Capita ogni tanto che qualche solerte e preparato biografo ci racconti una serie di aneddoti su un importante uomo politico del passato, rammentandoci non infrequentemente che il personaggio in questione era un avido lettore del Principe di Machiavelli. Questo vale sia per coloro che noi giudichiamo statisti illuminati, sia per coloro che la storia ha bollato come tiranni. Insomma, il Principe pare tornare buono tanto a quelli che hanno usato il potere in modi giudiziosamente equilibrati, quanto a quelli che ne hanno fatto uno strumento di coercizione e minaccia, senza rifuggire dalle azioni più crudeli. Come mai? Forse perché, al pari delle opere di tutti i grandi pensatori, il testo dello scrittore fiorentino appare a tal punto complesso e profondo da poter essere interpretato secondo motivazioni del tutto differenti, se non opposte?
O, al contrario, è così semplice da poter essere compendiato nella nota formula "il fine giustifica i mezzi", lasciando poi all'indole e all'abito morale del singolo decidere quali mezzi impiegare? Come si vedrà, quest'ultima interpretazione è una forzatura derivata da secoli di equivoci e fraintendimenti sull'opera di Machiavelli, sorta quasi subito dopo la sua morte. Ma c'è anche chi ritiene che Machiavelli non sia stato affatto un grande pensatore e che i suoi scritti valgano più come opera di letteratura che di riflessione organica sullo stato. Noi, più semplicemente, ci azzarderemo a dire che Machiavelli ha vissuto, da subalterno in quanto a funzioni ma da protagonista in quanto ad acume e intelligenza, tutti gli eventi politici principali del suo tempo, distillandone una visione pragmatica e per nulla idealizzante. Essendo poi un grande scrittore (è la ragione per cui si studia più in letteratura che in filosofia), ha provato a compendiare le sue riflessioni in opere che si impongono per la bruciante sintesi dello stile, per la chiarezza tersa e acuminata dei passaggi logici. Perché, non dimentichiamolo, la politica è più questione di fatti che di teoremi, di azioni che di pensieri, di pratica che di precetti morali. Ed è stato merito di Machiavelli averlo rammentato per primo agli uomini del suo tempo. E dei tempi successivi.
Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 da Bernardo di Niccolò di Buoninsegna e da Bartolomea de' Nelli. È il primo figlio maschio: si aggiunge alle due sorelle Primavera e Margherita; dopo di lui, nel 1575, nascerà il fratello Totto. Il padre era dottore in legge: uomo di non scarsa cultura, figura come uno degli interlocutori di un dialogo sulla giustizia di Bartolomeo Scala, umanista e segretario della repubblica, la stessa carica che ricoprirà qualche anno più tardi il nostro Niccolò; anche la madre si dilettava di lettere: di lei non sappiamo praticamente nulla, tranne che compose qualche poesia di argomento religioso andata perduta. Nella casa di famiglia Niccolò poté dedicarsi alle prime letture, affrontando quei volumi che Bernardo aveva messo insieme con i pochi risparmi consentitigli dalle proprie rendite; anche se i Machiavelli erano una delle dinastie più antiche della città e avevano in epoche passate ricoperto incarichi politici di un certo rilievo, la famiglia di Bernardo apparteneva a un ramo cadetto, dunque non particolarmente ricco e soprattutto escluso dagli uffici pubblici, ciò che non consentiva di esibire il prestigio (e insieme il denaro) delle famiglie maggiori. Comunque sia, Niccolò poté probabilmente leggere in gioventù, attingendoli dalla bibliotechina paterna, testi di Cicerone, Lucrezio e Tito Livio, il grande storico latino che poi gli fornirà materia per una delle sue opere maggiori, i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio; tra gli autori volgari, prediletti da Machiavelli che non era abilissimo nella lingua latina, figurano naturalmente Petrarca, Boccaccio e Dante, variamente imitati nei suoi componimenti letterari. Con il padre, Niccolò ebbe un buonissimo rapporto, anche grazie agli interessi che Bernardo seppe trasmettergli: in un sonetto a lui dedicato, Machiavelli scherza su un'oca comprata dal padre per arricchire il non pingue desco famigliare: tutti sono talmente affamati che per Bernardo non resterà nulla, se non l'onere dell'acquisto. Un altro aneddoto narra di un frate che, quando Bernardo era già morto, rivela a Niccolò il segreto di alcuni cadaveri sepolti nascostamente nella cappella di famiglia: Niccolò risponde allora di non curarsene, perché il padre aveva sempre amato la conversazione. Bernardo morì nel 1500, mentre la madre era già morta quattro anni prima. Niccolò aveva quasi trent'anni, e stava già bruciando le tappe di una brillantissima carriera politica.
Nel 1498, ovvero nello stesso anno in cui Machiavelli comincia il suo tirocinio politico e pubblico, viene arso sul rogo a Firenze Girolamo Savonarola, il frate domenicano che per oltre un decennio ha avuto in mano il destino della città. Nato a Ferrara nel 1452, e ordinato frate nel 1475, Savonarola è un oratore dalle capacità retoriche straordinarie. Arriva a Firenze nel 1482: sono gli anni più fulgidi della dinastia medicea; a capo della città è Lorenzo il Magnifico, sfuggito quattro anni prima ad un attentato (la cosiddetta congiura dei Pazzi) nel quale perde la vita il fratello Giuliano. I Medici si sono sempre ostinati a proclamarsi cittadini comuni, ma di fatto il potere che hanno consolidato negli anni grazie a una rete di relazioni estesa a tutti i maggiori stati europei e alle ingenti risorse economiche accumulate, configura il loro ruolo all'interno delle istituzioni fiorentine come un vero e proprio principato. Inevitabile che si attirassero le ostilità della altre famiglie aristocratiche: Firenze, per buona parte del XV secolo, è percorsa da lotte intestine perniciosissime, da cui tuttavia i Medici escono sempre vittoriosi, potendo così rinvigorire il proprio potere. Cosimo il Vecchio, nonno del Magnifico, dopo essere stato esiliato, rientra a Firenze nel 1435 tra le urla di giubilo del popolo, venendo addirittura proclamato "padre della patria". Lorenzo, nato nel 1449, è un abile diplomatico, grande mecenate e poeta egli stesso: riesce nell'impresa quasi impossibile di pacificare gli stati italiani per oltre un quindicennio. Paradossalmente, è proprio l'oratoria del frate venuto da Ferrara a dargli più filo da torcere: se nei primi anni di predicazione fiorentina Savonarola non ottiene alcun successo, il secondo soggiorno, cominciato nel 1490 dopo anni di peregrinazione nel Nord Italia, è contrassegnato da una popolarità travolgente: il frate, dal pulpito di San Marco prima e di Santa Maria del Fiore poi, si scaglia contro il lusso sfrenato della nobiltà, contro la corruzione del clero e dei capi politici della città: e pensare che probabilmente era stato lo stesso Lorenzo a chiamare Savonarola a Firenze su insistenza di Pico della Mirandola! Nella notte del 5 aprile 1492 un fulmine si schianta contro la cupola del Duomo danneggiandola: molti interpretano l'evento come un cattivo augurio, ed effettivamente tre giorni dopo il Magnifico muore. Il rapinoso eloquio del frate gli procura fama di profeta: predice sventure sull'Italia e poco dopo la penisola assiste impotente alla discesa sul proprio suolo del re di Francia Carlo VIII: i fautori di Savonarola, chiamati Piagnoni (il nome la dice lunga sui toni millenaristici delle loro rivendicazioni...) hanno buon gioco a imporsi sulle altre fazioni cittadine.
Ma il peso politico del frate sta diventando un fardello troppo ingombrante: il papa Alessandro VI lo scomunica e anche il popolino di Firenze, che aveva sempre appoggiato le sue accuse contro l'aristocrazia, comincia ad essere intollerante verso l'intransigenza moralistica di Savonarola. Nel 1498 le magistrature fiorentine, dopo averlo fatto arrestare e torturare, condannano il frate ferrarese al rogo per eresia.
Machiavelli ci racconta l'impressione suscitatagli da Savonarola in una lettera, la seconda del suo ricchissimo epistolario, indirizzata a Ricciardo Becchi, ambasciatore fiorentino presso il papa. Il suo giudizio non è molto benevolo: dopo aver sommariamente descritto alcune prediche del frate, e aver individuato le strategie soprattutto politiche che potevano celarsi dietro lo zelo religioso e le infuocate esortazioni al popolo, Machiavelli conclude dicendo: «et così, secondo il mio giudicio, viene secondando e' tempi, et le sua bugie colorendo». È questa una delle prime volte in cui possiamo apprezzare il lucido disincanto del «giudicio» machiavelliano sulle cose del mondo: nel corso degli anni questa attitudine scettica si farà ancora più profonda, quasi che, educato agli abili infingimenti e ai consueti maneggi della politica attiva, Machiavelli sia in grado di leggere oltre i comportamenti abituali degli uomini di potere, scoprendovi i sottotesti d'interesse e di tornaconto personale. D'altro canto, tutto il panorama politico degli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento appare complicato da un continuo gioco di alleanze diverse tra gli stati, legami che si fanno e si disfano a seconda delle convenienze e delle situazioni contingenti. Gli occhiali con cui il Machia, come veniva chiamato dagli amici, osserva il mondo, hanno lenti spesse e buone, e arrivano a scoprire le reali intenzioni che si celano dietro condotte instabili o equivoche, per ricavarne addirittura una possibile declinazione positiva: «Si vede, per esperienza ne' nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l'astuzia aggirare e' cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla realtà» (Principe, cap. XVIII). Inutile affannarsi a cercare, in queste parole, un'intenzione di diabolica furbizia, come faranno un secolo dopo gli uomini della Controriforma: la politica del Rinascimento è fatta di diffidenze reciproche, di infingardaggini, di patti violati per paura o arroganza: chi avesse saputo barcamenarsi meglio, usando le armi della forza o dell'ingegno, in un mare tanto tempestoso, avrebbe potuto mantenere il proprio potere più a lungo nell'infido scacchiere europeo.
Che stava dunque accadendo in quegli anni in Europa? Dirlo in poche righe non è semplice, proprio per via dei continui cambiamenti di fronte dei vari principi e sovrani. Da un lato, tutti gli stati mirano legittimamente a mantenere i propri confini; dall'altro, meno legittimamente, ad espanderli. Carlo VIII, il sovrano francese di cui abbiamo parlato un paio di paragrafi sopra, voleva per esempio condurre una crociata contro i turchi, usufruendo per questo di una base d'appoggio nel Regno di Napoli, in mano agli Aragonesi, che detenevano il potere dalla fine della dinastia angioina, di cui però Carlo VIII era discendente... È una faccenda già piuttosto complicata, come si vede. Affidandosi alle ragioni del sangue, Carlo VIII decide di riconquistare il Regno di Napoli. Quando passa in Italia, il sovrano francese si vede spalancare le porte del proprio ducato da Ludovico Sforza, signore di Milano, da Venezia e persino dal papa: anche Firenze, pur alleata degli Aragonesi, si schiera dalla parte della Francia, e ciò porta alla sollevazione della città, all'allontanamento dei Medici e all'instaurazione della repubblica (intanto il prestigio di Savonarola cresce a dismisura...). Poi però tutti gli alleati avvertono il rischio che comporta la presenza sulle proprie terre di un sovrano straniero tanto potente: disfano l'alleanza appena intessuta e danno vita alla Lega di Venezia, che riunisce, contro la Francia, appunto Venezia, Milano, papato, Firenze e ottiene l'appoggio pure dell'Impero e della Spagna. Carlo VIII viene sconfitto a Fornovo, nell'Appennino parmense, e torna in Francia con la coda tra le gambe. Non è finita, naturalmente: il successore di Carlo VIII si chiama Luigi XII; anche a lui fa gola l'Italia, ma preferisce puntare su Milano, rivendicando un'antica parentela con i Visconti, cacciati anni prima dagli Sforza. Milano cade in mano francese nel 1500; nel 1501 sempre la Francia decide di prendersi anche un pezzetto del regno di Napoli, lasciando l'altro pezzo agli spagnoli, che in seguito, estromessi i francesi, lo terranno per oltre due secoli. Un bel ginepraio, insomma: a farne le spese è l'Italia, calpestata in lungo e in largo dagli stivali delle milizie straniere.
Naturalmente, come tutti sanno, gli stati e staterelli italiani, invece che sollevarsi e cacciare il nemico, decidono di combattere tra loro. Per noi oggi l'unità politica, amministrativa e culturale della penisola è un fatto pienamente acquisito, mentre allora il frazionamento in tante piccole o medie unità territoriali comprometteva ogni forma di solidaristico aiuto in nome di un'idea di nazione ancora troppo astratta e vaga. Ogni pezzetto d'Italia aveva i suoi statuti politici, i suoi costumi, i suoi poeti che cantavano la dinastia in carica. Così Cesare Borgia detto il Valentino, figlio del pontefice Alessandro VI, decide tra il 1499 e il 1503 di riacquistare al pieno controllo di Roma quella miriade di piccole signorie che tra Umbria e Romagna si erano rafforzate in totale autonomia dalla Chiesa che, nominalmente, le amministrava. Ma Alessandro VI muore, il Valentino cade: alcune di quelle signorie recuperano i vecchi sovrani, altre se le ingoia Venezia. Il nuovo papa si chiama Giulio II, un personaggio energico e senza scrupoli, che, non volendo assecondare il prestigio e la forza della Serenissima, istituisce un'alleanza (Lega di Cambrai, 1508) che unisce papato, Francia, Spagna e Impero. Venezia è battuta. Ora però sono i francesi, e grazie proprio all'alleanza appena stipulata, ad apparire troppo potenti al papa, che non si fa scrupoli di tessere nuove alleanze. I contraenti prendono il nome di Lega Santa: tale Lega unisce papato, Spagna, Impero, Inghilterra e Venezia: così, nel 1512, i francesi vengono cacciati dai confini italiani. Firenze, che per fedeltà all'antico alleato si è schierata dalla parte della Francia, è costretta a pagare cara la propria coerenza: viene assaltata da truppe spagnole che riportano al potere la signoria medicea, dopo diciotto anni di repubblica.
E Machiavelli in tutto questo dov'è? È ogni volta nel cuore degli avvenimenti più importanti. Quando si pensa al Principe, alla Mandragola, ai Discorsi, ci si immagina forse che Niccolò abbia seguito il cursus normale degli uomini di lettere: studi letterari e una solida preparazione umanistica. Niente di tutto questo, almeno sino a quel fatidico 1512. Machiavelli è uomo d'azione, stare fermo anche un solo giorno a poltrire in casa gli procura accessi di stizza e di umore malinconico. Non a caso, cinque giorni dopo la morte di Savonarola (torniamo indietro al 1498), Niccolò viene nominato segretario della commissione dei Dieci di Libertà e Pace, che deve gestire gli affari militari nei territori dominati dalla Repubblica fiorentina. Insomma, una specie di ministro degli esteri, seppur privo della facoltà di prendere decisioni: il compito suo e dei suoi collaboratori, Biagio Buonaccorsi o Marcello Adriani, era di informare i Dieci su ciò che stava accadendo nelle varie zone sottoposte al dominio fiorentino, in modo che essi potessero deliberare tempestivamente i provvedimenti da eseguire in funzione delle diverse situazioni in atto. Una delle questioni più spinose che Machiavelli si trovò ad affrontare fu la riconquista di Pisa, caduta in mano francese al tempo della discesa di Carlo VIII. Pisa era una città strategica per Firenze, baluardo verso possibili invasioni straniere, e rientrarne in possesso avrebbe garantito alla città del Giglio maggiore sicurezza e stabilità. Inoltre, il comandante che i francesi avevano posto a capo della fortezza pisana, anziché riconsegnarla come promesso a Firenze, l'aveva rivenduta al popolo pisano dietro il pagamento di ventimila scudi: toccava dunque riprendersela con la forza. A capo dell'impresa fu chiamato il condottiero romano Paolo Vitelli, il quale, già sotto le mura di Pisa, traccheggia, lascia che i pisani si rianimino e alla fine del 1499, con le truppe minate dalla malaria, toglie persino il campo. I fiorentini non possono sopportare quella che si configura non solo come una poco accorta strategia militare, ma addirittura un vero e proprio affronto, e alla fine del 1499 arrestano il Vitelli e lo condannano a morte.
Come abbiamo detto prima, c'è un nuovo sovrano che sta per scendere in Italia: è Luigi XII, pronto a conquistare Milano e il Regno di Napoli. È a lui, ora, che si rivolgono i fiorentini. I francesi si impegneranno a conquistare Pisa dietro il pagamento di un'alta somma di denaro e il vettovagliamento di 5.000 soldati: si tratta di una condizione molto onerosa, ma Firenze, pur di riavere Pisa, accetta. Le cose, ovviamente non vanno come devono: la soldataglia francese perde tempo nel sacco di altre città e, giunta in vista di Pisa, decide di ammutinarsi con la scusa che il cibo fornito dai fiorentini è di scarsa qualità. A loro volta, i fiorentini non hanno ancora pagato a Luigi XII la somma concordata per la spedizione. Machiavelli deve dunque recarsi in Francia con il compito da un lato di rassicurare il re sul pagamento della somma, dall'altro di lamentare lo scarso impegno delle sue truppe. È una situazione spinosa, nella quale Machiavelli mette alla prova le proprie doti di abile oratore e politico. Egli resterà in Francia molti mesi, ricavandone utili osservazioni per il proprio operato e per le condotta da tenere in frangenti così difficili. All'inizio del 1501 è richiamato a Firenze, perché un'altra partita si sta giocando, ancora più intricata.
Il figlio di papa Alessandro, Cesare Borgia detto il Valentino (dal nome delle terre – Valentinois – donategli dal re di Francia), sta riconquistando alla Chiesa i territori delle Romagna dove infuria la ribellione dei vari signorotti locali. È già cosa fatta la caduta di Pesaro, Forlì, Rimini, Imola, Faenza; Urbino sta per essere riconquistata; la cosa che però angoscia maggiormente Firenze, e insieme Machiavelli, è la ribellione di Arezzo al dominio fiorentino: anche in questo caso, a fomentare la rivolta, pare ci sia lo zampino di Cesare Borgia. Così Firenze, stretta d'assedio da ogni parte, si trova in pericolo mortale: la repubblica decide di mandare Machiavelli e Francesco Soderini a trattare col Borgia a Urbino, appena caduta. I dispacci che Niccolò invia ai Dieci sono dei capolavori, soprattutto per le descrizioni che egli fa del condottiero, dovute all'ammirata inquietudine che il Valentino era in grado di suscitare nei due ambasciatori: Machiavelli lo dipinge come un uomo astuto e imperscrutabile, energico, coraggioso, e con in più la fortuna dalla sua parte: non è un caso che, anni dopo, all'interno del Principe, egli ne faccia l'esempio massimo di sagacia militare e politica. Cesare Borgia sa essere spietato: presa Urbino, fa uccidere Guidobaldo da Montefeltro, signore della città; qualche tempo dopo, avendo ricevuto notizia di una congiura ai propri danni, fa strangolare Vitellozzo Vitelli, Paolo Orsini, il duca di Gravina e Oliverotto da Fermo, tutti tirannelli della Romagna. Questa era la politica a quel tempo, forza e astuzia, sangue e cervello: uccidere in maniera crudele un avversario significava, nel lessico machiavelliano, "sbigottire" (cioè lasciare ammirati e spaventati) altri potenziali nemici per renderli innocui e condiscendenti. Machiavelli ammira il Valentino per il suo spirito d'iniziativa e per la lucidità che sempre pare accompagnare le sue scelte, anche le più cruente: come quando lascia le terre di Romagna al proprio luogotenente Ramiro de Lorqua, uomo spietato e dai modi sbrigativi («crudele ed espedito», Principe, cap. VII), ma, accortosi poi che tale governo risulta troppo gravoso alla popolazione, lo uccide e ne squarta il corpo, esibendolo sulla piazza di Cesena: in questo modo tutti vedono la fine che può fare chi non ottempera in maniera adeguata ai compiti assegnatigli. «La ferocità di quello spettacolo», conclude Machiavelli a proposito di questa vicenda, «fece quelli popoli in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi», cioè soddisfatti e stupiti (Principe, cap. VII).
Ma la fortuna volta le spalle anche all'apparentemente invincibile Cesare Borgia: nel 1503 Alessandro VI muore e lo stesso Valentino si ammala (ce lo dice Machiavelli nel Principe senza specificare di quale malattia); la forza e la lucidità di qualche tempo prima sono irrimediabilmente compromesse, al punto da fargli commettere una sciocchezza che si rivelerà per lui fatale: favorire l'ascesa al soglio pontificio del cardinale di San Pietro in Vincoli, Giuliano della Rovere, che diventerà appunto papa con il nome di Giulio II. Si tratta di un rivale della famiglia Borgia, esiliato dalle terre pontificie dal suo predecessore: forse il Valentino, mostrandosi così clemente, sperava di cattivarsene l'amicizia; Machiavelli, sempre scettico sulla lealtà degli uomini, ha buon gioco a dimostrare che quello del Valentino fu un calcolo totalmente sbagliato: «e chi crede che ne' personaggi grandi e benefizii nuovi faccino dimenticare le iniurie vecchie, s'inganna» (Principe, cap. VII). Infatti Giulio II, uomo a sua volta sbrigativo e d efferato, fa arrestare il duca, che rifiuta di cedere le terre di Romagna ancora in suo possesso. Il Valentino riesce a fuggire, ma poco tempo dopo cadrà in battaglia combattendo per il re di Navarra sotto le mura della città spagnola di Viana.
In questi anni, pieni per Firenze di ansie e timori, Machiavelli, non sta certo con le mani in mano. Risalgono al marzo e luglio del 1503 i due discorsi Parole da dirle sopra la provisione del danaio, sulla necessità di imporre nuove tasse per dotarsi di truppe fedeli, e Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, con cui il Segretario esorta le istituzioni fiorentine ad avere un po' più di polso nel trattare con Arezzo, per evitare nuove ribellioni fomentate dal Valentino. In mezzo a queste bufere politiche e belliche, Machiavelli concepisce un'idea che, secondo lui, può aiutare Firenze a sostenersi in tempi tanto calamitosi, così da poter fronteggiare l'assalto di truppe straniere: l'istituzione della "milizia", ovvero di un esercito regolare e ben addestrato.
Il Segretario comincia a parlarne in giro e trova le istituzioni fiorentine abbastanza sollecite ad accogliere il suggerimento, in particolare il gonfaloniere Pier Soderini. Non mancano però nemmeno le riserve: i fiorentini da lungo tempo avevano smesso l'uso delle armi, essendosi trasformati nell'ultimo secolo in artigiani, mercanti e banchieri; inoltre le famiglie aristocratiche temevano che la milizia diventasse uno strumento di offesa e propaganda per il gonfaloniere, sì da portarlo alla signoria assoluta sulla città. L'ultima riserva nasceva soprattutto intorno a colui che avrebbe dovuto guidare le nuove truppe, Michele de Corella, un ex luogotenente del Valentino, noto per le sue crudeltà e vessazioni. Machiavelli non si scoraggia: comincia ad assoldare uomini nel Mugello e nel Casentino: meglio infatti reclutare gente nelle campagne, perché, di ritorno dalle spedizioni, i fanti si sarebbero dispersi su un territorio ampio, eliminando così il pericolo di possibili adunanze non controllate: il fatto poi che guidarli fosse un capitano di altra provenienza geografica scongiurava ogni possibile solidarietà tra il capo e i suoi sottoposti. Insomma, come un ottimo stratega, Niccolò aveva previsto tutto. Tra delusioni e speranze (Francesco Soderini gli scrive, nel maggio del 1504, di non abbattersi: «non restate, che forse un dì serà data la gloria, che non se dà l'altro»), finalmente, nel febbraio del 1506, Machiavelli può far sfilare quattrocento fanti vestiti e armati di tutto punto. Sono contadini, ma il fascino della parata conferisce loro una credibilità che le vicende belliche presto saranno destinate a infrangere.
Nel 1501, intanto, il nostro Niccolò si era sposato con una certa Marietta. Di lei non sappiamo quasi nulla, se non le notizie che ricaviamo dalle lettere di Biagio Buonaccorsi allo stesso Machiavelli. Biagio è suo collaboratore presso la magistratura dei Dieci, e quando Machiavelli è fuori, gli racconta le ansie e i dispiaceri di Marietta, lasciata spesso sola a tirar su la famiglia. Il 15 ottobre 1502, per esempio, Biagio racconta che il fratello di Marietta è andato da lui per sapere se ha notizie del ritorno di Niccolò (in quel momento si trovava presso il Valentino): dice che Marietta è disperata, non vuole scrivergli e fa «mille pazie». Saranno molte altre le lettere in cui il buon Biagio è costretto a riferire a Niccolò le scenate di Marietta: le sue sono missive straordinarie, hanno la freschezza della quotidianità e la confidenza che solo l'amicizia vera può consentire; così, a noi è dato oggi guardare dal buco della serratura le faccende private di Niccolò, scoprire le sue mancanze coniugali, la sua perenne inquietudine, e anche la non sempre florida situazione economica. Il 24 novembre 1503 Marietta scrive al suo Niccolò una lettera, l'unica che di lei ci rimane: ribadisce il suo dolore per ricevere dal marito poche notizie, avendo peraltro saputo che a Roma, dove ora si trova Machiavelli, infuria una pestilenza; gli dà notizie del figlio, che sta bene e assomiglia a Niccolò, la qual cosa la riempie di gioia: «per ora el babino sta bene, somiglia voi: è bianco chome la neve, ma gl'à el capo che pare veluto nero, et è peloso chome voi; e da che somiglia voi, parmi bello». Da brava moglie, Marietta conclude la lettera annunciandogli l'invio di abiti nuovi, da lei confezionati: «mandovi farseto e dua camice, e dua fazoleti e uno sciugatoio, che vi cucio».
Machiavelli, dunque, non è molto spesso a casa. Quando ci resta è inquieto, e tutt'al più, occupa il tempo a leggere i classici e a scriver lettere e versi, come per esempio quelli del Decennale, un poemetto in terzine dedicato agli ultimi dieci anni di storia fiorentina, sul modello delle cronache in versi dei cantastorie municipali: Antonio Pucci, vissuto a Firenze nel Quattrocento, ne aveva scritte di simili. Il Decennale è un testo importante, prima di tutto perché è la prima opera letteraria di un certo impegno del Segretario, e poi perché ne documenta gli umori e le preoccupazioni. Basti dire che si chiude esortando le istituzioni fiorentine a riprendere le armi, quelle in cui Niccolò voleva esercitare la costituenda milizia: («ma sarebbe il cammin facile e corto/se voi el tempio riaprissi a Marte»). Inoltre il poemetto era dedicato ad Alamanno Salviati, capo degli Ottimati, la fazione delle grandi famiglie aristocratiche che non vedevano di buon occhio l'ascesa di Machiavelli: un po' di diplomazia non guasta mai.
Questi continuano ad essere anni di importanti missioni in giro per l'Italia e l'Europa. Nel 1506 Machiavelli è di nuovo alla corte papale per rabbonire Giulio II che richiede a Firenze le truppe di Marcantonio Colonna, condottiero papale allora impegnato nella riconquista di Pisa. Il papa, come il suo predecessore, vuole cacciare dai propri territori i vari signorotti locali, in particolare i Baglioni da Perugia e i Bentivoglio da Bologna. Giulio II è un vero papa-guerriero, a capo del più importante principato ecclesiastico del tempo (Machiavelli ne descriverà pregi e difetti nel Principe), che, proteggendosi sotto le insegne della Chiesa, rende gli altri principi più guardinghi e timorosi nelle loro contromosse; non a caso Giulio II si riprenderà velocemente sia Perugia che Bologna. Ma Niccolò è già altrove; Firenze ha saputo che si sta preparando la discesa in Italia dell'imperatore Massimiliano I, con l'avvallo del papato: il pericolo, ancora una volta, è grande per la città, che vedrebbe scacciati dalla Lombardia gli unici alleati affidabili, ovvero i francesi; Machiavelli è spedito in Germania insieme a Francesco Vettori per ricavarne qualche notizia utile: vi risiede per qualche mese; essendo riuscito a scongiurare il pericolo in atto, Niccolò ne approfitta per redigere un rapporto su quanto ha visto (Rapporto di cose della Magna); altre vicende incalzano in Italia, però: a richiamare l'attenzione di Niccolò è sempre la questione di Pisa, per la quale egli mette ora in campo tutta la propria abilità diplomatica e, per la prima volta, anche la nuova milizia da lui creata. L'assedio alla città si fa più serrato e Pisa, alla fine, cede, firmando la resa nel 1509. Si tratta di un successo personale di Machiavelli, che, naturalmente, provoca il disappunto degli Ottimati.
Niccolò non fa in tempo a risolvere una situazione che subito gli si presenta un nuovo pericolo: ancora una volta è Giulio II a scatenarlo, ancora una volta si tratta di scacciare i francesi dall'Italia; ancora una volta, infine, Firenze non può permetterlo, perché, se la Lombardia cadesse nelle mani della Chiesa, si troverebbe accerchiata tutt'intorno da territori papali, con grave rischio per la propria libertà. Giulio II, poi, è grande amico di Giovanni de' Medici, cardinale e capo della fazione medicea: una vittoria della Chiesa significherebbe sicuramente il ritorno dei Medici in città, cioè, in ultima istanza, la fine della Repubblica. Machiavelli è spedito in Francia per trovare una soluzione diplomatica e convincere Luigi XII a non rispondere alle intenzioni belligeranti di Giulio II: se la Francia avesse fatto la guerra da sola contro il papa, il rischio di sconfitta era altissimo; peraltro il re aveva chiesto a Firenze delle truppe da dislocare in Lombardia, e in tal modo la città avrebbe offerto il fianco all'esercito di Giulio II; insomma, il solito guazzabuglio di eventi ostili da gestire. Ma se altre volte Machiavelli era riuscito in imprese che sembravano disperate, questa volta il compito si presenta difficilissimo: Luigi XII pare accondiscendere alle proposte fiorentine, ma Giulio II, di fronte alle richieste di mediazione degli ambasciatori fiorentini, va su tutte le furie e minaccia gravi conseguenze per la città. Tra la fine del 1511 e l'inizio del 1512 la situazione precipita: il papa decide di fare un'alleanza con i grandi d'Europa contro la Francia (Lega Santa): al grido di "fuori i barbari", essa unì papato, Venezia, Spagna, Impero e Inghilterra. Firenze, per lealtà verso l'alleato francese, resta fuori dalla Lega: così viene attaccata da truppe spagnole e costretta a capitolare. Tutti questi avvenimenti sono raccontati da Machiavelli in una lettera scritta il 16 settembre 1512 a una non meglio precisata «gentildonna»; ne esce un quadro fosco delle guerre rinascimentali, in particolare dei saccheggi e degli eccidi compiuti dagli spagnoli: «li Spagnoli, occupata la terra, la saccheggiorno, et ammazzorno li huomini di quella con miserabile spettacolo di calamità... né perdonarono a vergini rinchiuse ne' luoghi sacri, i quali si riempierono tutti di stupri et di sacrilegi». I Medici rientrano a Firenze da vincitori; Pier Soderini è costretto a fuggire e anche per Machiavelli si preparano tempi bui.
In quello stesso settembre in cui Niccolò scrive la lettera alla gentildonna, un gruppo di cittadini fautori dei Medici scende in piazza e chiede la riforma di tutte le cariche istituzionali: anche l'Ordinanza viene soppressa. Machiavelli è destituito dai suoi incarichi, lo si obbliga a non mettere più piede a Palazzo Vecchio e a restare per un anno confinato entro il dominio fiorentino. C'è di peggio, però: viene scoperta una congiura contro i Medici, a cui pare contribuire lo stesso Machiavelli, che è condotto in carcere alla fine del 1512. Lì resterà fino al marzo dell'anno successivo, quando, per sua fortuna, viene eletto papa Giovanni de' Medici, principale esponente della grande famiglia fiorentina: come segno di concordia e apertura, il nuovo pontefice concede la grazia ai propri rivali; anche Machiavelli viene liberato, dopo essersela vista davvero brutta: in un componimento di encomio a Giuliano de' Medici (scritto per cattivarsene i favori) descrive le misere condizioni della sua cella, ma rammenta che la paura maggiore l'ha provata sentendo i cori per i condannati a morte, tra cui Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, capi della congiura. Qualche mese dopo, uscito dal carcere, Machiavelli, fatta esperienza della vita in un modo così atroce, dirà in una lettera di non desiderare più nulla con passione («mi sono acconcio a non desiderare più cosa alcuna con passione»); lo dice in una missiva a Francesco Vettori, ambasciatore fiorentino presso il soglio pontificio; nella medesima lettera afferma che, non sapendo ragionare «né dell'arte della seta, né dell'arte della lana», è costretto a ragionare dell'unica cosa che conosce, l'arte dello stato: di questo infatti parlano le numerose missive inviate al Vettori in quel memorabile, ancorché infausto, anno 1513.
Machiavelli infatti, non potendo uscire dai territori fiorentini, ma non volendo restare a Firenze, dove ogni attività gli è preclusa, si ritira in una casa lasciatagli dal padre a Sant'Andrea in Percussina, presso San Casciano. Qui conduce una vita del tutto diversa da quella movimentata che aveva contraddistinto il suo operato sino a un anno prima. È ancora una lettera al Vettori, famosissima, a raccontarcelo: Niccolò dice di aver passato le ultime settimane a cacciare tordi, pieno di gabbie addosso: «pigliavo el meno dua, el più sei tordi». Così è passato novembre; poi, anche questo passatempo è finito; nelle parole di Machiavelli senti la noia di un uomo costretto al riposo forzato, che non sa bene come far passare il tempo e anche quando questo passa, sente che è tempo sprecato in attività inutili. Lasciamo per un attimo la parola a lui:
«Dipoi questo badalucco, ancora che dispettoso et strano, è mancato con mio dispiacere; et qual la vita mia sia vi dirò. Io mi lievo la mattina con el sole et vommene in un mio boscho che io fo tagliare, dove sto dua hore a rivedere l'opere del giorno passato et a passar tempo con quegli tagliatori, che hanno sempre qualche sciagura alle mane o fra loro o co' vicini». Lascia il bosco e si reca in un capanno dove legge qualche poeta volgare o latino, Dante, Petrarca, Tibullo, Ovidio... Legge dei loro amori e ripensa ai propri, perso nel vagheggiamento di lontani ricordi. Si rimette in strada e va all'osteria. Diamo di nuovo la parola a Machiavelli: «Trasferiscomi poi in su la strada nell'hosteria, parlo con quelli che passono, dimando delle nuove de' paesi loro, intendo varie cose et noto varii gusti et diverse fantasie d'huomini. Viene in questo mentre l'hora del desinare, dove con la mia brigata [famiglia] mi mangio di quelli cibi che questa povera villa e paululo [piccolissimo] patrimonio comporta. Mangiato che ho, ritorno nell'hosteria: quivi è l'hoste, per l'ordinario, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai. Con questi io m'ingaglioffo per tutto dí giuocando a cricca, a trich-trach, e poi dove nascono mille contese et infiniti dispetti di parole iniuriose; et il più delle volte si combatte un quattrino, et siamo sentiti non di manco gridare da San Casciano. Cosí, rinvolto in tra questi pidocchi, traggo el cervello di muffa, e sfogo questa malignità di questa mia sorta, sendo contento mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognassi». Con un'immagine altamente suggestiva, Machiavelli ci dice di vivere fino in fondo l'abiezione di questa vita inutile, perché il destino stesso se ne possa vergognare.
È la sera, però, che la giornata di Machiavelli prende finalmente una piega diversa; egli entra nel suo studio e, dimessa la «veste cotidiana, piena di fango et di loto», indossa «panni reali et curiali». Prende in mano i suoi libri più amati, si riconduce agli studi che mai ha abbandonato: entra, dice con un'immagine diventata famosissima, nelle antiche corti degli antichi uomini, dove viene ricevuto amorevolmente, li interroga sulle loro azioni e loro con gentilezza rispondono, e può così passare quattro ore di assoluta felicità, senza pensare agli affanni quotidiani, alla povertà, alla morte: perché «tucto mi transferisco in loro». Uomo di azione, Machiavelli è però educato al culto delle lettere, e non dimentica mai l'alta lezione di umanità che da queste proviene.
Nella chiusa della stessa missiva del dieci dicembre 1513, troviamo anche un accenno al Principe, che Niccolò aveva probabilmente appena terminato. La necessità, dice Machiavelli, mi spinge a mandarlo ai Medici: necessità di lavorare, di trovare un impiego che lo faccia sentire vivo; così si vedrà che i quindici anni passati a servire la Repubblica, egli non li ha «né dormiti né giuocati». Effettivamente lo scritto machiavelliano è tutto pieno di una saggezza aspra e sbrigativa: lo stesso Niccolò, nella dedica a Lorenzo de' Medici (non il Magnifico, ma un suo meno magnifico nipote, il duca di Urbino), dichiara di non aver usato quelle ampollosità, quelle formule retoriche ampie e gravi che fanno la fortuna di certi trattati; solamente la varietà della materia e l'importanza di essa possono abbellire il suo Principe. Lo ribadisce anche nel capitolo XV: non vorrebbe passare per presuntuoso, scrivendo dello Stato in maniera differente da quanto hanno fatto i teorici che l'hanno preceduto, ma suo intento è più «andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa». Insomma, chi ha scritto di politica di solito lo ha fatto immaginando situazioni ben lontane dalla realtà, costruendo ipotesi di «republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero». Il tentativo di Machiavelli è di sbaragliare qualunque costruzione idealistica e di maniera per andare al cuore della verità: ecco perché il suo principe, quando serva, deve imparare a poter «essere non buono»: tale fu Cesare Borgia, il famoso duca Valentino che tanto filo da torcere aveva dato allo stesso Niccolò; averlo reso protagonista del capitolo VII, è il miglior tributo pagato alla memoria del vecchio nemico.
Il Principe fu composto di getto tra l'estate e l'autunno del 1513, quando Machiavelli si trovava nella sua casa di Sant'Andrea in Percussina. Correzioni e aggiunte continuarono fino al dicembre dello stesso anno, se si deve dar credito alla famosa lettera che Machiavelli invia a Francesco Vettori il 10 dicembre («anchor che tuttavolta io l'ingrasso et ripulisco»). Il trattatello era dedicato inizialmente a Giuliano de' Medici, ma dopo la sua morte nel 1516 venne dedicato, come si è detto, a Lorenzo de' Medici duca d'Urbino. La vicenda editoriale del Principe, come di quasi tutti i testi machiavelliani, appare piuttosto travagliata. Conosciuto in forma manoscritta già a partire dal 1517, fu stampato postumo solo nel 1532, in un volume di opere del Segretario. È un insieme di 26 brevi capitoletti sul governo monarchico (i Discorsi si occuperanno più specificatamente di quello repubblicano); tema dell'opera è il mantenimento o la conquista dello stato da parte del principe, come già indicato nella lettera al Vettori: «che cosa è principato, di quale spetie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono». Si tratta insomma di verificare, fuori da qualunque tipo di idealismo, le dinamiche per cui si può conquistare o perdere il potere, e come difendere e mantenere i territori dello stato. La necessità di un tale tipo d'indagine nasceva in Machiavelli dalla desolata presa d'atto dell'intrinseca debolezza degli stati italiani all'alba del XVI secolo.
Benché Machiavelli non abbia immaginato partizioni interne all'opera, il Principe può essere suddiviso in quattro parti; nella prima (capp. I-XI), sono presi in esame i vari tipi di principato: ereditari, misti, nuovi, civili, ecclesiastici; nella seconda (capp. XII-XXIV) si affrontano i punti di forza e i punti di debolezza di un principato, con speciale riguardo alla «virtù» del principe e all'uso dell'esercito. Il capitolo XXV si occupa della «fortuna»; il XXVI infine, staccandosi dallo stile asciutto sin lì adottato, si apre a considerazioni di carattere idealistico, con l'esortazione a liberare l'Italia dagli eserciti stranieri.
La grande novità del Principe consiste nel desiderio di fornire regole certe all'agire politico, con un atteggiamento per così dire "scientifico". Già nella dedica a Lorenzo de' Medici, del resto, Machiavelli sostiene di aver imparato a conoscere gli uomini grazie a una «lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antique», ovvero al suo tirocinio nella politica attiva e alla lettura di testi degli storici latini e greci. Per Machiavelli infatti il nocciolo delle azioni umane non muta mai, essendo costituito da tratti comuni e invariabili. Possono cambiare le circostanze esterne, ma non cambia mai il modo in cui l'uomo le affronta: è così possibile, per il principe, prevedere come si comporterà questo o quel protagonista della scena politica e prendere adeguate contromisure. Lungo i 26 capitoli dell'opera, alle prese con i diversi problemi che intende analizzare, Machiavelli affianca esempi moderni e antichi, per ricavarne un regola semplice ed efficace che compendi in una sintesi chiara il sugo del suo ragionamento. Nel capitolo III, dedicato ai «principati misti», dopo aver preso in esame quello che fecero i Romani nelle regioni conquistate, Machiavelli passa a verificare il comportamento tenuto da Luigi XII re di Francia nel momento di scendere in Italia, terminando con una «regola generale» ovvero che «chi è cagione che uno diventi potente, rovina; perché quella potenzia è causata da colui o con industria o con forza, e l'una e l'altra di queste due è sospetta a chi è diventato potente».
Del resto, forza, audacia e spregiudicatezza sono caratteristiche fondamentali per il buon principe delineato da Machiavelli. Questi deve, se può, essere generoso; ma dal momento che essere generosi costa caro, è meglio essere parsimoniosi; così, non si dilapideranno i beni dello stato (cap. XVI). Inoltre dovrà essere pietoso, ma all'occorrenza anche crudele; al punto che, di fronte al dilemma se sia meglio per un principe essere amato o temuto, Machiavelli non esita a optare per la seconda soluzione, perché gli uomini sono volubili, e se desiderano ribellarsi al dominio colpiranno più volentieri quel principe che si sia dimostrato amorevole; infatti l'amore è sorretto da un vincolo di riconoscenza che si può facilmente tradire, laddove il timore, fondandosi sulla paura di venire puniti, non abbandona mai i sudditi (cap. XVII). Ancora: il principe deve essere leale, ma può, quando occorra, tradire la parola data. E se le leggi che si è dato, e che ha dato al proprio stato, non bastano a conservarlo, può ricorrere alla forza, tipica delle bestie. Deve insomma essere uomo e animale insieme; e, «dovendo usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe (volpe) e il lione (leone); perché il lione non si defende da' lacci, la golpe non si defende da' lupi. Bisogna dunque essere golpe a consocere e' lacci e lione a sbigottire e' lupi»: l'astuzia della volpe e la forza del leone possono aver ragione di ogni nemico.
Insomma, il buon principe non è colui che si attiene in ogni circostanza a quei comportamenti virtuosi teorizzati dai trattatisti dei secoli precedenti, ma chi intraprende con lucidità e fermezza le azioni richieste dalle diverse contingenze. In questo si compendia la «virtù» dell'abile politico, ovvero appunto la capacità di leggere ogni situazione e adottare quelle misure in grado di sottomettere la «fortuna», cioè le avversità impreviste del caso. «Virtù» e «fortuna» sono due termini fondamentali del lessico politico machiavelliano, di cui si discute soprattutto nel penultimo capitolo del Principe. Non è semplice definirli: il concetto di «virtù» può essere accostato alla virtus romana, e compendia intuito, volontà, capacità strategiche e militari; «fortuna», invece, indica le circostanze esterne, che, dominate spesso da casualità e indeterminatezza, possono compromettere l'azione dell'uomo. L'abilità del principe consiste allora nel sottomettere la fortuna alla virtù, in modo da guidare e controllare sempre l'andamento degli eventi.
Del tutto peculiare è la lingua del Principe. Già nella lettera proemiale Machiavelli dichiara di aver voluto evitare uno stile ampolloso: «la quale opera io non ho ornata né ripiena di clausule ample, o di parole ampullose e magnifiche, o di qualunque altro lenocinio o ornamento estrinseco con li quali molti sogliono le loro cose descrivere e ornare». Lo stile del Principe è asciutto: ogni circonlocuzione, ogni giro ampio di frase è evitato a favore di una scrittura secca e precisa, dove a prevalere dev'essere la chiarezza espositiva, la limpidezza di un ragionamento che non ammette scarti o deviazioni. Non è inusuale che, come nel linguaggio scientifico, Machiavelli proponga per ogni caso due soluzioni possibili: le frasi si dispongono così in coppie oppostive rette dalla congiunzione "o". Si veda questo esempio, sempre dal capitolo III: «Dico pertanto, che questi stati, quali acquistandosi si aggiungono a uno stato antiquo di quello che acquista, o e' sono della medesima provincia e della medesima lingua, o non sono». Una sintassi di questo tipo (che peraltro non fa quasi mai ricorso alle subordinate) non ammette sfumature, escludendo le possibilità intermedie: in tal modo l'opera diventa specchio della concitata e drammatica situazione politica della penisola nel primo scorcio del Cinquecento.
La fatica del Principe, tuttavia, passa in fretta; per non dovere annoiarsi ulteriormente Machiavelli affronta altre fatiche letterarie, come quella, non nuova in realtà (si era già cimentato nell'Andria e nella perduta Le maschere), di scrivere una commedia. Si tratta della Mandragola, una delle più riuscite prove teatrali del nostro Rinascimento: ne sono protagonisti un vecchio sciocco, un giovane piacente, un servo furbo e un frate corrotto. Il giovane Callimaco vuole avere una storia d'amore con Lucrezia, moglie dello stupido Nicia e organizza, aiutato dal servo Ligurio e da fra' Timoteo, una beffa ai suoi danni: la riuscita di questa sarà completa, tanto da fargli conquistare l'amore della donna. Nel prologo alla Mandragola Machiavelli intreccia l'argomento della commedia alle vicissitudini personali: dichiara di essere stato costretto a scrivere di faccende così pruriginose per rendere meno pesante il suo esilio dalla vita attiva: «scusatelo con questo», dice rivolgendosi agli eventuali spettatori, «che s'ingegna/con questi van pensieri fare el suo tristo tempo più suave». Non sa infatti come arrabattarsi per passare il tempo e buscare qualche soldo, dal momento che tutti lo hanno allontanato: «perché altrove non have dove voltare el viso,/ché gli è stato interciso/mostrar con altre/imprese altra virtùe,/non sendo premio alle fatiche sue».
Questo sconsolato sarcasmo lo ritroviamo anche in un poemetto in terzine, L'asino, steso sempre, almeno nella sua prima forma, negli anni dell'esilio dalle cariche pubbliche. In terzine perché, trattandosi di un testo allegorico, Machiavelli riprende il metro della Commedia dantesca. Protagonista è infatti lo stesso Niccolò che viene invitato da un'ancella di Circe a visitarne i serragli, dove vivono uomini trasformati in bestie. Il poemetto, rimasto incompiuto, si conclude con le parole di un porco che esalta la condizione animale a tutto scapito di quella umana, con parole amare sul "furore" che contraddistingue la nostra specie: «Nessun altro animal si truova ch'abbia/più fragil vita, e di viver più voglia, più confuso timore o maggior rabbia./Non dà l'un porco a l'altro porco doglia, l'un cervo a l'altro: solamente l'uomo/l'altr'uom ammazza, crocifigge e spoglia». Nel frattempo, l'obiettivo che Machiavelli si era dato attraverso la stesura del Principe, ovvero di suscitare interesse presso i Medici, segnatamente Lorenzo, sì da poter essere richiamato al lavoro, viene meno: quel giovane signore non ha affatto interesse verso la pratica dello stato accumulata da Niccolò in tanti anni di onorata carriera. Machiavelli è deluso: nella dedica ai Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, altra grande opera di questo periodo, dice di volerla indirizzare non tanto a un principe quanto agli amici Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, gli unici che, potendolo, vorrebbero dargli onori e cariche.
I Discorsi nascono come una specie di commento all'opera dello storico latino Tito Livio: più ancora che in altre opere di Machiavelli, qui spira potente la lezione della storia, di cui l'autore fa tesoro non tanto per indagare la nascita e lo sviluppo di un principato assoluto (come nel Principe), quanto delle istituzioni repubblicane. Il modello latino serve a Machiavelli per individuare le cause della decadenza presente, lo scarto tra la corruzione dei propri tempi e l'integro funzionamento degli ordini civili nella Roma repubblicana. I Discorsi sono un'opera meno affascinante dell'impetuoso Principe, ma non per questo meno meditata; anzi, vi si riscontra un idealismo più marcato che nell'operetta sui principati, quasi che Machiavelli, ragionando di istituzioni che conosce bene e per le quali ha operato e combattuto, si faccia trascinare dalla memoria di età trascorse e gradite. Inoltre, come nella missiva al Vettori, si avverte costantemente l'amore per la latinità e il desiderio di confrontarsi con l'epoca antica.
L'idea (già espressa nel Principe) che l'uomo, nei suoi comportamenti essenziali, sia immutabile, torna anche nei Discorsi. Tale concetto, anzi, è espresso con ancor maggiore convinzione rispetto al Principe, poiché Machiavelli ritiene che i Romani, nella loro storia, abbiano espresso le migliori strutture repubblicane. Quindi esse vanno studiate non per generico amore del passato, ma per assumerne gli insegnamenti e gli esempi. Nel Proemio, Machiavelli parte dalla constatazione che i contemporanei faticano, nell'ambito della politica, a rifarsi agli esempi degli antichi, mentre in altri campi tale resistenza è del tutto assente (egli pensa soprattutto all'antiquaria): «Nondimanco, nello ordinare le repubbliche, nel mantenere li stati, nel governare e' regni, nello ordinare la milizia, ed amministrare la guerra, nel iudicare e' sudditi, nello accrescere l'imperio, non si trova principe né repubblica che agli esempli antiqui ricorra». È dunque per mostrare la bontà di tali esempi che Machiavelli si è accinto all'opera.
I Discorsi vennero composti con tutta probabilità tra il 1515 e il 1517, nel periodo dell'esilio volontario a San Casciano, e furono influenzati dagli incontri e dalle discussioni degli Orti Oricellari. Non a caso tra i dedicatari figura Cosimo Rucellai, il principale animatore del circolo. La materia è suddivisa in 142 brevi capitoli, a loro volta raccolti in 3 libri. Rispetto al Principe, i Discorsi hanno una struttura più frammentaria e rapsodica. Non si tratta di un commento organico al testo di Livio, bensì di una riflessione autonoma sulle forme dello stato a partire dalle suggestioni fornite dall'originale latino. Al solito ciò che più interessa Machiavelli sono i pericoli a cui lo stato repubblicano è esposto e i modi in cui esso può mantenersi, non senza un'acuta indagine sulle forme della convivenza civile, che arriva a scandagliare il ruolo della religione, dei rapporti tra i diversi ceti sociali, della guerra e dell'organizzazione degli eserciti. La differenze strutturali tra Principe e Discorsi hanno una ricaduta anche sul piano dello stile: se nel Principe era più drammatico e conciso, qua si fa più ampio e composto e il giro della frase assume l'andamento ragionativo dell'analisi problematica.
Ma c'è anche altro. A partire dal 1517, Machiavelli aveva cominciato a frequentare, a Firenze, un circolo di giovani aristocratici che si riunivano nel giardino di casa Rucellai, chiamato Orti Oricellari. Il vecchio padrone, Bernardo Rucellai, era morto da poco, e a reggere le sorti della famiglia era subentrato ora Cosimo, lo stesso a cui Machiavelli dedica i Discorsi. Accanto a lui e ad altri giovani di buona famiglia, frequentavano gli Orti parecchi intellettuali, come Zanobi Buondelmonti (l'altro dedicatario dei Discorsi), lo storico Jacopo Nardi, il poeta Luigi Alamanni e il filosofo Francesco da Diacceto. È proprio perché incalzato da quegli incontri e da quelle discussioni, nelle quali egli può riordinare le idee sull'arte dello stato, che Machiavelli compone i Discorsi e l'Arte della guerra, un dialogo in cui, ancora una volta, riversa l'esperienza della vita temprata dallo studio degli antichi testi. Scopo dell'opera è di mostrare quali siano i modi migliori per difendere militarmente lo stato. Difendere e non offendere, giacché Machiavelli sa bene che la guerra è detestabile e rovinosa. Tuttavia, come direbbe lo stesso Segretario, è necessario per uno stato saper bene salvaguardare i propri confini per non cadere ai primi colpi dell'esercito nemico. Naturalmente la stesura di questo testo era anche un modo per rispondere, molti anni dopo, alle accuse sulla disfatta dell'Ordinanza nella sconfitta di Prato per opera degli spagnoli ed anzi per riprendere con più matura convinzione quell'idea, ricusando nel medesimo tempo la corruzione e l'indisciplina delle milizie mercenarie. Fabrizio Colonna, il protagonista del dialogo, discute con competenza ogni aspetto dell'arte militare, consapevole, tuttavia, che un buon esercito deve essere formato da buoni soldati, e che buoni soldati si hanno solo con una riforma radicale delle istituzioni politiche. Qualche studioso ha rilevato come la disillusione machiavelliana circa la bontà degli ordini militari, trasparirebbe sin dal titolo, dove "arte" significa non solo tecnica del guerreggiare, ma anche "mestiere", quasi che fosse divenuto possibile impugnare le armi non per difendere lo Stato all'occorrenza, ma per farne un vero e proprio lavoro retribuito, indipendentemente dall'appartenenza a una città o a una patria.
La tensione ideale che spira da questo testo conferma ancor più il ritratto di un Machiavelli che non arretra di fronte al vagheggiamento di grandi imprese, a dispetto della concretezza e degli stringenti, realistici ragionamenti di cui è intessuta tutta la sua opera. Ma se pensiamo alla conclusione del Principe, con l'esortazione a liberare l'Italia dal dominio straniero, al rimpianto, nei Discorsi, per le antiche istituzioni repubblicane, al desiderio costante, ribadito nell'Arte della guerra, di dotare Firenze di una milizia ordinaria che la potesse difendere dagli attacchi esterni, se pensiamo a tutto questo, allora capiremo perché Niccolò, nonostante le brucianti delusioni di tutta una vita, abbia sempre trovato la forza per rialzarsi e rimettersi al lavoro: non aveva altro desiderio che quello di servire la propria città; la politica era il suo ambiente naturale, altro non sapeva fare, e lo voleva fare al meglio, fuori da piccinerie e meschinità, immerso tutto nella prospettiva di un futuro che sperava migliore di questo presente, a suo giudizio imperfetto e mediocre. Ecco perché, non appena gliene viene offerta l'occasione, si rimette al servizio dei Medici: dapprima deve sbrigare alcune faccende di poco conto, come risolvere beghe tra mercanti; poi, nel novembre del 1520, il cardinale Giulio gli affida un incarico di prestigio: scrivere una storia di Firenze, come avevano fatto nel passato umanisti del calibro di Poggio Bracciolini o Leonardo Bruni. Niccolò avrebbe voluto forse calarsi nuovamente nella politica attiva, ma dopo tanti anni di inerzia la stesura di quelle che diventeranno le Istorie fiorentine era pur sempre un'occasione da cogliere al volo.
Nel 1525 l'opera è pronta, e Machiavelli può presentarla al papa, ovvero lo stesso cardinale Giulio, nel frattempo salito al soglio pontificio con il nome di Clemente VII. È l'ultima grande opera di Niccolò, che ha ormai più di cinquant'anni, e non rinuncia, nonostante l'età, alle piccole missioni in giro per l'Italia che la sorte sapeva ancora offrirgli: in una di queste ha modo di approfondire l'amicizia con Francesco Guicciardini, l'altro grande scrittore politico del Rinascimento, su cui tra breve avremo modo di tornare. L'altra passione a cui Niccolò non rinuncia sono le donne. Doppiato da un pezzo il "mezzo del cammin" della vita, Machiavelli sembra accendersi d'amore per Barbara Raffacani, cantante e cortigiana che frequentava la casa del Fornaciaio, un nobile fiorentino di cui Niccolò era spesso ospite. Che l'infatuazione si trasformasse in relazione vera e propria è lo stesso epistolario di Machiavelli a rivelarcelo, come quando, in data 15 marzo 1526, si rivolge a Francesco Guicciardini chiedendo dei favori per Barbara: «dove voi gli possiate far piacere, io ve la raccomando, perché la mi dà molto più da pensare che lo inperadore». Insieme, però, Niccolò si lascia avvincere anche dalle grazie della popolana Maliscotta, che aveva conosciuto a Faenza, ancora una volta in un'ambasceria presso il Guicciardini. Non dobbiamo stupirci degli "amorazzi senili" di Niccolò, che ha sempre avuto un debole per il fascino femminile: ora sono la Raffacani e la Maliscotta, in passato erano state la Riccia, una cortigiana fiorentina, e una tal Jeanne, conosciuta in una delle missioni in Francia. A casa, poi, c'era sempre la povera Marietta ad aspettarlo, tanto che l'amico Filippo de' Nerli dovrà lamentarsi con Francesco del Nero dei comportamenti spregiudicati di Machiavelli. Ma forse anche la passione per le donne era segno della grande vitalità di Niccolò, che nell'ultimissima parte della sua vita di nuovo si trova impegnato in missioni di un certo riguardo.
La politica delle grandi potenze europee, infatti, continua ad avere come epicentro l'Italia. Un nuovo grande sovrano si staglia all'orizzonte: l'imperatore Carlo V, di cui, com'è noto, si dirà che sul suo impero non tramonta mai il sole: riuniva infatti sul suo capo, per una serie di circostanze fortuite, la corona imperiale e la corona di re di Spagna. Carlo V si propone come il nuovo paladino della cristianità e decide di riconquistare all'impero tutte quelle terre che giudicava illegittimamente tenute da altri sovrani: tra queste il ducato di Milano su cui governava il re di Francia Francesco I, che in un grande battaglia combattuta a Pavia viene catturato e fatto prigioniero. Tutti i territori contesi passano all'impero; in cambio, con il trattato di Madrid del 1526, Francesco I riacquista la libertà, ma anziché onorare l'accordo, riesce a creare un'alleanza anti-imperiale, la cosiddetta Lega di Cognac, con papato, Firenze e Venezia. Machiavelli è chiamato a redigere progetti per rafforzare le mura di Firenze, viene mandato da Francesco Guicciardini, plenipotenziario papale, in missione presso le varie potenze coinvolte: egli è di nuovo nel pieno delle sue forze e dell'attività che tanto ama. Le cose tuttavia non volgono al meglio: le truppe imperiali, oltre a essere molto numerose, sono ben addestrate. L'unico problema è, dopo Pavia, la difficoltà di equipaggiarle e pagarle a dovere, ma anche questa difficoltà si trasforma in un'arma potentissima: i soldati, malnutriti e stanchi, vengono condotti dai loro capitani verso Roma, capitale (per loro protestanti) della cristianità infida: è il cosiddetto sacco di Roma, ovvero il saccheggio della città, nel maggio del 1527.
Francesco Guicciardini, cui qua e là abbiamo accennato, è un alto esponente della politica fiorentina: nel difficile periodo che abbiamo appena descritto si trova al servizio del papa Clemente VII. È proprio in questi anni drammatici che Machiavelli rinsalda l'amicizia con lui, nonostante le differenze nel carattere e nella storia famigliare. Figlio di Piero, importante esponente della parte ottimatizia oltre che amico e discepolo di Marsilio Ficino, Guicciardini viene subito avviato agli studi giuridici e poi alla professione avvocatesca: una professione che gli frutterà anche un certo agio economico, se in alcuni appunti autobiografici potrà dire di avere avuto «più condizione assai che non si aspettava all'età mia». Dopo il matrimonio con la figlia di Alamanno Salviati, anch'egli esponente di spicco della parte aristocratica, comincia per Guicciardini la carriera politica. È del 1511 l'incarico più importante offertogli dalla Repubblica fiorentina: l'ambasceria presso Ferdinando il Cattolico; si tratta di verificare le reali intenzioni del re di Spagna rispetto alla coalizione che il papa vuole mettere in piedi contro Luigi XII di Francia; mentre Guicciardini è in Spagna, Machiavelli è in Francia: i due più importanti scrittori politici del nostro Rinascimento, insomma, verificano sul campo la tenuta e la reale applicabilità delle loro idee sullo stato e sulla dialettica del potere tra le grandi nazioni europee. È questo il sentimento che per esempio informa il Discorso di Logrogno, uno dei testi politici più interessanti del Guicciardini, composto appunto in Spagna nel 1512 con l'intenzione di discutere la forma di governo migliore per Firenze, avendo tuttavia ben presente uno scacchiere europeo dal quale è ormai impossibile prescindere, dal momento che proprio la politica delle grandi potenze influenza le vicende interne delle città italiane. La riprova se ne ha allo scadere di quello stesso 1512, con la caduta della Repubblica fiorentina e il ritorno dei Medici: la proposta, avanzata da Guicciardini proprio nel Discorso di Logrogno, di una costituzione mista, che contemperi potere monarchico (gonfaloniere), oligarchico (Senato) e democratico (Consiglio maggiore) appare drammaticamente superata dai fatti.
Se l'ambizione di procurare il bene alla propria città accomuna emblematicamente Niccolò e Francesco, anche le vicende biografiche hanno tratti simili. L'arrivo dei Medici compromette la carriera di Francesco, che può tornare alla politica attiva solo nel 1516, e solo al servizio del papa (è del resto quello che sperava, e che in qualche modo ottenne, lo stesso Machiavelli). Prima sotto la protezione di Leone X e poi di Clemente VII, peraltro appartenenti alla famiglia Medici, Guicciardini ottiene importanti incarichi, come il governatorato di Modena prima e la presidenza della Romagna poi. Tra il '21 e il '26, nel pieno di quegli avvenimenti drammatici che culmineranno col sacco di Roma, Guicciardini scrive il Dialogo del reggimento di Firenze, dove riprende, in maniera più articolata, i princìpi enunciati nel Discorso di Logrogno: l'importanza assunta, nella vita politica fiorentina e italiana, dalla famiglia dei Medici, rendeva quella riflessione sulla repubblica ormai del tutto inapplicabile; quello che però interessa a Guicciardini è realizzare un discorso teorico ampio e ben saldo, ragione per cui tornerà a più riprese sul testo, procurandone due redazioni successive e riscrivendo addirittura tre volte il proemio.
Il 18 maggio 1521, Guicciardini scrive una lettera a Machiavelli, in cui si compiace del suo nuovo incarico di storiografo fiorentino, senza tuttavia dimenticare che in altri tempi l'amico aveva ricoperto incarichi di ben più alto prestigio nell'ambito della politica attiva. La missiva è importante perché ci mostra il sentimento di stima che univa i due, oltre ad un approccio simile agli insegnamenti della storia. Quando io considero, scrive Guicciardini all'amico, «con quanti Re, Duchi et Principi, voi havete altre volte negociato», mi viene in mentre Lisandro, il famoso condottiero spartano, a cui spettava di distribuire il rancio a quegli stesso soldati che aveva appena comandato. Se ne può dedurre, seguita Guicciardini, che mutati solo i visi degli uomini, tutte le cose nel corso dei secoli ritornano, «et però è buona et utile la hystoria, perché ti mecte innanzi et ti fa riconoscere et rivedere quello che mai non havevi conosciuto né veduto». Lo stesso concetto Guicciardini esprime quasi in identica forma in uno dei Ricordi: «Tutto quello che è stato per el passato e è al presente, sarà ancora in futuro: ma si mutano e nomi e le superficie delle cose, in modo che chi non ha buono occhio non le riconosce, né sa pigliare regola o fare giudicio per mezzo di quella osservazione».
I Ricordi sono l'opera forse più nota di Guicciardini: una serie di massime di carattere morale e politico, distillate dalla sua enorme esperienza mondana (non a caso egli continuò a limare ed accrescere il suo libretto nel corso di oltre un ventennio). Qui, tra le altre, si trova una massima che non avrebbe stonato nemmeno in bocca a Niccolò: «Tre cose desidero vedere innanzi alla morte: uno vivere di republica bene ordinato nella città nostra, Italia liberata da tutti e' barbari e liberato el mondo dalla tirannide di questi scelerati preti». In quanto ai preti, Francesco e Niccolò avevano idee simili e,c come si vede, piuttosto severe... La forma repubblicana era quella in cui erano nati, avevano cominciato a muovere i primi passi da politici e che rimpiangeranno per tutta la vita. Infine, il desiderio di vedere il suolo della penisola finalmente libero dagli eserciti stranieri, doveva scontrarsi con la debolezza costitutiva della miriade di stati e staterelli italiani, soprattutto in quel drammatico giro di anni che va dal 1525 al 1527.
Nell'ambito della borghesia mercantile fiorentina era d'uso lasciare alla propria famiglia una serie di ammonimenti o consigli: nati forse come scritti del tutto occasionali e privati, i Ricordi sono cresciuti nel corso di un ventennio sino a configurarsi come una raccolta di massime apodittiche, in cui la dimensione municipale dei primi 29 "ricordi" lascia il posto ad una visione più ampia e universale, vera summa del pensiero di Guicciardini sull'uomo (221 "ricordi" all'altezza del 1530, anno dell'ultima redazione). Il ventaglio delle questioni affrontate è enorme, ma si traduce sempre in una collana di sentenze generali aventi come sfondo il panorama dei sentimenti e delle azioni umane: anche le massime di carattere politico (dall'amministrazione della giustizia ai meccanismi della diplomazia) trascendono quasi sempre, nella loro asciutta assertività, in riflessione metastorica sui destini degli stati e di chi li governa.
Il tono è quello di un disincanto lucido e pessimistico, dove domina la desolata consapevolezza della negatività dell'uomo, del suo desiderio di sopraffazione e di dominio, della tirannia della fortuna e della precarietà della vita: a partire da tali considerazioni possono svilupparsi le famose idee relative al particulare, ovvero alla necessità, in un panorama così instabile, di salvaguardare gli interessi personali. Più che cinismo, come è stato detto in passato (per esempio da Francesco De Sanctis), quella di Guicciardini è consapevolezza dei limiti dell'agire umano e dei condizionamenti esterni, che obbligano, dentro l'orizzonte mutevole e precario della vita (il «buio delle cose», "ricordo" 125), ad un inevitabile relativismo, se è vero pure che è impossibile estrarre dalla storia delle regole cui appellarsi, ma occorre saper cogliere le differenze tra le diverse situazioni (ciò che Guicciardini chiama la discrezione). È evidente, anche da questi cenni sommari, e nonostante quanto abbiamo scritto di sopra, una certa volontà polemica nei confronti di Machiavelli, che invece, come sappiamo, riteneva di dover indagare il passato per ricavarne condotte utili in ogni momento: è un errore, dice Guicciardini nel famoso "ricordo" 6, parlare delle cose del mondo «indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola»; ognuna infatti ha la propria peculiarità e la propria eccezione, ed esse non si trovano sui libri, ma «bisogna le insegni la discrezione».
Per Francesco è di nuovo tempo di buttarsi nella politica attiva: le truppe papali e imperiali riescono ad entrare a Firenze nel 1530 rovesciando, ancora una volta, la Repubblica. Clemente VII lo nomina governatore di Bologna, carica che tiene sino al 1534. Ma Clemente muore e il nuovo papa Paolo III (della famiglia Farnese, avversaria dei Medici) decide di disfarsi di lui. Guicciardini torna a Firenze e ottiene qualche incarico dal duca Alessandro de' Medici: il rapporto con quest'ultimo, tuttavia, si interrompe bruscamente quando esso viene ucciso da Lorenzino de' Medici. Viene allora nominato duca, con il concorso degli Ottimati e quindi anche di Guicciardini, il diciassettenne Cosimo; proprio la giovanissima età induceva le famiglie nobili alla speranza di poterlo manovrare secondo le proprie intenzioni. Le cose, come è noto, andarono diversamente: Cosimo rivendicò a sé le cariche e le funzioni del Senato, inaugurando, per Firenze, una stagione di forte accentramento del potere: fu allora che Guicciardini decise di ritirarsi definitivamente a vita privata per affrontare la fatica di un'opera storica monumentale, la Storia d'Italia, 20 libri che narrano un quarantennio di storia italiana, dal 1494 (discesa di Carlo VIII in Italia) al 1534 (morte di Clemente VII).
La straordinarietà dell'opera consiste non solo nelle sue dimensioni (di solito nelle edizioni moderne occupa due o tre grossi volumi), ma nell'uso delle fonti utilizzate, quasi tutte di prima mano: un lavoro immenso di lettura e cernita, che rende la Storia d'Italia il primo lavoro storico impostato secondo criteri moderni di analisi e interpretazione. Alle fonti documentarie si sommano l'enorme esperienza personale di Guicciardini e, solo in minima parte, fonti secondarie costituite da altri resoconti storici, comunque attentamente vagliati. Su tutto domina, ancora una volta, l'atteggiamento pessimistico e sfiduciato di Guicciardini rispetto alla possibilità per l'uomo di governare gli eventi o di far fronte alle proprie oscure pulsioni di egoismo e di sopraffazione: tutta la Storia, del resto, è la narrazione della progressiva decadenza dell'Italia, non tanto o non solo dell'antico assetto politico signorile, ma di un'intera civiltà, spazzata via dalle guerre e dall'intrinseca debolezza degli stati di cui essa era l'espressione più luminosa.
Solo pochi giorni dopo avere completato la Storia d'Italia, Guicciardini muore a Firenze, il 22 maggio 1540.
Guicciardini aveva fatto in tempo a vedere, diversi anni prima, la morte dell'amico Niccolò. Torniamo a lui, allora. Siamo nel 1527. A Firenze, con la sconfitta della Lega e delle truppe papali, le cose naturalmente si mettono male. Già nell'aprile c'è una sollevazione contro i Medici: nel maggio vengono definitivamente scacciati ed è restaurata la Repubblica. Molti si aspettano che Machiavelli venga di nuovo nominato segretario, se lo aspetta lui stesso; molti altri, tuttavia, non hanno mai potuto sopportarlo, perché non è aristocratico, perché nell'ultima parte della sua carriera ha servito Clemente VII e i Medici, perché si dice che sia un uomo senza Dio, eretico e malvagio... Insomma, com'è prevedibile, ancora una volta Niccolò viene messo ai margini. Questa volta, però, non ha molto tempo per dolersene: il 10 giugno, avendo contratto qualche infezione, si ammala di peritonite. Il 21 giugno muore e il giorno seguente viene sepolto in Santa Croce. Negli ultimi giorni di vita pare che raccontasse agli amici un sogno, una specie di visione che lo avrebbe atteso dopo morto: appena giunto nell'aldilà, così racconta il sogno, Niccolò vede un gruppo di persone lacere e tristi; chiede chi siano e loro rispondono di essere i beati del Paradiso; vede un'altra schiera di uomini, dall'aspetto solenne e dagli abiti nobili; tra essi vi sono grandi filosofi e pensatori dell'antichità, come Platone e Plutarco; alla domanda sulla loro identità gli viene risposto che sono i dannati dell'inferno. Così, conclude Machiavelli, è meglio andare all'inferno per parlare con quei grandi, che finire in paradiso ad annoiarsi mortalmente. E davvero, per molti anni, le opere di Machiavelli sono state relegate negli inferni delle biblioteche come testi terribili e malvagi, scritti da un uomo che voleva sovvertire le buone regole della politica, e che invece provava solo a salvaguardare, con l'audacia del pensiero, i destini della propria città e dell'Italia intera. La portata rivoluzionaria delle sue considerazioni, come speso accade, ha dovuto attendere molto tempo prima di imporsi con la forza di uno stile personalissimo e la spregiudicatezza di una riflessione che non arretra di fronte agli aspetti più drammatici e feroci della realtà.
Testi
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Id., Il principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino, 2005.
Id., Il principe, a cura di R. Ruggiero, Rizzoli, Milano, 2008.
Di Machiavelli la casa editrice Salerno sta pubblicando l'Edizione nazionale, a cura dei più importanti studiosi dell'autore.
Studi
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Bausi F. (2005), Machiavelli, Salerno editrice, Roma.
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