1. Un toscano alla corte degli Angiò / 2. Ritorno a Firenze / 3. Il Decameron / 4. Da Firenze a Certaldo
Giovanni Boccaccio nasce in Toscana, a Firenze o a Certaldo, nel 1313 da madre a noi ignota e da Boccaccio di Chellino. Questi, agiato mercante legato ai Bardi, immaginò di fare del figlio un erede dei propri commerci e, dopo i primi studi grammaticali con Giovanni Mazzuoli da Strada, lo mandò a bottega nel fondaco dei Bardi a Napoli, città dove si erano trasferiti sin dal '27, a seguito della nomina del padre a rappresentante della compagnia presso gli Angioini. Cresciuto in una Firenze comunale e mercantesca, Boccaccio si formò dunque in una Napoli aristocratica e cortigiana, affiancando alle pratiche commerciali, mai sofferte e ben presto abbandonate per frequentare i corsi di diritto dello Studium partenopeo, escursioni da autodidatta nei più congeniali campi degli studi umanistici. Un crocevia di suggestioni destinato a influenzare notevolmente la cultura boccacciana, non poca parte della quale si gioca, in linea con la sincretica cultura di pieno Trecento, proprio nella rielaborazione e nella sintesi delle istanze mercantili e cortesi entro un percorso letterario che definisce le proprie ragioni per aggiustamenti progressivi ed esperimenti continui (così sarà anche per la rimeditazione dell'eredità di Dante e Petrarca, i due dioscuri della parabola boccacciana) e che si traduce, sul versante delle forme, in un'inesauribile ansia sperimentale largamente debitrice dell'eccletismo culturale di quella corte napoletana alla cui ombra Boccaccio mosse i primi passi.
Qui infatti poté frequentare Cino da Pistoia, là professore di diritto ma anche poeta volgare in grado di trasmettere al giovane tanto la passata lezione dantesca quanto quella più recente di Petrarca, entrare in contatto con gli orizzonti scientifici di un Andalò del Negro (1260-1344) o di un Paolo d'Abaco (1282-1374) e, con la mediazione del bibliotecario Paolo da Perugia (?-1348), con la cultura greca e bizantina, nonché compulsare i volumi della ricca biblioteca di re Roberto, in cui i classici antichi e i testi mediolatini (Ovidio, Apuleio, Livio, Alano di Lilla, Guido delle Colonne, ecc.) convivevano con quelli delle letterature in volgare, a cominciare da quella cultura d'oltralpe cui la corte era legata per vincolo dinastico (canzonieri trobadorici, cantari, romans cortesi, ecc.). Ed è proprio dal ricco banchetto che a Napoli si para davanti al vorace autodidatta Boccaccio che nascono, assieme a talune linee forti della sua poetica, le prime prove letterarie. Già la Caccia di Diana (1334), poemetto in terzine dantesche improntato all'eco della mitologia di Diana ma votato all'esaltazione della forza nobilitante di Amore, cala la vivace mondanità femminile della corte angioina in forme letterarie legittimate da una prestigiosa tradizione classica e romanza. È però nel Filocolo, ampio romanzo in prosa scritto nella seconda metà degli anni Trenta, che gli stimoli dell'apprendistato napoletano sembrano trovare più matura sistemazione. Lo stesso Boccaccio colloca l'opera nel milieu partenopeo riconducendone la stesura alle insistenze dell'amata che, desiderosa di strappare ai «fabulosi parlari degli ignoranti» i casi amorosi del «valoroso giovane Florio», principe spagnolo innamorato dell'orfana ma nobile Biancifiore di un amore contrastato ma destinato a felice esito dopo lunghe peripezie e una faticosa ricerca dell'amata, gli chiede di scrivere sull'argomento «un piccolo libretto volgarmente parlando» (I, i). La materia è, dunque, quella, popolarissima, già narrata nel francese Conte de Floire et Blancheflor, che Boccaccio si propone di riscrivere seguendo «una mezzana via» ispirata al «sermontino Ovidio» piuttosto che ai «gran versi» della tradizione epica (V, xcvii).
Una rielaborazione che procede traducendo l'esile vicenda di partenza in un articolato romanzo di formazione (Florio alla fine uscirà vittorioso e cristiano dalle sue avventure) e assumendola a baricentro di numerose digressioni. Queste convogliano nella trama romanzesca un'intera costellazione di generi satellite, da quello epistolare delle lettere che i due amanti si scambiano alle atmosfere da romanzo alessandrino che tingono la ricerca mediterranea di Florio sino al celebre episodio delle questioni d'amore, in cui si rappresenta il diporto cortigiano di alcuni nobili napoletani impegnati a narrare casi d'amore e a discuterne assieme facendo convergere nel romanzo tanto la dimensione novellistica dei racconti quanto quella logico-argomentativa dei ragionamenti che questi suggeriscono alla brigata.
Un'altra costola, anch'essa ben nota alla Napoli angioina, del repertorio narrativo medievale, quel ciclo troiano già oggetto di una cospicua serie di opere mediolatine (il De bello troiano di Joseph of Exeter), francesi (il Roman de Troie di Benoît de Sainte-Maure) e italiane (l'Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne), sta a monte della stesura del Filostrato (probabilmente del '39). Però, contrariamente a quanto aveva fatto nel Filocolo dilatando all'inverosimile il racconto di partenza, della vasta materia guerresca legata alla guerra di Troia Boccaccio isola qui un solo episodio, la conquista e poi la perdita di Criseida da parte di Troiolo, riducendo al minimo la dimensione epica del tema e ponendo in primo piano la doppia climax, ascendente e discendente, della vicenda d'amore. Al registro guerresco succede quindi quello lirico-elegiaco di una passione di segno opposto rispetto a quella di Florio, rinforzato sia dal preteso autobiografismo della vicenda (sul parallelismo tra l'autore abbandonato dall'amata e Troiolo abbandonato da Criseida si gioca l'intero Proemio) sia dall'invito conclusivo ai giovani innamorati a rispecchiarsi nella vicenda narrata. Diverso rispetto al Filocolo è anche il genere: non un romanzo in prosa, ma un poema in ottave. Un procedimento in un certo senso legittimato dalla ricca tradizione di cantari due e trecenteschi entro la quale Boccaccio si inserisce con originalità, convogliando la tendenza a narrare in versi propria del genere nelle forme di un'epica letterariamente più codificata in senso aulico (notevoli infatti gli echi della lirica d'amore due e trecentesca) e in una forma metrica, la stanza di otto versi endecasillabi a rima ABABABCC, se non proprio inventata certo istituzionalizzata da Boccaccio e, poi, assunta a metro di riferimento sia dagli stessi cantari sia dalla vena più propriamente epica della letteratura italiana.
In ottava rima Boccaccio compose, nel medesimo torno d'anni (1339-41), anche il Teseida, da lui stesso indicato come primo esempio di quella poesia epica in volgare italiano di cui Dante, nel De vulgari eloquentia, aveva lamentato l'assenza, affine quindi, anche se indipendente, al progetto che contemporaneamente Petrarca stava tentando con l'Africa. È quindi con la dimensione epica negata al Filocolo e soppressa nel Filostrato che ora Boccaccio si confronta narrando, nelle forme virgiliane di un poema in dodici libri dal titolo grecizzante allusivo all'«Eneida» virgiliana (così chiamata dallo Stazio dantesco in Purg. XXI, 97), la rivalità tra Arcita e Palemone per l'amore di Emilia già messa in versi epici dallo Stazio (40-96) della Tebaide. Tuttavia, sebbene abbondino gli stilemi propriamente epici (la descrizione dei funerali di Arcita), la materia guerresca, l'attacco di Teseo alle Amazzoni e a Tebe, non esula dal rango di antefatto alla vicenda amorosa che occupa così nuovamente il centro della scena, nelle forme però di «un'epica amorosa», ossia di «una storia d'amore che attraversa il territorio delle armi» (Bruni, 1990, p. 201).
Nel frattempo erano cambiati i rapporti economici tra Firenze e Napoli e il padre aveva rotto coi Bardi. Boccaccio rientra quindi a Firenze, dove rimarrà, salvo brevi spostamenti, per i vent'anni successivi. Fu un rientro traumatico dagli sfarzi della corte angioina a una città in piena crisi economica, che segna l'emergere in Boccaccio di una nostalgica frattura tra l'aureo passato e il grigio presente a cui si contrappone però un rinnovato fervore creativo che porta lo scrittore, sino ad allora influenzato prevalentemente dalle istanze della cultura napoletana, a misurarsi con la tradizione letteraria toscana e fiorentina e, in particolare, con quell'eredità dantesca a cui si era accostato già a Napoli.
A Dante guarda sin dal titolo, Commedia delle Ninfe fiorentine (1341-42, detta anche Ninfale d'Ameto o, più semplicemente, Ameto), e dal metro, terzine dantesche, l'esordio fiorentino di Boccaccio, che, narrando del perfezionamento spirituale del pastore Ameto sotto la guida di sette Ninfe-Virtù, saggia la tenuta del prosimetro, genere di nobile ascendenza latina (Boezio) già messo alla prova del volgare dalla Vita nova, a confronto con un'allora inedita tematica pastorale. Sul canovaccio da favola pastorale convergono però le molteplici suggestioni derivate dalla dimensione novellistica dei racconti che le Ninfe fanno dei propri amori e dal velo allegorico che trasforma l'esperienza del pastore in un percorso di formazione all'insegna della medesima concezione di Amore come forza nobilitante già cantata nella Caccia di Diana. Le possibilità dell'ambientazione pastorale sono, invece, approfondite da una differente specola in un'altra opera, il Ninfale fiesolano, scritta probabilmente tra il 1344 e il '46. Qui l'«amorosa storia molto antica» (I, 8) di Africo, giovane pastore toscano, e Mensola, ninfa votata alla castità per devozione a Diana, nel volgere in tragedia con il suicidio del giovane e la metamorfosi in fiume della ninfa offre il destro a un poemetto eterodosso rispetto agli standard boccacciani.La narrazione in ottave, più vicina a uno stile propriamente canterino rispetto alle analoghe prove napoletane, apre infatti qui le porte a una dimensione di dimesso realismo domestico (non piccolo il ruolo dei genitori di Africo) e a un intento eziologico (morendo i due protagonisti si tramutano negli omonimi fiumi toscani, come era già successo al nonno di lui Mugnone, e frutto del loro amore è quel Pruneo da cui discende la schiatta fiesolana).
Se tanto le ottave del Ninfale quanto il contenuto profondo dell'Ameto si pongono in continuità con l'esperienza napoletana, è proprio la forma allegorica della Commedia delle Ninfe fiorentine a segnare il passaggio dalla narratività mitologica degli anni giovanili ai nuovi interessi dei primi anni fiorentini. Risolutamente allegorica e dantesca è, infatti, anche l'Amorosa visione (1342-43), racconto in terzine di una visione in sogno coniata sulla falsariga di un'interpretazione allegorica e sapienziale dell'iter di Dante personaggio nella Commedia, tesa ad avvicinarlo alla letteratura allegorico-enciclopedica di un Roman de la Rose o, in area italiana, dell'anonima Intelligenza e a risolverlo nei moduli catalografici propri dell'episodio degli spiriti magni nel Limbo, fedelmente calcato nell'incontro conclusivo con una schiera di belle donne in un giardino: un impianto comune ai contigui, anche se non certamente precedenti, Triumphi petrarcheschi, coi quali spartisce la tendenza a coniugare il modello medievale della visio con quello, di estrazione classicheggiante e figurativa, della parata trionfale di personalità e ipostasi allegoriche emblematicamente legate al dominio di entità-chiave (Amore, Fortuna, Gloria, ecc.) che occupa la prima parte dell'opera.
Quasi all'opposto di una simile tensione allegorica si colloca, tra il '43 e il '44, l'Elegia di madonna Fiammetta, romanzo in prosa interamente occupato dal racconto non di «favole greche» né di «troiane battaglie», ma degli «amori più felici che stabili» di Panfilo e Fiammetta, che quest'ultima rivolge, in «lagrimevole stilo», a un pubblico di «nobili donne» (Prologo). Un argomento, dunque, ostentatamente diverso da quelli sinora praticati da Boccaccio anche perché dichiaratamente non letterario, ma frutto del racconto autobiografico della relazione extraconiugale tra Fiammetta e Panfilo e, una volta che questi lascia Napoli per tornare a sposarsi a Firenze, della disperazione dell'amata. Una dimensione intima e personale che, nel calare un'accezione dantesca dell'elegia come stilum miserorum (De vulgari, II, iv, 5) nelle forme di un «flebile carmen» ovidiano (Heroides, XV, 7), scardina i propri immediati modelli riferendo il discorso erotico, generalmente riservato nella lirica due e trecentesca alla voce maschile dell'innamorato, a quella della donna abbandonata, in linea con quelle Eroidi di Ovidio in cui, però, i lamenti femminili erano rivolti non a un pubblico muliebre, ma agli stessi amanti fedifraghi.
Tuttavia, pur profondamente innovati, i due ambiti della lirica erotica medievale (specie l'esito della Vita nova dantesca) e le ovidiane lettere di eroine costituiscono il solido terreno di confronto a un'opera che, dietro la rivendicazione di una dimensione di piana quotidianità, cela in realtà un intenso e profondo dialogo con la tradizione letteraria antica e medievale. Se l'impianto generale è quello delle Eroidi, lo svolgimento concreto del testo si costruisce in riferimento a una complessa pluralità di modelli costantemente combinati a dar materia alla «dotta disperazione» della protagonista (Segre, 1974, p. 103). Fiammetta infatti si racconta in riferimento a prestigiosi modelli classici (fondamentali le tragedie di Seneca), mediolatini (l'Elegia di Arrigo da Settimello e il De amore di Andrea Cappellano) e romanzi (la lirica d'amore, specie dantesca e petrarchesca), e in un continuo rispecchiarsi nelle vicende di eroine del mito e della letteratura analoghe alla sua.
Vi si intersecano poi differenti registri stilistici (il senechiano colloquio d'amore con la balia, il discorso elegiaco e boeziano sulla Fortuna, le varie declinazioni dell'aegritudo amoris, ecc.) nell'ambito di un preteso autobiografismo privato che, in realtà, costituisce una profonda rivisitazione letteraria di taluni di quegli stessi temi-chiave delle opere precedenti, Amore e Fortuna su tutti, che di lì a poco entreranno nel più ampio disegno del Decameron.
Alla stesura del Decameron Boccaccio attende tra il 1348 e i primi anni '50, continuando però a rivederne il testo sino alla scrittura, attorno al '70, della versione definitiva nel codice berlinese Hamilton 90, allestito nelle forme del libro universitario, a conferma dell'importanza che riveste nel suo programma letterario un'opera che, assieme ad alcune importanti novità, accoglie e supera entro un disegno di più ampie proporzioni alcuni stilemi già al centro delle opere precedenti.
«Comincia il libro chiamato Decameron cognominato prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e da tre giovani uomini»: così Boccaccio indica, assieme al titolo dell'opera, il suo contenuto. Una raccolta di novelle dunque. Come i Fragmenta petrarcheschi, anche quest'opera infatti è il frutto della riunione entro una struttura complessiva di articolate dimensioni di forme letterarie brevi e come per Petrarca tale raccolta prende le mosse all'indomani dell'epidemia di peste del '48. Difficile però dire se anche in questo caso si tratta della riunione di tesi in parte già scritti, oppure se la stesura delle novelle consegue all'ideazione del loro contenitore narrativo. Certo invece che per entrambe le opere la maggiore novità rispetto alla tradizione consiste non tanto nella scelta del genere lirico o novellistico in sé (del quale hanno però offerto una codificazione destinata a divenire un punto di riferimento essenziale e, dopo Bembo, imprescindibile) quanto piuttosto nell'inserimento di forme letterarie sino ad allora circolanti prevalentemente "alla spicciolata" entro il progetto organico e unitario di un libro che, giustificandole, le contiene. Più che di novità assoluta, sarebbe però meglio parlare di piena maturazione di tendenze già abbozzate a partire dagli ultimi decenni del secolo precedente. Già il primo nucleo del Novellino infatti si presenta come repertorio esemplare del narrabile a beneficio dell'educazione del lettore. Tuttavia, mentre qui a rinsaldare i singoli racconti non intervengono vincoli diversi da quelli dettati dalla contiguità tematica, ormai da decenni i repertori a uso dei predicatori raccoglievano exempla in serie teologicamente e liturgicamente ordinate e vere e proprie "cornici" regolano la struttura di opere di ascendenza orientale come la Disciplina clericalis di Pietro Alfonso (1076?-1140?) e il Libro dei sette savi, i cui racconti, come nelle Mille e una notte, si fingono narrati per scongiurare una condanna a morte.
La cornice del Decameron però non si limita a delineare un'esile situazione-tipo in grado di giustificare la narrazione dei racconti, ma assurge al rango di complessa e dinamica vicenda parallela a quella delle novelle, presentata come vera (tali la peste e la fuga dei protagonisti) e solo per convenienza parzialmente trasfigurata in forme letterarie (tali i nomi imposti ai novellatori, quasi tutti "parlanti" e legati all'imagery letteraria boccacciana). Nelle introduzioni e nelle conclusioni alle giornate, così come negli incipit e negli explicit delle singole novelle entra quindi in scena la vita quotidiana di una brigata di giovani che, per fuggire la degenerazione fisica e morale portata a Firenze dalla peste del '48, si ritira in contado e, soggiornando tra due ville e l'amena Valle delle donne, regola la propria esistenza secondo i parametri di «un "saper vivere" cortesemente atteggiato» (Battaglia Ricci, 2000, p. 150), programmaticamente escluso dalla pestilenziale situazione cittadina e ad essa contrapposto in quanto improntato a un ideale di decoro e letizia nelle forme di una rigida regolamentazione democratica del quotidiano.
Sin da subito infatti l'ansia maggiore della brigata è quella di non rompere il delicato equilibro che permette di prendere «quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione», a cominciare dall'invito rivolto dalle sette donne ideatrici della fuga ai tre uomini affinché siano per loro «e guida e servidor» (I, Intr., 65 e 80). A questo principio si ispira sia la decisione di reggere a turno l'organizzazione di ciascuna giornata, sia la scelta dei diporti da praticare, sia il rispetto delle pratiche devozionali nei giorni deputati e questo ideale impone, una volta che ciascuno dei giovani è stato re per una volta e prima che l'incanto sia rotto dalla consuetudine o dall'irruzione del mondo esterno, di tornare a Firenze.
Il Decameron si propone dunque quale resoconto della vita della brigata e dei suoi svaghi. Tuttavia, nonostante Boccaccio registri praticamente tutti gli aspetti delle giornate dei dieci giovani (trascrivendo anche alcune delle ballate che essi cantano), sono in particolare le novelle che i giovani decidono di raccontarsi durante le ore più calde del giorno a interessargli e quindi a occupare la maggior parte dell'opera. Anche il racconto soggiace alla medesima regolamentazione democratica del resto della villeggiatura dei giovani: al re di ciascuna giornata spetta la scelta del tema a cui i racconti dovranno ispirarsi, eccezion fatta per quelli di Dioneo, a cui viene concesso il privilegio di narrare per ultimo e libero dal vincolo tematico. Le novelle si dispongono quindi entro una rigida struttura in base alla quale, le giornate I e IX sono a tema libero, mentre le altre sviluppano argomenti specifici, siano essi l'avventura, a lieto fine (II giornata) o di amanti (VI), l'«industria» (III), gli amori lieti (V) o tragici (IV), la prontezza di parola (VI), le beffe, familiari (VII) e no (VIII), o la magnanimità (X). Tale ordinamento nella cornice viene presentato come l'esito del successivo adeguarsi dei re alle suggestioni che le novelle già narrate offrono, quasi ciascun tema suscitasse il successivo in una catena che, sviluppandosi per contiguità tematica, giunge ad abbracciare l'intero spettro del narrabile medievale.
Entro lo schema oppositivo e ascendente che lega la prima all'ultima novella, il blasfemo opportunismo di Ciappelletto alla santa pazienza di Griselda, tale magmatico procedere squaderna al centro del Decameron un'infinità molteplice di temi, situazioni e personaggi, solo in parte racchiusa nel binomio, indicato dallo stesso Boccaccio, «piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti» (Proemio, 14), dove tra Amore e Fortuna manca almeno l'Ingegno umano, e nella definizione del Decameron quale «epopea dei mercatanti» (Branca 2010, p. 172), dal momento che all'ambientazione mercantile di molti racconti si affianca quella comunale, cortese, clericale, antica o orientale di altri. L'insieme delle novelle va quindi a comporre una complessa e polifonica «commedia umana» (ivi, p. 173) giocata in un mondo dominato da forze quali Amore e Fortuna e al cui centro sta l'Ingegno dell'uomo che, sia nelle forme del motto sia in quelle della beffa, si traduce in pietra di paragone del suo agire nel mondo. Un universo narrativo nel quale i temi-chiave tendono a travalicare i confini delle giornate loro assegnate e quelli delle singole novelle, estendendo trasversalmente la propria presenza in un infinito gioco combinatorio renitente a qualsiasi compendio, il cui centro di gravità andrà semmai ricercato in un'etica terrena frutto di un «eclettismo ideologico» (Battaglia Ricci, 2000, p. 17) teso a ricomporre l'eredità culturale del passato cortese con la nuova mentalità mercantile entro un nuovo, ancorché asistematico e sperimentale, universo di valori.
Una vastità tematica a cui sembra fare eco una molteplicità allargata a comprendere l'intero spettro delle forme narrative medievali, rivendicata dallo stesso Boccaccio nel definire il non del tutto scontato termine "novella" col ricorso a una terna di termini più consueti della teoria letteraria medievale, allusivi ai fabliaux francesi, alle parabole evangeliche e alle narrazioni a carattere storico («cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo», Prologo, 13). Questi termini, pur non esaurendolo, disegnano l'estensione di quel narrabile medievale che offre a Boccaccio non solo un vasto repertorio di situazioni, trame (il meccanismo della beffa ai danni dell'ingenuo, quello del motto salvifico, la moglie fedifraga perché insoddisfatta, stilemi cortesi quali l'amor de lonh e il vassallaggio d'amore, ecc.) e personaggi (Cimone, il Saladino, Melchisedech, Ifigenia), ma anche un altrettanto ricco bagaglio di modelli narrativi assieme accolto e superato nella polisemia dell'accezione boccacciana del termine novella, dalle avventure alessandrine di Alatiel (II, 7) e da quelle mercantesche di Andreuccio da Perugia (II, 5) alla letteratura di viaggio cui s'ispira la predica di Frate Cipolla (VI, 10), dai moduli da Vitaspatrum parodiati nella novella di Rustico e Alibech (III, 10) e dalle marche esemplaristiche della finta visio di Ferondo (III, 8) alle filigrane penitenziali della confessione di Ciappelletto (I, 1) e a quelle agiografiche del racconto di Griselda (X, 10) e così via.
Un retroterra narrativo accolto sì, ma anche superato in una rielaborazione chetende ad affidare una più precisa specificità ai personaggi e al contesto del racconto. Un'impostazione "realistica" che è la medesimache porta ad affiancare ai molti racconti ispirati ai tópoi narrativi medievali un'altrettanto cospicua serie di novelle d'impianto comunale e cortigiano (Cangrande della Scala, I, 7; Cavalcanti, VI, 9; Giotto, VI, 5; Bruno e Buffalmacco, VIII, 3, 6, 9 e IX, 3, 5, ecc.) eche èuna delle cifre essenziali di quel nuovo tipo di racconto, la novella appunto, che trova proprio nel Decameron il luogo della propria codificazione letteraria. Codificazione che Boccaccio vota, in linea con l'intentio fissata sin dall'incipit dell'opera di offrire conforto all'afflizione amorosa delle donne prive degli svaghi concessi agli uomini, al duplice scopo del «diletto» (a cui guarda, alludendo all'universo narrativo delle storie di re Artù sulla scorta della Francesca di Dante, la dicitura Prencipe Galeotto) e dell'«utile consiglio», al quale rinvia il grecismo Decameron coniato sul modello dei commenti patristici al Genesi quali l'Hexameron di Ambrogio (Proemio, par. 14), ma che, nel trascrivere il libro nell'ultima redazione del codice berlinese, affida alle prestigiose forme del volume universitario di studio, destinato a ben altri scopi e lettori.
Una vera e propria codificazione della novella, intesa come breve racconto, e del suo contenitore narrativo, un libro che offre ai racconti una cornice di riferimento, destinata, anche di là dalle specificità della poetica boccacciana, a segnare profondamente l'evoluzione successiva del genere. Già Franco Sacchetti (1332/34-1400), infatti, informa che alla fine del Trecento il Decameron, «è divulgato e richiesto tanto che in sino in Francia e in Inghilterra l'hanno ridotto alla loro lingua» e, nel comporre la propria raccolta (il Trecentonovelle), dichiara di guardare «allo eccellente poeta fiorentin messer Giovanni Boccacci», assumendo, pur senza ricorrere alla trovata della cornice, a oggetto quasi esclusivo di narrazione la medesima dimensione aneddotica e municipale che tanta parte gioca anche nel Decameron. (Proemio). D'altronde, sebbene non si abbiano notizie documentarie delle traduzioni boccacciane cui Sacchetti accenna, è però certo l'influsso del Decameron, così come delle altre opere boccacciane, sui Canterbury Tales dell'inglese Geoffrey Chaucer (1343-1400), che raccolgono i racconti narrati da un gruppo di pellegrini diretti al santuario di Thomas Beckett, a sicura testimonianza del ruolo centrale svolto da Boccaccio nell'evoluzione del genere novellistico tra Medioevo e Rinascimento, giù giù sino alla grande stagione della novella cinquecentesca, passando attraverso le importanti prove quattrocentesche del Paradiso degli Alberti, in cui però la cornice (del tutto analoga ai "ragionamenti da giardino" del Decameron) si dilata sino a prevalere rispetto alle novelle, dell'eterodosso e crudo Novellino di Masuccio Salernitano (1410-1475) e delle Piacevoli notti di Gian Francesco Straparola (1480-1557), in cui la ripresa di una struttura di impianto boccacciano s'associa a una più decisa virata dei contenuti delle singole novelle verso una dimensione enigmistica e fiabesca che, per molti versi, apre la strada alla seicentesca raccolta di fiabe di Giovanbattista Basile (1566-1632): lo Cunto de li cunti, non a caso noto anche col titolo, ben boccacciano, di Pentamerone.
Se i primi vent'anni fiorentini furono un momento, oltre che di straordinaria ricchezza creativa, di positivo impegno civile (culminati nella stesura del capolavoro e nel ruolo di guida intellettuale e di ambasciatore politico e culturale della Repubblica), con gli anni Sessanta le sorti politiche e letterarie di Boccaccio cambiarono significativamente. Il fallimento della congiura antiguelfa ordita nel '61-'62 da persone a lui vicine e la frustrazione dei diversi tentativi di trovare una sistemazione a Napoli segnano un'involuzione che lo porta a ritirarsi a Certaldo dal '70-'71 sino alla morte, nel '75. Sempre a partire dagli anni Sessanta, Boccaccio si volge verso «un più deciso orientamento di riflessione e spiritualità cristiana, già da alcuni anni scelto e seguito», prendendo gli ordini sacri (Zaccaria, 2001, p. 2).Decisivo nell'orientare la cultura boccacciana di questi difficili anni fu l'incontro, nel 1350, con Petrarca, dal quale prese le mosse un intenso sodalizio destinato a influenzare entrambi. Pur non obliterando le proprie convinzioni, Boccaccio si accosta così sempre più all'ideale, permeato di preumanesimo petrarchesco, dell'intellettuale assoluto, sciolto da ogni cura terrena e dedito esclusivamente alla letteratura, meglio se erudita e latina.
Sebbene già a Napoli avesse cominciato un'ininterrotta, anche se minoritaria, produzione latina, a partire dagli anni Cinquanta il rapporto tra opere in latino e in volgare sembra ribaltarsi a favore delle prime. Tra il '47-'48 e il '68 compone infatti le egloghe del Buccolicum carmen, tra il '55 e il '60 scrive il De montibus e a partire dal '50 sino al '67 lavora alle Genealogie deorum gentilium. Con le egloghe, coltivando una significativa varietà di temi (esperienze amorose, storico-politiche, dichiarazioni poetiche) nel genere, di ascendenza classica e dantesca, della egloga, si pone polemicamente in parallelo alla coeva esperienza bucolica di Petrarca, rispetto alla quale, programmaticamente, ha però minor estensione il velo allegorico che copre e trasfigura le vicende narrate. È invece una vocazione enciclopedica che porta Boccaccio a comporre, inventariando il vasto materiale geografico e mitologico della tradizione letteraria, il De montibus e le Genealogie, due opere che innovano i generi medievali della letteratura geografica e dei corpora mitologici non solo in virtù della loro derivazione colta, ma anche della rinuncia, nella prima, al gusto per i mirabilia fantastici, e, nella seconda, del superamento del caotico accumulo di opere come i mitografi vaticani (tre raccolte mitologiche altomedievali), in favore di un'ordinata tassonomia parentale, divergendo così da analoghe prove dello stesso Boccaccio (il gusto centonatorio della napoletana Allegoria mitologica e lo spirito mercantile che informa il fiorentino De Canaria) e proiettando entrambe le opere entro un orizzonte classicista e preumanista che è quello propugnato negli ultimi due libri delle Genealogie, dedicati alla difesa della poesia. Del resto, dalla poesia muovono e a essa sono orientati entrambi i repertori, destinati appunto a sistemarne l'erudizione a beneficio dei lettori. Un enciclopedismo tutto letterario che informa di sé, coniugato a un'ispirazione più propriamente storica e a un intento più marcatamente moralistico, anche le due opere, il De casibus virorum illustrium (composto tra il '56 e il '73), e il De mulieribus claris (scritto tra il '61 e il '62), con cui Boccaccio si inserisce in una vena della narrativa medievale oggetto, complice il De viris illustris di Petrarca, proprio in quegli anni di rinnovato interesse: la trattatistica sugli uomini illustri. In entrambi i casi però il genere della collezione biografica viene piegato a una declinazione moralistica sensibilmente diversa da quella petrarchesca. Se i medaglioni biografici del De casibus, trovando il proprio fulcro nella "caduta" in miseria degli "illustri", si offrono quale galleria di exempla circa la vanità dei beni mondani, nel De mulieribus Boccaccio volge al femminile, non senza qualche polemica, e arricchisce di una più marcata venatura esemplaristica, la celebrazione tutta virile di Petrarca.
L'esercizio biografico non è però una conquista, problematicamente petrarchesca, del Boccaccio maturo, quanto piuttosto un interesse duraturo coltivato sin dagli anni Quaranta e Cinquanta. Prima del '50 scrive infatti una vita latina di Petrarca e nei primi anni Cinquanta si colloca la prima stesura della biografia dantesca nota come Trattatello in laude di Dante. In questi casi però la scrittura biografica risulta funzionale tanto alla canonizzazione di quelle che Boccaccio sin dagli anni napoletani considerava due parabole letterarie di riferimento quanto, attraverso la loro rimeditazione, a una riflessione poetica di ordine più generale. Così la rimeditazione della vicenda biografica di Dante consente a Boccaccio di mettere a fuoco un concetto, teologico e sacrato, di poesia teso a parificarla alla Bibbia nel segno di una comune tendenza a nascondere profonde verità sotto il velo dell'allegoria. Non a caso, quando dovrà, su commissione del Comune di Firenze, tenere un ciclo di lecturae Dantis, iniziate nel '73 ma presto interrotte all'altezza del XVII dell'Inferno e in parte rielaborate nelle Esposizioni, Boccaccio applicherà alla Commedia, distinguendo sempre tra «esposizione litterale» e «allegorica», non solo la poetica già esposta nel Trattatello, ma anche il medesimo criterio adottato nell'esegesi mitologica delle Genealogie.
Una dichiarazione poetica esposta sì su basi dantesche, ma in stretto dialogo con Petrarca e nel tentativo, ben documentato dalla continua riscrittura del Trattatello, di armonizzare le divergenti impostazioni dei due in un'ecclettica visione d'insieme sulla cui base, anche in questo senso, si costruisce l'originalità sincretica dell'approccio boccacciano, al di fuori della quale mal si comprende anche la più impegnativa tra le opere letterarie volgari di questi anni, il Corbaccio, scritto probabilmente nei primi anni Sessanta. Da un'interpretazione allegorica e penitenziale dell'iter di Dante personaggio nella Commedia discende infatti il racconto del percorso di redenzione di un personaggio posto come autobiografico dall'infelice amore per una vedova condotto, dopo un iniziale ravvedimento personale, sotto la guida del defunto ex marito di lei. Questi soccorre il protagonista, smarrito in un «laberinto d'Amore» (par. 57), e gli rivolge una dura tirata misogina che, sulla scorta di una solida tradizione mediolatina (da san Girolamo ad Andrea Cappellano) e insieme del rovesciamento parodico della tradizione topica cortese, nel ribaltare l'impostazione filogina che aveva portato a dedicare alle donne il Decameron,risulta funzionale all'esaltazione di un'esortazione, di sapore petrarchesco, a preferire all'amore muliebre l'esercizio intellettuale.
Studi citati nel testo
Battaglia Ricci L. (1987), Ragionare nel giardino. Boccaccio e i cicli pittorici del Trionfo della Morte, Salerno, Roma.
Ead. (2000), Boccaccio, Salerno, Roma.
Branca V. (2010), Boccaccio medievale, Milano, Bur [ed. or. 1956].
Bruni F. (1990), Boccaccio. L'invenzione della letteratura mezzana, Il Mulino, Bologna.
Segre C. (1974), Le strutture e il tempo, Einaudi, Torino.
Zaccaria V. (2001), Boccaccio narratore, storico, moralista e mitografo, Olschki, Firenze.