Nicola Bonazzi - L'epos ariostesco, il cortigiano, l'hidalgo e la fantasia europea

Alle origini della narrativa moderna.

 

All'origine delle narrativa moderna ci sono due pazzi. Nascono a distanza di circa cento anni l'uno dall'altro: il primo, Orlando, dalla penna di Ludovico Ariosto, che pare cominci a pensare al suo personaggio già attorno al 1507 (ce lo dice Isabella d'Este in una lettera di quell'anno al fratello Ippolito); il secondo, don Chisciotte, dalla fantasia sfrenata dello spagnolo Miguel de Cervantes Saavedra (1547-1616), al lavoro sul suo famoso romanzo a partire dal 1602.
Più o meno cento anni, dunque. Cento anni nei quali l'Europa conosce forse il punto di massimo splendore della sua storia millenaria: artisti e scrittori sembrano fare a gara per regalarci capolavori intramontabili, mentre esperti navigatori solcano i mari per scoprire nuove terre e l'invenzione della stampa, che risale al 1454, si afferma lentamente ma inesorabilmente, arrivando a rivoluzionare le abitudini culturali di interi strati della popolazione. Come sempre, però, ogni medaglia ha il suo rovescio: accanto alle conquiste del genio umano ci sono guerre, crisi economiche, carestie. Accanto ai palazzi signorili, frequentati anche da Ariosto e Cervantes, stanno i tuguri della plebe; accanto alla magnanimità della corte, stanno le invidie dei cortigiani; e se lo spirito laico spezza le catene di un secolare asservimento alla religione, quest'ultima rialza combattiva la testa, regalandoci abissi di malvagità punitiva e vette di misticismo sublime, che i chiaroscuri di Caravaggio restituiscono con drammatica evidenza.
Orlando e don Chisciotte, prima di diventare pazzi, ci vengono descritti come piuttosto saggi ed equilibrati: la loro parabola è quella di un Rinascimento che contraddice, nel momento stesso in cui la si enuncia, la formula un po' scolastica che vuole questo periodo della storia umana splendido di avventure intellettuali e artistiche; il loro destino è quello di vagare senza meta in un mondo improvvisamente sconosciuto e incomprensibile, in un tempo, che, come dice Amleto (altro spirito malinconico!), è «fuor di sesto», scardinato e alieno; attraverso loro, Ariosto e Cervantes ci ricordano che, anche nei suoi successi e nelle sue conquiste, l'uomo resta un essere enigmatico, un nodo spesso ingovernabile di pulsioni diverse, alle prese con una realtà difficile da decifrare. Ma, questa è la cosa bella, ce lo ricordano con il gioco lieve e svagato della loro scrittura; l'errare senza meta dei loro eroi è quello stesso dei romanzi nei quali agiscono, che sembrano perdersi dietro il piacere disinteressato del racconto, intrecciando storie, inventando personaggi, mescolando trame, sempre con un sorriso di complice ironia per i casi degli uomini, dal momento che, richiamando ancora le parole di Shakespeare, la follia nasconde sempre un po' di metodo.

 

Il piacere di raccontare

 

Da dove nasce questo piacere del racconto? Per cercare di rispondere a tale domanda sarà bene fare una piccola passeggiata dentro la vita di Ludovico Ariosto. Altra domanda: perché proprio Ariosto? Prima di tutto perché è uno dei maggiori letterati italiani; in secondo luogo perché la sua è la vita esemplare di un cortigiano del Cinquecento, in contatto con altre personalità importanti della nostra storia letteraria; infine, perché la sua opera più nota, l'Orlando furioso, ha conosciuto un successo eccezionale anche fuori d'Italia, inducendo altri scrittori a emularlo e determinando qua e là una vera e propria moda tra i lettori, quella stessa di cui si farà beffe Cervantes nel suo Don Chisciotte: quando sarà il momento daremo un'occhiata anche alla vita dello scrittore spagnolo, che è parecchio divertente. Per il momento accontentiamoci (si fa per dire) dell'esistenza non troppo avventurosa del nostro Ludovico. Quasi tutta la vita di Ariosto si svolge nelle città e nelle campagne della pianura padana: non è una notizia da poco, dal momento che c'è chi ha messo in relazione questi dati ambientali con un certo tipo di scrittura, per l'appunto un po' vanverante e svagata, che da Ariosto arriva direttamente ad autori moderni come Gianni Celati ed Ermanno Cavazzoni. Siccome la letteratura non è un fatto di laboratorio, nessuno può dire se esiste un rapporto certo tra questi due elementi. Ma poiché i paesi della Bassa sono effettivamente pieni di gente che ama raccontare i casi propri e vantarsi di quello che fa, e di altra gente che ama ascoltare questi racconti (soprattutto se parlano di gente stramba), noi lo diamo per buono. Tuttavia, dal momento che qui occorre attenersi ai fatti, piuttosto che perdersi dietro ipotesi verosimili ma non inconfutabili, sarà meglio tornare al punto.

 

I primi anni di Ludovico Ariosto

 

Ludovico Ariosto nasce a Reggio Emilia nel 1474. A quell'epoca Reggio è una piccolissima città retta dai duchi d'Este, che abitano a Ferrara: a governare la cittadina essi mandano il padre di Ludovico, Nicolò; un personaggio piuttosto focoso, se è vero che viene accusato dalla gente del posto di angherie e malversazioni, e deve perciò essere trasferito a Rovigo, per poi passare di nuovo a Reggio e infine a Ferrara nel 1484. La famiglia segue l'irrequieto Nicolò in tutti questi spostamenti: forse da qui nasce il desiderio di stabilità che Ludovico nutre per tutta la vita. Comunque gli Ariosto mettono finalmente radici a Ferrara e il futuro poeta del Furioso può dedicarsi agli studi, che sono prima di diritto, secondo i desideri del padre, poi di letteratura sotto la guida di un frate, Gregorio da Spoleto. Quando il padre muore, nel 1500, lascia, oltre al primogenito Ludovico, altri undici figli, del sui sostentamento il maggiore dovrà occuparsi. Inevitabile, per l'attuale capofamiglia, intraprendere a sua volta l'attività cortigiana presso gli Estensi, in particolare presso il duca Ercole.

 

Ariosto e gli Estensi

 

È questa la prima occasione in cui l'attitudine alle lettere di Ludovico fa a pugni con le necessità della vita: tuttavia Ariosto ha una di quelle fortune che capitano a pochi, cioè di essere nel posto giusto al momento giusto. Il posto giusto è Ferrara, il momento è quello degli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento, quando la città emiliana, dominata dalla signoria estense, fortifica la sua vocazione a capitale. Il duca Ercole I intraprende addirittura un ampliamento urbanistico, chiamato appunto dagli storici "addizione erculea", che dovrebbe assicurare difese più solide e garantire un incremento demografico. Così, se prima Ferrara è un dedalo di stradine strette e malsicure, raggomitolate attorno al castello dei signori, nel giro di pochi anni acquista un respiro diverso, e le nuove prospettive urbane, ariose ed ampie, sembrano metaforizzare le prospettive di crescita, anche culturale, che la città si è data. Ariosto entra al servizio di Ercole nel 1497, quando ha 23 anni e suo padre è ancora vivo: nel 1505 anche Ercole muore, lasciando il peso del governo in mano ai figli Alfonso, che sarà il nuovo duca, e Ippolito, da poco nominato cardinale: Ludovico era passato da un paio d'anni alle dipendenze di quest'ultimo, inaugurando una stagione della propria vita tutt'altro che piacevole, stando a quello che egli racconta di sé, non troppo distesamente, nelle proprie opere. Un periodo che durerà fino quasi al 1537, l'anno della morte.

 

I due volti di Ludovico

 

A Londra è conservato un presunto ritratto di Ariosto dipinto da Tiziano: un uomo vestito con un elegante giubbone di raso azzurro, dalla barba e dai capelli ben curati; lo sguardo lo si direbbe precocemente immalinconito o leggermente irritato (la seccatura di restare in posa?), un lieve accenno di occhiaie tradisce qualche preoccupazione, o qualche notte insonne; la bocca potresti dirla irrigidita come per uno sdegno trattenuto; eppure, se si osserva il dipinto da lontano, o sotto altra luce, succede a quel volto ciò che succede ai ritratti migliori dei grandi artisti, che si aprono a intenzioni ambigue, scoprendoci stati d'animo inaspettati, e suggerendo in definitiva ciò che si diceva prima, ovvero che l'uomo è tante cose diverse, e quando pensiamo di averlo compreso appieno dobbiamo poi subito ricrederci: così quello sguardo sembra scrutarci con condiscendenza, manifestando un sussulto di consapevolezza ironica, una voglia di sorriso subito compressa. Se davvero l'uomo del ritratto di Tiziano è Ariosto, bisogna dire che è una bella carta d'identità.

 

Il parere di De Sanctis

 

Non basta: se leggiamo l'Orlando furioso ne trarremo l'impressione di un autore dalla prorompente energia inventiva, la cui smisurata creatività riflette un impeto vitalistico quasi inesauribile. Ma Francesco de Sanctis, sempre commentando un ritratto ariostesco, dice che potremmo supporgli «un carattere leggiero», mentre la sua «vita fu tragica. Era malaticcio, sottile, con un affanno di petto che gli rendeva di quando in quando impossibile il lavoro».
Insomma, si può presumere che per Ariosto la pace e la tranquillità, sempre contraddette da questi continui servizi per i suoi signori, fossero davvero un bisogno insopprimibile, e che il trovarsi in mezzo a situazioni di difficoltà a volte estrema, aliene alla sua indole più autentica, gli abbia dato la possibilità di riflettere sugli infiniti casi degli uomini con un distacco invidiabile.
Anche da questo nasce forse la nota disposizione ironica della pagina ariostesca, la capacità insomma di guardare la vita senza prenderla di petto, e sorridere, magari con un fondo di amarezza, come chi ha quasi tutto compreso dei propri simili, delle loro vanità e delle loro debolezze, senza astio o rancore, anzi con il desiderio di parlarci di noi, e condividere il piacere di una garbata presa in giro (guarda caso si potrebbe dire lo stesso di Cervantes).

 

Ariosto cortigiano

 

Mentre Ariosto cominciava a conquistare qualche fama non effimera nel mondo delle lettere, il cardinale non dava minimamente segno di accorgersene, utilizzando il poeta solo per le proprie missioni politiche e diplomatiche e dimenticando persino, talvolta, di pagargli lo stipendio. Ci è conservata una lettera in cui il poeta chiede al segretario privato di Ippolito che gli vengano corrisposti gli arretrati del salario: dice di aver dovuto pagare tutti i debiti pregressi e di essere così «rimaso senza un soldo»; se nell'estate imminente sarà costretto a vestire come l'inverno appena passato, con una misera veste di cuoio, tutti gli altri cortigiani rideranno di lui! Questo per dire che, tolta l'aureola ai nostri poeti più famosi, restano degli uomini alle prese con i bisogni quotidiani, spesso piuttosto impellenti. Essere cortigiani, dunque, vivere pienamente e senza equivoci la dimensione della corte, significava mantenere sempre un certo decoro, vestire elegantemente, parlare e comportarsi nel modo più raffinato possibile. Ciò che Ariosto non ricusava di fare, ma che aveva qualche difficoltà a mettere abitualmente in pratica.

 

Una piccola digressione: la congiura di don Giulio d'Este

 

Ariosto entra a far parte dei familiari di Ippolito d'Este nel 1503. Il cardinale, a dispetto della condizione ecclesiastica, era personaggio piuttosto inquieto. Dedito a qualunque tipo di piacere terreno, pare che da giovane scorrazzasse per Ferrara in compagnia di amici, armati fino ai denti al solo scopo di spaventare i passanti e fare un po' di cagnara: quando qualcosa lo irritava, non esitava a compiere azioni anche crudeli, come quella che diede inizio a una delle vicende più tragiche del ducato di Ferrara, la cosiddetta congiura di Giulio d'Este. Eccola in sintesi. Alfonso e Ippolito avevano due fratellastri: Ferrante e Giulio, nati da una relazione illegittima di Ercole I. I rapporti tra loro non erano buoni, forse avvelenati da invidie e rancori latenti. Tutto precipitò quando Angela Borgia, lontana parente di Lucrezia e sua dama di compagnia, rifiutò Ippolito per i begli occhi (così si disse allora) di Giulio. Ippolito, furibondo, sorprese Giulio in una strada di Ferrara e lo fece accecare da alcuni staffieri: benché la storia dovesse restare segreta, fu lo stesso Alfonso ad ammettere le colpe del fratello in un'epistola a Isabella, futura sposa di Francesco Gonzaga. Il fatto diede occasione a Giulio, a Ferrante e ad altri di ordire una congiura contro Alfonso, reo di troppa arrendevolezza nei confronti di Ippolito. Ma si trattò di una congiura organizzata male: subito scoperti, ai congiurati minori venne mozzata la testa, mentre Giulio e Ferrante vennero rinchiusi in cella, dove sopravvissero molti anni, ben oltre i due fratelli signori: Giulio addirittura cinquantatre anni. La tragica vicenda fu cantata da Ariosto in un'egloga tutta sbilanciata dalla parte di Ippolito: il poeta era già stipendiato dal cardinale e non poteva permettersi di contrariare l'illustre patrono, anche se genuina è la preoccupazione per una possibile discordia civile che la congiura, qualora riuscita, avrebbe potuto produrre: «Veduto avresti romper tregue e paci/sorger d'ogni scintilla mille faci».

 

La corte di Ippolito d'Este

 

Il cardinale amava circondarsi di cortigiani chini al suo volere: oltre cento persone ne garantivano lo svago e si occupavano delle faccende diplomatiche; c'era persino chi doveva prendersi cura di certi leopardi in gabbia, ornamento delle sale principesche. Stare a tavola con il cardinale, versargli da bere, vestirlo, cercare per lui volumi rari e ogni tanto dilettarlo con qualche rima: questi e altri i compiti quotidiani di Ludovico, cui spettava anche quello, ben più gravoso, di curare missioni diplomatiche spesso delicate e pericolose. È in una di tali missioni, presso Isabella d'Este a Mantova per la nascita di Ferrante Gonzaga, che Ariosto legge i primi versi del Furioso, nel 1507. Ed è sempre in una di tali missioni, a Urbino presso i Montefeltro, che entra in contatto con quella schiera eletta di dame e gentiluomini che Baldassar Castiglione celebrerà nel suo Cortegiano. Vivere a corte significa dunque goderne gli squisiti privilegi: conversazioni dotte, svaghi mondani, cibi prelibati. Ma significa pure entrare in un'agguerrita competizione per assicurarsi le attenzioni del signore, per scalzare dalla sua orbita gli altri cortigiani, per lucrare compensi migliori, in una scalata sociale che era tipica del sistema delle corti. Ariosto ne faceva parte, ma il disincanto con cui era solito guardare le faccende del mondo lo portò a interrogarsi seriamente sulle storture dell'ambiente che frequentava: così, quando nel canto XXXIV del Furioso manderà Astolfo sulla luna a recuperarvi il senno di Orlando, gli farà trovare, tra le varie cose che si perdono e che si raccolgono lassù, anche «ami d'oro e d'argento», ovvero i doni che si fanno ai signori con speranza di ricompensa, e «mantici» a rappresentare i favori che gli stessi principi accordano ai loro sottoposti, svaniti presto sotto il peso dell'età.
Che, nonostante tutto, Ariosto non si sottraesse agli obblighi derivati dalla sua condizione, ce lo dicono alcuni episodi della sua vita, tutti legati all'attività diplomatica che era costretto a svolgere e a cui avrebbe volentieri rinunciato: in particolare le missioni a Roma presso il pontefice Giulio II, irritato con Ferrara per la sua alleanza con la rivale Venezia, missioni conclusesi sempre con fughe precipitose per scampare minacce di severe punizioni, come essere legato, imbavagliato e gettato nelle acque del Tirreno (ambasciata del 21 agosto 1510)

 

L'attività di commediografo

 

L'attività cortigiana sollecita Ariosto anche in un altro senso, per fortuna più piacevole: Ippolito lo spinge ad occuparsi degli apparati festivi allestiti in occasione di ricorrenze particolari o eventi di certa importanza. Organizzare delle feste, per il carnevale, per celebrare nozze o arrivi di principi stranieri, è tutt'altro che attività disimpegnata: Ariosto traduce delle commedie latine che poi saranno recitate alla presenza dei signori, ne diventa quello che oggi chiameremmo il "regista", si cimenta addirittura come attore in alcuni ruoli, collabora con artisti e architetti che devono occuparsi della scena e di tutti gli addobbi della corte. Ma soprattutto scrive testi originali, dei quali il primo, la Cassaria del 1508, viene di solito indicato come la prima commedia della tradizione volgare italiana: uno spettacolo interamente laico che sfrutta a livello scenografico l'invenzione della prospettiva, e introduce situazioni e ambienti contemporanei. Delle cinque commedie di Ariosto, la critica attribuisce la palma di migliore alla Lena (1528), dove protagonista è tutta un'umanità truffaldina e furba, sullo sfondo di una Ferrara plebea lontanissima dall'eleganza aristocratica di quelle sale di corte che ne ospitavano la rappresentazione.
Ma davvero ciò che più conta, di là dai risultati dei diversi testi, è la costanza e la passione di Ariosto nell'affrontare, diremmo oggi "da professionista", il difficile mondo del teatro; gliene vennero tributi e lodi da persone di un certo riguardo. Per esempio il famoso commediografo e attore Ruzante (pseudonimo di Angelo Beolco, 1496-1542), dovendosi scusare per un possibile ritardo della sua compagnia chiamata a recitare presso la corte ferrarese, afferma che «Messer Lodovico Ariosto serà buono per fare acconciare la scena»; e Isabella Gonzaga attribuisce il merito di una eccellente riuscita della Cassaria, nel 1532, ancora a Ludovico «al quale non si trova ogi dì pari alcuno in così fatte cosse».
Le commedie ariostesche presentano quasi tutte spunti di critica sociale e politica: che la scena sia la modalità preferita da Ariosto per descrivere l'incostanza umana? Che questo infinito gioco di sottrazione a cui sempre Ariosto si presta (il fastidio per la politica come mestiere, per la vita cortigiana, l'affetto per la propria città e per una vita tranquilla di studi ed esercizi letterari) trovi nel teatro la sua espressione più propria? Non lo sappiamo, ma certo l'amore per la scena durò fino alla morte e culminò nella costruzione di un grande teatro in legno, con palco e scenografia fissi: nel dicembre del 1532 un incendio devastò il palazzo ducale bruciando il nuovo teatro estense. Era il sogno di una vita che se ne andava in fumo.

 

Un padrone dispotico

 

In questo singolare "manicomio" che è per Ariosto il mondo circostante, uno dei pazzi peggiori dovette sempre sembrargli il cardinale Ippolito, insieme a tutti i cortigiani che si affannavano ad assecondarlo in richieste assurde ed eccessive. La più imprevedibile di tali richieste venne nel 1517, quando il cardinale, appena ottenuto il vescovado di Angria in Ungheria, decise di partire con l'intero suo seguito. Un viaggio lungo e pericoloso, attraverso rotte malsicure, controllate spesso dai briganti: un viaggio dal quale ritornare sani e salvi poteva non essere così scontato. Per la prima volta Ludovico si oppone con fermezza al volere del suo padrone: la Satira I, composta forse nel novembre del '17 proprio in seguito alla rottura col cardinale, dà conto di questa ribellione alla cortigianeria smaccata. Che il cardinale aduli o rimproveri, s'alza subito un mormorio di voci «di quanti n'ha dintorno» (v. 15) per approvare le sue parole. Ariosto, all'opposto di questi leccapiedi ambiziosi, rivendica per sé un ideale di vita tranquillo e sobrio, fatto di pochi agi, purché sufficienti a garantirgli le ore di studio che ha sempre dovuto mendicare. È persino disposto a restituire al cardinale i benefici sin lì ricevuti, come fa capire la favola (di origine oraziana) che chiude la satira: un asino magrissimo, per accedere a un mucchio di grano che potrebbe sfamarlo, è costretto a infilarsi con metà del corpo dentro l'apertura praticata in un muro; mangia però così tanto grano che alla fine la pancia si dilata e lui non è più in grado di uscire dal buco. Un topolino lì presso, vedendolo, gli suggerisce di cominciare a vomitare. Questi i versi che suggellano la storia: «Or, conchiudendo, dico che, se 'l sacro // cardinal comperato avermi stima // con li suoi doni, non mi è acerbo et acro // renderli, e tòr la libertà mia prima».

 

Le satire

 

Le sette Satire (composte tra il 1517 e il 1524, pubblicate postume) sono forse, dopo l'Orlando furioso, l'opera più compiuta di Ariosto, quella dove meglio si manifesta la sua indole pacata ma insieme intollerante ai servilismi e alle adulazioni: una sorta di "conversazione allo specchio", di autobiografia sentimentale, dove Ludovico riflette sulla vita, amministra le sue simpatie e sfoga i suoi sdegni, che, non a caso, sono spesso indirizzati verso la corte. Il fatto di essere scritte in terzine (il metro della Commedia dantesca) serve a frenare la piena dei sentimenti, che in alcuni casi potrebbe rivelarsi travolgente. Spesso, come nel caso citato prima, alcune favole interrompono il discorso, alleviando il tono risentito del testo; di queste la più famosa è quella inserita nella Satira III, dove un gruppo di popolani ingenui tenta un'improbabile scalata alla luna: tutti corrono con panieri e canestri lungo il crinale del monte nel tentativo di catturarla, ovviamente senza risultato, a significare l'illusorietà di onorificenze e premi. L'immagine della luna quale ricettacolo delle vane speranze degli uomini, tornerà poi, com'è noto, anche nel Furioso.
La Satira IV, scritta nel 1524, è una delle più interessanti, perché ci racconta gli anni del governatorato in Garfagnana, a cui Ludovico fu destinato dal duca Alfonso dopo la partenza di Ippolito: zona impervia dell'appennino tosco-emiliano, oggi geograficamente appartenente alla Toscana, la Garfagnana era stata appena sottratta dagli Estensi ai fiorentini. Il nuovo compito di Ariosto non si presentava semplice: di là dalla malagevolezza del viaggio, e dall'inospitalità dei luoghi, il problema più grave era rappresentato da continui episodi di brigantaggio che tenevano costantemente sotto scacco la regione, in un continuo stato di disordine amministrativo, politico e civile. Ariosto, a differenza di quello che possiamo credere, fu un governatore di polso, in lotta non solo con la popolazione locale, ma anche con il governo centrale di Ferrara, che non gli garantiva i mezzi necessari per svolgere al meglio il proprio compito. Di questo periodo ci restano alcune lettere belle e famose, che rivendicano la libertà di manovra nell'azione politica e giuridica. «Io non cesso di pensare e di fantasticare come senza spesa del signore nostro io possi accrescere le mie forze, per fare almeno che questi ribaldi abbian paura di me», scrive nel 1522. Ma nel 1523 era costretto a rivolgersi al duca con queste parole: «Se V. Ex. (vostra eccellenza) non mi aiuta a difender l'onor de l'officio, io per me non ho forza di farlo: che se bene io condanno e minaccio quelli che mi disubbidiscano, e poi V. Ex. li assolva o determini in modo che mostri di dar più lor ragione che a me, essa viene a dar aiuto a deprimere l'autorità del magistro». Insomma, Ludovico si affannava a condannare, mentre a Ferrara subito liberavano. Ma nel giugno del '25, dopo tre durissimi anni, anche questo servizio ha termine e Ludovico può tornare a Ferrara, dove aveva lasciato i fratelli, due figli avuti da relazioni differenti, e la donna amata, Alessandra Benucci, moglie di un mercante fiorentino, scelta come compagna di vita dopo che quest'ultimo era morto nel 1515, e che Ariosto sposerà, dopo anni di convivenza segreta, solo nel 1530.

 

Matteo Maria Boiardo

 

Dopo il ritorno a Ferrara Ariosto può dedicarsi alla redazione definitiva dell'Orlando furioso, che esce nella sua terza impressione presso la tipografia di Francesco Rosso da Valenza a Ferrara nel 1532, un anno prima della morte.
Il poema di Ariosto rappresenta il momento culminante di una lunga tradizione che aveva fatto di Orlando l'eroe per antonomasia delle narrazioni cavalleresche, soprattutto a Ferrara, dove la corte amava leggere le storie dei paladini francesi. Non a caso Ariosto ricollega la propria opera direttamente a quella di un altro poeta estense, Matteo Maria Boiardo, autore, tra la fine del Quattrocento e l'inizio del Cinquecento dell'Inamoramento de Orlando, o, secondo la dizione vulgata che si è imposta, Orlando innamorato.
Nato nel 1441 a Scandiano, presso Reggio Emilia, Boiardo era, come Ariosto, rampollo di una famiglia della media nobiltà: aveva studiato a Ferrara con importanti maestri, Guarino Veronese in testa, ma, alla morte del padre, fu costretto a imboccare di nuovo la strada di Scandiano per assumere l'eredità del feudo. Diventato cortigiano di Borso e poi di Ercole d'Este, si dedicò presto alla poesia: il suo canzoniere, Amorum libri tres, è uno dei più importanti del Rinascimento, per la struttura unitaria (in 3 libri di 50 sonetti ciascuno più 10 componimenti di vari metri è narrato l'amore per la gentildonna Atonia Caprara) e per l'imitazione del modello petrarchesco, pur mediato dalle suggestioni classiche di Ovidio e Tibullo. Al poema Boiardo cominciò a lavorare nel 1476, mentre doveva presiedere a vari incarichi commissionatigli dai duchi: tra questi il più importante fu il governatorato delle rocche di Modena e, successivamente, di Reggio, dove lo colse la discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII (estate del 1494): evento epocale e tragico, che nell'opinione dei contemporanei segnò la fine di una stagione felice e pacifica, e costrinse Boiardo a interrompere la propria opera. Non vi fu modo di riprenderla, dal momento che il poeta morì nel dicembre dello stesso anno.

 

L'Orlando innamorato

 

Del poema boiardesco restano due libri di sessanta canti complessivi più un terzo interrotto all'ottava 26 del canto nono: tutti i personaggi del Furioso sono già qui presenti. Pure dell'Innamorato è il gusto per gli episodi fantastici e per l'intreccio di trame diverse. Armi ed amori trovano uguale spazio, come sarà nel Furioso. Basti dire che l'invenzione più nota del poema di Boiardo è rappresentata dalla fontana dell'amore e dell'oblio: nella finzione del poeta, chi beve alla cannuccia dell'amore viene preso da passione per la prima persona che gli comparirà davanti; esattamente il contrario di quello che succede a chi beve alla cannuccia dell'oblio. Angelica e Ranaldo (che nel Furioso diventerà Rinaldo) bevono ripetutamente a questa fontana, ma mai dalla stessa cannuccia: si inseguiranno, odiandosi e amandosi alternativamente, per tutto il poema. Ma il vero tratto di novità è rappresentato, appunto, dall'innamoramento di Orlando, il paladino per eccellenza; unendo suggestioni provenienti dalla lirica classica di Ovidio e Properzio con elementi tipici della letteratura cortese e trobadorica, Boiardo fa del paladino una figura pienamente umana: egli non è più solo il coraggioso combattente della tradizione carolingia, ma anche un uomo vinto dalla passione d'amore, grazie alla quale trova la forza di portare a compimento le proprie imprese. Giunto all'ottava 26 dell'Innamorato, mentre sta raccontando di Bradamante scambiata per un uomo da Fiordespina, Boiardo sente che non ha più la forza di continuare: ben altri sono, in questo momento, gli eventi cui fare fronte: «Mentre che io canto, o Iddio redentore, // vedo la Italia tutta a fiama e a foco…». Deve interrompersi: forse un giorno gli sarà concesso continuare: «Un'altra fiata, se mi fia concesso, // racontarovi il tutto per espresso» (III, 9, vv. 26-33).
Se pensiamo che Ferrara era la capitale indiscussa del romanzo cavalleresco, non ci deve sorprendere più di tanto la scelta di Ariosto di dare continuazione a questo poema: i signori estensi erano voraci lettori delle gesta meravigliose dei cavalieri erranti; così, riprendere il filo della narrazione esattamente là dove l'aveva lasciato Boiardo, significava non solo offrire alla corte lo svago prediletto, ma anche rivendicare in pieno la propria appartenenza a un preciso contesto culturale.

 

Al lavoro sul Furioso

 

L'approccio di Ariosto al genere cavalleresco, del resto, risaliva a molti anni prima: poco più che adolescente egli aveva scritto l'Obizzeide, un poema in terzine che doveva celebrare Obizzo, illustre antenato della casa d'Este. Il poema, forse per il sopraggiunto impegno del Furioso, fu presto interrotto. Dell'Orlando Furioso, Ariosto procurò tre edizioni successive. La prima, in 40 canti, risale al 1516: fu stampata a Ferrara in 1300 esemplari e presenta caratteri linguistici di marca prettamente padana (es.: credeti, mostrarò, arete ecc.). La seconda edizione apparve nel 1521 e presenta scarse variazioni rispetto alla precedente, con l'unica eccezione dell'aggiunta di 121 versi. Nel 1532, infine, uscirà, presso Francesco Rosso da Valenza, a Ferrara, l'ultima edizione, in 46 canti. L'autore vi aggiunge qualche episodio di non scarso rilievo, come per esempio quello del salvataggio di Olimpia da parte di Orlando, e compie spostamenti significativi nella disposizione della materia (l'episodio della pazzia di Orlando acquista un ruolo centrale, tra i canti XXIII e XXIV). Nello stesso tempo cambia la patina linguistica: la koiné padana che aveva contraddistinto la prima redazione sparisce a favore del toscano illustre, secondo la soluzione prospettata da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua (1525). A questa decisione contribuiscono fatti non solo letterari: i difficili rapporti con i signori di Ferrara, il declino delle corti, ormai preda di potentati stranieri, la necessità di raggiungere un pubblico che esorbiti da quello, colto ma tutt'altro che ampio, del ducato ferrarese.
In appendice a un'edizione del Furioso del 1545, infine, vennero pubblicati i cosiddetti Cinque Canti, che furono presumibilmente scritti attorno al 1521. Ariosto decise tuttavia di non inserirli nel corpo della materia perché troppo distanti dal tono generale del poema; si tratta infatti di canti cupi e malinconici, che trattano, senza peraltro giungere a conclusione, gli inganni del traditore Gano ai danni dei protagonisti del poema: anche questi ultimi, poi, sono costretti dall'autore a subire prove di carattere espiatorio. Lo stesso Astolfo, altrove portatore di una visione disincantata ed edonistica nel mondo cavalleresco, è qui alle prese con situazioni oscure e punitive.
I Cinque canti, secondo il critico Nino Borsellino, sono l'abbozzo di un Furioso moralizzato: si capisce bene perché poi Ariosto decise di non inserirli nel tessuto narrativo finale.

 

Il poema dei destini erranti

 

Il primo verso del poema dichiara la volontà di fondere la materia epica del ciclo carolingio con quella cortese del ciclo brètone o arturiano, secondo un tentativo già messo in atto da Boiardo: «Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori // le cortesie, l'audaci imprese io canto», dove «donne» ed «amori» rimandano agli antichi testi francesi sugli eroi della Tavola Rotonda, mentre «cavalieri» ed «armi» a quelli sui paladini di Carlo Magno.
Da quell'esordio parte una sequenza ricchissima di vicende, che rendono la trama del Furioso troppo vasta per essere riassunta in modo adeguato. Vi si possono comunque riscontrare tre filoni principali: quello dell'amore di Orlando per Angelica, quello dell'amore tra Ruggiero e Bradamante, che costituisce l'occasione encomiastica del poema (dalla loro unione, secondo un'invenzione già di Boiardo, nascerà la stirpe estense), e quello della guerra tra cavalieri cristiani e saraceni. Le tre trame sono continuamente intrecciate dal poeta, che fa agire sullo sfondo di queste vicende una folla di personaggi in perenne movimento.
Già nelle prime ottave troviamo qualcuno che corre sul suo cavallo: è Angelica, la protagonista femminile del poema, inseguita da due cavalieri, Ferraù e Rinaldo, entrambi innamorati di lei. Per qualche scherzo del destino, i due si disperdono e sono costretti a cominciare un nuovo inseguimento; uno, Ferraù, dietro all'elmo di Orlando verso cui lo sprona l'apparizione fantastica di un altro cavaliere da lui ucciso qualche tempo prima; l'altro, Rinaldo, dietro al proprio cavallo imbizzarrito. Come se non bastasse, dopo qualche altra ottava sopraggiunge un nuovo cavaliere (ma è una donna: Bradamante) alla ricerca di Ruggiero, l'uomo che ama. Orlando, come tutti i personaggi importanti, si fa attendere un po': entra in scena solo nel canto VIII. È a Parigi, a difendere il campo cristiano contro i saraceni, ma subito parte per mettersi sulle tracce di Angelica.
Insomma, non c'è nessuno che stia fermo, nessuno che abbia o cerchi un attimo di requie. Tutti si muovono dietro la spinta ossessiva di qualcosa o qualcuno: è questa, in definitiva, la grande follia del mondo, quella che Ludovico ravvisa nei suoi contemporanei, nei cortigiani alla ricerca di un prestigio sociale come nei signori sempre pronti a rivaleggiare con qualche altro principe nell'acquisto e nell'ostentazione del potere. È un tratto che accomuna tutti, sembra dirci Ariosto: per questo il timbro della poesia ariostesca non può essere tragico, perché lo stesso poeta avverte di non riuscire a dissociarsi dalla pazzia dell'umanità, sente di coltivarla a sua volta, perché ineludibile; tutti, chi più chi meno, coltiviamo una nostra ossessione: preso atto di questo tanto vale accettarla e, se possibile, riderci sopra.

 

La pazzia del mondo

 

In un famoso episodio del poema (canto XII) vediamo buona parte dei personaggi varcare la soglia di un castello: hanno visto entrarci la persona amata o vi hanno perduto qualcosa (per esempio il cavallo) che non riescono poi a recuperare; siamo infatti in un castello incantato, edificato dal mago Atlante, e quello che tutti cercano è solo un'apparenza, un'immagine che svanisce nel momento stesso in cui si crede di averla raggiunta. Così, chi vi capita, passa lì dentro «le settimane intiere e i mesi» (ott. 12, v. 8). È una metafora suggestiva di questa stramba combriccola di pazzi che è per Ariosto il mondo; tutti siamo alla ricerca ossessiva di qualcosa che non si realizza mai, perché mai l'uomo è in grado di godere pienamente di ciò che ha, e ogni condizione pur minimamente felice è perennemente procrastinata.
Anche la luna, come si è detto, compare nel Furioso come emblema di irraggiungibilità, di un desiderio o di un'aspirazione sempre frustrata: Orlando ha perso la testa dietro i capricci della bella Angelica (canti XXIII-XXIV) e ora il suo «senno» è finito lassù, dal momento che tutto quello che viene smarrito sulla terra viene stivato in un vallone lunare (una specie di duplicato del castello di Atlante, come si vede); un altro paladino, Astolfo, si assume il compito di andare a recuperarglielo, e ha così modo di osservare quante sono le che cose gli uomini perdono senza saperlo (canto XXXIV). Sulla luna si trovano le lacrime e i sospiri degli amanti, il tempo che si consuma giocando d'azzardo, l'ozio degli ignoranti, le corone dei re e, naturalmente, tutti i doni e le adulazioni che i cortigiani spendono per i loro signori nella speranza di riceverne qualche beneficio. Alla fine Astolfo riuscirà a ridare il senno a Orlando, facendoglielo inalare, e recupererà persino un pezzo del proprio, smarrito durante gli anni: ma (ecco la grande ironia ariostesca!) dovrà smarrirlo nuovamente qualche tempo dopo: «...uno error che fece poi, fu quello // ch'un'altra volta gli levò il cervello» (ott. 86, v. 8).
Siamo al cospetto di un'irridente, seppur amara, lettura dei destini umani: la nostalgia per un'età ormai trascorsa (e forse solo idealizzata) di valori cortesi, di paladini coraggiosi e magnanimi, si riempie delle riflessioni del poeta, inquiete e modernissime, sui comportamenti dell'uomo, sul conflitto tra ragione e passione, sull'ingovernabilità del caso. Ma proprio dalla miscela tra il senso inquieto del presente e il piacere del racconto favoloso nasce questa sprezzatura ironica, tra disincanto e affabulazione, che costituisce la cifra caratteristica del poema.

 

La fortuna europea del Furioso

 

È una fortuna che Ariosto sia arrivato a concludere la terza redazione del Furioso: pochi mesi dopo la pubblicazione, nel luglio del '33, egli muore nella sua casa in contrada Mirasole a Ferrara. Il poema conoscerà una fortuna straordinaria, in Italia come fuori: con le sue avventure favolose, l'eleganza dei suoi versi, la solida caratterizzazione dei personaggi, era andato incontro ai gusti di un pubblico vastissimo, cortigiano e popolare. Non a caso, fino a tutto l'Ottocento, le ottave del Furioso saranno recitate a memoria da torme di improvvisatori sulle piazze cittadine e nelle aie di campagna.

 

Un profluvio di "Orlandi"

 

Tutto quello che ha successo diventa moda; così anche il Furioso conosce un numero esorbitante di continuazioni e imitazioni, dai titoli spesso improbabili: Canto primo del cavaliere dal Leon d'oro, Prime imprese del conte Orlando, Marfisa bizzarra, Le lagrime di Angelica sul suo cavallo, Belisario fratello di Orlando, Sacripante, L'Erculea, Angelica sul suo cavallo innamorata, L'amorosa vendetta di Angelica sul suo cavallo, Bradamante gelosa ... . La moda riporta in auge vecchi poemi trecenteschi o quattrocenteschi dai nomi altrettanto fantasiosi: Aiolfo del Barbicone, Antafor di Barossia, Aspramonte, Bradiamonte, Buovo d'Antona, Drusuano del Leone … . Tutti testi derivati dagli antichi cantari bretoni o carolingi, ovvero da quei poemi in ottave che raccontavano le gesta dei paladini di Carlo Magno o degli eroi della Tavola Rotonda. Poemi che, diffusi dalla Francia medievale, avevano incontrato grande successo proprio per via delle avventure mirabolanti e delle storie d'amore di cui erano pieni. Si tratta di una vicenda europea, non solo italiana: così l'altro grande autore che si è occupato di un pazzo e della cavalleria, ovvero Cervantes, avrebbe potuto leggere, e forse li lesse veramente, titoli come Florisel de Niquea, Belianìs de Grecia, Palmerìn de Oliva, Palmerìn de Inglaterra, Olivante de Laura e soprattutto l'Amadigi di Gaula e Tirante el Blanco, ovvero i due più famosi poemi cavallereschi spagnoli. Sicuramente Cervantes lesse anche l'Orlando furioso, traendone un'ottima impressione: infatti, se in generale quasi tutti gli autori di poemi cavallereschi, noti o anonimi, ricevono nel Chisciotte critiche impietose, per l'Ariosto vengono spese invece parole di ossequio e di ammirazione.

 

Cervantes e Ariosto

 

Secondo una certa critica, del resto, Ariosto e Cervantes sono parenti nell'attuare la dissoluzione di quel mondo cavalleresco che aveva costituito la base del regime feudale nel medioevo, e che poi l'ambiente cortigiano dei secoli successivi aveva mitizzato come un'epoca d'oro di magnanimità e nobiltà di spirito. Il primo a enunciare questo concetto fu il filosofo Friedrich Hegel (1770-1831), il quale nella sua Estetica disse che Ariosto aveva trattato comicamente la cavalleria, mettendone però in rilievo gli aspetti positivi, mentre Cervantes l'aveva parodizzata senza pietà. Un'argomentazione poi ripresa da Francesco De Sanctis, secondo cui «Orlando diviene don Chisciotte e, quando don Chisciotte entra in scena, tutto un mondo se ne va in frantumi».
Si tratta di una visione interessante, ma parziale. Del resto, capolavori così grandi non possono essere esauriti in formule di comodo e travalicano, con la loro inesauribile ricchezza narrativa, ogni confine critico, ogni categorizzazione troppo semplicistica. Vero è che entrambi, Furioso e Chisciotte, presentano uno sguardo disincantato sulle cose del mondo, sui destini dei propri personaggi, sull'affaccendarsi orgoglioso ma vano degli uomini; il tutto con un'ironia schietta e amabile, che non scade mai nello sberleffo e nemmeno dissimula l'eco tragica che la vicenda umana si porta dietro.
Nonostante questo, la vita di Cervantes appare totalmente diversa da quella di Ariosto: quanto uno è amico degli agi e aspira a una sobria esistenza, tanto l'altro è "rodomontesco", fiero, incapace, a dispetto dei buoni propositi, di non combinare pasticci: una specie di copia in sedicesimo, forse meno simpatica ma certo reale, della sua immortale creatura, don Chisciotte.

 

Una giovinezza irrequieta

 

Miguel de Cervantes nasce ad Alcalà nel 1547. È il quarto di sei figli che il chirurgo Rodrigo de Cervantes ha avuto da Leonor Cortinas. Il padre non se la passa tanto bene, al punto che viene incarcerato per debiti. La famiglia (e in questo le vite dei giovani Ariosto e Cervantes si somigliano) è costretta a spostarsi in diverse città a seguito dell'attività di Rodrigo; così Miguel compie i suoi studi a Valladolid, a Còrdoba, a Siviglia e infine nella capitale, Madrid, dove i Cervantes arrivano nel 1566. Qua Miguel comincia a interessarsi di letteratura e di poesia, e anche, a quanto pare, di bravate e belle donne, tanto che nel 1569 viene raggiunto da un mandato di arresto per aver ferito un cortigiano all'interno del palazzo reale, circostanza che comportava addirittura l'esilio e il taglio della mano destra.

 

Cervantes in Italia

 

Una vita avventurosa imporrebbe al colpevole una fuga precipitosa; e Cervantes appunto non ci pensa due volte, rifugiandosi a Roma, dove per qualche tempo svolge funzioni di segretariato presso il cardinale Giulio Acquaviva. Ma le regole della vita avventurosa, indigeste al nostro amico Ariosto, imporrebbero altresì un'insofferenza a qualunque tipo di sedentarietà: così Cervantes, non sappiamo per quale motivo, decide di lasciare il comodo impiego a Roma e di arruolarsi come archibugiere nella marina spagnola, che agli ordini di don Giovanni d'Austria si prepara ad affrontare i turchi nella famosa battaglia di Lepanto (1571). Cervantes, che ormai abbiamo imparato a conoscere come un tipo tutt'altro che tranquillo, partecipa a questa battaglia epocale dimostrando, dicono le cronache del tempo, grande valore, tanto più che si trova combattere con addosso una febbre molto alta. La battaglia viene vinta dalle navi dell'impero, ma Cervantes ne riporta ferite abbastanza gravi, che lo costringono in ospedale a Messina. È forse il momento di appendere l'archibugio al chiodo? Tutt'altro. Appena ristabilito, il nostro continua la carriera militare, impegnandosi in varie battaglie contro i soliti turchi e facendo tappa in varie città italiane, soprattutto Napoli, che impara a conoscere molto bene e a cui farà ritorno in diverse circostanze della vita.

 

Tra i pirati

 

Nel 1575 Miguel si appresta a tornare in Spagna, insieme al fratello Rodrigo, con una lettera di accompagnamento di don Giovanni d'Austria per il re Filippo II che ne attesta il valore di soldato e dunque la possibilità di ricevere incarichi di un certo prestigio. Il 26 settembre 1575, quando già le navi sono in vista delle coste spagnole, corsari turchi (i turchi tornano nella vita di Cervantes come in quella di Ariosto ci torna il papa...) le assaltano: i due fratelli sono fatti prigionieri e sono condotti ad Algeri, dove Cervantes viene ridotto in schiavitù da un tal Dali Mamì, corsaro di origine greca: tornerà libero dopo cinque lunghi anni e quattro fallimentari tentativi di fuga (nel primo di essi, un moro che avrebbe dovuto condurlo lontano da Algeri lo abbandona il primo giorno e lui, non sapendo la strada, è costretto a ritornare indietro...) Nel 1580, grazie alla solerzia di un frate che si occupava del riscatto dei prigionieri in mano ai turchi, tale Juan Gil, Cervantes può rientrare in Spagna, in seguito al pagamento di 500 ducati faticosamente raccolti dai parenti e dal frate presso tutti i mercanti cristiani di Algeri.

 

Alle prese con la giustizia

 

Cervantes si stabilisce a Madrid con l'intenzione di rifarsi una vita: la famiglia infatti è ridotta sul lastrico dopo aver pagato il riscatto per lui e per il fratello. D'altra parte Miguel non ha più un'età che gli consenta di svolgere agevolmente il mestiere delle armi. La letteratura, infine, non è una strada praticabile per chi abbia bisogno, e subito, di denaro. Dopo aver cercato inutilmente un impiego come funzionario nelle lontane terre d'America appena conquistate, egli riesce a farsi nominare incaricato delle vettovaglie per le galee reali: doveva in buona sostanza requisire grano, olio e altri tipi di cereali per le navi spagnole impegnate nelle guerre europee (dopo i turchi, ora era la volta dell'Inghilterra). Un lavoro durissimo, soprattutto perché esponeva l'incaricato alla rabbia e alle rivendicazioni dei municipi che non volevano consegnare le quantità di grano stabilite dall'autorità regale. Cervantes finisce in prigione due volte: la prima per aver venduto del grano senza autorizzazione; la seconda perché, incaricato di riscuotere dazi in denaro, non era stato in grado di risarcire la somma depositata presso una banca che era poi fallita.
Nel 1603 Miguel si trasferisce a Valladolid, in una casa piena di donne: la moglie, le sorelle, la figlia naturale di una sorella e una sua figlia naturale. È un ambiente sul quale si accanisce la maldicenza del popolo, soprattutto perché le sorelle, che hanno già una certa età, sono ancora nubili e continuano a ricevere uomini: così quando, per una vicenda poco chiara, un nobile cavaliere viene trovato ferito nei pressi della casa di Cervantes, qualche pettegolezzo induce i giudici ad arrestare lo stesso Miguel insieme a un paio di sorelle, alla figlia e a una nipote; ne usciranno poco dopo con l'obbligo di rimanere chiusi in casa, obbligo poi revocato dopo qualche giorno. Siamo nel luglio del 1605: circa nello stesso periodo esce, a Madrid, la prima parte del libro grazie al quale il nome di Cervantes è passato alla storia, il Don Chisciotte.

 

Cervantes come don Chisciotte?

 

La vita di Cervantes scorre ormai su binari tranquilli: torna a Madrid, e si mette a disposizione del conte di Lemos, nella speranza, delusa, di essere condotto a Napoli, dove il conte era stato appena nominato viceré. Continua a scrivere: escono in sequenza le Novelle esemplari, il Viaggio di Parnaso, le Otto commedie e otto intermezzi, la Seconda parte del Chisciotte nel 1615 e infine, nel 1616, i Viaggi di Persiles e Sigismonda, la sua ultima opera. Pochi giorni prima di morire detta la dedica per il conte di Lemos: «Ieri mi amministrarono l'estrema unzione, e oggi scrivo questa dedica. Il tempo vien meno, crescono le angosce, eppure la mia vita è sostenuta dal desiderio che ho di vivere, e vorrei che mi durasse ancora tanto da consentirmi di baciare i piedi a Vostra Eccellenza; e la gioia di rivedere Vostra Eccellenza sano e salvo in Spagna sarebbe tanta che forse mi restituirebbe la vita. Ma se è stato decretato che io la debba perdere, si compia la volontà del cielo».
Chi abbia letto il Don Chisciotte non può far a meno di ricordare le parole che descrivono la morte dell'eroe eponimo:

In breve, dopo aver ricevuto tutti i sacramenti e aver esecrato con molte e vive parole i libri di cavalleria, la fine di don Chisciotte giunse. Si trovò presente il notaro ed ebbe a dire che non aveva mai letto in nessun libro cavalleresco che alcun cavaliere errante fosse morto nel proprio letto così tranquillamente e così da buon cristiano come don Chisciotte. Il quale, fra i pianti e i lamenti di coloro che vi si trovavano presenti, rese l'anima sua: vale a dire se ne morì.

Come don Chisciotte, anche Cervantes, dopo avere fatto molte esperienze nella vita, avere combattuto da soldato e avere persino provato i rigori della schiavitù, si accorge, come dicono gli scrittori barocchi, che tutto è vano e decide di passare gli ultimi anni immerso nella stesura delle proprie opere, su una della quali quasi riverserà il capo al momento del trapasso.

 

Una figura indimenticabile

 

Alto, secco, allampanato, vestito di un'armatura raffazzonata, con un elmo fatto di cartapesta, su un cavallo magro e smunto: così ci appare don Chisciotte in uno dei primi capitoli del romanzo, mentre si allontana nella campagna spagnola in una calda mattinata di luglio, rinsecchita come l'eroe che l'attraversa alla ricerca di avventure cavalleresche che possano provarne il valore. Don Chisciotte è in realtà l'oscuro nobilotto Chisciana, costretto a vivere i suoi noiosi giorni in uno sperduto borgo della Mancia, terra non proprio propizia alle imprese dei cavalieri. Deciderà di farsi chiamarsi don Chisciotte perché il nome gli sembra più adatto alle vicende magnifiche che si propone di vivere: il prefisso "don" indica nobiltà, ma il suffisso -otte (-ote in spagnolo) ha un suono francamente ridicolo. Il povero Chisciana sopperisce alla mancanza di avventure attraverso la lettura dei romanzi di cavalleria, che alcuni scambiavano addirittura per cronache veritiere, mentre altri, stando ad aneddoti raccontati da autori coevi, ne venivano sopraffatti fino a rischiare la pazzia, proprio come il protagonista del romanzo di Cervantes. In particolare la morte di Amadigi, nell'anonimo poema Amadigi di Gaula, pare che provocasse più di uno svenimento: il critico Martìn de Riquer in un suo libretto divulgativo molto utile, riporta diversi di questi episodi, tra cui uno su un certo studente di Salamanca pronto a brandire la spada per difendere l'onore dell'eroe minacciato da alcuni contadini, proprio come avrebbe fatto il buon Chisciana.

 

Sulle polverose strade della Mancia

 

All'inizio del romanzo, vediamo don Chisciotte vagare per i campi in attesa di qualche splendida avventura, che tuttavia latita: la campagna iberica di inizio Seicento era terreno buono per gli straccioni dei romanzi picareschi e non certo per i cavalieri. Cervantes, come i veri autori di libri cavallereschi alle prese con la vita dei loro eroi, soppesa le fonti fittizie che narrano le gesta dell'hidalgo e le espone scrupolosamente al pubblico dei lettori:

C'è degli scrittori i quali dicono che la prima avventura che gli accadde fu quella della gola di Puerto Lapice; altri dicono che quella dei mulini a vento: ma ciò che io ho potuto accertare a questo proposito e ciò che ho trovato scritto negli Annali della Mancia, è ch'egli camminò tutto quel giorno e che, sul far della notte, il suo ronzino e lui erano spossati e morti di fame.

Povero Chisciana! In giro tutto il giorno sotto il sole rovente, e neanche una misera avventura! Per fortuna a sera giunge in un'osteria dove avrà una lite con alcuni mulattieri, scambiati per feroci attentatori delle sue sacre armi, e dove l'oste si presterà con un certo festevole gaudio, ma anche con la necessità di levarsi quanto prima dai piedi quel tanghero, al ridicolo rito della sua elezione a cavaliere errante.

 

Divertire il pubblico

 

Nei primi capitoli del Don Chisciotte c'è già tutto lo spirito ironico e mordace del romanzo.
La principale intenzione di Cervantes, infatti, è di dilettare il proprio pubblico facendosi beffe dei romanzi di cavalleria, attraverso situazioni paradossali in grado di muover il riso del lettore: come abbiamo visto, non mancavano esempi di pazzia indotta dalla lettura di tali libri anche nella realtà. Non occorre mai dimenticare questo. Il Don Chisciotte è certo una delle più importanti opere della letteratura di tutti i tempi e lo è in forza della inesauribile varietà di vicende, figure e temi trattati: come in tutte le opere importanti ognuno vi trova quello che cerca. Ma, appunto, a Cervantes interessava prima di tutto fare un'opera che potesse divertire prendendo in giro la moda dei romanzi cavallereschi.
D'altro canto, dilettare il pubblico cortigiano è anche l'obiettivo di Ariosto. Quando, all'inizio del poema, egli si rivolge a Ippolito, il dedicatario dell'opera, dicendo: «... e vostri alti pensieri cedino un poco/sì che tra lor miei versi abbiano loco», sta dicendo per l'appunto che il Furioso può costituire un piacevole passatempo nelle gravose occupazioni del cardinale (era una piaggeria, ovviamente: come abbiamo visto, Ippolito era uomo tutt'altro che grave...).

 

Contro i romanzi di cavalleria

 

L'altro obiettivo che muove Cervantes, e che non poteva muovere Ariosto, è la critica verso quel fenomeno di moda costituito dalle opere che narravano le gesta di cavalieri erranti: ne venivano stampate a centinaia, di qualità mediocre o poco meno che mediocre. Era quella che più tardi si sarebbe chiamata "para-letteratura": testi nati a partire dal successo di altre opere (per esempio l'Orlando Furioso…), con lo scopo preciso di essere smerciate a un pubblico di media cultura. Il Don Chisciotte è in questo senso un'opera che nasce contro certi libri e a difesa di altri. Per esempio, sappiamo che Cervantes ammirava il Furioso e diversi punti del romanzo ne danno testimonianza: nel capitolo VI, quando il curato e il barbiere del villaggio entrano nella biblioteca di don Chisciotte per scoprire cosa abbia fatto impazzire il loro compaesano, si dice che le traduzioni in spagnolo del Furioso sono pessime, mentre l'originale va portato «in palma di mano». Altrove, per bocca di don Chisciotte, Cervantes si vanta di saper cantare qualche stanza del Furioso, mentre in un passo della Galatea, un'opera pastorale poco nota di Cervantes, la musa Calliope afferma di essere stata colei che ha aiutato Ariosto a tessere la «bella e variata tela che compose».
Cervantes ammirava Ariosto perché il Furioso esaltava non tanto i valori della cavalleria, quanto quelli della cortigianìa: attraverso le avventure di eroi eccezionali, provenienti da un medioevo fantastico, il poeta di Ferrara celebra quei valori di cortesia e magnanimità che sono la base della civiltà signorile rinascimentale e che anche Cervantes ammirava.
La tranquilla pazzia di Don Chisciotte
Ma la civiltà di corte è al declino: don Chisciotte fa parte di quella nobiltà in disarmo che non può più aspirare agli ozi di una vita agiata, che non può più esercitare con splendido disinteresse i valori della cavalleria, che vive non più dentro regge magnifiche ma in castelletti mezzi dirupati, e che sopperisce alla mancanza di tutto questo con la lettura dei libri di cavalleria. È un monomaniaco, come molti dei personaggi di Ariosto. Anche don Chisciotte è perso dietro una sua ossessione divorante, che ne alimenta le gesta e il febbrile girovagare.
Ma non è più pazzo di altri. È un pazzo tranquillo, meditabondo, che, a dispetto della propria malattia, dice spesso cose assennate. La sua follia, esercitata lungo le strade polverose di una Spagna in decadenza, diventa cartina al tornasole della follia altrui. O quanto meno, se è vero che Cervantes non ha nessuna intenzione di sviluppare chissà quale critica sociale, dei difetti dell'animo umano, come dimostrano la grettezza e il beffardo cinismo con cui molti accolgono le sue mattane. È quello che succede per esempio nella seconda parte dell'opera, quando una nobildonna lo conduce al proprio castello e si prende gioco di lui insieme a tutta la corte, organizzando anche una burla atroce ai danni di Sancio, nominato governatore dell'immaginaria terra di Baratteria.
Il Don Chisciotte diventa così, anche travalicando le intenzioni dell'autore, una ricognizione ampia sull'uomo e insieme un affresco vastissimo e grottesco della crisi europea di inizio Seicento: contadini, briganti e mulattieri solcano le vaste pianure assolate sul dorso di cavalli smagriti, mentre i nobili rimpiangono un modello di vita perduto per sempre. Cervantes, come Ariosto, parla agli uomini del suo tempo delle loro aspirazioni e delle loro sconfitte, con l'occhio ironico e disilluso di chi quelle sconfitte ha subito in prima persona.

 

Declino degli ideali cavallereschi

 

C'è una differenza enorme, però: Ariosto si rivolge ai suoi contemporanei attraverso la vasta tela di un poema che riprende e rilancia quei valori, quegli eroi, quelle avventure di cui si compiacevano signori e cortigiani ad inizio Cinquecento. Egli è completamente immerso nella realtà della corte e la corte ama rispecchiarsi nelle storie ordite dalla raffinata fantasia del poeta. L'altra realtà, quella del popolo, dei mestieri vili, del sudore e della fatica, resta fuori dalle ottave del Furioso.
Nel Don Chisciotte questa realtà si manifesta in tutta la sua evidenza: se Ariosto porta i suoi eroi in terre lontane e paesi immaginari (perfino sulla luna!), l'orizzonte di don Chisciotte è molto più limitato: egli non esce mai dai confini della Spagna, benché ogni regione visitata gli sembri degna di avventure meravigliose. Del resto, molte cose erano cambiate nel giro di un secolo, quanto separa Ariosto da Cervantes: quella civiltà di corte che già pareva nella sua fase discendente quando apparve a stampa l'ultima redazione del Furioso (1532), era ora ormai completamente dissolta; le grandi esplorazioni geografiche avevano permesso la conoscenza di paesi lontanissimi, niente affatto immaginari, e avevano reso il mondo molto più piccolo: anche l'immaginazione si era dovuta adeguare, conformandosi a confini molto più circoscritti.
Eppure, sia Ariosto che Cervantes testimoniano, ognuno nei propri modi, che percorribili all'infinito restano i vasti territori della fantasia, le cui strade riconducono sempre all'uomo e alla sua irriducibile, affascinante complessità.



Bibliografia

 

Testi

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Studi

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