenti uno dei suoi più importanti modelli letterari e politici. E proprio riguardo a Parini, e alla sua eredità intellettuale dimenticata dai milanesi, che non ne onorano la tomba, scaglierà su Milano, nei Sepolcri, la più sprezzante delle invettive: «A lui [Parini] non ombre pose | tra le sue mura la città [Milano], lasciva | d'evirati cantori allettatrice, | non pietra, non parola; e forse l'ossa | col mozzo capo gl'insanguina il ladro | che lasciò sul patibolo i delitti» (vv. 73-77 [EN I, 127]).

3. Scrittore in pubblico
Ma Milano, in questi anni, è la capitale dei territori napoleonici non solo di nome: è la sede del governo e dello Stato maggiore dell'esercito, vi si pubblicano i giornali più importanti, vi lavorano i tipografi-stampatori più attivi. E poi è il centro culturale più movimentato della penisola, e questo perché ha ereditato una ricchezza intellettuale che molto si deve alle riforme del governo austriaco precedente a Napoleone, soprattutto nel cosiddetto periodo teresiano (1740-1780), durante il regno di Maria Teresa d'Asburgo. È grazie anche a quel periodo, se Milano è stata la città degli illuministi, la più aperta culturalmente, la prima in Italia a vantare un minimo di sviluppo industriale: la prima dove gli aristocratici hanno assunto una certa mentalità borghese, e dove i borghesi hanno potuto aspirare a raggiungere il livello di ricchezza e di autorità degli aristocratici.
Dove altro potrebbe risiedere, Foscolo? Non è un aristocratico con una rendita assicurata, non è erede di una ricca fortuna borghese, non è un chierico. Insomma, per vivere e per scrivere, deve trovarsi un lavoro e uno stipendio: funzionario pubblico o ufficiale dell'esercito. E dove altro potrebbe trovare una società culturale e politica più effervescente, lui, che non è certo il prototipo dell'intellettuale appartato ed eremitico; anzi, che fa della militanza e dell'intervento pubblico la sua cifra principale?
È per questo che nel lungo periodo milanese – pur intervallato dai viaggi e dai brevi soggiorni (talora nei dintorni: Brescia, Como, Pavia; talora no: Genova, la Francia, Firenze) cui si è accennato – Foscolo scriverà le sue pagine più importanti e più note, quelle che più circoleranno tra i suoi contemporanei e che riceveranno il più diffuso ascolto. Le pagine, cioè, del cosiddetto Foscolo 'maggiore', che la tradizione scolastica si è incaricata di fissare una volta per tutte nel canone del Parnaso italiano.

4. La politica del romanzo
Londra, inizio di aprile del 1817: «Il sacrificio della patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia» [EN IV, 295]. Così prende avvio l'estrema versione a stampa delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, il romanzo epistolare cui Foscolo ha dedicato laboriose attenzioni a partire dal 1798, e che è ambientato – infatti – in un giro di mesi che va dall'11 ottobre 1797 al 24 marzo 1799. Se la prima lettera, quella di cui si è citato l'incipit, data appunto all'11 ottobre 1797, non è per caso: nella realtà storica, sei giorni dopo, Napoleone e il conte Louis de Cobentzel, rappresentante degli Asburgo, firmano il trattato di Campoformio: e Venezia perde la sua condizione di Municipalità libera.
Il romanzo, dunque, ha il suo cardine sulla vicenda di delusione e disperazione di questo giovane patriota veneziano, Jacopo Ortis, e sulla progressiva scoperta – da parte sua – della divaricazione tra l'ideale politico da un lato, e dall'altro la gestione macchina reale, autoritaria del potere. Anche l'aspetto più propriamente romanzesco – in termini di plot e di genere (la storiella dell'amore impossibile tra Jacopo e Teresa, e la forma epistolare del romanzo), che manifestamente è ricavata dal plot dei Dolori del giovane Werther di Goethe – va poi inquadrato dal punto di vista del suo sfruttamento politico da parte di Foscolo: il che, alla fine, testimonia l'avvenuto superamento del modello goethiano.
L'amore irrealizzabile di Jacopo per Teresa – smerciata dal padre ad Odoardo per godere di un benessere economico perduto – riflette e rilancia il commercio della patria veneziana di Jacopo da parte di Napoleone. Ciò fa sì che il lettore, che tra fine Sette e primo Ottocento frequenta il genere romanzo anzitutto per svago, e non certo per abbeverarsi alla fonte della letteratura, né per formarsi una coscienza politica, sia d'altronde costretto a partecipare, soffrire e piangere (lo svago sentimentale, appunto) per una vicenda che ha il suo nucleo in una dichiarazione rivoluzionaria, patriottica e critica nei confronti del potere napoleonico e del tradimento di quest'ultimo degli ideali repubblica-ni e libertari.

5. Maschera n. 1
Una cosa dell'Ortis soprattutto colpisce: i tempi di lavorazione. L'attacco fulminante che si è citato sopra («Il sacrificio della patria nostra è consumato») è del 1817, ossia di quella che si può chiamare – semplificando – la terza redazione del romanzo. Ma alle Ultime lettere Foscolo ha cominciato a lavorare a Bologna nel 1798, quando la scena storica in cui il racconto si ambienta è fresca di giornata. La scrittura è poi lasciata a mezzo, perché l'autore abbandona Bologna e si arruola nella Guardia Nazionale. L'editore Marsigli, che ha iniziato a stampare il romanzo, lo fa continuare da un giovane letterato locale e lo pubblica senza il consenso di Foscolo [cfr. Fasano 1999; e Terzoli 2004].
Nel biennio 1801-1802, Ugo riprende in mano queste carte e, pur attraverso ulteriori e intricate vicende editoriali, pubblica le Ultime lettere in un seconda versione, molto più 'spinta' dal punto di vista politico, anzitutto per la critica dell'Italia sotto Napoleone. La vicenda resta collocata negli anni terminali del XVIII secolo, ma a nessuno sfugge che la severità di Jacopo verso la patria e i traffici servili dei connazionali, fuor della finzione romanzesca, investe la più stretta attualità politica della Repubblica italiana (formalmente costituita dal gennaio del 1802). La vicenda editoriale dell'Ortis, però, non è conclusa.
Dopo aver abbandonato l'Italia per l'esilio (marzo 1815), Foscolo stampa, prima in Svizzera (1816) e poi in Inghilterra (1817), le due versioni – lievemente difformi – della terza redazione del romanzo. Insomma, l'opera di una vita: quasi un diario continuamente aggiornato e riscritto, è l'Ortis per Foscolo. Opera di grande successo, del resto, e sin dalla prima edizione parzialmente scorretta: del romanzo si susseguiranno, per tutta la vita dell'autore e anche in séguito, edizioni e ristampe non approvate, segno che la storia ha presa sul pubblico, e piace.
Nell'immagine di Ortis, spudoratamente autobiografica, l'autore si riflette: e non di rado fa ricorso alle sue lettere private, opportunamente riscritte, per imbastire quelle che Jacopo spedisce all'amico Lorenzo Alderani. E infatti l'immagine di Jacopo rimane adagiata sul viso di Ugo per tutta una vita, presso i suoi contemporanei e presso il pubblico che verrà dopo: maschera dell'idealismo politico ad oltranza; maschera biografica alla Plutarco di un Catone che si dà la morte per estrema ragione di rifiuto dello status quo; maschera di una sensibilità estrema – ed eroica nell'abissale fallimento – per la quale amore verso la donna, verso la patria e verso il proprio dovere di intellettuale sono un'unica cosa, non commerciabile in cambio di protezioni o di prebende.
Maschera, anche, un po' troppo tonda e scultorea: cui Foscolo tiene per il suo successo presso il pubblico, che acuisce il tono e quasi il grido della denuncia che essa serve a far risuonare. Anche perché uno scrittore come lui, non agnostico circa le differenze sociali implicite ai generi letterari, deve ri-tenere che lo stratagemma di questo vero-autore-immaginario sia utile a suscitare la curiosità e il desiderio dei lettori, e delle lettrici: «Un uomo che si maschera o si ammanta di uno pseudonimo, si rifiuta a noi. Ecco perché ne diffidiamo e tentiamo di smascherarlo, volendo sapere...» [Starobinski 1975, 161]. Pur mantenendo lo stratagemma, è la rotondità della maschera che Foscolo vedrà di temperare con quella, più scabra, che tra qualche anno appoggerà sul viso.
Ma frattanto, lo scrittore che ha esordito – non casualmente – con il teatro, traccia per mezzo di questo romanzo le linee guida della sua strategia futura. Il giovane Cartesio, quasi duecento anni prima, cominciando ad annotare alcune riflessioni personali sul compito del sapiente e dello scienziato, aveva scritto: «Come gli attori, perché il rossore della vergogna non appaia loro in volto, vestono la maschera, così io sul punto di salire su questa scena mondana, di cui fin qui fui spettatore, mi avanzo mascherato (larvatus prodeo)» [Garin 1967, I: 8]. Non è chiaro, agli studiosi del pensiero cartesiano, il significato di queste righe; e c'è chi vi ha intravisto la chiave per interpretare l'intera opera del filosofo come un grande affresco rosacrociano, 'obliquo' ed esoterico dunque [Leroy 1929; e cfr. Gouhier 1937, 292-294]. Nel caso in questione, si tratta di esagerazioni, è ovvio. Ma è vero che in circostanze storiche in cui all'intellettuale non è consentito di prendere la parola in piena assunzione della propria individualità politica, mascherarsi è necessario. E può diventare, da mero stratagemma, uno stile di discorso.

 

V. I vizi e le virtù

 

1. L'autoritratto
A Ugo le maschere piacciono, non c'è che dire. Così come gli piacciono gli specchi, sempre consapevolmente deformanti, nei quali si riflette per produrre la propria immagine di autore. Maschere e specchi assolvono, insomma, alla medesima strategia: sottilmente distinta dal punto di vista funzionale. Poco dopo aver pubblicato l'Ortis, nel 1802-1803 raccoglie uno strettissimo numero delle poesie che è andato scrivendo e pubblicando negli ultimi anni, mentre rifiutate ne risultano tutte quelle scritte prima del 1799. Queste sono solo quattordici (quanti i versi di un sonetto?): due odi e, per l'appunto, dodici sonetti. Anche questo libriccino di versi supera una intricata vicenda editoriale di stampe, ristampe accresciute, revisioni e limature. Ma nel 1803 esce in versione definitiva.
È diviso rigidamente in due dalla distinzione di genere: l'ode e il sonetto non sono, a questa data, due tra le opzioni più ovvie per un poeta; soprattutto se è vero che rinviano manifestamente a due scrittori che Foscolo tratta da modelli, prima che lo diventino unanimemente: ossia, e rispettivamente, i soliti Parini e Alfieri. Da Alfieri, e dalla sua revisione realista e a tratti quasi domestica del canone lirico petrarchesco, Ugo recupera un certo tono, una certa plastica posa: e più di tutto, infatti, recupera il sonetto-autoritratto, il settimo della serie. Siamo intorno al 1801, per la stesura di questa poesia, più o meno negli stessi mesi in cui Alessandro Manzoni 'riscrive' come Foscolo il proprio Autoritratto a partire da quello alfieriano. Evidentemente, queste 'istantanee' in rima sono un po' alla moda, in quei tempi: ma, di là da questo, non sarà solo l'ostentazione della propria persona a suscitare questa sorta di 'tenzone non consapevole' [Gavazzeni 1992, 71] tra Alfieri e i suoi due giovani imitatori. Quanto a Foscolo, il progetto è quello di creare di sé stesso un personaggio – sul doppio fronte della esplicita finzione narrativa (la figura di Jacopo Ortis), da un lato; e dall'altri della più sottile 'immaginazione' ritrattistica.

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
labbro tumido acceso, e tersi denti,
capo chino, bel collo, e largo petto;

giuste membra; vestir semplice eletto;
ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
avverso al mondo, avversi a me gli eventi:

talor di lingua, e spesso di man prode;
mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
pronto, iracondo, inquïeto, tenace:

di vizj ricco e di virtù, do lode
alla ragion, ma corro ove al cor piace:
morte sol mi darà fama e riposo. [EN I, 93]


2. Solo la morte
Il lettore, insomma, prende visione di questa immagine del poeta, e inevitabilmente la utilizza come misura del testo, come riferimento intimamente narrativo, come 'fabula' in stato germinale di quanto il testo vuole portarlo a pensare. L'aspetto semplice ed insieme nobile di questo 'specchio' dell'autore si delinea prima nel tratto fisico (la fronte, gli occhi, i capelli, i denti, il capo, il collo, il petto), poi in quello più latamente personale (i movimenti, i gesti, le parole), e in ultimo nel tratto propriamente etico (sobrietà, umanità, lealtà, generosità, onestà).
Ma la chiarezza e la linearità di questa condizione è subito contrapposta alla inquietudine che internamente la abita, frutto dell'esperienza di un mondo con il quale si stabilisce un rapporto agonistico, e quasi guerresco: ecco allora fiorire le opposizioni (io/mondo, eventi/io, prontezza/iperattività, inquietudine/costanza, vizio/virtù, e soprattutto – quella che tutte le riassume – ragione/sentimento) esplicitamente dichiarate insanabili, se solo la morte potrà sanarle («riposo») e rivelarne la giustificazione e il merito («fama»).
La strategia lirica dei sonetti, dunque, passa attraverso la promozione di una certa immagine d'autore: è ancora lo schema alfieriano, ma spostato da parte di Foscolo in vista di uno scopo 'etico', di fondazione e insieme rilancio della propria autorità di scrittore. La quale trova il suo punto di conclusione simbolica nell'iterata evocazione dell''esilio' e della 'morte'
Il tono più lieve e a tratti quasi libresco delle due odi – istituite sul codice neoclassico meno apparente nei sonetti (benché A Zacinto riformuli in termini di sensibilità preromantica proprio un armamentario neoclassico) – non contraddice questa strategia: ne costituisce semmai l'inverso complementare. Il canto delle 'bellezza' quale unico motivo di felicità nell'esilio e nella diuturna e terrena esperienza della morte è lì lì per riaffiorare nei Sepolcri, e costituirà l'oggetto primario – e politico – del profondo, luminoso ma labirintico laboratorio delle Grazie.

3. L'editto
Il giorno 5 settembre 1806, per decisione del governo napoleonico, viene estesa anche alla Repubblica italiana la legislazione francese inerente alle sepolture, secondo quanto disposto un paio di anni prima dall'editto di Saint-Cloud. Nel fascicolo n. 276 del «Giornale italiano» (che esce il 3 ottobre), sono pubblicati tre degli articoli della nuova legislazione:

75. È proibito di seppellire i cadaveri umani in altri luoghi che nei cimiteri. Questi saranno necessariamente collocati fuori dell'abitato dei comuni. 76. Que' comuni, che non hanno un cimitero collocato come sopra, lo faranno disporre al più tardi entro un biennio. La Municipalità ne destinerà il luogo coll'approvazione del Prefetto: in caso d'inadempimento per parte della Municipalità, la Commissione dipartimentale provvederà a spese del comune. 77. Un particolare regolamento stabilirà le discipline opportune per prevenire ogni inconveniente, che può nascere dal troppo sollecito e non bene eseguito seppellimento dei cadaveri. [Trevisan 1898, 47 n. 2]

Questo lo spunto dell'opera in versi forse più celebre di Foscolo, e senz'altro quella più frequentata nelle aule scolastiche: il carme Dei sepolcri (1807), dedicato a Ippolito Pindemonte. Si tratta, per la verità, di una sorta di pretesto, o meglio di un punto di innesto nella attualità politica – quasi quasi il carme fosse un instant book – che affiora ai vv. 51-53: «Pur nuova legge impone oggi i sepolcri | fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti | contende» [EN I, 126].
La materia delle sepolture civili era discussione che in Francia si protraeva dai tempi della Rivoluzione, e incrociava la grande vogue della poesia sepolcrale, soprattutto in Inghilterra. Ma l'argomento serve a Foscolo solamente quale primo 'tema' di un discorso vertiginoso quanto alla successione tematica, che infatti pare subito ai suoi contemporanei assai 'oscuro', e tale continuerà ad apparire fino a tutto il Novecento (ancora di recente si è parlato, per i Sepolcri, di «improbabile tessuto connettivo» e di «spazio emozionale» [Bruni 2009, 59 e 60]).
Ma l'oscurità è solo apparente: errore ottico di un lettore che cerca 'lirismo' là dove dovrebbe seguire un 'ragionamento' in versi, attraversato da un 'io' che trama il discorso, ma fa rare comparse. Non si tratta di una qualche evocazione lirica, né una serie di figurazioni poetiche sognanti e consolatorie sul senso della vita, sul suo significato dinanzi all'idea della morte, sul pensiero dell'essere astratto ritagliato a partire di quello d'un altrettanto astratto non-essere. Il carme Dei sepolcri, invece, ha qualcosa a che fare con la Fenomenologia dello spirito di Hegel: dipinge il quadro di una coscienza – in Foscolo politico-letteraria – attraverso la messa in scena figurale di fantasmi della tradizione letteraria italiana, e della storia greca. Letteratura italiana, storia greca: questo peculiare chiasmo temporale e di genere non è casuale. Esso è il primo esito maturo della logica foscoliana del Neoclassicismo, e costituisce un'altra lettera (dopo l'Ortis) spedita agli intellettuali italiani: perché comprendano la loro missione e, finalmente, la esercitino. Non ci saranno più lettere a Napoleone, o a nessun altro 'potente'.

4. «Itale glorie»
Il carme, dunque, è un ragionamento in versi: muove da una premessa, e da essa svolge un filo di pensiero dialettico. La premessa è tratta sullo spunto costituito dall'editto di Saint-Cloud, di cui probabilmente Foscolo viene a conoscenza quando la prima stesura del testo è già conclusa. Esso motiva una protesta di natura politica, o meglio etica (nel senso proprio del costume, dell'habitus, della consuetudine): perché allontanare dagli occhi dei cittadini i cimiteri, nelle lapidi e nei segni dei quali è conservata la memoria del valore o disvalore di chi ci ha preceduti sulla terra? Avere sott'occhio questo segni può indirizzare gli italiani di oggi e futuri alla giustizia, e contestualmente allontanarli dal male storico presente. La morte non ha alternative, e non esiste un futuro dopo di essa: nessuno spiritualismo e nessuna religiosità in Foscolo, mai (vv. 1-22 [EN I, 125]). Il futuro dopo la morte è il presente di chi vive, e il valore quindi dell'esempio di chi è morto (vv. 23-50 e 91-141 [EN I, 125-126 e 127-129]).
Da ciò, con lunga preparazione, si arriva al punto: e insomma al tema vero e proprio (vv. 142-154 [EN I, 129]). Nei Sepolcri, alla fine, quello che è in ballo è il senso della tradizione: il senso, cioè, dell'uso odierno della tradizione letteraria, una volta che ne sia abolita ogni riesumazione in chiave scolastica o museale. Nient'altro che questo. Ma non è poco, perché per Foscolo quel senso è politico. Ecco perché sono introdotte, nel carme, le figure che citate sopra: Machiavelli, Michelangelo, Galilei, Dante e Petrarca (vv. 142-179 [EN I, 129-130]), inquadrate dai due 'geni' personali dello scrittore: Parini nella Milano odiata e di lui colpevolmente inconsapevole (vv. 53-90 [EN I, 126-127]); e Alfieri (v. 189-197 [EN I, 130]), sulla scena di una Firenze devota, con Santa Croce, alle «Itale glorie» (v. 180-189 [EN I, 130]).

5. La letteratura e la storia
Dalle 'coscienze' letterarie italiane, il testo passa ex abrupto alle 'coscienze' eroiche e mitiche della Grecia antica: gli ateniesi che combattono per la patria a Maratona (vv. 197-212 [EN I, 130-131]), il mito della tomba di Aiace (vv. 213-225 [EN I, 131]), e per associazione alcuni dei personaggi dell'Iliade (Elettra, Cassandra, Omero stesso, Ettore (vv. 226-275 [EN I, 131-133]). Questa brusca contiguità tra le glorie letterarie italiane e le glorie eroiche (e mitiche, quindi fondative della stessa letteratura europea) è la chiave del carme. Rivela in esso un discorso teorico che è parallelo al trattato di Friedrich Schiller Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795).
Se alla modernità, per Foscolo, è consentita la letteratura, ciò avviene solo perché quest'ultima ha il potere di recuperare una gloria arcaica e spenta, e il germe di un orgoglio nazionale: propriamente, di un'idea di nazione. I Sepolcri, così, sviluppano quanto è implicito nel canone di ogni classicismo, ma lo fanno dichiarando apertamente quello che per solito il classicismo lascia in ombra: che l'imitazione è sempre una riscrittura, e che la tradizione esiste in quanto è passibile – oggi, e per uno scopo sociale – di manipolazione culturale. Insomma, se è vero che «a egregie cose il forte animo accendono | l'urne de' forti, o Pindemonte» (vv. 151-152 [EN I, 129]), a cosa serve – allora – la poesia? «Me ad evocar gli eroi chiamin le Muse | del mortale pensiero animatrici» (vv. 228-229 [EN I, 131]), è la risposta di Foscolo.
Qualche anno dopo, nel 18 brumaio di Luigi Bonaparte del 1851-1852, Karl Marx avrebbe detto: «La tradizione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra ch'essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio; ne prendono a prestito i nomi, le parole d'ordine per la battaglia, i costumi, per rappresentare sotto questo vecchio e venerabile travestimento [...] la nuova scena della storia» [Togliatti 20063, 19].

 

VI. Nuove maschere

 

1. Maschera n. 2
Luglio 1813: Foscolo, che è a Firenze da poco meno di un anno, fa stampare dal tipografo Molini di Pisa la traduzione del Sentimental Journey (1768) di Laurence Sterne. A tradurre il romanzo aveva cominciato almeno nel 1805, e nel 1807 aveva seriamente meditato di darlo alle stampe. Ma intanto pubblicava Dei sepolcri e l'Esperimento di traduzione della Iliade di Omero con l'editore Bettoni, e il progetto sterniano era stato rimandato.
Ora però esce: l'operina, apparentemente eccentrica, si inscrive invece nella logica culturale foscoliana. Intanto è interessante per un certo lavoro sulla lingua, e specialmente sulla lingua della prosa, ulteriore e differente da quello dell'Ortis: questa vuole essere fluida, più fresca, leggibile per il pubblico del romanzo. E poi, di là da questo, è possibile verificare in questo lavoro di traduzione l'indole tutta particolare del Neoclassicismo di Foscolo, che implica rapporti di 'arte allusiva' non solo con la letteratura greca antica e romana, ma anche con i contemporanei scrittori europei (Goethe e Sterne). Trattare i coetanei, diciamo, come fonti antiche significa sottrarre queste ultime dal novero delle autorità scolastiche; e rivolgersi a primi con lo stesso sguardo 'straniato' con cui si leggono i classici: per verificarne, cioè, l'utilità culturale nel contesto letterario italiano.
Ma il libretto del 1813 è ancora più interessante per un'altra ragione: in calce alla traduzione, Foscolo fa stampare una Notizia intorno a Didimo Chierico. Insomma, come era avvenuto per Jacopo Ortis, autore delle lettere sulle quali si componeva il romanzo epistolare, anche questa volta Ugo Foscolo in quanto tale non si presenta come autore in prima persona – pur in una manifesta finzione – ma in quanto curatore editoriale di una traduzione scritta da un certo Didimo Chierico, che è così la seconda maschera del Foscolo prosatore.

2. L'autore immaginario
Il nome di Didimo è desunto da quello di un grammatico greco di età alessandrina: il giochino erudito, e la stessa nuova invenzione di un autore, ha lo scopo di bilanciare, filtrare, complicare e ulteriormente specchiare il manifesto autobiografismo della scrittura foscoliana, rivelandone la cifra iperletteraria; se si vuole, la letterarietà costitutiva. Nel che, d'altronde, non si rinuncia in nulla al progetto culturale e politico di sempre. Perché Didimo non è l'inverso di Jacopo, e l'ironia – che qualcuno ha visto in questo secondo autoritratto travestito – in verità non c'è. Il tono della Notizia è risentito e allusivo, amaro e scettico: non ironico, e nemmeno umoristico (almeno non nel senso comune che diamo, oggi, a questa parola). Didimo – parzialmente inventato a partire da dati biografici che riguardano Giuseppe Parini – è una specie di Jacopo Ortis che non si è ucciso, e che ha superato la disperazione per l'iniquità del mondo isolandosi da esso e votandosi alla lettura, alla scrittura, ossia a una dedizione consapevolmente gratuita nei confronti del sapere letterario.
Di lui, il 'curatore editoriale' Foscolo ci dice: «de' vizi e delle virtù capitali che distinguono sostanzialmente uomo da uomo, se pure ei ne aveva, non potrei dire parola: avresti detto ch'ei lasciandosi sfuggire tutte le sue opinioni, custodisse industriosamente nel proprio segreto tutte le passioni dell'animo» [EN V, 177]. E aggiunge, qualche pagina dopo: «Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale, per cui l'uno si attacca all'altro, l'aveva già data a que' pochi ch'erano giunti innanzi. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m'accorsi mai ch'egli avesse fiducia ne' giorni avvenire o che ne temesse» [EN V, 184].
Ma dice anche, e si tratta di annotazione che uno Jacopo Ortis ormai non giovane avrebbe potuto sottoscrivere: «A me disse una volta: Che la gran valle della vita è intersecata da molte viottole tortuosissime; e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vive e muore perplesso, né arriva mai a un luogo dove ognuno di que' sentieri conduce l'uomo a vivere in pace seco e con gli altri. Non trattasi di sapere quale sia la vera via; bensì di tenere per vera una sola, e andar sempre innanzi. Stimava fra le doti naturali all'uomo, primamente la bellezza; poi la forza dell'animo; ultimo l'ingegno. Delle acquisite, come a dire della dottrina, non faceva conto se non erano congiunte alla rarissima arte d'usarne» [EN V, 177].
Insomma, ormai per Foscolo i tempi sono cupi: la massima aspirazione possibile consiste nell'essere come Didimo, saggiamente lontani dall'eroismo, benché ancora consapevoli delle ragioni della propria professione letteraria. Anche questa Notizia, così, in coda al romanzo di un importante scrittore europeo, è una lettera spedita agli intellettuali: uno dei tanti incunaboli di quella Lettera apologetica un po' confusa, tortuosa, divagante e ossessiva che Ugo cercherà di spedire poco prima di morire, in esilio.

3. A Bellosguardo
Negli anni successivi ai Sepolcri e al contemporaneo e importante Esperimento di traduzione dell'Iliade (1807), e precedenti alla stampa della traduzione di Sterne (1813), a Foscolo succedono molte cose: è professore di eloquenza, per un solo anno accademico, all'università di Pavia; incappa e in parte promuove una violentissima bagarre letteraria, che ha però espliciti e pesanti – per lui – risvolti politici; scrive una seconda tragedia, dopo il Tieste, l'unica sino ad allora firmata: questa nuova si intitola Ajace, è un insuccesso di pubblico, e oltretutto rianima aspramente le polemiche dei letterati milanesi contro di lui, e soprattutto suscita la censura del governo napoleonico.
Dopo l'Ajace, gli amici che ha nell'amministrazione regia gli consigliano di prendersi una 'vacanza': insomma, di allontanarsi dalla capitale, e di spostarsi in una regione e in una città non direttamente sotto il controllo del Regno d'Italia: il viceré Eugène de Beauharnais, che governa in vece di Napoleone, ha una particolare avversione per lui. Così, il 12 agosto 1812, Foscolo si trasferisce a Firenze. Qui frequenta i salotti (specialmente quello della contessa d'Albany, compagna di Vittorio Alfieri, morto nove anni prima), conosce e corteggia alcune donne, trova una casetta appartata e amena «Nella convalle fra gli aerei poggi | di Bellosguardo» [EN I, 785], e scrive: scrive molto.
Rielabora, sciacquando prima di Manzoni i suoi panni «qui sull'Arno» [EN I, 785], la traduzione di Sterne, di cui si è detto. Scrive una terza tragedia, la Ricciarda, che andrà in scena a Bologna. E soprattutto mette mano al poema delle Grazie. È questa l'ultima stagione felice per Foscolo, quanto alla scrittura letteraria propriamente detta. Felice fino a un certo punto, se il progetto delle Grazie non va in porto ora, né vi andrà nei lunghi anni che seguiranno, anche durante l'esilio in Inghilterra.
L'anno abbondante trascorso a Firenze è l'ultimo, nella vita di Ugo, in cui possa sedere con calma al tavolino, e scrivere. La cosiddetta vena creativa, dopo di ora, si andrà inaridendo: molte le ragioni oggettive (difficoltà economiche, politiche, personali). Accanto ad esse, tuttavia, una forse più decisiva: Foscolo è entrato in una fase della sua evoluzione intellettuale in cui, per dire così, il 'saggismo' si sostituisce all'opera poetica o romanzesca.
Le lettere ai letterati suoi colleghi sono il suo pensiero fisso. Gli è necessario, una volta per tutte, definire in cosa consista il ruolo del letterato, la sua funzione sociale, la ragione per pretendere il posto che ritiene di meritare nel campo letterario (lui: non chierico, non aristocratico, non scrittore d'occasione protetto dal potere politico). Questo progetto di definizione si insinua in ogni forma di scrittura: sta qui, in fondo, il senso anche delle Grazie; e sta qui, in fondo, la ragione per cui il poema stenterà a trovare una conclusione. Nel poema, infatti, funzione sociale del letterato e logica neoclassica dovrebbero trovare il loro punto di innesto: poetica e politica dovrebbero finalmente coincidere in un testo in certo senso definitivo. Il punto di innesto non sarà toccato.

4. Il professore
Decisiva, per questa evoluzione, è stata l'esperienza cattedratica a Pavia, qualche anno prima. Foscolo è nominato professore di Eloquenza italiana, da un decreto vicereale, il 18 marzo del 1808. L'incarico dura pochissimo, perché il 15 novembre un altro decreto vicereale sopprime le cattedre di Eloquenza del Regno, insieme a tutte le altre «che non insegnavano giurisprudenza, o matematiche, o medicine»; perché «gli scienziati promovono il potere assoluto del Principe; e che i letterati, ove non siano mendichi, sono utili ai popoli liberi», annota Foscolo nella Apologetica [EN XIII, II: 163], riprendendo da Alfieri l'osservazione critica.
Il provvedimento, quindi, non è rivolto a lui, ma è uno degli indizi della stretta autoritaria di quei mesi da parte del potere napoleonico. Comunque, la soppressione avrà luogo a partire dall'anno accademico successivo: ai professori già incaricati – come Foscolo – è conservato lo stipendio e concesso di decidere se tenere o meno le lezioni, prima che entri in vigore il nuovo assetto universitario.
Foscolo decide di tenerle, queste lezioni per le quali si è già messo al lavoro: la possibilità che gli è offerta di parlare a un folto pubblico di giovani è troppo attraente. Così, domenica 22 gennaio 1809, nell'aula Magna, recita la sua prolusione al corso e parla, dalle 10 alle 13.30, Dell'origine e dell'ufficio della letteratura. L'uditorio stipa l'aula: tra i giovani studenti, che siedono anche nei vani delle grandi finestre e si affollano oltre la soglia, ci sono molte personalità eminenti, tra le quali Vincenzo Monti. Alla fine del discorso gli applausi sono prolungati, grande l'aspettativa degli studenti per le lezioni che seguiranno [EN XVI, 556].
Le lezioni successive si terranno da febbraio a giugno. Ma intanto, nella pausa per carnevale, Foscolo torna a Milano per curare la stampa della prolusione, che esce in un opuscolo tirato nientemeno che dalla Stamperia Reale, poco prima dell'8 marzo. Nel discorso stampato, così come era stato in quello letto dinanzi al pubblico, qualcuno osserva una lacuna sospetta: Foscolo non spreca nemmeno mezza parola per recitare le consuete formule di lode nei confronti dell'Imperatore (Napoleone) e del Principe (ossia, il viceré de Beauharnais).
Monti lo 'scongiura', questa la sua parola in una lettera, di aggiungere quelle lodi nella stampa [EN XVI, 29]; ma il neoprofessore rifiuta di indulgere anche al minimo accenno encomiastico. Nella Apologetica ricorderà l'episodio, segnandone il senso non banalmente libertario, ma proprio rispettoso dei principi enunciati sulla missione del letterato: l'omaggio, «giusto per sé», in quel discorso sarebbe stato mera adulazione [EN XIII, 101-102; e Campana 2009a, 24] È questo, a ben vedere, l'episodio sorgente della guerra letteraria accanita di cui Foscolo sarà oggetto qualche tempo dopo, da parte di quei letterati milanesi che agli omaggi rivolti all'Imperatore – e quindi a un differente progetto sulla propria funzione politica – devono i loro ruoli nell'amministrazione della cultura, e i loro stipendi.

5. Invito alla Storia
La frase più celebre della prolusione di Pavia è anche la chiave di volta del discorso; ossia la ripresa – consapevole delle condizioni culturali italiane, e del particolare momento postrivoluzionario – del progetto settecentesco e illuminista di abbattimento delle frontiere tra la scrittura 'creativa' (come la diremmo oggi, con frivola aggettivazione, conseguente al fallimento di quel progetto, dal momento che il Romanticismo e poi il Novecento hanno ripristinato, ognuno a suo modo, la rigida separazione tra 'letteratura' e 'sapere') e qualunque altro 'lavoro culturale'.
Foscolo, che viene prima del Romanticismo, invece invita alla Storia, in molti sensi: «O Italiani, io vi esorto alle storie, perché niun popolo può mostrare né più calamità da compiangere, né più errori da evitare, né più virtù che vi facciano rispettare, né più grandi anime degne di essere liberate dalla oblivione [leggi oblio]» [EN VII, 33-34]. È ancora il richiamo al primato culturale italiano, così traballante e magro però, fondato sulla tradizione classica greca e latina: e infatti proco prima sono citati Machiavelli e Galileo, i greci, i latini ecc.
Non si tratta, come appare da una sintesi troppo schematica, di un richiamo trombonesco alle glorie passate della nazione, che peraltro non è mai esistita, sino a questo momento. No, si tratta di una definizione politica del lavoro culturale anche spregiudicata, che alcuni critici hanno ritenuto prova di una evoluzione, o involuzione, moderata e addirittura monarchica di Foscolo [Campana 2009a, 9-12]. Il che forse si è fatto sottovalutando il contesto e il pulpito dal quale lo scrittore parlava (l'Università) e la sua necessità di 'moderare' le proprie posizioni politiche: non tanto per mere ragioni di autodifesa – in se stesse già ragionevoli – ma per evitare che il nucleo del suo discorso fosse offuscato dalle critiche più facili dei suoi avversari, 'realisti' in politica e lodatori del regime napoleonico.
Resta il fatto, comunque si voglia intendere, che per Foscolo il problema è sociale: «il genere umano dividesi in molti servi che tanto più perdono l'arbitrio delle loro forze, quanto men sanno rivolgerle a proprio vantaggio, ed in pochi signori che fomentando co' timori e co' premi della giustizia terrena, e con le promesse e le minacce del cielo le passioni degli altri, hanno arte e potere di promuoverle a pubblica utilità» [EN VII, 17]. Per ciò, «ufficio [...] delle arti letterarie dev'essere e di rianimare il sentimento e l'uso delle passioni, e di abbellire le opinioni giovevoli alla civile concordia, e di snudare con generoso coraggio l'abuso o la deformità di tante altre che, adulando l'arbitrio de' pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi e alla invasione degli stranieri» [EN VII, 17]. Un cane da guardia, insomma, e bifronte: che ringhia al potere assoluto, e ringhia ai popoli che non sanno darsi un ordine politico, e così finiscono per fare in modo che il potere assoluto si instauri.

 

VII. L'intellettuale in fuga

 

1. Civiltà, indipendenza, vero e bello
Vengono poi gli anni fiorentini. Tra le tante scritture messe in carta, ci sono anche Le Grazie, ispirate a un progetto che probabilmente viene da lontano (dal 1803 della Chioma di Berenice), ma sul quale Foscolo ha meditato a lungo. Per esempio, scrivendo a Monti, nel 1808, dà conto di un progetto che dovrebbe occuparlo nei successivi anni: «Per l'anno 1814 e 1815 io riserbava il tempo agl'Inni italiani, scritti con la ragione morale e poetica de' Sepolcri – ed ho già prefissi gli argomenti, Alceo, o la storia della letteratura in Italia dalla rovina dell'Impero d'oriente a' dì nostri, – Alle Grazie, ove saranno idoleggiate tutte le idee metafisiche sul bello» [EN XV, 544-545].
Si vede che, già a questa data, quel certo 'saggismo' che fondava la scrittura poetica dei Sepolcri è rilanciato e moltiplicato: una 'storia della letteratura italiana' in versi, e l'idea filosofica sulle Grazie. Ora, giunge a Firenze pochi mesi dopo una solenne celebrazione: la collocazione nella tribuna degli Uffizi della Venere Italica di Antonio Canova, in sostituzione della Venere medicea portata a Parigi. È una gran festa, nel maggio del 1812: anche perché Canova, in questi anni, è forse l'artista italiano più celebre nel mondo, una vera star, i cui lavori e i cui viaggi sono seguiti e decantati, come non av-viene per nessuno dei letterati coevi.
Intorno a Canova, infatti, si sta risvegliando un interesse culturale sempre più animoso: frutto del quale era stato anche il volume che Isabella Teotochi Albrizzi, amica e confidente di Foscolo da molti anni, aveva mandato in stampa nel 1809: Opere di scoltura e plastica di Antonio Canova descritte da Isabella Albrizzi nata Teotochi [cfr. Bruni 2009, 18-19 e soprattutto 46-52]. Quella dell'ecfrasi – ossia della descrizione letteraria con scopi d'arte di un'opera scultorea o pittorica – è un genere letterario vero e proprio, che Teotochi ripercorre, e sul quale stabilisce con Foscolo una discussione.
Insomma: una vecchia idea, la riflessione sul genere dell'ecfrasi e sul risvolto di poetica neo-oraziano e classicistico che esso implica, il culto canoviano ormai dilagante... Ce n'è quanto basta per delineare i termini dello spunto che Foscolo ormai va chiarendo a se stesso. Si tratta di scrivere un secondo carme che in sostanza riprenda lo schema logico dei Sepolcri, ma che sia ormai scisso dai temi della più stringente attualità. Il carme dovrà essere una allegoria della letteratura nel suo svolgimento ideale e storico: ciò comporta che esso sia nuovissimo, perché capace di tenere insieme «il didattico, [...] l'epico e il lirico» [EN I, 958].
Ciò che Le Grazie dovrebbero costituire in modo compiuto, dunque, è la concreta materializzazione testuale della logica neoclassica che – in Foscolo – coordina e governa le pratiche della riscrittura, tanto dai classici quanto dai contemporanei. E il punto sorgente di questa logica era enunciato, guarda caso, proprio nella Chioma di Berenice (1803, Discorso quarto): «la poesia deve per istituto cantare memorabili storie, incliti fatti ed eroi, accendere gli animi al valore, gli uomini alla civiltà, le città all'indipendenza, gl'ingegni al vero e al bello» [EN VI, 302].

2. Per Canova
Il primo carme è dedicato a Ippolito Pindemonte, il secondo – invece – a Canova. Foscolo, conciando a prendere appunti, non poteva avere in mente il gruppo scultoreo canoviano delle Tre Grazie: perché, pur commissionato proprio in quel 1812, ad esso lo scultore lavorerà solo più tardi. Invece, stante l'ammirazione per la Venere Italica («... la bella Dea che tu sacrasti | qui sull'Arno alle belle arti custode» [EN I, 785]), tra la fine di agosto e il settembre 1812 [EN I, 974-975], lo scrittore riesce a mettere in ordine – per ora solo mentalmente – nel vecchio progetto del 1803, e poi del 1808.
Associando il secondo carme al nome di Canova, ossia al più prestigioso artista italiano del momento, Foscolo intende raggiungere il vertice di una consacrazione della sua opera che valichi i confini, ai suoi occhi troppo provinciali, della cultura italiana. Così scrive accanitamente, malgrado gli altri lavori che ha in corso, tra l'autunno del 1812 e quello del 1814, inviando agli amici e ai corrispondenti notizie alterne sulla conclusione ormai imminente del carme, oppure sugli stalli del lavoro.
Ma intanto il regime napoleonico è caduto, e gli austriaci hanno preso Milano, dove intanto Foscolo è rientrato – da Firenze – proprio per la gravità degli eventi politici. L'annessione della Lombardia all'Impero asburgico (12 giugno 1814) tronca ogni speranza che, caduto Napoleone, si formi un Regno d'Italia indipendente. Foscolo, come gli altri patrioti, deve fare i conti con i nuovi padroni austriaci, e si tratta di conti difficili. Lui, poco amato dal governo francese, non è guardato con eccessivo sospetto dai nuovi governanti. L'anno successivo, però, il regime austriaco obbliga i militari a un giuramento di fedeltà. Foscolo, che sarebbe tenuto a pronunciarlo in quanto ufficiale dell'esercito, non vuole accettare il diktat: e il 30 marzo, nella notte, valica clandestinamente il confine tra la Lombardia e la Svizzera.
Partendo lascia le carte delle Grazie a Milano, presso il giovane amico Silvio Pellico, dal quale gli ritornano nel gennaio del 1816, mentre si trova a Hottingen (Zurigo). Passato in Inghilterra nel 1816, su queste carte lavorerà ancora. Ma le difficoltà economiche, e l'obbligo di condurre in porto ben altre scritture, gli rendono il compito assai difficile: una nuova, rutilante e disperata, difficilissima stagione si è aperta per lui.

3. Il silenzio delle Grazie
Gli anni dell'esilio sono per Foscolo frustranti e dispersivi, confusi. Sono anni di un'attività frenetica, di amori infelici e senili, di debiti e clandestinità. Il suo lavoro deve forzatamente risolversi verso quel 'saggismo' che costituisce uno dei fondamenti della sua vocazione letteraria, ma cui ora deve votarsi esclusivamente. Per guadagnarsi da vivere deve scrivere e pubblicare montagne di articoli e saggi per le più diverse riviste culturali inglesi. Il poeta si tramuta così, quasi completamente, in critico, in studioso, in erudito. Ma questo nuovo 'saggismo' è sradicato da ogni possibilità di militanza politica: l'espatriato guarda all'Italia della Restaurazione come un cosa lontana e poco interessante; e all'Inghilterra Whig e Tory con gli occhi distaccati dell'ospite. Tutto ciò deprime e squalifica la ragione primaria della sua scrittura.
Sono anni complicati, che è impossibile raccontare in breve: Foscolo scrive moltissimo, e spesso in una lingua ibrida: in italiano o in francese, e poi qualcun'altro traduce in inglese (ma a noi restano, di molti scritti, solo le versioni tradotte da altri). Questi saggi e questi articoli, e l'abbozzo di un'ultima opera di scrittore, decisamente saggistica nella concezione (le Lettere scritte dall'Inghilterra) sono molto interessanti, ma cercare di darne un quadro sarebbe impossibile. Intanto, però, proprio in Inghilterra è abbandonata una volta per tutte l'infinita officina delle Grazie. Forse è vero, come è stato recentemente asserito, con argomenti brillanti ma non inoppugnabili [Bruni 2009], che le Grazie proprio in Inghilterra vengono stampate una volta per tutte, e dunque che non corrisponda al vero la secolare idea degli studiosi, secondo cui il secondo carme è un'opera incompiuta.
Forse è vero, ma la versione stralciata e frammentaria che Foscolo ne stampa nel 1822, nel volume collettivo Outline Engravings and Descriptions of the Woburn Abbey Marbles [cfr. ora Bruni 2012], è decisamente rinunciataria in rapporto al progetto e alla smisurata serie degli autografi, delle stesure, delle correzioni, degli appunti, degli abbozzi saggistici, delle copie in pulito poi superate ecc., che l'ultima edizione critica testimonia – in lungo e in largo – per 582 pagine [EN I, 611-1193]. Se anche le Grazie non sono un'opera incompiuta, dunque, sono un'opera fallita. E non è senz'altro perché Foscolo abbia alla fine scoperto in sé stesso una vocazione «sostanzialmente lirica [...]. La quale doveva perciò essere affidata al lampo della fulgurazione inventiva: prescindendo dalla quadratura di un impossibile cerchio» [Bruni 2009, 137].
Il fallimento risulta da tutt'altra ragione: per lui, che lirico sotto questo aspetto non è mai stato, la scrittura comporta una militanza continuata, quotidiana, quasi 'giornalistica'. E i versi messi in pagina nell'aereo romitorio di Bellosguardo rischiavano già di nascere deliziosamente morti. Ora poi, nell'esilio inglese, perduto per sempre ogni possibile abito politico, gli restano solo le bellurie geniali di un discorso inevitabilmente retrodatato.

4. Manchester
È curioso che Foscolo, scrittore di vocazione europea sin dai suoi esordi (per esempio nel Piano di studi del 1796), proprio in Inghilterra, ossia nel paese occidentale più cosmopolita e avanzato del momento, abbandoni per sempre il progetto con cui – accanto a Canova – avrebbe potuto segnare il punto più alto della sua parabola intellettuale. Di quel paese, l''italiano' Ugo Foscolo vede le contraddizioni, e riconosce il segno dei tempi, che vanno cambiando per l'Europa intera. E infatti, nel giugno del 1822, in un giro che fa per il Nord dell'Inghilterra, ha visitato la città operaia di Manchester, già teatro di violenti e sanguinosi scontri tra l'esercito e i lavoratori. Da qui, inorridito dallo spettacolo della miseria e della degradazione sociale, dai paesaggi reali della prima rivoluzione industriale – che in Inghilterra sta ormai chiudendosi – scrive all'amica Lady Dacre che lì, in quel posto, non c'è più nulla, se non «la più orribile delle tirannie, quella degli oligarchi padroni delle manifatture, che non hanno altra idea, né altro sentimento oltre a quello di fare fortuna, esigendo più lavoro possibile per meno pane possibile. [...] i vostri figli, o al massimo i vostri nipoti, si accorgeranno che la vera rivoluzione sarà realizzata in silenzio dall'indigenza delle masse, da una parte; e dall'altra dal lusso dei nuovi ricchi» [EN XXII, 69: mia la traduzione dal francese; vd. anche Vincent 1954, 143-146].
Che Foscolo intraveda le contraddizioni e i conflitti della modernità, non significa che possa veramente comprenderli o sentire di farne parte, a qualche titolo. E così, culturalmente cosmopolita finché era in Italia, nella cosmopolita Inghilterra si trasforma in cultore della tradizione italiana (gli studi su Dante, su Petrarca, su Boccaccio ecc.). Ciò risponde abbastanza bene a una osservazione di Gramsci, non tanto rivolta a Foscolo, da lui poco amato [Binni 1982, 284-285; Del Vento 2003, 19-20; Liguori e Voza 2009, 330-332], ma rivolta invece a spiegare la storia frammentaria delle vicende intellettuali italiane nel quadro europeo. Nei Quaderni del carcere si legge: «Per l'Italia il fatto centrale è appunto la funzione internazionale o cosmopolita dei suoi intellettuali che è causa ed effetto dello stato di disgregazione in cui rimane la penisola dalla caduta dell'Impero romano fino al 1870» [Gerratana 1977, I: 479]. E poi, più avanti: «Ci sono così i materiali della "egemonia" letteraria italiana, durata appunto tre secoli, dal XV al XVII, quando è cominciata la rea-zione antiitaliana [...] (l'espressione «egemonia» è qui errata, perché gli intellettuali italiani non esercitarono l'influsso come gruppo nazionale, ma ogni individuo direttamente [...])» [Gerratana 1977, I: 532].
L'incapacità di esercitare un 'influsso' in quanto gruppo nazionale, effetto speculare della discordia tra i gruppi, dalla parte opposta, e il riflesso di una vocazione intellettuale cosmopolita che proietta le divisioni anche fuori d'Italia, è quanto spiega il paradosso del Foscolo esule che, in un certo senso, abbandona la letteratura. Non conoscendo il senso una missione internazione da seguire, il letterato italiano perde di vista lo scopo politico della sua scrittura. E intanto, la 'vera rivoluzione', quella economica, gli sottrae un pubblico possibile, e lo trasforma in una malinconica figurina del passato.

5. L'istituzione dell'esilio
Anni dopo la morte di Foscolo, nel 1860, Carlo Cattaneo, rievocando le circostanze che avevano condotto lo scrittore ad abbandonare l'Italia, avrebbe esclamato: «E così Ugo Foscolo diede alla nuova Italia una nuova istituzione: l'esilio!» [Treves 1982, I: 536]. L'Italia – a processo risorgimentale pressoché concluso – è molto diversa da quella che Foscolo ha conosciuto. Ora si cominciano a erigere statue immaginarie agli eroi e ai martiri dell'idea nazionale. Tra queste statue immaginarie, si innalza anche quella di un Foscolo precorritore e protomartire del Risorgimento, esagitato ciclope e ribelle per eccellenza. Ma una simile immaginazione nasconde prima, e poi rimuove – nel periodo postunitario e fino a tutto il fascismo – ciò che lo scrittore era stato sul serio: una silhouette nera, disegnata per assurdo; l'ombra oscura e per certi versi tragica dell'intellettuale in fuga, che ha generosamente fallito il compito di definire il ruolo della cultura in seno a una classe sociale, quella borghese, che ancora non ha coscienza di sé. Ombra oscura, spettro che si aggira fuori d'Italia, e che fuori d'Italia muore, lo scrittore scompare dalla scena:

Continuiamo a vedere con ansia quella grande figura di pena, nella Londra della rivoluzione industriale, Foscolo in fuga dal nostro Paese anche economicamente arretrato e arcaico, ossessionato dal bisogno di vendere, nel senso più bruto, Dante, Petrarca, il suo patrimonio culturale a editori avidi ed equivoci, pagato male, inseguito dai creditori. [Zanzotto 2001, I: 314]

 

Bibliografia essenziale

 

La versione critica di riferimento, quanto agli scritti di Foscolo, è quella contenuta nei 23 voll. dell'Edizione Nazionale delle Opere di U.F., Firenze: Le Monnier, 1933-1994 (nel corpo del capitolo e qui siglato EN, con il numero romano del volume seguito dal numero arabo della pagina). L'edizione nazionale è divisa in due sezioni: quella delle Opere propriamente dette (voll. I-XIII) e quella dell'Epistolario (voll. XIV-XXIII, l'ultimo dei quali – dedicato agli anni dal 1825 al 1827 – non ancora uscito). Per quello che riguarda il presente capitolo, si rinvia specialmente a:
EN I = Pagliai F., Folena G. e Scotti M. 1985 (cur.), Poesie e carmi. Poesie, Dei sepolcri, poesie postume, Le Grazie.
EN II = Bèzzola G. 1961 (cur.), Tragedie e poesie minori.
EN III = Barbarisi G. 1961-1965-1967 (cur.), Esperimenti di traduzione dell'«Iliade», parte I (1803-1817); parte II (1817-1826); parte III (1826).
EN IV = Gambarin G. 1955 (cur.), Ultime lettere di Jacopo Ortis, nelle tre lezioni del 1798, 1802, 1817.
EN V = Fubini M. 1951 (cur.), Prose varie d'arte.
EN VII = Santin E. 1933 (cur.), Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811).
EN XIII = Gambarin G. 1964 (cur.), Prose politiche e apologetiche (1817-1827), parte I, Scritti sulle isole Ionie e su Parga; parte II, La rivoluzione di Napoli del 1798-1799, La «Lettera apologetica».
EN XV = Carli P. 1952 (cur.), Epistolario, vol. II (luglio 1804-dicembre 1808).
EN XVI = Carli P. 1953 (cur.), Epistolario, vol. III (1809-1811).
EN XVIII = Carli P. 1956 (cur.), Epistolario, vol. V (1814-primo trimestre 1815).
EN XXII = Scotti M. 1994 (cur.), Epistolario, vol. IX (1822-1824).

Tra le edizioni estesamente antologiche, e fornite di commento, si raccomandano le due a cura di Franco Gavazzeni: anzitutto le prima, edita da Ricciardi, che si deve lui solo; mentre quella uscita con Einaudi-Gallimard, pur diretta dallo stesso Gavazzeni, ricorre a diversi collaboratori: inevitabile, ma non sempre di giovamento per il lettore, la disparità critico-esegetica. Gli altri commenti suggeriti qui sotto (alcuni dei quali ristampati quasi ininterrottamente da anni: di essi menziono soltanto l'ultima edizione o stampa di cui ho notizia) sono invece dedicati a singole parti dell'opera foscoliana; difformi per stile – talora puntuali e larghi; minuti nel commento, talaltra, o magari scolastici per progetto – hanno tutti una propria utilità:
Balduino A. 1968 (cur.), Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Padova: Radar.
Bézzola G. 1996 (cur.), Ugo Foscolo, Poesie, Milano: BUR.
Id. 1999 (cur.), Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, con un'introduzione di E. Sanguineti, Milano: BUR.
Id. 2005 (cur.), Ugo Foscolo, Lettere d'amore, Milano: BUR.
Binni W., Felici L. 2007 (cur.), Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano: Garzanti.
Bruni A. 1989 (cur.), U. Foscolo, Esperimento di traduzione della Iliade di Omero, Parma: Zara.
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9.3. Questo l'elenco dei testi di altri scrittori e dei lavori critici cui si rinvia nel capitolo, insieme a pochi altri, utili a delimitare il contesto culturale in cui Foscolo si è mosso:
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Binni W. 19762, Classicismo e Neoclassicismo, Firenze: La Nuova Italia.
Id., 1982, Ugo Foscolo. Storia e poesia, Torino: Einaudi.
Bruni A. 2009, Belle vergini. «Le Grazie» tra Canova e Foscolo, Bologna: il Mulino.
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