Nicola Bonazzi - Teatro e novella nel Cinquecento

1-Un giorno a Urbino

 

È una tiepida giornata di marzo, di quelle in cui il sole vorrebbe costringere il freddo a svestirsi della sua coltre di panni pesanti. Siamo nel 1507, a Urbino. Il Papa, Giulio II (un Papa guerriero, energico e iracondo) vi ha appena sostato con il suo codazzo di cortigiani e valletti, dopo aver sottomesso Bologna con l'aiuto delle armi francesi. Ora è costretto a ripartire, perché a Roma lo aspettano le incombenze che il suo ruolo gli ha destinato, e deve pure incontrare quell'anima candida di Raffaello, giovane pittore di sicuro talento giunto a sua volta da Urbino, per affidargli gli affreschi delle sale pontificie. Il piccolo ducato di Urbino è retto da Guidubaldo da Montefeltro e dalla moglie Elisabetta Gonzaga, due signori liberali e cortesi: dopo la partenza di Giulio II, molti cortigiani si fermano qualche giorno in più per godere l'ospitalità di quei duchi tanto gentili (Guidubaldo a dire il vero è sempre piuttosto malaticcio e se ne sta spesso ritirato nelle sue stanze, ma la moglie assolve benissimo al compito di padrona di casa).
In un'ora stabilita della giornata, dunque, tutti questi gentiluomini e gentildonne si ritrovano in una sala del palazzo per fare dei giochi, per raccontare storie o conversare amabilmente di qualche argomento, secondo quanto suggerito dalla duchessa. Tra i convenuti c'è un nobile genovese, Federico Fregoso, che propone di fare conversazione su un tema per tutti loro di non secondaria importanza, ovvero come «si possa formar con parole un perfetto cortigiano». Al dialogo partecipano lo stesso Fregoso, suo fratello Ottaviano, il conte Ludovico da Canossa, Giuliano de' Medici figlio di Lorenzo il Magnifico, Bernardo Dovizi da Bibbiena, che dei Medici è un diplomatico apprezzato, e Pietro Bembo. Ognuno apporta argomenti nuovi al tema, punti di vista personali, opinioni diverse ma mai conflittuali. Così trascorre qualche giorno in un clima festoso e amabile: dopo aver conversato, i cortigiani si dedicano a qualche svago, danzano o ascoltano suonare dei musici, poi si ritirano nei loro appartamenti, per riprendere tali occupazioni il giorno successivo. Questa è, sommariamente, l'esile trama del Cortegiano di Baldassarre Castiglione, uno dei più bei libri del Rinascimento italiano: non sappiamo se la conversazione si sia svolta realmente, con questi interlocutori e secondo queste modalità, ma è certo che la vita nella corte di Urbino doveva trascorrere non molto diversamente da come Castiglione ce la descrive, se è vero che lui stesso dimorò nella cittadina marchigiana per quasi dieci anni (fino al 1513).

 

2-La corte come palcoscenico.

 

Tra i personaggi che animano le pagine del Cortegiano c'è, lo abbiamo detto, Bernardo Dovizi, a cui è delegata una delle sezioni più interessanti e divertenti dell'opera. Dovizi (veniva chiamato Bibbiena per via del luogo di nascita, in provincia di Arezzo) era un cortigiano di notevoli doti, al punto che Giovanni de' Medici, quando diventerà papa col nome di Leone X, lo farà addirittura cardinale. Un cardinale un po' eccentrico, a dire il vero, poiché continuava a dedicarsi più agli svaghi e alle belle donne che ad accudire le anime dei fedeli. Le cronache del tempo ce lo descrivono gaudente e simpatico, amante della vita allegra, gran conversatore. È per questo probabilmente che Castiglione decide di affidare a lui, all'interno della sua opera, la trattazione delle facezie, ovvero di quella parte più gioviale e ilare che deve animare sempre la conversazione del perfetto cortigiano. La facezia, infatti, deve indurre «a festa e riso» gli abitanti della corte, in modo che il discorso, «senza venir mai a fastidio o pur a saziare, continuamente diletti». La competenza discorsiva del cortigiano è insomma una competenza comica, attoriale, teatrale. La corte è il palcoscenico della sua esibizione e gli altri cortigiani sono il suo pubblico: quando tocca agli altri tenere banco, è lui stesso a trasformarsi in pubblico davanti alle performance conversative dei suoi colleghi.
Una società così teatralizzata non può non favorire direttamente la produzione di testi per la scena, e in effetti il Rinascimento italiano è uno dei secoli più ricchi di autori comici. La corte, spesso in occasioni di festa (matrimoni, compleanni, visite di importanti sovrani o prelati) si ritrova per assistere a spettacoli quasi sempre organizzati da artisti al soldo del signore locale e recitati da cortigiani: in quei momenti la corte offre la messa in scena di se stessa, si autorappresenta, portando alle estreme conseguenze quella teatralizzazione della società aristocratica che impone sempre al cortigiano un estremo autocontrollo e una severa disciplina, quella «grazia» e «sprezzatura», per dirla con Castiglione, in grado di assicurare sempre il giusto decoro a chi abita le sale dei palazzi signorili.

 

3-La Calandria del Bibbiena

 

Metaforizzando la corte come luogo teatrale, e identificando in Castiglione il suo cantore, diventa difficile a questo punto non immaginare che, tra i personaggi del Cortegiano, sia proprio Dovizi il più versato nelle discipline da palcoscenico: non è un caso che di lui ci resti la Calandria, una tra le commedie più note e meglio riuscite di tutto il Cinquecento. La storia, piuttosto intricata, come si conviene a una commedia di equivoci, narra di un fratello e di una sorella costretti a separarsi forzatamente; entrambi vanno a vivere a Roma, pensando che l'altro sia ormai morto. Santilla vestirà così i panni del fratello Livio, mentre quest'ultimo metterà i panni della sorella per poter avere accesso all'intimità con Fulvia, moglie dello stupido Calandro. Dopo varie peripezie, i fratelli si ritrovano, gli equivoci si sciolgono e la commedia può avere il suo esito felice. La Calandria venne rappresentata per la prima volta a Urbino, davanti a quella Elisabetta Gonzaga che tanta parte ha nel Cortegiano di Castiglione, il quale, dal canto suo, fornì alla commedia dell'amico un prologo di straordinaria ampiezza: si tratta infatti di una specie di novella, in cui il Prologo personificato immagina di rendersi invisibile per entrare nelle case del popolo di Firenze, in procinto di recarsi proprio alla serata di festa nella quale sarà rappresentata la Calandria: è tutto un gioco di sotterfugi tra mogli fedifraghe e mariti cornuti, o mariti furbi e mogli ingannate; c'è sempre un coniuge, insomma, che vuole sbarazzarsi dell'altro per avere campo libero alla festa. Come si vede una situazione tipicamente comica, da novella di beffa; del resto alla beffa rimanda il nome di uno dei personaggi della commedia stessa, quello sciocco Calandro che subito richiama alla memoria il Calandrino di Boccaccio, ovvero il prototipo di tutti i personaggi sciocchi.

 

4-Il lascito di Boccaccio

 

Proprio il rimando al Decameron serve a ricordarci quanto commedia e novella si siano vicendevolmente influenzate nel corso del Rinascimento: il teatro prendeva a prestito spunti e situazioni comiche dalle novelle e la novella orchestrava teatralmente vicende e personaggi spesso irresistibilmente comici. Del resto, lo stesso Decameron, ovvero la più importante raccolta novellistica della nostra tradizione, non presenta forse una situazione compiutamente teatrale? Un gruppo di dieci giovani si ritrovano per raccontarsi storie; di volta in volta ciascun giovane racconta per lo scelto pubblico che ha di fronte, cioè gli altri nove astanti: diviene insomma una sorta di narratore-attore (certi critici moderni in vena di giochi linguistici hanno coniato il termine "narrattore"...), chiamato a una performance di straordinaria abilità espressiva. Inoltre, il Decameron, con la sua stupefacente varietà di trame, sembra quasi esaurire l'intera enciclopedia del narrabile: le novelle hanno un registro allegro, scanzonato, ma anche tragico o persino orroroso; insomma, Boccaccio concepisce la sua opera come uno specchio della realtà; circa due secoli dopo, il Lasca (commediografo, ma anche noto novellatore) apriva la sua commedia Arzigogolo ricordando che «la commedia, per non essere ella altro ch'uno specchio di costumi della vita privata e civile sotto un'immagine di verità, non tratta d'altro che di cose che tutto il giorno accaggiono al viver nostro»; infine, proprio le novelle comiche del Decameron forniranno inesauribile materia alla commedia cinquecentesca, se solo si pone mente alle parole dette dal prologo nella Clizia machiavelliana: «Ma volendo dilettare, è necessario muovere li spettatori al riso, il che non si può fare mantenendo il parlare grave e severo; poiché le parole che fanno ridere sono o sciocche o iniuriose o amorose». Parole che potrebbero benissimo essere usate anche per le situazioni tipiche della novellistica. Commedia e narrativa in prosa sono, nel nostro Rinascimento, vasi comunicanti pronti a passarsi personaggi, vicende, atmosfere, situazioni comiche e intrecci all'apparenza inestricabili.

 

5-Il capolavoro del teatro rinascimentale

 

D'altro canto, il titolo della più famosa commedia del Cinquecento, la Mandragola di Niccolò Machiavelli, non rimanda forse alla novella del Decameron di cui è protagonista Calandrino, tanto sciocco da credere che esista una pianta di «mandragora» capace di rendere invisibili? Ecco un'altra situazione tipica di beffa. Il giovane Callimaco si innamora di Lucrezia, moglie dello stupido mercante fiorentino Nicia, alla spasmodica ricerca di un figlio; ma Lucrezia ancora non lo ha soddisfatto sottraendosi spesso agli amplessi per dedicarsi agli esercizi spirituali; scopo principale di Callimaco diventa allora di giacere con lei, facendole scoprire il vero amore: si fa aiutare in questo dal fedele servitore Ligurio, furbo patentato, da un frate poco incline alla fede, fra' Timoteo, e dalla navigata Sostrata, madre di Lucrezia, la quale concepisce per la figlia quegli agi e quei piaceri che solo un legame vissuto all'insegna della passione sincera può offrire. Ligurio ordisce una beffa straordinaria: fa credere a Nicia che esista una pianta, la «mandragola» appunto, in grado di rendere feconda la donna. Con una controindicazione, però: colui che per primo giace con la donna risanata, trova una morte subitanea; Nicia vorrebbe a questo punto rinunciare, ma Ligurio spinge ancora oltre l'atroce scherzo: perché non rapire un vagabondo qualunque e metterlo nel letto di Lucrezia, facendogli credere che sia Nicia? Se poi muore, chi se ne importa, è solo un vagabondo... Ma a vestire i panni del malcapitato sarà proprio Callimaco, che finge di passare casualmente per una strada dove Ligurio, Nicia e fra' Timoteo stanno appostati: mentre Ligurio e fra' Timoteo assecondano la beffa, Nicia crede veramente che Callimaco sia un perdigiorno da usare come cavia. I tre bloccano il finto vagabondo, lo incappucciano e lo trascinano nella stanza di Lucrezia debitamente oscurata. Al termine della notte, Callimaco si rivela a lei: non solo egli è più vivo che mai, ma si è dimostrato talmente appassionato da indurre la giovane donna a farne il proprio amante anche per il futuro.

 

6-Un teatro per il pubblico

 

La Mandragola fu scritta attorno al 1518; ebbe subito uno straordinario successo: nel 1520 fu rappresentata a Roma davanti al papa; il 17 agosto 1525 Machiavelli scrive al presidente della Romagna Francesco Guicciardini «Mi piace che messer Nicia vi piaccia; et, se la farete recitare in questo carnovale, noi verreno ad aiutarvi». Ormai la commedia era diventata per tutti, e per lo stesso Machiavelli, «messer Nicia», tanto lo sciocco personaggio riusciva comico e indimenticabile nella sua ingenua arroganza; in effetti la commedia venne recitata anche nel carnevale del 1525, come si premura di scrivere Guicciardini a Machiavelli il 26 dicembre 1525: «io intendo che chi ha a recitarla è a ordine; pure gli vedrò fra pochi dì, et perché non si accordano allo argumento, quale non intenderebbono, ne hanno fatto un altro».
Gli attori insomma, si evince da questa lettera, sono tutt'altro che passivi; quando non capiscono qualche battuta, o avvertono che non può stare nella bocca di un certo personaggio, la cambiano o la fanno cambiare; non si tratta di ammutinamento, ma della reale necessità di rendere immediatamente comprensibile al pur scelto pubblico le situazioni e le parole della commedia; lo sapeva bene Ludovico Ariosto, cui viene ascritto il merito di avere reinventato la commedia in età moderna, con la sua Cassaria del 1508. Il buon Ludovico, cortigiano stipendiato, non solo scriveva i suoi testi teatrali, ma si occupava anche del loro allestimento, come farebbe un regista dei nostri giorni; e non sono pochi i passi delle sue commedie dove le battute riescono pienamente comprensibili solo se le si immagina agite con la necessaria concitazione.

 

7-Cortigiani alla prova della politica

 

In pochi anni, dunque, il teatro acquista un'importanza straordinaria nella vita sociale italiana; non esiste corte di un qualche rilievo che non promuova l'allestimento di commedie; così, ogni centro si distingue per la peculiarità della propria produzione teatrale: vero è che le città dove le tradizioni libertarie sono meno radicate e più solidi appaiono i regimi signorili, non presentano una produzione ricca e trasgressiva, affidandosi ad autori anche di riguardo, ma necessitati a rispondere alle esigenze della corte: è il caso appunto di Ariosto a Ferrara; e, sempre a Ferrara, assolverà a compiti di teatro cortigiano Torquato Tasso con la favola pastorale Aminta, scritta per essere rappresentata in occasione dei riposi signorili presso l'isoletta di Belvedere. Viceversa a Firenze, l'estrosa comicità della Mandragola è solo l'emergenza più chiara di un vastissimo arcipelago di commedie quasi tutte incentrate su situazioni abnormi di beffa o di trasgressiva canzonatura dell'ordine sociale, uscite dalla penna smaliziata di autori spesso importanti. Basti citare i nomi di Lorenzino de' Medici, autore dell'Aridosia, di Agnolo Firenzuola, anche novellatore, autore della Trinuzia e dei Lucidi, del prolifico Giovan Maria Cecchi e di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca (1503-1584), rimatore burlesco, autore di novelle e appunto commediografo, che nelle sue sette commedie non rifuggì dall'imitazione di Machiavelli e di Ariosto con la rappresentazione di un mondo minuto di cittadini aggressivi e punte di idiosincrasia antifratesca.

 

8-Il Lasca

 

Grazzini si chiamò Lasca (un tipo di pesce) in quanto appartenente all'Accademia degli Umidi, i cui soci dovevano denominarsi con appellativi che avessero qualche attinenza con l'acqua o l'umidità. L'assunzione dello pseudonimo risponde bene alle caratteristiche di una scrittura vivace e anticlassicistica, professata anche nel prologo di una delle sue commedie più famose, La strega, mai rappresentata e pubblicata solo nel 1582 (doveva però risalire alla metà del secolo). Qui Grazzini immagina un dialogo tra Prologo e Argomento, in cui il primo difende le ragioni della dignità e del decoro della commedia, sulla scia di quanto venivano dicendo certi teorici rinascimentali, mentre il secondo, portatore delle idee del Lasca, afferma che le commedie sono scritte solo per procurare diletto e non bisogna curarsi di altre ragioni magari più nobili ma del tutto estranee allo spirito comico del genere in questione. In realtà le commedie grazziniane non sono così innovatrici sul piano dei contenuti come lo stesso autore si premurava di far sapere; si tratta per lo più di rimasticature di motivi boccacciani e machiavelliani, dove tuttavia viene esibito un sarcasmo e un cinismo tipicamente fiorentino, quale si può riscontrare anche nelle Cene, una delle raccolte novellistiche più note del Cinquecento. Anche in questo caso il modello seguito da Grazzini è quello del Decameron: nella cornice sono rappresentati cinque uomini e cinque donne che si ritrovano insieme in una casa di Firenze durante una sera di Carnevale; ma, poiché piove, la padrona di casa li invita a restare: passeranno il tempo raccontando ciascuno a turno una novella e così faranno anche le due sere successive. In tutto le novelle avrebbero dovuto essere trenta: a noi ne sono giunte solo ventidue e l'inizio della ventitreesima. Non sappiamo tuttavia se le novelle mancanti siano andate disperse o se non furono mai composte dal Grazzini a causa della morte sopravvenuta nel 1584.

 

9-Un novelliere di beffe

 

La maggior parte delle novelle grazziniane si regge su situazioni di beffa; tra le più famose merita un cenno, per il divertito sarcasmo che la pervade, la novella di Falananna, uno sciocco fiorentino che un giorno di quaresima ode dire in chiesa da un predicatore che la morte è l'inizio della vera vita. Per questo motivo lo stolto popolano si mette in testa di morire: la moglie, il suo amante Berna e la suocera decidono di prendersi gioco di lui, facendogli credere che il momento del trapasso è già avvenuto e organizzano a suo danno una cerimonia funebre con tanto di trasporto al sepolcro. Ma mentre, steso sul catafalco, Falananna viene condotto al luogo della propria sepoltura da un manipolo di uomini della compagnia dei tessitori a cui lui stesso appartiene, un creditore lo apostrofa da lontano con parole di ingiuria: Falananna allora, come un redivivo, si leva a sedere per rispondere all'interlocutore: «ahi, sciagurato, queste parole si dicono ai morti?». Tutti fuggono spaventati, il catafalco si capovolge e Falananna cade a terra: alcuni della compagnia, vedendolo vivo e conoscendolo per uno sciocco, si danno a malmenarlo. Falananna fugge («Oh, traditori, voi m'avete risuscitato!»), inseguito da alcuni monelli che gli gettano manciate di fango; improvvisamente, per via del terreno scivoloso, il povero sciocco cade in Arno e, investito da certi fuochi artificiali che un inventore fiammingo si vanta di poter realizzare persino in acqua, muore sul serio: «ma ardendolo il fuoco, e consumandolo a poco a poco, gli tolse la vita». La vicenda si conclude con le nozze finalmente celebrate tra la sua ormai ex-moglie e l'amante Berna. La novella, cui fa da epigrafe il motto fiorentino «cascò in Arno e arse», esemplifica in maniera direi inequivocabile il cinismo sornione del Lasca, ambasciatore di uno spiritaccio toscano scettico e sferzante.

 

10-Rozzi e Intronati

 

Questo animo libero e beffardo si riscontra anche, per tornare al teatro (saltabeccare tra teatro e novella diventa quasi inevitabile, dal momento che entrambi i generi si avvalgono del medesimo linguaggio comico e che l'uno e l'altra si influenzano a vicenda), si riscontra, dicevamo, anche nelle commedie realizzate dall'Accademia degli Intronati e dalla Congrega dei Rozzi, due compagnie professionistiche senesi i cui rappresentanti ebbero fama anche fuori dalla propria città, a Roma o Napoli, per esempio. I Rozzi, nati nel 1531, erano una compagnia di artigiani specializzata nella produzione di farse rusticali, probabilmente originate dai cosiddetti "maggi" contadineschi, ovvero forme di spettacolo con canti e danze, celebrative dell'avvento della primavera. Gli Intronati, invece, pur accomunati ai Rozzi nella cura, già appunto professionale, dedicata agli aspetti spettacolari della messinscena, se ne discostavano per una maggiore attenzione alla trame delle commedie e all'approfondimento psicologico dei personaggi. Una delle commedie più note degli Intronati, rigorosamente anonima, si intitola Gl'Ingannati: venne rappresentata a Siena nel carnevale del 1531. Vi si narra di Lelia che, per restare vicina all'amato Fabrizio, fugge dal convento ove è stata posta dal padre. Fabrizio, a causa della lontananza di lei, si è nel frattempo invaghito di Isabella: già così la trama avrebbe tutte le premesse per uno sviluppo intricato, che tuttavia si complica ancor più quando Lelia, per distogliere Isabella dall'amore per Fabrizio, si mette al suo servizio sotto abiti maschili con il nome di Fabio. Isabella naturalmente si innamora di Fabio, mentre Fabrizio, tutto preso dall'amore per Isabella, fa di Fabio il proprio confidente. La commedia procede attraverso colpi di scena successivi, fino all'inevitabile lieto fine, con il matrimonio tra Fabrizio e Lelia e quello tra Isabella e Fabio, ovvero il fratello di Lelia creduto morto e poi ricomparso inaspettatamente.

 

11-Fortune europee

 

Di là dall'intreccio condotto con mano sicura, quello che importa notare è la fortuna europea della commedia. Pochi anni dopo la sua prima rappresentazione, ne venne allestita una versione francese ad opera di Charles Estienne (1543) intitolata Les Abusez e una spagnola (Los Engañados, 1567) ad opera di Lope de Rueda. Ma, ancora per documentare gli scambi tra commedia e novella, il testo degli Intronati fornì lo spunto a una novella di Matteo Bandello (II, 36), che a sua volta divenne materia per una delle più famose commedie di Shakespeare, La dodicesima notte (scritta probabilmente nel 1601), in cui Viola, innamorata del duca Orsino, si traveste da giovane per servire in casa della contessa Olivia, di cui Orsino è innamorato. Olivia si innamora a sua volta di Cesario, cioè Viola travestita, e può rinunciare alle nozze con lei solo per acconsentire a quelle con Sebastian, il fratello gemello di Viola rispuntato casualmente dopo che un violento naufragio pareva averlo annientato.
Non esistono prove che Shakespeare si sia rifatto all'originale italiano o a riscritture inglesi successive: quello che è certo è che la notte dell'epifania (ovvero la dodicesima notte dopo il Natale) viene espressamente citata nel prologo degli Ingannati, dove si dichiara che la commedia era stata messa in scena proprio in quell'occasione per risarcire le donne degli Accademici, urtate da un goliardico falò nel quale gli uomini avevano bruciato o finto di bruciare i pegni d'amore da loro ricevuti.

 

12-Scene romane

 

Siena è forse la città dove si sviluppa con maggior rigore e coerenza un repertorio teatrale. Altri centri, anche importanti, conoscono piuttosto il successo di alcuni autori o alcuni titoli. A Roma, per esempio, fiorisce l'esperienza di quel Bibbiena ricordato in apertura, che, in quanto cardinale, lì visse gran parte della propria vita. La sua Calandria, dopo la prima rappresentazione a Urbino, venne recitata davanti al papa, e poi ancora a Mantova, Venezia, Lione, Parigi. Sempre a Roma visse e operò per un certo periodo della propria vita anche Pietro Aretino, una delle più singolari figure di letterato rinascimentale, anticlassicista integrale e pungente. Dopo aver goduto della protezione di Leone X e di Clemente VII, papi medicei, l'Aretino brigò tanto all''interno della corte da attirarsi inimicizie solenni, che gli procurarono diversi guai, tra cui un tentativo di omicidio. Egli allora pensò bene di lasciare la città papale e di rifugiarsi a Venezia, dove, grazie alle proprie doti di abile pubblicista e alla fitta rete di relazioni che seppe gestire, divenne una personalità talmente potente da poter corrispondere con i maggiori sovrani d'Europa. Prima di lasciare Roma, nel 1525, l'Aretino scrisse la sua commedia migliore, intitolata La cortigiana, dove l'azione principale, di cui è protagonista messer Parabolano, si intreccia con quella di messer Maco, desideroso di inserirsi a corte e in ciò ammaestrato dal pittore Andrea. La sottotrama offre motivo all'Aretino per una pittura disincantata dei vizi, delle ipocrisie e delle invidie che albergano in corte, di cui il «segretario del mondo», come amava definirsi, fu uno dei più tenaci avversari (lo si evince anche da un dialogo del 1538, il Ragionamento delle corti).
L'Aretino scrisse complessivamente cinque commedie, molte delle quali di derivazione novellistica, e una tragedia intitolata Orazia. Di ambiente romano è anche l'unica commedia di Annibal Caro, Gli straccioni, dove la storia d'amore tra Tindaro e Giulietta passa in secondo piano rispetto alla pittura d'ambiente che ritrae il sottobosco di ladri, truffaldini e prostitute presenti nella piazza di Campo de' Fiori.

 

13-Ma come parla questo pedante?

 

Torniamo per un attimo all'Aretino: una delle sue commedie, intitolata Il filosofo, ha per protagonista un tal Plataristotele, che parla uno strano linguaggio misto di italiano e latino. Egli rappresenta la figura del cosiddetto pedante, uno dei "tipi" più in voga nel teatro rinascimentale: con essa gli autori prendevano in giro la mania, che avevano gli umanisti più rigidi o certi maestri di scuola non propriamente flessibili, di usare vocaboli latini fin troppo ricercati, al punto da rendersi incomprensibili, o, peggio, ridicoli. Al "pedante" è consacrata anche la commedia omonima (1529) di un altro autore presente a Roma, Francesco Belo, che fa parlare il protagonista Prudenzio con un linguaggio irto di arcaismi, preziosismi, parole rare e suffissi latini: «Certamente pare, al giudizio dei periti, che totiens quotiens un uomo esce delli anni adolescentuli, verbi gratia, un par nostro, non deceat sibi l'amare queste puellule tenere...».
Accanto al pedante, il teatro rinascimentale si serve di altri "tipi", personaggi caratteristici desunti dalla commedia classica: il giovane innamorato, il vecchio avaro o sciocco, il soldato vantone e, soprattutto, una schiera di servi furbi e petulanti che sono, quasi sempre, il vero motore dell'azione scenica, complicando o districando i casi della commedia con i loro astuti maneggi.

 

14-Il Candelaio di Giordano Bruno

 

Su tre "tipi", tre caratteri ben definiti e persino caricaturali, bersaglio della satira pungente dell'autore, si regge un'altra famosa commedia del Cinquecento, il Candelaio di Giordano Bruno, scritto nel 1582. Qui Bonifacio, Bartolomeo e Manfurio, ovvero un innamorato, un alchimista e un pedante, intrecciano i loro casi in una ridda quasi pletorica di vicende, che gonfia a dismisura la trama, peraltro preceduta da un sonetto, da un «argomento», da un «antiprologo», da un «proprologo», e dal monologo di un «bidello». Insomma, prima che cominci l'azione vera e propria, lo spettatore deve attendere un bel po'... (va ricordato che del Candelaio esiste una memorabile edizione moderna curata da Luca Ronconi). Ma è proprio questa sovrabbondanza di "paratesto" che interessa a Bruno: segnalando con un eccesso di parola la degenerazione della parola stessa, il filosofo nolano, peraltro fautore di uno stile bizzarro che preannuncia il barocco, critica un linguaggio ormai destituito di senso, proprio quello che nella commedia utilizzano l'innamorato che parla con un vocabolario petrarchesco, l'alchimista fumoso e oscuro e il pedante incomprensibile a tutti meno che a se stesso. Il Candelaio, testo smisurato e complesso, rispecchia le tendenze dell'ultima fase della commedia cinquecentesca, ormai proiettata, con le sue trame via via più romanzesche, il cristallizzarsi dei "tipi", il gioco dei linguaggi e dei dialetti, verso una dimensione professionistica e "commerciale", che sarà all'origine della cosiddetta "commedia dell'arte", ovvero di quella pratica teatrale in cui gli attori improvvisano sulla base di un canovaccio del tutto inverosimile, specializzandosi nella rappresentazione di un "tipo" comico (il servo furbo, il dottore, il capitano spaccone ecc.).

 

15-Ruzante

 

Tra gli autori che seguirono questa tendenza si possono ricordare Sforza Oddi e Giambattista Della Porta, meglio noto come mago e filosofo naturale.
Le loro commedie presentano un'ampia galleria di personaggi, spesso caratterizzati da parlate dialettali: era così aperta la strada alla cristallizzazione dei "tipi" comici, affidati ad attori valenti e abili, ognuno dei quali si specializzerà, di lì a poco, nell'interpretazione di un personaggio-maschera. E, visto che stiamo citando la competenza degli attori, converrà fare il nome del più importante attore del teatro rinascimentale, ovvero quel Ruzante a sua volta autore di notevoli testi teatrali in dialetto padovano. Si chiamava in realtà Angelo Beolco e derivò il nome dal verbo ruzare, che in padovano significa "scherzare": così si chiamava infatti il personaggio a cui egli legò la sua fortuna scenica, uno spiantato contadino delle campagne venete petulante e sfortunato.
Ruzzante era il figlio naturale del Rettore della Facoltà di Medicina dell' Università di Padova: lungi dall'essere ripudiato, il bambino Angelo venne dal padre accolto in seno alla propria famiglia, potendo così formarsi una solida cultura. Cominciò a recitare per diletto e per dilettare a sua volta il nobile patrizio veneziano Alvise Cornaro, di cui curava i possedimenti. In poco tempo divenne tanto abile e famoso da venire richiesto richiesto persino fuori da Padova: si ha per esempio notizia certa di un suo impiego a Ferrara, presso la corte estense, per recitare in una commedia di Ariosto.
I testi di Ruzante (i più famosi si intitolano Betìa e Moscheta) raccontano di un mondo contadino vitale ed esuberante, vessato tuttavia dalla fame, dalle guerre e dalla carestia. Nel prologo della Betìa, Ruzante espone la sua poetica, secondo la quale l'arte deve ispirarsi al «naturale»: deve cioè richiamarsi alla realtà più semplice, quella appunto rappresentata dalle masse contadine, e il suo strumento più efficace non può essere la lingua letteraria, ma il dialetto (per Ruzante il padovano). I testi ruzantiani rappresentano, per la pittura cruda e realistica della vita dei campi, e per l'estroso uso del dialetto, un unicum nel panorama teatrale cinquecentesco: tali caratteristiche hanno attirato l'attenzione di molti registi anche in anni recenti.

 

16-La tragedia

 

Si è detto ripetutamente che il Cinquecento è un secolo "teatrale", soprattutto per le forti istanze di "autorappresentazione" della corte: questo risulta vero a maggior ragione se pensiamo alla tragedia, che metteva in scena esclusivamente personaggi aristocratici e veniva recitata da aristocratici per un pubblico aristocratico, appunto quello che abitava le corti. In questo senso la tragedia rinascimentale presenta oggi per noi, alla lettura, un interesse minore rispetto alla commedia: improbabili ci appaiono le vicende che racconta e un po' stucchevoli gli "eroi" che le popolano. Vanno tuttavia citati alcuni nomi, anche perché spesso si trattava di scrittori importanti, come quel Gian Giorgio Trissino, commentatore di Aristotele, per il quale la tragedia deve vivere prima di tutto nella lettura ad alta voce, fuori da ogni preoccupazione di messinscena: ovvio che la sua Sofonisba (1514-15), derivata dalle Storie di Livio e dal libro XXX dell'Africa di Petrarca, appaia quasi del tutto irrappresentabile, pur avendo goduto all'epoca di una grande fortuna per la stretta osservanza delle regole aristoteliche. A Firenze Giovanni Rucellai compose una Rosamunda (1516), Alessandro de' Pazzi una Dido in Cartagine (1524), Luigi Alamanni un'Antigone (1533) e Ludovico Martelli una Tullia (1553). A Ferrara operò invece Giovan Battista Giraldi Cinzio, di cui dovremo occuparci anche come novellatore, che scrisse nove tragedie, ispirate al gusto senecano per l'"orrido". Secondo Giraldi (la cui tragedia più famosa è l'Orbecche, 1542), la tragedia deve muovere a compassione gli spettatori, porgendo alla loro attenzione le possibili conseguenze di azioni turpi e disoneste; per questo motivo arrivò a polemizzare con Sperone Speroni, autore della Canace (1542): a suo dire questa presentava sulla scena protagonisti la cui malvagità mal si accordava con la natura "eroica" dei personaggi tragici. Anche Pietro Aretino scrisse una tragedia, Orazia (1546), forse la più interessante tra quelle che produsse il secolo, soprattutto perché l'autore dispone con grande accortezza le entrate e le uscite dei personaggi e offre molte indicazioni di carattere scenografico, segno di una grande sensibilità drammaturgica e spettacolare. Torquato Tasso, infine, fu autore di un'importante tragedia, Torrismondo, dove la materia tragica, secondo la poetica tassiana, è piegata ad un'acuta indagine interiore assecondata dalla musicalità dei versi.

 

LA NOVELLA

 

1-Il modello tradito

 

Se nel teatro i modelli antichi a cui guardare furono Plauto e Terenzio (o Seneca per la tragedia) e quelli moderni furono Ariosto e Machiavelli, nel caso della novella l'esempio da seguire (o da cui eventualmente discostarsi) fu inequivocabilmente il Decameron di Boccaccio. In verità, del grande archetipo trecentesco, si tentò di imitare la struttura "libro", ovvero la possibilità di legare le novelle in un progetto unitario garantito dalla cornice: la rappresentazione di un gruppo di persone intente a narrare o narrarsi storie anticipa le modalità di fruizione del libro. Si dispiega insomma, a ribadire una volta di più il legame tra teatro e novella, una teatralizzazione del novellare, spia di una società (si pensi a quella cortigiana) tutta impegnata ad "autorappresentarsi". E tuttavia i novellatori rinascimentali interpretano la cornice ognuno secondo modalità autonome e peculiari, fino addirittura a renderla ipertrofica: una narrazione che trascende le novelle stesse e le ingloba come parte di un continuum narrativo dove trovano posto anche dialoghi, enigmi, giochi, strofe poetiche e altro materiale eterogeneo. Così avviene in molte raccolte cinquecentesche, per esempio nei Ragionamenti di Agnolo Firenzuola, nei Trattenimenti di Scipione Bargagli, nelle Piacevoli et amorose notti dei novizi di Pietro Fortini, nelle Piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola o nei Diporti di Girolamo Parabosco; insomma, nelle maggiori raccolte del secolo. Inoltre, se in poesia è quasi impossibile prescindere dal dettato petrarchesco, molti prosatori rivendicano la loro origine non toscana e conseguentemente l'impiego di una lingua non esemplata su quella del Decameron: è il caso del veneto Straparola o di Matteo Bandello, lombardo, o ancora di Girolamo Morlini, napoletano, che scrive in un latino mescidato di volgarismi e tecnicismi e si richiama alla tradizione latina piuttosto che a quella volgare.

 

2-Morlini e Firenzuola

 

Proprio il novelliere del Morlini, pubblicato nel 1520 e intitolato Novellae et fabulae, è quello che apre il secolo. Tuttavia, anche in virtù di questa lingua piuttosto ardua, non si tratta certo di un testo che svolga un ruolo di apripista o di modello. Non a caso il novelliere morliniano, unico in latino in un panorama tutto consacrato al volgare, conobbe questa sola edizione e lo stesso Morlini fu figura isolata, tagliato fuori dai circoli umanistici e letterari (era infatti un giurista). Egli si rifà, piuttosto che a Boccaccio, ad Apuleio, o, per l'età moderna, a Poggio Bracciolini o a Masuccio Salernitano. Le sue novelle raccontano con compiaciuta insistenza faccende di carattere sessuale e descrivono spesso un'umanità degradata, dove a prendere risalto sono dettagli anatomici di mostruose proporzioni; giusto per divertirci un po' possiamo ricordare che l'organo genitale maschile è spesso accompagnato da un'aggettivazione accrescitiva: «asininus», «inmensuratum», «vastum», «nervatum», «immensum» e così via... Ma alla fine della novella c'è sempre una morale, quasi sempre rivolta contro le donne e la loro inclinazione al peccato, che riconduce il lettore al giusto senso della narrazione. Escludendo Morlini, il primo autore che nel Cinquecento si dedica alla stesura di un libro di novelle coerentemente incardinate in una cornice di ascendenza boccacciana è Agnolo Firenzuola, che, nei Ragionamenti (1548), narra di una brigata di sei giovani, uomini e donne, impegnati a narrarsi storie e ragionare di temi diversi. Qui si pone lo scarto più evidente dal modello: le giornate infatti non si sviluppano attorno a una novella, bensì a una canzone, e si aprono e si chiudono con un «ragionamento» (da cui il titolo) legato al tema in discussione. Le narrazioni firenzuoliane godettero di larga notorietà, soprattutto nell'Ottocento, per via della loro eleganza formale e di un tono medio di cui il Firenzuola appare maestro anche nella Prima veste dei discorsi degli animali, una raccolta di favole e apologhi animaleschi tratti dal Panciatantra indiano e riambientati nella campagna toscana.

 

2-La novella di Belfagor

 

In ambito toscano non si può non fare il nome di Machiavelli, che anche nel campo della novellistica ha sfornato uno dei testi più brillanti di tutto il secolo. Non si tratta di una raccolta di novelle, ma di una "spicciolata", ovvero di una novella singola, stampata poi nel corpus di opere apparse postume a Roma nel 1545.
La storia narrata da Machiavelli è divenuta proverbiale per la sua misoginia: protagonista è infatti un diavolo, Belfagor, che viene mandato sulla terra da Plutone per verificare le dicerie dei dannati, tutti rancorosi nei confronti delle mogli, cui attribuiscono la causa della loro rovina. Belfagor, catapultato a Firenze sotto le spoglie del giovane e ricco Roderigo di Castiglia, diventa immediatamente un boccone appetibile per tutte le donne nubili. Finirà tuttavia per sposare Onesta Donati, una giovane donna non particolarmente benestante e all'apparenza docile e saggia. A sua volta Belfagor si innamora di lei, ma dopo qualche tempo, avendo speso tutte le fortune elargitegli da Plutone per assecondare i capricci di Onesta e i dissennati commerci dei suoi fratelli, è costretto a fuggire sotto l'assedio dai creditori. Imbattutosi in un contadino, che lo aiuta a salvarsi nascondendolo in un mucchio di letame, Belfagor promette di aiutarlo: se Gianmatteo (questo il nome del contadino) sentirà la storia di qualche indemoniato, si presenti come guaritore; Belfagor intanto si sarà impossessato dell'anima di quella persona e, a un cenno di Gianmatteo, la lascerà libera, dando l'impressione che la guarigione sia opera del contadino. Effettivamente Gianmatteo diventa ricco e famoso, al punto che si rivolge a lui persino il re di Francia. Belfagor si insedia nel corpo della figlia del sovrano, ma, giunto il momento della finta guarigione, davanti a una folla enorme, Belfagor rifiuta di uscire dal corpo della giovane, decidendo così di interrompere l'inganno tanto fruttuoso economicamente: il contadino, allora, furbescamente, assolda un corteo che giunge da un lato della piazza facendo un grande strepito con tamburi, trombe e cornamuse. A una domanda di Belfagor sulla ragione di tanto frastuono, Gianmatteo risponde che si tratta di sua moglie Onesta venuta a riprenderlo: Belfagor, spaventato da tale possibilità, immediatamente lascia il corpo della donna per ritornare senza indugi all'inferno. Come si vede, le donne avrebbero di che lamentarsi con il salace Niccolò.

 

3- Le piacevoli notti di Straparola

 

Del più importante novellatore toscano (meglio, fiorentino), cioè il Lasca, si è già detto. Qua basta aggiungere che la sua raccolta (le Cene ), rimase inedita e venne pubblicata solo nel Settecento; altrettanto tardi, del resto (1582), e a proprie spese, il Lasca riuscì a pubblicare le commedie che aveva scritto nel corso degli anni. Il fatto è che gli spiriti polemici mal si adattavano alla riorganizzazione e all'accentramento del potere voluto da Cosimo de' Medici: la libertà fiorentina, di cui si è detto trattando della commedia, intorno alla metà del secolo era ormai definitivamente tramontata. Più o meno negli stessi anni in cui il Lasca scriveva le sue novelle, a Venezia pubblicava la propria raccolta Giovan Francesco Straparola. Di lui non si sa quasi nulla, ma il cognome potrebbe essere piuttosto un soprannome per indicare la facilità di eloquio e la piacevolezza della conversazione. Il novelliere straparoliano, intitolato Piacevoli notti e pubblicato tra il 1550 e il 1553, è forse la prima raccolta della tradizione occidentale in cui affiori tutto un patrimonio di motivi folklorici e fiabeschi, quegli stessi che saranno ripresi qualche decennio dopo da Giambattista Basile nel Pentamerone e successivamente dai grandi favolisti europei, quali Perrault e i fratelli Grimm. La novella di pre' Scarpacifico , una delle più note dell'opera di Straparola, ne costituisce un valido esempio: Scarpacifico, un prete ormai anziano, va al mercato per comprare un mulo da cavalcare; tre giovani truffaldini glielo sottraggono senza troppa fatica; arrivato a casa e ripreso dalla serva per essersi fatto buggerare, pre' Scarpacifico ottiene una serie di rivincite successive: vende ai tre giovani una capra che spaccia per fatata; fa credere loro che soffiando negli orifizi di una persona morta, questa possa resuscitare (e così, senza tanto pensarci, ognuno dei tre ammazza la propria moglie); infine, rapito dai tre per essere affogato, riesce a fuggire convincendo un giovane pastore a prendere il suo posto nel sacco dov'era stato rinchiuso, dopo essersi appropriato del suo gregge, mentre ai tre malandrini che lo trovano vivo e vegeto credendo di averlo appena affogato dichiara che, chi si getta nel fiume, risorge con un intero gregge di pecore; sicché i tre si buttano a fiume e muoiono affogati. La trama, del tutto inverosimile, svolge il motivo fiabesco del personaggio che trova vendetta di un torto subito, secondo un tipico andamento ternario; ma certo il cinismo con cui Straparola punisce l'arte truffaldina dei tre è proprio della novellistica di beffa italiana.

 

4-Matteo Bandello

 

Il più importante novellatore cinquecentesco fu senza dubbio Matteo Bandello, lombardo, frate domenicano, ma, come spesso accedeva allora, amante della bella vita e delle belle donne. La rinomanza delle novelle bandelliane fu immediata: basti pensare che già nel 1559 comparve a Parigi una traduzione parziale della raccolta, uscita a Lucca in tre parti solo cinque anni prima (un'ultima parte sarà pubblicata postuma a Lione nel 1573). Il motivo principale di tale successo sta forse nel fatto che il tema a cui Bandello pare dedicarsi più spesso è la passione, indagata in ogni sua possibile declinazione, soprattutto quella amorosa: non a caso Shakespeare, che utilizzò spesso fonti italiane per i suoi drammi, si ispirò a una novella bandelliana per la tragedia Romeo e Giulietta (la nona della seconda parte). La raccolta di Bandello, denominata semplicemente Novelle, è del tutto peculiare nel panorama della novellistica rinascimentale: non c'è cornice, ma ogni novella è preceduta da un'epistola di dedica in cui l'autore rievoca le circostanze nelle quali ha appreso a sua volta la storia che sta per presentare ai lettori. Insomma, non c'è cornice, ma è come se ogni singola novella godesse di una cornice tutta per sé, ricca di elementi e di personaggi storici. Si tratta di epistole spesso molto ampie, che anticipano il contenuto della novella o svolgono nuclei narrativi autonomi: in tal modo epistola e novella si implicano a vicenda, sono funzionali l'una all'altra e al progetto complessivo del novelliere, ovvero esaurire (secondo un progetto che era già stato di Boccaccio) l'intera gamma del narrabile. Bandello, infatti, sostiene di avere raccolto queste storie dalla viva voce dei suoi interlocutori lungo l'arco di un'intera vita; di averle persino stenografate per non dimenticarle, facendo il medesimo anche per le discussioni che da queste storie prendevano spunto. Ogni interlocutore, poi, presenta la storia come realmente accaduta a sé o a qualche conoscente: così la marca "cronachistica" e "realistica" della narrazione è salvaguardata e, se possibile, valorizzata. Naturalmente, siamo piuttosto di fronte a un'invenzione, o, al massimo, a una ricostruzione romanzata degli innumerevoli incontri con personaggi più o meno illustri descritti dall'autore lombardo, dal momento che Bandello, lettore instancabile (di sé dice che grazie allo stampatore Aldo Manuzio riusciva ad avere subito «ogni libro che si stampasse ne la Magna, in Francia o in Italia»), trae piuttosto le sue storie da fonti svariatissime, latine e volgari.

 

5-Novellieri controriformistici

 

Il novelliere di Bandello metaforizza, una volta di più, la necessità della società rinascimentale di raccontare e raccontarsi, di autorappresentarsi nell'atto della parola, in un inesausto circuito di storie che passano di bocca in bocca, dentro una tensione "dialogica" che la letteratura italiana non conoscerà probabilmente più.
Di lì a poco, peraltro, i "libri di novelle" sconteranno il clima oscuro e punitivo della Controriforma: e raccoglieranno così per lo più storie tragiche o di edificazione morale.
Lo si può vedere per esempio nelle Sei giornate di Sebastiano Erizzo (1567), dove mancano del tutto le novelle di beffa o figure di religiosi contro cui accanirsi, e si privilegia il monologo oratorio al dialogo più vivace e mosso; o negli Ecatommiti di Giovan Battista Giraldi Cinzio (1565), dove già l'evento che pone in fuga i giovani narratori e che domina la cornice, ovvero il sacco di Roma, appare abnorme e drammaticamente luttuoso. Ma se in questo il novelliere giraldiano si richiama al Decameron, il distacco risulta netto nell'adozione di un registro quasi essenzialmente tragico o addirittura orrido, nel quale si inscrive la giusta punizione di un errore commesso. Questo accade per esempio nella più famosa delle novelle giraldiane, la storia del Moro di Venezia, quell'Otello di cui poi riprenderà le vicende Shakespeare in una delle sue più famose tragedie: è proprio per essersi reso responsabile dell'assassinio della moglie Desdemona, dovuto alle false accuse dell'invidioso luogotenente Iago, che Otello verrà punito trovando una morte compensatoria a tanto strazio.

 

6-Fortune europee

 

L'attenzione che Shakespeare rivolgeva agli intrecci narrativi provenienti dall'Italia, la dice lunga sulla grande influenza che, in età rinascimentale, la nostra letteratura ha avuto su quelle del resto d'Europa. Si tratta di una constatazione divenuta quasi un luogo comune, eppure non così scontata, soprattutto se si riflette sull'intrinseca debolezza in cui versavano i vari principati della penisola durante tutto il Cinquecento. Del resto l'Italia veniva vista dagli osservatori europei come un paese senza un'identità politica, alla mercé delle potenze straniere e dei loro eserciti, ma in grado di esprimere una cultura autonoma avanzatissima, prodotto di quella civiltà delle corti che proprio in Italia trova la sua espressione più raffinata e alta. Della diffusione delle opere novellistiche e teatrali italiane fuori d'Italia qualcosa abbiamo già detto, ma la dimensione del fenomeno la possiamo verificare in concreto sul novelliere bandelliano, il testo a cui in epoca rinascimentale arride la fortuna maggiore, specialmente in Francia (non va dimenticato che Bandello, nominato vescovo di Agen, visse lì l'ultima parte della sua vita): la prima traduzione d'oltralpe, ad opera di Belleforest e Boaistuau, esce a Parigi nel 1559, con il titolo di Histoires tragiques. La medesima edizione verrà ripubblicata nel 1564, nel 1571 e nel 1580. Si badi che stiamo parlando solo della prima parte del novelliere: le altre saranno pubblicate a più riprese tra Parigi e Lione in quel medesimo giro d'anni, venendo a sancire una diffusione europea senza precedenti per un'opera contemporanea, dal momento che è proprio sull'edizione di Belleforest e Boaistuau che si basa la traduzione inglese di Geoffrey Fenton, intitolata Certaine tragicall discourses e apparsa nel 1567, edizione consultatissima da Shakespeare. Sempre grazie alla mediazione francese, il novelliere bandelliano giunge in Spagna, dove viene pubblicato nel 1589 con il titolo, ormai acquisito, di Historias tràgicas ejemplares. Ancora in Spagna, un anno dopo, viene pubblicata una parte degli Ecatommiti di Giraldi Cinzio, l'altro testo novellistico a godere di eccezionale fortuna in periodo controriformistico, tanto che la novella sul "Moro di Venezia", come detto, diventa la base per una delle più fortunate tragedie shakespeariane.

 

7-Shakespeare e le sue fonti

 

Proprio Shakespeare documenta la vitalità del teatro italiano fuori d'Italia. Tra fine Cinquecento e inizio Seicento molte compagnie universitarie inglesi mettevano in scena testi tradotti dall'italiano o dal latino: a essi si rifaceva Shakespeare, che era prima di tutto attore e poteva verificare direttamente sulla scena l'efficacia di certe soluzioni o di certe trovate drammaturgiche mutuate appunto da testi o canovacci altrui.
Negli anni in cui Shakespeare scrive, il teatro, specie quello italiano, sta subendo una metamorfosi epocale, indirizzandosi al professionismo e quindi alle soluzioni della cosiddetta "commedia dell'arte": una pratica teatrale in cui l'estro e la capacità improvvisativa dell'attore contavano assai più del testo, ormai ridotto a puro canovaccio, palinsesto o traccia su cui innestare le invenzioni, i virtuosismi fisici e vocali dei commedianti. Secondo alcuni studiosi, certi testi shakespeariani mostrerebbero proprio l'influenza di tale pratica, attraverso l'adozione di personaggi tipici da Commedia dell'Arte: gli "Zanni" o i "Pantaloni" presenti in Pene d'amor perdute , nella Dodicesima notte , nei Due gentiluomini di Verona sarebbero un segno inequivocabile di tale influsso. Inoltre quest'ultima commedia conterrebbe analogie piuttosto strette con I Suppositi di Ariosto e alcune delle commedie cosiddette "romanzesche" per via dell'intreccio complicato e artificioso (segnatamente Racconto d'inverno e La tempesta ) sarebbero ispirate ad alcuni scenari arcadici della commedia dell'arte italiana. Questo a dimostrazione, se ve ne fosse bisogno, che la grande letteratura non nasce dal nulla, ma dall'incrocio di tante voci che trovano la loro sublimazione in una voce più solida e potente delle altre, in grado di amalgamarle fino ad una riuscita del tutto nuova e sorprendente.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Teatro
Per i testi si può far ricorso ad alcune ampie antologie. Per la commedia: Commedie del Cinquecento, a cura di A. Borlenghi, Milano, Rizzoli, 1959, 2 voll.; Commedie del Cinquecento, a cura di N. Borsellino, Milano, Feltrinelli, 1962-1967, 2 voll.; Commedie del Cinquecento , a cura di M. L. Doglio, Roma-Bari, Laterza, 1975 (reprint dell'omonima antologia curata da I. Sanesi nel 1912 per la collezione Scrittori d'Italia); Il teatro italiano.II. La commedia del Cinquecento, a cura di G. Davico Bonino, Torino, Einaudi, 1977, 3 tomi. Per i testi di Ariosto e Machiavelli si rimanda ai capitoli in questione. Per la tragedia: F. Doglio, Teatro tragico italiano. Storia e testi del teatro tragico in Italia, Parma, Guanda, 1960; La tragedia classica dalle origini al Maffei, a cura di G. M. Gasparini, Torino, Utet, 1976; Il teatro italiano. II. La tragedia del Cinquecento, a cura di M. Ariani, Torino, Einaudi, 1977, 2 voll.; Teatro del Cinquecento. II. La tragedia, a cura di R. Cremante, Milano-Napoli, Ricciardi, 1988.
La bibliografia critica è naturalmente vastissima. Vanno citati alcuni saggi o miscellanee che restano punti di riferimento imprescindibili: A. D'Ancona, Origini del teatro italiano, Torino, Loescher, 1891, 2 voll.; I. Sanesi, La commedia, Milano, Vallardi, 1911, 2 voll.; M. Apollonio, Storia del teatro italiano, Firenze, Sansoni, 1940, 2 voll.. Più recenti: M. Baratto, La commedia del Cinquecento, Venezia, Neri Pozza, 1977; Il teatro italiano nel Rinascimento, a cura di M. De Panizza Lorch, Milano, Edizioni di Comunità, 1980; L. Zorzi-G. Innamorati-S. Ferrone, Il teatro del Cinquecento: i luoghi, i testi, gli attori, Firenze, Sansoni, 1982; Il teatro italiano del Rinascimento, a cura di F. Cruciani e D. Serragnoli, Bologna, Il Mulino, 1987; G. Attolini, Teatro e spettacolo nel Rinascimento, Roma-Bari?, Laterza, 1988; M. Pieri, La nascita del teatro moderno in Italia tra XV e XVI secolo, Torino, Bollati Boringhieri, 1989;

Per la novella il panorama è più o meno lo stesso. Tra le antologie vanno segnalate: Novelle del Cinquecento, a cura di G. Salinari, Torino, Utet, 1955; Novelle del Cinquecento, a cura di B. Maier, Milano, Rizzoli, 1962; Novellieri del Cinquecento, a cura di M. Guglielminetti, Milano-Napoli, Ricciardi, 1972; Novelle del Cinquecento, a cura di M. Ciccuto, Milano, Garzanti, 1982. La collana I Novellieri italiani della Salerno Editrice sta pubblicando in edizione critica molte raccolte di novelle rinascimentali. I novellieri sinora apparsi sono quelli di Fortini, Firenzuola, Lasca, Straparola, Doni, Costo, Bargagli, Erizzo, Parabosco, Morlini. Insostituibile è ancora L. Di Francia, Novellistica, Milano, Vallardi, 1924-25, 2 voll.; si veda ancora L. Russo, Novellistica e dialoghistica nella Firenze del Cinquecento, in "Belfagor", a. XVI 1961, pp. 261-73 e 535-54; E. Bonora, La novella in Storia della letteratura italiana, Milano, Garzanti, vol. IV 1966, pp. 302-33; B. Porcelli, La novella e la narrativa, in Letteratura italiana Laterza, vol. IV to. II (Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla Controriforma), Roma-Bari?, 1973, pp. 119-223; utilissime, naturalmente, le introduzioni alle antologie sopra citate, e gli atti di due convegni, apparsi per i tipi della Salerno editrice: Passare il tempo. Le letteratura del gioco e dell'intrattenimento dal XII al XVI secolo, Roma, 1993, 2 voll. e Favole, parabole, istorie, Roma, 2000.