Irene Palladini - Tra autobiografia e teatro: Carlo Goldoni

Vita

 

Carlo Goldoni vive una giovinezza assai movimentata, ricca di avventure galanti e continui viaggi. Ma la geografia vorticosa di tale giovinezza fa perno attorno a un unico centro: Venezia, città dove egli nasce, nel 1707, e che egli coglie, nelle sue opere successive, sia nello stupore della mitizzazione sia nella delusione del disincanto. La Serenissima, reduce dalla pace di Passarowitz (1718), che pone fine al conflitto con l'Impero Ottomano, attraversa, almeno nella prima metà del secolo, una fase di illusoria stabilità politica, culturale ed economica, ma di fatto è ormai segnata da un'inarrestabile decadenza. Alla vivacità culturale si contrappone infatti l'immobilismo di una classe dirigente incapace di attuare riforme legislative efficaci e incline, semmai, alla strenua difesa dei propri privilegi.
Goldoni si forma attraverso i principi propugnati dall'Illuminismo riformatore, coniugati, in un amalgama non sempre compiuto, al razionalismo dell'Arcadia. Legge sin da giovanissimo Molière (1622-1673), si appassiona a Corneille (1606-1684) e a Voltaire e matura una buona conoscenza del teatro classico di Aristofane (ca. 445-385 a.C.), Menandro (IV-III sec. a.C.), Plauto (ca. 250-184 a.C.) e Terenzio (ca. 116-27 a.C.). Sebbene poco incline alle formulazioni teoriche dell'arte, nella Prefazione ai Due gemelli veneziani (1747), Goldoni dilucida diffusamente il suo rapporto con il teatro classico, con riferimenti puntuali a Plauto, Gian Giorgio Trissino (1478-1550) e Agnolo Firenzuola (1493-1543). Profonda è l'ammirazione di Goldoni per la Mandragola di Machiavelli, da lui considerata come la migliore commedia italiana di ogni tempo. Dalla conoscenza del teatro di Shakespeare, Goldoni non eredita solo l'avversione alle tre unità aristoteliche, ma il culto per personaggi di spessore e il vigore delle passioni. Il felice adattamento teatrale, nel 1750, della Pamela di Samuel Richardson testimonia il suo vitale cosmopolitismo culturale.
Dopo aver frequentato i corsi di giurisprudenza a Pavia, ed essere stato espulso dal Collegio Ghislieri per la stesura di una satira contro le donne della città, si laurea nel 1731 a Padova ed esercita saltuariamente l'avvocatura a Venezia, coltivando sempre la passione per il teatro. Le prime prove poetiche, intermezzi come Gli sdegni amorosi (1732) e la tragicommedia in versi Belisario (1734), sono ancora improntate al gusto dell'epoca, ma con il Momolo cortesan (1738), dialogato solo in parte e per il resto a soggetto, e La donna di garbo (1743), interamente dialogata, Goldoni inaugura la propria riforma del teatro. Grazie al successo ottenuto a Livorno con quest'ultima commedia, stipula un contratto con la compagnia guidata dal capocomico Girolamo Medebach e lavora dal 1748 al 1753 come autore comico presso il teatro Sant'Angelo di Venezia. Dal 1753 al 1762 passa al più ampio teatro di San Luca, ma la sua produzione suscita, accanto ai consensi, un coro di polemiche. Venezia appare, agli occhi di Goldoni, sempre più distante e, nel 1762, il drammaturgo accetta l'invito a lavorare per la Comédie Italienne a Parigi, un'istituzione che proponeva spettacoli italiani al pubblico francese. Qui, dopo avere a lungo approntato canovacci per un teatro attardato su moduli convenzionali, ottiene grande successo con una commedia interamente scritta, Le bourru bienfaisant ("Il burbero benefico"; che sarà poi tradotta da Goldoni nel 1789 con il titolo Il burbero di buon cuore). Dal 1784 al 1787 si dedica alla stesura dei Mémoires, la sua monumentale autobiografia. Muore a Parigi nel 1793, in condizioni di semi-indigenza.

 

Mondo e teatro: la riforma teatrale di Goldoni

 

Nella prima metà del Settecento, la sontuosità spettacolare del melodramma, con le sue squisitezze formali, ammalia ancora il pubblico. Ma il codice del recitar cantando, tutto effusioni patetiche, pare prossimo al declino, non interpretando il bisogno di limpida chiarezza e razionalità da più parti avvertito, e propugnato, tra gli altri, da Muratori nel suo Della perfetta poesia italiana (1706). Se le effusioni elegiache del melodramma soddisfano un sempre più elitario circolo di aristocratici, la massa del grande pubblico ricerca evasioni immediate nella risata carnascialesca della commedia dell'arte, basata su esili stereotipati canovacci e sull'improvvisazione degli attori. Ma anche questo genere di commedia, al pari del melodramma, pare ormai votato a un'inarrestabile involuzione: il suo trito repertorio di lazzi e motteggi, sempre al limite del laido e dell'osceno, e la sua prevedibilità negli intrecci, affidati a "maschere" più che a personaggi psicologicamente distinguibili, rivelano un generale ristagno creativo.
In polemica con la commedia dell'arte si muove appunto Goldoni. Il nucleo teorico su cui si fonda la sua riforma è compiutamente esposto già nella Prefazione alla edizione Bettinelli delle sue Commedie (Venezia 1750): «I due libri sui quali ho più meditato e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro» (Commedie, 1971, vol. I). «Mondo», inteso come esperienza del reale, e «Teatro», inteso come pratica del gioco scenico, appaiono dunque i principi ispiratori di un disegno che presenta sin dagli esordi, libero dalla ampollosa precettistica di accademia e dalle sguaiate improvvisazioni dei comici, organicità e nitore di tratti.
Attraverso l'osservazione dei costumi umani, il poeta rappresenta la verità della natura, armonizzandola al rutilante caleidoscopio del teatro, in sintonia con i principî, propugnati da Denis Diderot (1713-1784) e Gotthold Ephraïm Lessing (1729-1781), di un'arte che deve istruire dilettando. Nella commedia Il teatro comico (1750), il principio didattico e morale dell'arte utile e dilettevole viene coerentemente praticato e la formulazione teorica prende vita sulla scena: il testo racconta infatti l'allestimento di uno spettacolo, secondo i nuovi criteri goldoniani, da parte di una compagnia veneziana.
La commedia riformata da Goldoni si fonda su due innovazioni tecniche: l'introduzione progressiva del testo scritto e l'abolizione delle maschere. Il canovaccio della tradizione della commedia dell'arte affidava all'estro improvvisativo la buona riuscita della pièce, ma aveva irrigidito l'attore-istrione nella ripetitività di un immobile formulario; la maschera annullava in un'innaturale fissità i tipi umani. Insieme alla galleria di zanni ottusi o astuti, di vecchi lascivi e avari e giovani innamorati un poco queruli, con i vari Arlecchino, Brighella, Pantalone e Colombina si esibiva sul proscenio un repertorio di caratteri prevedibile e immobile. Ecco invece che Goldoni sostituisce la maschera con un "personaggio", dotato dell'interiorità e dello sviluppo psicologico di un individuo storicamente definito; sulla sua scena non sfilano più tipi umani colti in abstracto, ma individui agitati da intense passioni, irriducibili nella loro verità di natura; e l'attore, libero dalle pastoie della maschera, potrà infondere vita e voce a umori e passioni, interpretando, con garbo e naturalezza, le più sottili sfumature dell'anima. La categoria tradizionale del "rustego" (cioè rustico, zotico) in odore di misantropia assumerà le molteplici increspature della vita, arricchendosi di una maggiore serietà problematica e prendendo corpo nell'unicità esistenziale di Lunardo, Simon, Canciano e Maurizio (per l'appunto I rusteghi, 1760). Eugenia e Fulgenzio, negli Innamorati (1759), sono solo parenti lontani degli amanti della tradizione dell'arte, che venivano appiattiti dalla consuetudine dei dialoghi di sdegno, speranza, gelosia e amor corrisposto, e rivelano una fragilità maturata nell'esperienza della vita. La 'serva civetta', provocante e spregiudicata, presente nella tradizione comica, trascolora nello straordinario ritratto di signora, denso e sfumato, di Mirandolina (La locandiera, 1752), così deliziosamente abile nel destreggiarsi tra cuore e affari. Il triviale Pantalone della commedia dell'arte acquisisce uno spessore psicologico che, senza rinunciare a effetti di sicura comicità, lo ingentilisce e nobilita. Si pensi, a questo proposito, all'indole generosa che caratterizza il personaggio nel Momolo cortesan (1738) e alla affettuosa saggezza di cui dà prova nella Famiglia dell'antiquario (1750).
Sebbene, nei decenni centrali del Settecento, il teatro di Goldoni ottenga notevole successo, rinsaldando la forza e concretezza del dialogo con il popolo, polemiche anche aspre accompagnano le tappe del suo itinerario, nient'affatto rettilineo. Si pensi, a questo proposito, alle posizioni anti-goldoniane espresse dall'abate Pietro Chiari (1711-1785), intellettuale-avventuriero del teatro, incline ad azzardati intrecci e al gusto per la spettacolarizzazione romanzesca.
Maggiore consapevolezza teorica e tecnica sostanzia invece la critica mossa contro Goldoni dal veneziano Carlo Gozzi (1720-1806), il quale contrappone all'istanza realistica e borghese di Goldoni una visione disimpegnata dell'arte, concepita come pura evasione fantastica ed edonistica. Di qui la sua predilezione per l'universo meraviglioso, da lui frequentato non senza originalità nelle Fiabe teatrali (1761-1766). Mentre nel 1761 Gozzi ottiene grande successo con L'amore delle tre melarance, Goldoni dà l'addio a Venezia con la struggente commedia Una delle ultime sere di carnovale (1762), proiettando sul personaggio di Anzoletto in partenza per la Russia tutta l'amarezza della propria delusione per le critiche e le difficoltà che ancora, in patria, la sua idea di teatro continuava a incontrare, nonostante i grandi successi dei quali era stata produttrice.

 

Elementi di poetica

 

Goldoni eredita dalla sua assidua attenzione rivolta alla realtà una vivace galleria di caratteri umani, ai quali conferisce esemplarità. E, pur senza elaborare un sistema ideologico compatto, riesce a rappresentare il mito e il tramonto del borghese, senza il livore indignato e il gusto della deformazione grottesca che informano per esempio le satire di Parini. Se in un primo periodo (1748-1752) Goldoni elabora, in opere come Il cavaliere e la dama (1749) e La famiglia dell'antiquario (1750), l'immagine di una borghesia "filosofa" e intrisa di serenità familiare, in opposizione all'albagia incipriata della nobiltà, gradualmente, nelle sue opere, il ritratto di quella classe sociale si intorbida. Già nella pièce philosophique La bottega del caffè (1750), l'epica del borghese laborioso, improntata al modello inglese e olandese, si va offuscando e l'habitus della maldicenza accomuna sia la fatiscente nobiltà di don Marzio sia l'affarismo pettegolo di Ridolfo. Tra il 1753 e il 1758, la delusione per un ceto che non sta mantenendo fede ai propri compiti storici si concretizza in personaggi percorsi da un torvo cruccio interiore e da una profonda disarmonia rispetto al mondo, come nella Donna vendicativa (1753), nel Vecchio bizzarro (1754) e nella Donna sola (1757).
Nel 1756 Goldoni scrive la commedia in dialetto veneziano Il campiello e, dall'intima adesione al popolo, non solo trae una felice ispirazione poetica, ma anche intuisce l'orizzonte per una possibile alternativa storica. Nel ritrarre la vita in una piazzetta durante un giorno di Carnevale, il drammaturgo conferisce una luce corrusca al mondo degli umili, colti con verità di accenti, senza idealizzazioni paternalistiche o cedimenti a un manierato populismo. E, negli anni tra il 1759-1762, pur continuando a rappresentare la regressione sociale e la cupa grettezza (I rusteghi, 1760), nonché il trionfo delle apparenze (Trilogia della villeggiatura, 1761) tipici della borghesia, individua con chiarezza di intenti un'alternativa possibile proprio nell'universo degli umili pescatori di Chioggia: nelle Baruffe chiozzotte (1762), infatti, pur rappresentando malintesi e gelosie di una piccola comunità, con umana simpatia e distacco ironico, Goldoni infonde nuova grazia e naturalezza alla vita degli umili, propiziando la rivoluzione copernicana che sarà compiuta, poi, da Manzoni e Verga. Abdicando al microcosmo asfittico borghese, fatto di interni luminosi e dolenti (Le donne de casa soa, 1755; La casa nova, 1760; La donna di maneggio, 1760) corrispettivi di una "coscienza infelice", Goldoni si apre alla vivace coralità di piazze, campi e calli. Ma, come in certi notturni fiamminghi, in Goldoni un livido grumo malinconico incrosta anche l'epos festoso di strada, accendendosi di stupori metafisici, con effetti di potente straniamento, trasformando spesso la commedia umana in una "danza di morte"; e sono state le splendide regie di Luchino Visconti (1906-1976), Giorgio Strehler (1921-1997), Luigi Squarzina (1922-2010), Giancarlo Cobelli (1929) e Mario Missiroli (1934) a rivelare questo particolare aspetto.

 

Dalla pagina alla scena

 

Nel 1952 Luchino Visconti cura l'allestimento della Locandiera, abdicando a ogni manierato bozzettismo e senza indulgere a un pittoresco galante e stereotipato. La scena, evocata dalla pittura di Giorgio Morandi, recide ogni legame con le attardate rievocazioni ballettistiche, tipicamente settecentesche, tutte parrucche e ciprie, conferendo concretezza materica alle parole e cose rappresentate sulla scena.
Mirandolina, interpretata dall'attrice Rina Morelli, non incarna più la briosa grazia e leggiadria, tutta moine e civetterie, della tradizione, ma si rivela donna energica, propositiva, a tratti indurita dalla esperienza della vita. Gli oggetti sulla scena, poi, abdicano a ogni luccichio vacuo e, senza nulla concedere alla vacuità dell'ornamento, si configurano, semmai, correlativi oggettivi della interiorità della protagonista e del suo contesto sociale. La locanda stessa, nella sua austera sobrietà, è spazio borghese adusto, circonfuso di un' aura un poco asfittica, che pare preludere alla regia delle Tre sorelle di Cechov, a cui Visconti si dedicherà in seguito. Le stesse modulazioni del recitato, ne La Locandiera, si fanno intensamente pausate, quasi ad esprimere il grumo di rinunce ed esitazioni della protagonista, invero audace controcanto al disegno melodico, languido e sospiroso, che informa tanta precedente drammaturgia.
Nel 1954 Giorgio Strehler, per il Piccolo Teatro di Milano, cura la messinscena e l'adattamento (da tre commedie a una) della Trilogia della villeggiatura, esito naturale di una decennale ricerca che Strehler conduce su Goldoni. La regia, sin da subito, viene considerata come cecoviana e, non a caso, nel 1955, Strehler curerà l'allestimento scenico de Il giardino dei ciliegi. Sebbene un certo populismo adombri in alcune pieghe del teatro goldoniano di Strehler, l'istanza cecoviana percorre, in filigrana, le sue regie, per poi raggiungere i vertici dello straniamento, a tratti epico, che sostanzia il suo Arlecchino servitore di due padroni. Qui, come è noto, sapiente è il ricorso a moduli e stilemi del metateatro che sortiscono un potente effetto di spaesamento, accentuando il distanziamento critico predicato e praticato, con tenacia e convinzione, da Brecht. Nella messa in scena, Strehler immagina che un gruppo di comici dell'arte reciti il testo in una piazza diroccata del Settecento, tra le rovine di monumenti un tempo maestosi. E immagina che, pur nella precarietà e nella disillusione prodotta dal crollo di ogni grandezza, i guitti fronteggino il presente traboccanti di un autentico vitalismo e di una spensierata vocazione alla vita. Come non scorgervi un riferimento all'Italia contemporanea che, pur essendo travolta da miserie storiche e sociali, pure conserva un nucleo artisticamente inossidabile?
Dopo La vedova scaltra (1951), ancora attardata su moduli convenzionali ballettistici, retaggio della Commedia dell'Arte, Luigi Squarzina cura la rappresentazione dei Due gemelli veneziani (1963), introducendo, nel gioco disimpegnato dell'intreccio, riferimenti storici e sociali alle difformità tra il gemello cittadino e quello contadino. Nel 1968 Luigi Squarzina mette in scena Una delle ultime sere di carnovale, nel 1969 I rusteghi e nel 1973 La casa nova, tutte prodotte dal teatro stabile di Genova, a quell'epoca diretto dallo stesso regista. La critica corrosiva al demi-monde borghese raggiunge in queste opere gli esiti più audaci e convincenti.
In anni più recenti, invero innovative si configurano le regie goldoniane di Mario Missiroli, Giancarlo Cobelli e Giuseppe Patroni Griffi che, mossi dalla volontà di superare la tradizionale dicotomia fra realismo e ballettismo, sortiscono risultati di irriverente e sconcertante modernità.
Mario Missiroli allestisce, nel 1972, La locandiera e, nel 1981, La villeggiatura, avvalendosi del superbo talento di Anna Maria Guarnieri e tratteggiando, del Settecento, un quadro impietoso: secolo di affaristi e sbruffoni, correlativo della vulnerata contemporaneità.
Nell'Impresario delle Smirne (1975) e nella Locandiera (1979), interpretata da Carla Gravina, si appunta tutto il talento acre e pungente di Giancarlo Cobelli, teso a smascherare i laidi opportunismi economici e la grettezza di una società, quella settecentesca, fondata sul principio del potere e dell'asservimento, in questo speculare alla livida contemporaneità.
Nel 1967 Giuseppe Patroni Griffi allestisce La bottega del caffè, per poi cimentarsi con La locandiera, magistralmente interpretata da Adriana Asti, in cui si approfondisce il crinale luteo di un Settecento che, dietro alla coazione farsesca e rocambolesca, celerebbe un insano cupio dissolvi. E il ballettismo, che tanto aveva sedotto i registi goldoniani del passato, si tinge dei toni di un'autentica danse macabre, non esente da una certa disposizione alla crudeltà di matrice sadiana. Nel 1978, per il teatro Eliseo di Napoli, Patroni Griffi allestisce Le femmine puntigliose, opera in cui egli esprime un'autentica simpatia, senza populismo sentimentalistico, verso la categoria degli emarginati e degli oppressi, che si configurano come i depositari dell'infanzia creaturale.
Senz'altro memore della lectio viscontiana e strehleriana è la messa in scena de La serva amorosa (1986-87) di Luca Ronconi. L'impianto scenico rivela come qui agisca, potente, lo sconfinamento cronologico. Infatti, liberando la scena dalle incrostazioni, tutte belletti e frivolezze, tipiche di certo goldonismo settecentesco, Ronconi ambienta la pièce nel secolo della borghesia, istituendo un audace raccordo tra la commedia familiare goldoniana e il caustico dramma ottocentesco.

 

I Mémoires

 

Redatti in francese a partire dal 1783/1784, i Mémoires ("Memorie") di Goldoni vengono stampati a Parigi nel 1787, quando Goldoni è ormai vecchio e malato. L'opera è costituita da tre parti: nella prima l'autore evoca l'infanzia e le avventure galanti della giovinezza; nella seconda, narra gli anni cruciali dal 1748 al 1762/1763, sino alla partenza-esilio per Parigi; in quella conclusiva, che va dal 1763 al 1787, ritrae le meschinità della vita di corte parigina e della Comédie Française, ancora attardata su un formulario convenzionale.
Tra gli antecedenti della poderosa autobiografia occorre annoverare l'agone dilemmatico tra Lelio e Ottavio nel Teatro comico e la Prefazione alla prima raccolta delle commedie edita dal Bettinelli. Ma è soprattutto con le Prefazioni alla edizione Pasquali delle proprie Opere (Venezia 1761-1778), comunemente note con la formula di Memorie italiane, che Goldoni sviluppa i temi autobiografici trattati nella precedente Prefazione e narra per la prima volta, con vivacità e freschezza, la propria vita dalla nascita sino al 1743 (le Prefazioni che avrebbero dovuto spingersi sino alla fine degli anni Sessanta, invece, già redatte dallo scrittore, sono andate perdute). Nelle Memorie italiane, Goldoni intende promuovere e valorizzare l'immagine di sé come innovativo autore di teatro. Tali Memorie, pur senza poter essere ridotte a semplice incunabolo dei Mémoires, di fatto si configurano, con la loro prosa vivace e briosa e con la grazia naturale dei loro movimenti narrativi, come una fonte più diretta per l'elaborazione almeno della première partie della successiva autobiografia in francese, dove – va da sé – agisce rispetto alla fonte un distacco critico che ora dilata alcuni episodi, ora ne omette altri, producendo non poche contraddizioni. Infine, la fucina delle possibili fonti dei Mémoires si arricchisce della mole imponente di lettere, sia ricevute sia inviate, delle illuminanti prefazioni e dedicatorie alle commedie, nonché dei ricordi amorevolmente suggeriti dalla moglie Nicoletta Connio.
Il recupero memoriale si sottrae però, nei Mémoires, ad un rigido schematismo cronologico: il Goldoni auctor, infatti, anche per ragioni estrinseche come la difficoltà nel computare gli anni more veneto (secondo il computo more veneto, in voga nella Venezia del Settecento, l'ultimo mese dell'anno era febbraio e non dicembre; ciò sfasava quindi di due mesi il calendario rispetto all'uso normale, gregoriano), segue la duttilità della memoria, che procede per giustapposizioni tematiche. Ne deriva, nell'opera, una certa approssimazione cronologica, se non addirittura una certa incongruenza, di cui si accorge anche il lettore meno avvertito e di cui Goldoni stesso dovette essere perfettamente consapevole. Si ha l'impressione che proprio tali irrequieti slittamenti temporali, ai limiti del perturbante, tutti sussulti e chiaroscuri, lascino emergere la vera vita psichica dell'auctor, nient'affatto piana e festosa come vorrebbe suggerire la raffigurazione "ufficiale" dell'agens, modello di esemplare imperturbabilità, ma problematica e affetta da nevrosi.
Pur essendo autore refrattario, per indole e sentimento, alle preoccupazioni filosofiche e religiose, nei Mémoires Goldoni esprime in modo chiaro – ancorché non sistematico – la propria visione relativistica, a tratti dilemmatica della verità e della vita, la propria ansia ci coniugare sempre, alla scienza libresca e agli esempi degli antichi, la nuova scienza delle cose e la lettura del grande libro del mondo, colto in tutta la sua irriducibile complessità. La prosa adottata nell'opera ha un ritmo asindetico e paratattico e l'uso dell'indiretto libero, inconsueto per l'epoca, conferisce ai personaggi che vi si affacciano una notevole incisività; di frequente, essa acquista pure uno slancio "corale", di sapore quasi epico, come accade in certe commedie.

 

Il realismo linguistico

 

Il teatro, anche quello di Goldoni, si fonda sulle potenzialità offerte dal dialogo e sul serrato confronto di differenti punti di vista. Nelle commedie del drammaturgo veneziano la disponibilità dialogica e l'agone comunicativo, pur lasciando affiorare la tensione insita nei rapporti umani, risolve sempre il conflitto, scongiurando la catastrofe in agguato. Il commediografo, con lucido rigore, costruisce i propri dialoghi con una parola di somma limpidezza e nitore razionalistico, abbassando moduli e stilemi linguistici al livello del parlato quotidiano. A rafforzare questo "realismo linguistico", già maturo ai tempi della Putta onorata (1748), concorre in Goldoni anche l'adesione sincera all'intima realtà sociale, culturale e psicologica dei personaggi. Questa empatia tra l'autore e le proprie creature drammatiche si traduce in una vivace polifonia, in una accesa partitura corale che, negli esiti più alti, assurge a modulazioni di realismo "epico", come nelle Baruffe chiozzotte. Sulla scena la realtà, anche linguistica, appare meno monolitica e i valori, problematizzati, sono sottoposti a continua verifica intersoggettiva. Sono di scena, nel teatro goldoniano, tanto il toscano standard quanto il veneziano della nobiltà, quello della borghesia mercantile o quello più corposo dei ceti popolari, in un accattivante e modernissimo pastiche, ai limiti dello sperimentalismo linguistico. Anche quando ricorre all'italiano, Goldoni non adopera l'ampolloso linguaggio accademico, ma quello della borghesia settentrionale, specie veneta e lombarda, aderendo alla vivacità e mobilità delle inflessioni. Il suo genio comico si rivela soprattutto nell'impasto dialettale, denso di umori. Abbandonando le intenzioni caricaturali tipiche della commedia dell'arte, Goldoni conferisce al dialetto la grazia spigliata della naturalezza. Con il dialetto il commediografo dona verità di vita al mondo popolare, senza concessioni al pittoresco di maniera e senza accensioni populistiche. Così la riforma goldoniana agisce anche nel sistema linguistico teatrale, liberandolo sia dalle ipoteche del purismo di Arcadia (evidenti, in quegli stessi anni, nel melodramma) sia dai modi trivali della commedia d'improvvisazione.

 

Il teatro illustrato

 

Nel '700 due sono state le edizioni illustrate delle opere di Goldoni: quella Pasquali e quella Zatta. Tuttavia, sebbene trascorrano soltanto undici anni fra la conclusione della prima (1777) e l'inizio della seconda impresa editoriale (1788), le differenze appaiono tanto significative da suscitare l'impressione che a essere mutata sia la concezione stessa del teatro.
Tali divergenze si rivelano ancora più impressionanti se si tiene conto che è lo stesso artista, Pietro Antonio Novelli, a produrre i disegni che raffinati incisori trasferiranno poi su rame.
La differenza più evidente concerne, in primo luogo, la quantità di tavole realizzate: se nella edizione Pasquali ogni commedia è accompagnata da una sola incisione, nella edizione Zatta queste vengono implementate in modo sostanziale, sino al novero di una incisione per ogni atto di ogni commedia. A mutare, poi, è anche il formato delle opere: quelle Pasquali, a struttura verticale, si aggirano attorno ai 75 x 120mm; quelle Zatta, impostate orizzontalmente, hanno una estensione pari agli 80 x 63mm.
Le incisioni Pasquali rivelano, inoltre, il culto raffinato del singolo dettaglio, come si evince dalla rappresentazione di interni finemente decorati. Drappeggi e tappezzerie sono cesellati con sorprendente minuzia; quadri e specchiere, con i loro mirabolanti decori, infondono un fulgore intenso sull'ornato degli arredi, con una sensiblerie che non esiteremo a definire rococò. La morbidezza sinuosa dell'interno è coniugata alla ariosa eleganza degli abiti finemente istoriati e le figure, aeree e lievi, si atteggiano in pose languide e al contempo maestose.
Le incisioni Zatta, al contrario, presentano interni domestici caratterizzati da una sobrietà disadorna e le figure, rifuggendo da ogni eleganza nei vestimenti, paiono irrigidite nella grazia spigolosa del gesto e nella stoffa spartana dell'indumento, quasi legnose in una immobile fissità.
Certo, si potrebbe facilmente desumere che l'ingente mole di lavoro della edizione Zatta abbia indotto Novelli a un così radicale mutamento di rotta. Eppure, da una più attenta analisi, emerge potente l'impressione che a mutare sia una certa idea di teatro. Tutta la raffinatezza, a tratti esorbitante e vistosa, che circonfonde le incisioni Pasquali, pare alludere a una visione più leggera della scena e del mondo, tutta trine e lustrini. Al contrario, le incisioni Zatta, nella loro sobrietà quasi ascetica, alludono a una concezione più solida e materica del teatro che, rifuggendo da ogni concessione al culto di una eleganza un poco estenuata, predilige la nuda schiettezza del gesto e la sobrietà del sentimento.
Di più, nella edizione Zatta, viene rappresentata l'ultima scena dell'opera goldoniana, in cui tutti i personaggi sono presenti e allineati sul palco. Con un potente effetto di straniamento, Novelli rivela l'artificio scenico e, con intuizione rabdomantica, dichiara la finzione dello spazio teatrale. Immobili, le figure della edizione Zatta paiono scollate dal loro ruolo e si rivelano uomini e attori, giusto un attimo prima di ricevere gli applausi del pubblico ammirato. E, nella schiettezza nuda dei loro gesti, abdicano a ogni posa teatrale, dichiarando lo statuto di artificio che, va da sé, è proprio di ogni rappresentazione.
Con le edizioni Zatta si ha dunque l'impressione che sia proposta e agita una nuova idea di teatro che, senza nulla concedere alla grazia manierata e ostentata di minuetti suadenti e schermaglie galanti, scruti addentro alla verità, più umbratile e sommessa, dell'uomo e del mondo.
Nelle edizioni Zatta mondo e teatro paiono ritrovare, nella robusta e schietta verità delle forme, una consonanza di accenti davvero mirabile.

 

Bibliografia


Testi:

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Commedie (1966), a cura di E. Vittorini, Einaudi, Torino, 2 voll.
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Commedie (1972a), a cura di G. Davico Bonino, Garzanti, Milano, 2 voll.
Commedie (1972b), a cura di K. Ringger, Einaudi, Torino, 4 voll.
Commedie (1992), a cura di M. Pieri, Einaudi, Torino.
Memorie (1967), trad. di E. Levi, Einaudi, Torino (ed. or. Mémoires).
Memorie (1993), trad. di P. Bosisio, Mondadori, Milano (ed. or. Mémoires).
Tutte le opere (1935-1956), ed. crit. a cura di G. Ortolani, Mondadori, Milano 1935-1956, 14 voll.

Studi:

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Ferrone S. (1990), Carlo Goldoni. Vita, opere, critica, messinscena, Sansoni, Firenze.
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Fido F. (1977), Guida a Goldoni, Einaudi, Torino.
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