Irene Palladini - Alfieri: un viaggiatore europeo fra tragico e romanzesco

1. «Perché amo l'Alfieri»

 

Umberto Saba, nell'intervento critico Perché amo l'Alfieri (1948), ora raccolto nel volume Tutte le prose (Stara 2001, 987-990), analizza le ragioni della lunga consuetudine con la produzione dell'astigiano, in particolare rivolta al corpus delle tragedie. L'ammirazione di Saba non si configura, tuttavia, come entusiastica adesione, ma pare circonfusa, a tratti, di circospette cautele.
Saba rievoca il primo incontro con la poesia alfieriana, da ricondursi alla stagione umbratile della giovinezza, che, senza nulla concedere alle incrostazioni del tempo che tutto corrode, rivive attraverso il rigore appassionato di una matura rilettura. La periodizzazione della vita per stratificazioni temporali ricorda dunque, molto da vicino, la trama narrativa che sostanzia la Vita, rivelando una congenialità profonda tra i due autori.
Pur consapevole dei limiti, sia ideologici che stilistici, della poesia del Nostro, Saba ravvisa elementi di indiscutibile novità nella prosa e poesia di Alfieri e, nonostante la sua estrazione piccolo borghese, apprezza lo sdegno aristocratico che informa la scrittura, quella di Alfieri, concitata e attorta.
Le ragioni per amare (e non solo conoscere) Alfieri persistono, purché si sfrondi il campo da impietosi giudizi come quello formulato da Aldo Palazzeschi nella sua querela pacis, intitolata Due imperi … mancati. Qui si legge: «Tutto quello che c'è di deleterio in Italia è del D'Annunzio. Raccoglie egli la fiaccola lasciata a terra da quella vecchia chitarra del Carducci, che a sua volta la raccoglie da quell'altro trombone dell'Alfieri» (Palazzeschi 1994, 150).
Certe riflessioni valgono, va da sé, più come documento di una determinata temperie culturale che per il loro effettivo valore di chiarificazione poetica. Ma, nella valutazione complessiva della produzione alfieriana, occorre anche abdicare alle facili asserzioni di un poeta avverso alla tirannide in quanto tiranno egli stesso, rintracciando, al contrario, gli elementi di modernità che informano la sua vasta produzione letteraria.
Si consideri l'incipit del ritratto che De Sanctis ha delineato del poeta: «Togliete l'ironia, fate salire alla superficie in modo scoperto e provocante l'ira e il disgusto, il disprezzo, tutti quei sentimenti che Parini con tanto sforzo dissimula sotto il suo riso, e avete Vittorio Alfieri».
E ancora: «È l'uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo ai contemporanei, statua gigantesca e solitaria col dito minaccioso». L'immagine monumentale e ieratica dell'autore coglie solo parzialmente la verità di una voce poetica che sa, al contrario, modulare accenti di disincantata ironia, frequentando le plaghe notturne dell'animo umano. Forse, liberato dalle sedimentazioni di un agonismo tanto esibito, si potrà scorgere la modernità della voce alfieriana, che rinuncia ai toni declamati del grido e si fa canto, tanto sommesso quanto pervasivo.

 

2. Lo specchio di Narciso

 

2. 1. Infanzia e giovinezza
Vittorio Amedeo Alfieri nasce ad Asti il 16 gennaio 1749 da Antonio Alfieri e da Monica Maillard di Tournon. Il padre muore quando lo scrittore non ha ancora compiuto il primo anno di vita, e la madre passa presto a nuove nozze. Di umore malinconico, anche per la fragile salute, il giovane Alfieri rivela un'indole appassionata nella plateale esibizione dei sentimenti. Sin dall'infanzia, manifesta una insofferenza radicale per ogni forma di costrizione e una attrazione morbosa per la morte, come si evince dall'episodio, intriso del fascino romanzesco della fabulazione, del goffo tentativo di suicidio.
Per volontà dello zio tutore, Alfieri entra nella Reale Accademia di Torino. Il giovane, ottemperando a un mero obbligo sociale, frequenta i corsi di grammatica, retorica, umanistica, filosofia, lamentando, nella Vita, la sterilità di questi studi oziosi. Confusamente egli percepisce la naturale inclinazione all'arte del verseggiare, ma la «pappagallesca dottrina» di cui è imbevuto costituisce un freno alla creazione artistica. A soli quattordici anni, per la morte dello zio, si trova padrone dei suoi averi.
Durante la giovinezza, attraverso l'esperienza dell'amore, emerge potente un tratto specifico della personalità dell'autore: la ricerca, perennemente insoddisfatta, dell'appagamento amoroso, vocato, da sempre, allo scacco. Ottenuto il grado di luogotenente, Alfieri presto abbandona l'esercito, mostrando la radicale insofferenza nei confronti del rigore di ogni disciplina.

2. 2. I viaggi
Nel '70 Alfieri compie i primi viaggi a Roma, Napoli, Venezia, Bologna e Genova, ma visita anche la Francia, l'Inghilterra, l'Olanda, la Svizzera, la Danimarca, la Svezia e la Russia. La passione per il viaggio è senz'altro riconducibile allo slancio ribellistico dell'autore: l'inquietudine errabonda non conosce sosta, ed è tutta giocata sotto l'egida dell'azzardo e della passione estrema.
A Firenze visita Santa Croce e, dinanzi alla tomba di Michelangelo, auspica, con trasalimento davvero protoromantico, la creazione di un'arte capace di imporsi con tenace solidità materica, contro l'usura del tempo. Ma il soggiorno fiorentino, in particolare il periodo trascorso a Siena, si configura come fondamentale anche per la acquisizione di una lingua naturalmente incline alla proprietà e brevità. Durante il soggiorno napoletano, individua nella corte, specie quella di Ferdinando IV, il paradigma di ogni acquiescenza servile. Venezia lo affascina e meraviglia, ma, a testimonianza della percezione tutta interiore del viaggio, Alfieri trascorre la maggior parte del tempo alla finestra, osservando e piangendo.
Terminato il viaggio in Italia, l'autore desidera visitare Parigi, attratto in particolare dal teatro, specie dalle commedie, ma il soggiorno parigino si rivelerà presto una delusione. La capitale, con la frenesia dei suoi meschini divertimenti, rivela il vero volto del tedio. Al contrario, l'Inghilterra gli pare un paese libero e fortunato, il cui buon governo si manifesta nella pubblica felicità. A Schoenbrunn, come è noto, Alfieri vede Pietro Metastasio genuflesso dinanzi a Maria Teresa, e il suo volto servilmente pago nella adulazione lo sconcerta. Nel suo avventuroso viaggiare, Alfieri visita anche la Svezia e la Finlandia, e l'asprezza selvatica di paesaggi maestosi accende la febbrile sensiblerie dell'autore.

2. 3. La formazione letteraria
Durante i suoi viaggi, Alfieri entra in possesso di numerosi libri che contribuiscono a svecchiare una cultura che si configurerà sempre più come pervasa dalle suggestioni della cultura d'Oltralpe. Così, in una sintesi non sempre compiuta, Alfieri conosce la intelligenza critica di Montesquieu e la profondità analitica di Rousseau e la lucidità corrosiva di uno stile capace di demistificare gli idola tribus. In quanto refrattario, per indole e temperamento, a ogni asservimento, finanche in ambito poetico, il suo apprentissage si configura come potente proprio in ragione della sua asistematicità, cifra necessaria di una autentica indipendenza culturale. Ma, a voler semplificare i termini della problematica, si possono individuare almeno tre direttrici culturali che innervano l'opera omnia di Alfieri.
L'astigiano coniuga la radicale novità della cultura settecentesca e il patrimonio classico, non circoscrivendolo, tuttavia, alla sola produzione tragica – poniamo – di Seneca, ma tramandolo delle sollecitazioni di una storiografia pervasa da una potente tensione conoscitiva e morale. E' dunque la lettura fervida e passionata di Plutarco a infiammare il giovane autore, insieme allo studio dei moti e delle leggi che sovraintendono ai corpi celesti che, nella loro siderale lontananza, paiono davvero incorrotti, specie se paragonati alle umane miserie. L'osservazione della volta siderale, con le sue leggi eterne e i suoi misteri insondabili, è occasione privilegiata per una sublimazione speculativa, ben oltre le soglie, effimere e periclitanti, della terrestre natura. Raggelata, ma quanto fuoco cova sotto la cenere, nella perfezione plutarchea e nell'algida astrazione celeste, la grandezza si incarna in immagini, per quanto rarefatte, segnando al contempo una frattura con il reale ancora più immedicabile. Infine, a completare il trittico, si pone il magistero, specie linguistico, maturato attraverso la sapiente lettura dei toscani e dei classici della letteratura italiana, il cui incontro assurge allo status di autentico riconoscimento.

2. 4. Le opere
La Cleopatra, «la maledetta tragedia», come Alfieri la definisce nella Vita, nasce, davvero sorprendentemente, da un periodo di oziosa inattività: costretto a vegliare la sua donna convalescente, il poeta si dispone infatti a schiccherare versi, per ingannare il tempo magistralmente ritrovato, in un' ottica che pare preludere a certe istanze proustiane. L'idea del soggetto nasce da una percezione visiva, tanto estemporanea da apparire rabdomantica: osservando un arazzo che riproduce i principali episodi della tragedia.
La «Cleopatraccia» (come Alfieri la definisce nella Vita) segna l'avvio della sua attività di tragediografo. Poco importa che l'opera sia stata in seguito rinnegata dall'autore; conviene invece osservare la centralità assunta, già in questa fase aurorale, dall'amore, necessario preludio della creazione artistica.
Negli anni '75-'76 Alfieri lavora al Filippo, al Polinice, e, dopo il soggiorno pisano, all'Antigone, all'Agamennone, all'Oreste, al Don Garzia. Negli anni 1776-'77 scrive i trattati politici Della tirannide e Del principe e delle lettere.
Intrattiene, dopo una serie di amori rocamboleschi e tormentati (tra cui occorre senz'altro ricordare la passione per Penelope Pitt) una relazione duratura con la contessa d'Albany, infelicemente sposata al pretendente al trono d'Inghilterra Carlo Edoardo Stuart. Convinto che si possano scrivere tragedie migliori nella stalla che in corte, proprio in questi anni Alfieri rinuncia alle proprietà e ai beni feudali a favore dell'amata sorella Giulia, conservando per se stesso soltanto una pensione.
Gli anni '78-'80 vedono la genesi e stesura dell'Etruria vendicata, della Maria Stuarda, della Rosmunda, dell'Ottavia, e del Timoleone. A Roma, dove il poeta si trasferisce per seguire l'amata contessa, compone il Saul e la Merope e, sempre a Roma, fa rappresentare l'Antigone, interpretando lui stesso il ruolo di Creonte. Pare che la sua recitazione avesse convinto gli spettatori, anche quelli più raffinati ed esigenti, come Vincenzo Monti e Alessandro Verri. Nel 1783 esce a Siena la prima edizione delle sue tragedie, mentre la contessa d'Albany ottiene la definitiva separazione dal marito.
Alfieri manifesta, in principio, entusiastica adesione agli ideali rivoluzionari, come dimostra la stesura del Bruto primo e del Bruto secondo e l'ode Parigi sbastigliato. Nel 1790 appronta la stesura della Vita, che riprenderà successivamente, nel 1798, revisionandola dal punto di vista stilistico, attendendo, con solerte impegno, a questo còmpito sino al 1803. Inviso ai rivoluzionari, rientra a Firenze, dove si stabilisce insieme alla contessa d'Albany. Dalla cocente disillusione degli ideali rivoluzionari nasce la prosa arrovellata del Misogallo, indignato pamphlet contro la Francia, e il ricco corpus delle Satire. Poco prima della morte, avvenuta l'8 ottobre del 1803, scrive le sei Commedie e l'Alceste seconda.

 

3. Il corpo della parola, il corpo delle idee (Del principe e delle lettere)

 

3. 1. Della tirannide
L'origine piemontese dell'Alfieri non è solo un dato geografico, ma dischiude anche un orizzonte culturale ineludibile. Dalla lettura della Vita si ricava il rapporto conflittuale che l'astigiano matura con la propria terra e, in particolare, con la condizione di arretratezza della monarchia sabauda. Di fatto, specie se paragonata alle monarchie illuminate europee e alla vicina Lombardia, emergerà, potente, lo stato di sclerosi politica e culturale del Piemonte. In effetti, la regione non conosce l'ascesa di una borghesia propulsiva e la sua classe aristocratica, da sempre arroccata nella strenua difesa dei propri privilegi, non manifesta alcuna volontà di cambiamento.
Pur percependo con forza l'arretratezza asfittica della sua terra, al punto di volersi spiemontizzare, la reazione di Alfieri si rivela tanto esibita quanto velleitaria. A ben riflettere, le sue scelte ideologiche assumono più i caratteri di una spontanea adesione emotiva che di un lucido esame politico.
Gli slanci titanici nascono certo dall'avversione verso l'ancien régime, ma alla pars destruens non è coniugata, opportunamente, una pars construens. Alfieri non riesce, infatti, a delineare una possibile alternativa politica. Il culto della classicità assume, a questo proposito, i connotati di fuga nei lidi nostalgici di modelli assunti come universalmente validi, recidendo ogni interpretazione dal piglio e sapore pragmatico.
Dall'Illuminismo, per esempio, Alfieri non ricava l'assunto centrale di progresso e miglioramento sociale. Di questo limite occorrerà tenere debito conto nell'analisi dei trattati di più aperto interesse politico.

3. 2. Struttura e contenuto
Scritto nel 1777 e stampato all'insaputa dell'autore nel 1789, il trattato Della tirannide è costituito da due libri. Nel primo Alfieri analizza la natura della tirannide, nel secondo enuclea i modi per opporvisi.
I modelli assunti sono, va da sé, Machiavelli e Montesquieu, ma l'analisi condotta dall'autore indulge a una eccessiva astrazione speculativa e lo scontro fra tiranno ed eroe si tinge di astratti furori.
Rifuggendo dalle più recenti acquisizioni del dispotismo illuminato, lo scrittore formula la ipotesi paradossale che sia preferibile una tirannide estrema a una moderata che, anestetizzando i sudditi, di fatto raggela ogni impulso libertario. Se non altro, gli abusi manifesti del tiranno inducono al gesto agonistico, e poco importa che la ribellione si concluda con uno scacco.
Interessante, nel trattato, è la analisi psicologica del tiranno, che presenta profonde congenialità con la Stimmung delle tragedie. In particolare, convincenti sono le pagine in cui Alfieri raffigura il gigantismo solitario del tiranno, che rabbrividisce nella desolazione della sua reggia.

3. 3. Del principe e delle lettere
Composto fra il 1778 e il 1786 e stampato senza il permesso dell'autore nel 1789, il trattato, in tre libri, riecheggia, sin dal titolo, Il principe di Machiavelli. Lo scrittore fiorentino costituisce infatti uno dei fondamentali referenti culturali di Alfieri. L'interpretazione alfieriana in merito al pensiero politico di Machiavelli contiene, tuttavia, un vistoso errore di interpretazione: l'astigiano legge il trattato come opera di denuncia delle crudeltà dei principi.
Al di là del fraintendimento, che ha conosciuto comunque una straordinaria fortuna letteraria, Alfieri concepisce la letteratura in una accezione squisitamente morale, come audace rivelazione del vero. Lo scrittore, infatti, denuncia la vacuità, tutta ornamentale, di una scrittura acquiescente, naturalmente inoffensiva. Le lettere, votate alla demistificazione degli idola fori, sono incompatibili con l'ideologia del principato che tende a neutralizzarle. La sorte di Omero cieco e ramingo e il destino di Dante segnano la emarginazione inevitabile dello scrittore maestro di verità e di libertà, capace di ergere, anche forsennatamente, il proprio capo mai piegato invano. Il solo modo per affrancarsi dalle lusinghe del potere è innalzare la letteratura sino alle soglie della «sublimità vera», teorizzata nella Virtù sconosciuta.
Il trattato Del principe e delle lettere è pervaso, tuttavia, da un cupo pessimismo, come dimostra l'insistenza sul segno «purtroppo» che percorre il testo nella redazione finale dell''86. L'opera presenta motivi di sicuro interesse nel profilare l'immagine del letterato come eroe animato da un forte impulso naturale alla creatività e dalla indefessa coazione al dissenso.
Il genio vive, tuttavia, lo scarto fra realtà e tensione ideale, configurando come dolce illusione la virtù. E gli accenti del testo preludono alle illusioni morbidamente vagheggiate, e subito perdute, di Foscolo e Leopardi.
Il pessimismo agonistico di Alfieri sostanzia dunque non solo le tragedie, ma anche la sua riflessione etica e ideologica. Naturalmente tale concezione, autentico Giano bifronte, postulando come necessaria tale sublimazione, rivela, al fondo, il proprio limite: l'esito sarà, infatti, il culto sdegnoso e solipsistico di un'arte elitaria.

3. 4. Il Panegirico di Plinio a Traiano e Della virtù sconosciuta
Del 1785 è il Panegirico di Plinio a Traiano, opera in cui Alfieri celebra l'ideale del principe che rinuncia al potere e concede ai sudditi la libertà, elevandoli, dunque, allo status di cittadini. Del 1786, invece, è l'operetta Della virtù sconosciuta, commossa rievocazione dell'amico senese Francesco Gori Gandellini. L'amico defunto, ammantato di una grandiosità che si tinge di solitudine, è assunto a paradigma della dignità umana, fondata sulla nobiltà.

 

4. «In così appannato specchio mirandomi» (tra rovello e varco)

 

4. 1. La scrittura introspettiva
La attitudine a certa introspezione diaristica percorre tutta la produzione di Alfieri. Si pensi, a questo proposito, al vasto repertorio delle Rime che contengono, di frequente, la indicazione delle circostanze di luogo e tempo nella multiforme genesi dei testi. Il canzoniere alfieriano contiene addirittura la trascrizione delle particolari condizioni atmosferiche, rivelando una sensibilità tutta già virata al cromatismo impressionistico. Le annotazioni meteorologiche, occorre chiarire, non si configurano come elementi meramente aneddotici, ma innervano il testo, conferendo alla parola poetica, pur nel nitore esatto del segno, una evanescenza a tratti pulviscolare e, verrebbe da aggiungere, crepuscolare.
La propensione alla dimensione diaristica si rivela compiutamente, tuttavia, in un estravagante testo dalla natura frammentaria: Il Giornale, stando alla fortunata titolazione voluta da Emilio Teza che ne approntò, nel 1861, un'edizione non priva di censure.
In primo luogo, occorre chiarire, il diario si presenta, sul piano linguistico, intensamente arrovellato in virtù della sua natura ibrida: esso è stato infatti redatto dall'autore in francese dal novembre 1774 al febbraio 1775 e in italiano dall'aprile al giugno 1777. Quello che al poeta dovette apparire come un limite rivela oggi tutto il fascino di un'opera percorsa da un acceso, e invero modernissimo, sperimentalismo.
Nella sua natura abborracciata, il diario rivela una autentica vocazione al racconto, specie per la centralità attribuita al dettaglio, centro di irradiazione. La voce narrativa, fra insofferenza del limite e vocazione titanica, coglie lo stupore del minuto frammento di vita, senza indulgere alla retorica della vita inimitabile, ma prediligendo, semmai, una modernissima poetica dello scarto memoriale,
Anche un episodio così eclatante come l'auto-imposizione ad assistere a un'esecuzione capitale non è platealmente esibito, ma si rifrange nelle pieghe sottili della coscienza, che, nella ricerca ossessiva della espiazione, rivelerebbe la crudeltà al fondo di ogni gesto, anche di quello che si vorrebbe innocente. Certo, il diario oscilla costantemente tra percezione del fallimento esistenziale e coazione alla auto-mitologia. In questa vibrazione risiede il senso riposto di una perplessità molto moderna, tutta giocata nello slancio eroico e velleitario di chi percepisce lo strappo nel cielo di carta.
Se sul piano linguistico l'opera rivela la sua natura ibrida, nessuna pacificazione concerne i contenuti del testo, tutto viluppi e anse. L'idea di fondo è infatti riconducibile alla percezione sgomenta del tempo, alla sua inquietudine dissipatrice. E il termine adottato dall'Alfieri, con iterazione ossessiva, è, appunto, bollor.
Molto proustianamente, Alfieri avverte, insomma, la ennuie di cui è materiato il tempo perduto. E negli sciorinati giorni dispersi, la scrittura si impone come rovello. Non è tanto importante il racconto romanzesco del gesto eclatante, quanto il calvario quotidiano di chi annaspa nel niente, alle prese con un amore incorreggibile e tormentato dalle quotidiane frustrazioni. Anche l'ideale della conversione, che profondamente sostanzia la Vita, qui pare un poco in ombra: in questo portrait of the artist as a young man, la scrittura rifugge da ogni tensione salvifica, e il varco appare soltanto vagheggiato, senza la serenità irenica dell'approdo.
All'inutile dispendio del tempo si coniuga la corruttela del silenzio, che costella tutte le pagine del diario, sino all'esito estremo della annotazione «Nulla che vaglia di essere scritto» (50), datata Martedì 29 Aprile 1777. La scrittura tocca qui i vertici acuminati dell'indicibile come paradigma di scrittura; lo stile brachilogico è l'esito naturale per chi corteggia la soglia liminare del silenzio, inteso come inesauribile potenzialità della parola. Ma a questa visione del silenzio, che solo per comodità potremmo definire sublime, fa da contraltare l'esecrabile mutezza del chiacchiericcio mondano, che mette a nudo il volto terrifico della «vanitaduzza», della «vanagloria».
Lo specchio di Narciso pare, in questo testo, infranto; l'ircocervo (anche quello testuale), se posto dinanzi allo specchio, corrompe i tratti elusivi e tangibili della propria identità, incontrando la morte.

4. 2. «Questo salutare esame di me stesso»
Con la felice formula di «salutare esame di me stesso» Alfieri definisce la sua naturale propensione alla narrazione autobiografica. L'espressione inaugura le pagine del Giornale, imprescindibile accessus alla monumentale Vita. Senza sovrabbondanti trionfalismi, il severo esame della propria esistenza si configura come un necessario esercizio spirituale. La costellazione del rovello e del varco (senza idillio) pare informare l'opera: al Proteo della vita è possibile associare la Gorgone di una scrittura che, per quanto pietrifichi la vita, ne rivela, in ultimo, il senso.
La Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso non rinuncia, tuttavia, alla natura proteiforme della vita e ha, anche per questo, una genesi tormentata e stratificata: la prima stesura completa risale al 1790, ma il testo subisce vari rimaneggiamenti sino alla redazione finale, cui Alfieri lavora dal 1798 al 1803, per poi uscire postumo nel 1806.
L'astigiano inizia a scrivere l'autobiografia a quarantuno anni, in età precoce rispetto ai parametri del genere. Vico scrive infatti le sue memorie a cinquantasette anni, Goldoni redige i Mémoires ormai prossimo agli ottanta e Carlo Gozzi le Memorie Inutili dopo i sessant'anni, per non dire di altri autori come Casanova, Da Ponte, Goethe, Rousseau.
Opera inquietamente vitale, la Vita offre agli interpreti motivi di sicuro interesse e non tanto per la ricostruzione scrupolosa della biografia del poeta, quanto per la ricchezza di contenuti emotivi, poetici e ideologici che innervano il testo. Senza nulla concedere allo sterile cronachismo, come è di certe autobiografie intarsiate di accadimenti tutti esteriori, agisce qui la verticalizzazione dei singoli episodi, fra rievocazioni ora accorate, ora accigliate. Verticalizzazione e interiorizzazione si configurano dunque come gli orizzonti possibili di senso.
Nata da un profondo travaglio spirituale, nella Vita l'auctor ricostruisce, con acuto sguardo retrospettivo, le tappe di un sofferto Bildung, dalla incoscienza della puerilità alle acquisizioni della vecchiaia. In particolare, lo scrittore fissa lo sguardo sul faticoso apprentissage che si inerpica, ansa inquieta, dalle prime prove letterarie agli esiti di una materia poetica interamente propria. La sistematicità conchiusa del testo non raggela l'infaticabile, e mai assestato, furor conoscitivo.
L'autobiografia si configura, così, come indagine volta a delucidare un io originario, riconosciuto come potenzialità vitale, tutto giocato fra energismo erompente e disillusione. Il senso autentico della recherche risiede nelle modalità tonali, ora malinconiche, ora tetramente disperate, ora ironico-sarcastiche. Tuttavia, nei momenti di più accesa indignazione o di maggiore afflato emotivo, l'impianto narrativo è controllato da un robusto andamento ragionativo e argomentativo, memore senz'altro degli Essais di Montaigne. Alla centralità tributata all'io, di matrice tipicamente romantica, è coniugata la lucidità di una parola chiarificatrice, di stampo illuminista.

4. 3. L'egotismo illuminista
La duplice direttrice investe anche la composita orchestrazione stilistica: alla ricerca di un sostenuto preziosismo calligrafico, dalle movenze colte e latineggianti, si coniuga il gusto per una spontaneità colloquiale, tutta formule idiomatiche, anacoluti, che riverbera movenze tipiche del parlato. In questo pastiche linguistico si rivela compiutamente il tratto di accesa modernità dello scrittore.
Nella Introduzione all'opera l'autore illimpidisce le molteplici ragioni che lo hanno indotto a narrare la sua esistenza. In primo luogo, l'esame di sé scaturisce dal molto amor proprio e da un naturale trasporto per il vero e il bello. Riconosce, inoltre, alla autobiografia un valore esemplare di indubbia utilità in quanto testimonianza per una più articolata conoscenza dell'uomo.
Nella già citata Introduzione, non mancano attestazioni di sincerità espositiva: l'opera sarebbe nata dal cuore e non dall'ingegno e la libertà dello stile lasciato all'estro della penna animerebbe la pagina. Naturalmente, tutte le dichiarazioni vanno sottoposte ad attento vaglio critico, specie quelle relative alla presunta sincerità e schiettezza comunicativa. Al contrario, la Vita è opera di ingegno, sapientemente calcolata, dunque, anche sul piano stilistico.
Più opportunamente, l'opera ha essere posta in relazione con il rigoglio, nel Settecento, del genere autobiografico. La Vita di Alfieri nasce infatti dalla medesima temperie da cui prendono corpo i Mémoires di Goldoni e le Confessioni di Rousseau. Ma, a differenza delle Confessioni, in cui il singolo accadimento trova in sé una propria legittimità, l'autobiografia di Alfieri inserisce il singolo evento in un disegno complessivo assai più ampio, che tutto chiarifica e invera.
Anche l'evento più estravagante rientra in una visione teleologica: i minuti accadimenti si ricompongono, segnando, in un'ottica progressiva, le tappe verso la acquisizione dello status di autore tragico. Eppure, nel delineare il ritratto della sua puerizia, Alfieri, con intuito davvero rabdomantico, concepisce l'adulto come continuazione del bambino, attribuendo alle emozioni dell'età fanciullesca una centralità davvero sorprendente.
Si impone, su tutti, l'episodio della reminiscenza infantile: vedere gli stivali a tromba, ormai disusati, lascia affiorare lo struggente ricordo dello zio. Vale la pena citare per intero: «mi richiamava ad un tratto tutte quelle sensazioni primitive ch'io avea provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello zio, di cui i moti e i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in un subito nella fantasia» (Alfieri 1967, 12).
Naturalmente l'episodio si segnala per la felice intuizione di quella che, a buon diritto, si configura come memoria involontaria ma, è bene chiarire, la percezione è solo adombrata e non si converte in procedimento strutturale. Pure, a testimonianza dell'indubbia modernità di queste prime memorie, si impone un altro episodio, dai risvolti inquietanti: dopo la partenza dell'amata sorella Giulia, Alfieri prova un desiderio («innocente», scrive) per i visi donneschi di alcuni novizi. Cerca poi nel dizionario la definizione di "frate" e la sostituisce con la parola "padre" perché aveva sentito talora pronunciare con disprezzo la parola "frate" e con rispetto quella di "padre". Lo stesso autore rivela come l'episodio sia meno risibile di quanto possa apparire e come, al contrario, svelerebbe il seme della passione dell'uomo.

4. 4. Le passioni e i viaggi
La Vita contiene, inoltre, il racconto dettagliato di rocambolesche passioni e di viaggi avventurosi. Alcune sezioni richiamano movenze riconducibili al romanzo, genere ancora in statu nascendi, ma il titanismo unidirezionale inficia ogni apertura al genere ibrido e mescidato del romanzo. Non infranto, lo specchio di Narciso finisce per accecare la polifonia della scrittura.
Unitamente alla narrazione, ora tragica, ora sapientemente ironica di amori e viaggi, nella Vita Alfieri ci presenta la sua biblioteca, tanto babelica quanto rigorosa. Con lo stupore fecondo dell'asistematicità (ma forse più declamata che vissuta), Alfieri annota il rapimento intellettuale per Plutarco, Esiodo, Omero, i tre tragici greci, Aristofane, Anacreonte, la passione per Seneca, Sallustio, Plauto, Terenzio, Lucrezio.
Nell'autobiografia l'astigiano rievoca l'incontro con la prosa di Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Tasso, Machiavelli e con i Dialoghi di Aretino e la commedia di Goldoni. Sempre intento a sprovincializzare, spiemontizzare la propria cultura, il poeta si apre alle suggestioni fabulatorie de Le mille e una notte, coniugate, sorprendentemente, alla corrosiva lucidità degli illuministi francesi.
Allo stile coturnato si contrappone, nella Vita, un andamento prosastico modulato, caratterizzato da una medietà tonale che, tuttavia, non rinuncia alla sostenutezza stilistica tipica dell'autore. L'intensità emozionale, l'energia passionale è qui sapientemente sorvegliata, calata nella verità di una prosa che sa, appunto, rinunciare al grido e farsi racconto.

4. 5. Il sublime vero e i «Fatalia monstra» dell'universo tragico
Indubbiamente l'esperienza biografica di Alfieri, o per lo meno la auto- mitologia da lui consegnata alle pagine della Vita, è pervasa da spirito tragico, da intendersi come gusto per le passioni estreme. Il suo temperamento, tutto improntato alla radicalizzazione dei conflitti, alimenta il respiro tragico della parola. Ma, a spiegare la predilezione dell'Alfieri per il modo tragico, è anche la tensione ideologica che alimenta le coppie antinomiche (bene vs male; libertà vs tirannide; amore vs morte) che sostanziano il suo orizzonte di pensiero. Connesso a queste motivazioni è anche il culto di un'arte elitaria, aristocratica, distante dal genere romanzo come epos borghese.
Occorre dunque distinguere fra un aspetto soggettivo e uno oggettivo dell'ispirazione tragica. La dimensione soggettiva collima con la volontà dell'autore di farsi tragediografo, e di vivere tutte le esperienze umane al limite del parossismo; l'aspetto oggettivo, invece, è da intendersi come la concreta produzione dei testi, calati nella concretezza della storia. Documento programmatico è, senza dubbio, la lettera inviata da Alfieri a Ranieri de' Calzabigi, datata 6 settembre 1783. Qui si legge:

La tragedia di cinque atti, pieni, per quanto il soggetto dà, del solo soggetto; dialogizzata dai soli personaggi attori, e non consultori o spettatori; la tragedia di solo filo ordita; rapida per quanto si può servendo alle passioni, che tutte più o meno vogliono pur dilungarsi; semplice per quanto uso d'arte il comporti; tetra e feroce, per quanto la natura lo soffra; calda quanto era in me; questa è la tragedia che, io, se non ho espressa, avrò forse accennata, o certamente almeno concepita.

4. 6. Ideare, stendere, verseggiare
Nella Vita, inoltre, Alfieri chiarisce le varie fasi di elaborazione delle tragedie, non certo frutto di spontaneistica ispirazione, e redatte nell'atto di sentir musica o poche ore dopo. L'autore individua tre respiri che informano l'opus tragico: ideare, stendere, verseggiare.
L'ideazione del testo consiste nella distribuzione del soggetto in atti e scene, nella definizione del numero dei personaggi, e nella redazione, in due pagine di «prosaccia», di tutto quello che essi diranno e faranno, scena per scena. La stesura si configura come redazione, tutta impeto, e senza badare alla modalità stilistica, di dialoghi in prosa, scena per scena. L'ultima fase di elaborazione consiste nel verseggiare la prosa, e nel selezionare, fra tante lungaggini, retaggio anche del teatro allora in voga, i pensieri nella loro essenzialità.
L'elaborazione presuppone un infaticabile lavoro di condensazione stilistica e tematica. La concentrazione contenutistica è ottenuta mediante la soppressione di vicende e personaggi secondari ed espungendo gli effettacci della trama, tutta colpi di scena e trovate ingegnose.

4. 7. Esercizi di stile
La brachilogia compositiva, che pare singhiozzante come è dell'affanno del respiro, è riconducibile a una triplice direttrice: da un lato all'elegante inconcinnitas di Sallustio, dall'altro allo stile maschio e feroce del sublime tragico senechiano. Ma la reductio alfieriana collima anche con il temperamento dell'autore, nel culto frenetico della velocità, testimoniato dalla passione per i cavalli.
La condensazione espressiva si evince anche dalla sistematica concentrazione delle didascalie, che pure contengono importanti indicazioni registiche. Pur non essendo espressione di indifferenza autoriale verso le problematiche della scena, la loro essenzialità impone che i riferimenti cinesici, gestuali e prossemici debbano essere ricavati dai dialoghi.
Il lessico, epurato e elevato, coniugato all'abnorme intensificazione di una punteggiatura in funzione espressiva, accende il mondo tragico con la sua asciuttezza sublime.
Nelle parole abbondano le consonanti e questo conferisce al verso una sonorità dura, che nulla concede alle soffuse modulazioni del canto. L'endecasillabo è scavato e vibrante, tutto proteso, mediante lo sconfinamento prodotto dal sistematico uso dell'enjambement, all'esasperazione di passioni incontenibili, che scardinano il rigore della metrica tradizionale.
Al tono medio del parlato Alfieri sostituisce il gusto per la torsione compositiva, al limite della referenzialità. La concentrazione espressiva è coniugata alla sostenutezza stilistica; nonostante l'essenzialità della struttura, l'ordo naturalis è costantemente sovvertito dall'ordo artificialis, mediante l'utilizzazione dell'iperbato e dell'anastrofe.

4. 8. L'enigma della deduzione
Il teatro tragico alfieriano è teso alla verticalizzazione poiché intensamente iterativo e non progressivo. L'esito tragico, da sempre preannunciato, non conosce svolgimento drammatico poiché la logica degli eventi si rivela subordinata alla verità interiore dei personaggi. Il teatro alfieriano ha, inoltre, un andamento deduttivo: nella prima fase della tragedia è impostato il problema, poi il plot si sviluppa in modo lineare, con il determinismo della necessità. L'assenza del colpo di scena dimostra, inoltre, l'inanità di ogni azione umana.
Centrale è, nella produzione tragica di Alfieri, il monologo di personaggi che rivelano, fra esitazioni e reticenze, il nucleo terribile del loro sentire.
Dunque, pur nel rispetto delle tre unità aristoteliche, Alfieri fonda la tragedia italiana moderna, qualora si interpreti l'insistenza sulla parola, ossessivamente iterata nella sua tensione verso il silenzio, come verità poetica della modernità.

4. 9. Le tragedie
Dopo la stagione degli intensi viaggi, Alfieri concentra tra il 1775 e il 1788 la sua febbrile attività di tragediografo. In soli 14 anni, e giovanissimo, realizza diciannove tragedie, da lui pubblicate in sei volumi tra il 1787 e il 1789 (anno in cui esce la prima stampa completa a Parigi, per i tipi di Didot).
L'elenco completo delle sue opere teatrali comprende diciannove tragedie edite in vita: il Filippo, il Polinice, l'Antigone, l'Agamennone, l'Oreste, il Don Garzia, la Virginia, la Congiura de' Pazzi, la Maria Stuarda, la Rosmunda, l'Ottavia, il Timoleone, la Merope, il Saul, l'Agide, la Mirra, la Sofonisba, il Bruto primo e il Bruto secondo; due tragedie postume, Antonio e Cleopatra (la giovanile Cleopatra) e Alceste seconda; una tramelogedia, l'Abele.
Come si evince dai titoli delle opere, Alfieri trae i suoi soggetti da ambiti quanto mai disparati. Essi vanno dalla tradizione della tragedia greca (Polinice, Antigone, Agamennone e Oreste) al mondo della mitologia, mediato dalle Metamorfosi ovidiane (Mirra), a quello della storia sacra (Saul). E la storia varia dalle vicende dell'antica Grecia (Timoleone, Merope e Agide) alla storia romana (Virginia, Sofonisba, Bruto primo e Bruto secondo). La Rosmunda, di ambientazione medievale, è, al contrario, invenzione esclusivamente alfieriana. Certo, un itinerario storicamente tanto variegato dimostra l'universalità delle tematiche care all'autore.
Occorre individuare, nel vasto corpus alfieriano, le tragedie tutte retorica tribunizia, infiammate da ore rotundo, in cui i personaggi sono stilizzati nel cliché di eroi libertari o malvagi tiranni, che discettano, in abstracto, di libertà o ragion di stato. Alfieri raggiunge, al contrario, i risultati più convincenti là dove la radicalizzazione dei conflitti viene interiorizzata e la parola urlata si tinge dei nodi della rimozione e della reticenza. E dove non esiste più eroismo, se non nella solitudine.
Qualsiasi studio sulle tragedie di Alfieri non può non indagare il delicato problema della loro controversa ricezione. Di fatto, il suo teatro è, a tutt'oggi, scarsamente rappresentato. Si tratta, infatti, di testi riservati alla sola lettura anche a causa delle specificità linguistiche. Tuttavia, questo dato non inficia la modernità di alcune opere: in particolare il Saul e la Mirra evocano problematiche di sicuro interesse anche per il lettore-spettatore moderno.

 

5. «Io disperatamente amo, ed indarno»: la Mirra

 

5. 1. Tra mito e rimpianto
La tragedia è dedicata a Luisa Stolberg, duchessa di Albany, la donna che ispira a tal punto l'arte di Alfieri da essere trasfigurata in musa: «di tutte il fonte | tu sola fossi». Ideata nell'ottobre 1784, la tragedia è stesa nel dicembre dell'anno successivo, e verseggiata nell''86.
Ambientata nella reggia di Cipro, è suddivisa in cinque atti: il soggetto è liberamente tratto da un episodio delle Metamorfosi ovidiane (X, 298-518), dove si narra che Mirra, per una maledizione di Afrodite, si sarebbe innamorata del padre Ciniro, e che, dal rapporto incestuoso, sarebbe nato il bell'Adone, amato dalla dea. Mirra sarebbe stata poi trasformata nelle mutatas formas di un albero che porta il suo nome.
Come si evince dall'analisi, anche superficiale, del mito ovidiano, la tragedia diverge profondamente dal mito classico. In prima istanza, Alfieri rinuncia al consumarsi dell'incesto e alla violazione del tabù, e, va da sé, alla trasformazione della giovane in pianta profumata. Alla metamorfosi cangiante, paradigma di una visione labirintica e spettacolare del mondo, Alfieri sostituisce infatti l'idea della necessità fatale, determinata nella sua fissità, come sola legge umana.
La tragedia si apre con la rappresentazione della giovane Mirra, figlia del re di Creta Ciniro, prostrata da un dolore sconosciuto. Invano i parenti tentano, con il loro premuroso affetto, di sanare l'affanno, ma il contesto domestico si rivela, sin dalle prime battute, incapace di contenere il dramma di Mirra. L'affetto della nutrice Euriclea (un omaggio all'Odissea?), l'amore del promesso sposo Pereo, della madre Cecri e del padre Ciniro non riescono a confortarla.
Dolenti testimoni del dolore di Mirra, sia Pereo, sia i genitori della giovane sarebbero disposti a rinviare o addirittura a sospendere le imminenti nozze, ma è lei stessa a insistere per la loro celebrazione. L'angoscia prorompe, irrefrenabile, proprio il giorno delle nozze e, nella violenza del delirio, Mirra rifiuta lo sposo che, per il dolore, si uccide. Mirra, stravolta della passione, scaglia parole di odio alla madre e, rimasta sola con il padre, gli rivela, fra allusioni e reticenze, la verità dell'amore colpevole: l'amore di una figlia per il proprio padre. Disperata, si avventa poi sulla spada di Ciniro e l'angoscia della morte è resa ancor più drammatica dalla consapevolezza di aver perduto l'innocenza.

5. 2. L'innocenza perduta e la verità della parola
Nel corso della diegesi, Ciniro pronuncia una battuta invero rivelatrice: «Padre mi fea natura; | il caso re» (Alfieri 1999, 17). Dunque il nucleo tematico deve essere ricondotto a una dimensione esclusivamente privata, essendo del tutto espunto il motivo politico che sostanzia, al contrario, la maggior parte delle tragedie alfieriane.
Inoltre, nella Mirra, non è tematizzato il conflitto acceso tra i personaggi, nella radicalizzazione dei loro contrasti. Mirra non deve, infatti, lottare contro un antagonista crudele, anzi il suo dramma si snoda in un contesto di parenti premurosi. La tragedia è, dunque, potentemente interiorizzata e, con finezza introspettiva, Alfieri interroga le lacerazioni di un'anima sospesa tra acuta percezione del peccato e angoscia di espiazione.
Di più, uno degli elementi di maggiore modernità risiede nell'adozione di un linguaggio potentemente allusivo, teso sul crinale dell'indicibilità. Fra le parole, infatti, si aprono squarci di silenzio e il non detto, fra denegazione e rimozione, investe la struttura stessa del discorso. Corteggiando il silenzio, la condensazione espressiva del Nostro raggiunge l'intensità del sublime vero. Il cuore di tenebra può prorompere in una sola parola, che suggella il senso ultimo di un'esistenza.
In questo voyage au bout de la nuit, l'allusività, l'interdizione linguistica rivelano, in ultimo, la solitudine assoluta, e nient'affatto titanica della protagonista. Al contrario delle tragedie che tematizzano il conflitto fra eroi e deuteragonisti, manca, nella Mirra, un personaggio capace di opporre, con slancio titanico, i propri ideali.

5. 3. L'innocenza perduta e la solitudine
Con la forza di una passione socialmente inaccettabile, Mirra è sola e, nella morte, non conosce né riscatto, né salvezza. L'infelice muore non più innocente, estromessa dal consorzio civile come il capro espiatorio che, da sempre, informa le società e che deve essere espulso affinché il sistema possa mantenersi saldo. E, come è noto, la civiltà si fonda, in prima istanza, sulla tabuizzazione dell'incesto.
Con rabdomantica intuizione psicoanalitica, Alfieri coglie la centralità di istanze libidiche al fondo di ogni individuo, il trauma di ogni rimozione, anche linguistica. Occorre ricordare, infatti, che la tragedia corre verso il suo esito fatale, con ferrea determinazione, quando Mirra confessa al padre, sia pure in modo allusivo, la natura del suo amore.
Finché l'empia passione rimane avvolta nella mutezza, Mirra riesce a conservare un barlume di innocenza, ma quando il nefas viene verbalizzato, ecco che si produce la catastrofe. Morendo, Mirra potrà solo punire l'empietà di un desiderio proibito, ma non certo redimersi, né ritrovare, intatta, la propria innocenza.
L'opera, appartenente al periodo più tardo della produzione di Alfieri, rivela l'incupirsi della poetica dell'astigiano. Nella solitudine, senza riscatto né consolazione, dell'individuo abbandonato ai propri fantasmi non traluce più speranza alcuna. Neppure la morte può riscattare una vita, rivelando il senso di un destino. Neppure la parola può liberare il dolore di un'anima e, soprattutto, non è data più innocenza. Modernissima incarnazione di un'immedicabile passione, Mirra è la grande eroina della solitudine, dell'inutilità delle parole, dell'innocenza perduta: «Quand'io… tel chiesi,… | darmi… allora,… Euriclea, dovevi il ferro… | io moriva… innocente,… empia… ora… muoio».

5. 4. «Io voglio morte»: il Saul
La tragedia è dedicata all'amico Tommaso Valperga di Caluso, docente di greco e di lingue orientali, ed esperto di lingua e cultura ebraica. L'ideazione, stesura e versificazione dell'opera avvengono in brevissimo tempo: tra il marzo e il luglio 1782. Tragedia prediletta dall'autore, Alfieri interpretò, con successo, il ruolo del protagonista.
Nell'intenzione del tragediografo questa avrebbe dovuto suggellare il corpus delle tragedie e, in effetti, al Saul seguirono anni di silenzio. La fonte del testo è costituita dal Libro dei Re della Bibbia, ma, ancora una volta, l'autore apporta sostanziali modifiche al modello, concentrando al massimo la vicenda, secondo i dettami della poetica aristotelica, e rendendo dunque la vicenda straordinariamente concitata.
La tragedia si svolge nel campo degli Israeliti, in Gelboè. Qui si attende lo scontro decisivo con i nemici Filistei. Il re Saul, intanto, è minato da una irrequietezza crescente, al limite della crisi psichica.
A insidiare la sicurezza del re è l'assenza del coraggioso David, sposo di Micol (la figlia di Saul) e che il re stesso ha esiliato per iniqui sospetti: ma in realtà perché geloso dei suoi successi. L'arrivo del coraggioso David al campo, desideroso di dar prova della sua fedele dedizione al re, invece di placare l'animosità di Saul non fa che acuire la crisi del personaggio, sempre più sospettoso.
Neppure la premura affettuosa di Micol e l'amore di Gionata, altro figlio di Saul, possono rassicurare il re. Fra contraddizioni e ambivalenze affettive, Saul decide di contravvenire alla legge divina che lo vorrebbe successore al trono di Israele, e fa trucidare i sacerdoti e minaccia di morte David, costretto nuovamente alla fuga. Affida poi il comando dell'esercito militare ad Abner, attribuendogli, però, incarichi militari folli, condannando il suo esercito a una disfatta inesorabile. Saul, infine, si uccide, solo nella sua grandezza disperata. Il suicidio, tuttavia, non produce alcuna catarsi, e non si rivela eroica affermazione di libertà, ma gesto di cupa rinuncia.

5. 5. Il titano rovesciato e il suo doppio
La tesa semplicità della trama è naturalmente finalizzata all'esaltazione della figura problematica di Saul, sola nel suo gigantismo. Gli altri personaggi, infatti, non hanno la problematicità radicale, il rovello dell'inquietudine del protagonista, anzi pare che la loro verità umana si dia solo in relazione a Saul. Sia David sia i due figli di Saul vivono nella obbedienza al loro re e sono disposti a contravvenire ai loro affetti e valori più profondi, pur di rimanere a lui fedeli.
Tale abnegazione non fa che isolare ancor di più il protagonista e il dramma di Saul si consuma tutto nella sua interiorità disperata. Il nucleo problematico del personaggio è riconducibile alla coazione, ossessiva davvero, a primeggiare, ma a questa si coniuga il bisogno costante di riconoscimenti e rassicurazioni. E il conflitto, ascrivibile alla polarizzazione di istanze affettive, si appunta su David, oggetto odioso-amato. Il cupio dissolvi, infine, con rigore deterministico, conduce Saul al solo approdo possibile: la morte. Ma anche per Saul, come per Mirra, questa non riscatta una vita, non rappresenta il trionfo di ideali perseguiti con giusta convinzione, ma invera lo scacco di una coscienza infelice che ha vissuto il confronto con il Doppelgänger David come altamente persecutorio.

5. 6. Il titano e il perturbante
Con rabdomantica intuizione, Alfieri coglie tensioni perturbanti al fondo dell'animo umano. La duplicità davvero unheimliche, ossia perturbante, non agisce solo nel confronto con il giovane David, ma si rivela anche verità ultima nell'interiorità stessa del re. Il familiare, l'heimliche appunto, si tematizza nell'alter ego David, ma l'homo duplex giace, prima di ogni cosa, al fondo dell'animo di Saul.
La duplicità di Saul, dilaniato fra eroismo titanico e coscienza dell'insicurezza, si rivela, in primo luogo, nella percezione temporale. Tutta la parabola di Saul è, infatti, consumata nello iato fra passato e presente. Lungi da costituire una continuità pacificata, l'interiorizzazione del tempo si nutre di erosioni e faglie. All'idealizzazione del passato come edenico tempo della giovinezza, si contrappone la percezione di un presente tutto frane e rovine, segnato dalla precarietà e senescenza che investono l'anima e le cose.

5. 7. La tragedia della paternità e della parola
Alla duplicità della percezione temporale si coniuga la polarizzazione ambivalente degli affetti familiari: non potendone fare a meno, Saul odia i propri figli. Perduto nel limbo della sua età estrema, egli non accetta, sino ai limiti del delirio, la propria condizione di re e padre.
Uno degli elementi di più convincente modernità dell'opera risiede in certe specificità stilistiche di indubbio interesse. Alla retorica della reticenza, individuata nella Mirra, qui si coniuga la retorica della sospensione come peculiare cifra stilistica. Il dettato è, infatti, costantemente insidiato da interruzioni espressive che possono essere ricondotte a una duplice origine.
Da un lato esse sono interruzioni oggettive, poiché i personaggi si perdono in un infaticabile ingorgo di parole, sovvertendo sistematicamente l'ordine gerarchico e le strutture del potere. E, nell'immaginario ossessivo di Saul, il mancato rispetto della ritualità della parola come affermazione di potere assume i tratti di autentica minaccia. Dall'altro le interruzioni, tematizzate dall'iterazione ossessiva dei puntini di sospensione, rivelano le intermittenze di una coscienza ottenebrata dall'irruzione di materiali inconsci.
Così, i puntini di sospensione assumono molteplici significati nella tessitura del testo, rappresentando l'estasi nostalgica, il desiderio irrealizzabile, e, più in generale, tematizzando l'afasia di un conflitto penoso. Pare che Alfieri abbia, in più di un luogo, plasmato una sintassi del desiderio come delirio, ravvisando nell'afasia e nella ecolalia i tratti specifici della follia.
La scissione dell'individuo raggiunge il delirio allucinatorio mediante la proiezione di fantasmi psichici. Il nucleo penoso, insopportabile per le strutture dell'io, viene estroflesso e si concretizza in fantasma persecutorio. Così le allucinazioni di Saul, come in un eterno giro di vite, non sono che le dramatis personae del suo animo esasperato.
Comporre tali allucinazioni sarebbe impossibile, poiché imporrebbe la risoluzione del conflitto, riconducibile a un doloroso senso di colpa. Senso di colpa per i tanti innocenti uccisi ma, ancor di più, per il proprio status. Senso di colpa dell'aristos, novello Edipo, che si scopre kakistos, il peggiore tra gli uomini, macchiato dal medesimo loimos, dal mìasma della propria stirpe. Senso di colpa per la propria natura di padre-re, consapevole che, da sempre, le colpe dei padri ricadono sui figli. E, osservando il proprio volto nel figlio naturale e/o simbolico, l'uomo si scopre ombra in appannato specchio. Lo sguardo di Narciso riflette, infine, il volto deformato dal ghigno della follia.

 

6. La «langue des passions»: le Rime

 

6. 1. La biografia del profondo
Alfieri stesso concepisce le Rime come libro segreto dell'anima, conferendo all'intera produzione un marcato tratto autobiografico. Ma il testo trascende, almeno nelle prove più convincenti, la pura dimensione aneddotico-diaristica, per esprimere contenuti di maggiore profondità. In fondo la coazione all'autobiografismo è una componente ineludibile dell'intero corpus dell'autore e la «rimeria» non si sottrae certo a tale destino, inaugurando, tuttavia, nuovi orizzonti di senso. Pur configurandosi come viatico necessario allo scoperto autobiografismo della Vita, i componimenti poetici esprimono, magari anche solo a livello intuitivo, i toni chiaroscurali di un sentimento drammatico della vita e della storia.

6. 2. Del petrarchismo possibile
Il petrarchismo di Alfieri non è certo riconducibile al cliché allora in voga in tanti interpreti della lirica settecentesca. Alla musicalità levigata, alla sobria leggerezza che tanto seduce i rimatori coevi, Alfieri sostituisce il culto per l'intensità drammatica della conflittualità petrarchesca. Si può ipotizzare che il modello non sia assimilato con pacifica acquiescenza, ma sia rovesciato, agito dall'interno. Si pensi, a questo proposito, alla differente percezione del paesaggio. Se Petrarca conferisce agli scenari naturali una funzione rasserenante, Alfieri, al contrario, ne enfatizza la dimensione drammatica.
Il rovesciamento del modello si riverbera anche nella concezione stessa dell'atto poetico. Alla funzione consolatoria della poesia si contrappone la concezione della lirica come amplificazione e intensificazione del dramma.
L'esasperazione del conflitto inasprisce le «arcature», ovvero le spezzature del verso alfieriano. Alla soffusa cantabilità petrarchesca si contrappongono le energiche torsioni dell'astigiano. Le violazioni al modello non sono, tuttavia, espressione di un'istintualità selvaggia. Va da sé, l'attraversamento del modello implica il culto certosino della forma, che assume i tratti, nella produzione di Alfieri, di incessante rovello.
Il superamento del modello si manifesta ancora più compiutamente nella trattazione del tema amoroso. Le Rime di Alfieri, infatti, non gli attribuiscono la possente centralità che questo esercita nel Canzoniere: la stessa contessa di Albany non ha certo la profondità problematica di Laura. Il tema amoroso si sgrana, dunque, in un'elusiva impalpabilità, a fronte della dolorosa percezione della solitudine e del presentimento acuto della morte.

6. 3. Storia e cronistoria delle Rime
L'esercizio delle Rime risale agli albori della giovinezza: se si esclude un isolato tentativo poetico, ascrivibile al 1771, il primo nucleo risalirebbe alla fine del 1776. A questo gruppo appartengono alcune prove interessanti, pur nel possesso ancora incerto degli strumenti espressivi, come i sonetti galanti dedicati alla marchesa di Ozà. Qui la contemplazione della bellezza femminile è coniugata al culto edonistico della forma, ma la levigata compostezza è scossa da accenti di vibrante sensualità. E la grazia, tipicamente manierista, della composizione è pervasa da impeti di intensità drammatica.
La vera voce poetica di Alfieri prorompe, tuttavia, nei sonetti realizzati tra la fine del '77 e l'inizio del '78. Questa costellazione di testi tematizza il sentimento della morte eroica e della solitudine della grandezza. I versi composti tra il '78 e il '79 inaspriscono il dissidio fra culto di eroici ideali e percezione della meschinità del presente. Il poeta, padrone ormai di sapienti moduli stilistici, nelle rime appartenenti a questo torno di anni, riesce a far convergere i fatalia monstra dell'universo tragico e la cantabilità lirica. Più deboli appaiono i risultati conseguiti dal gruppo di testi ascrivibile all'amore per la D'Albany. Il pieno possesso di un bene, la passione soddisfatta sono infatti inconciliabili con la coazione all'inappagamento che struttura l'orizzonte di poetica dell'autore: è come se l'intensità lirica traesse linfa generativa dalla ricerca perennemente insoddisfatta, dall'aspirazione a ideali negati.
Alfieri, nel 1783, mette mano alla realizzazione di 50 sonetti tutti incentrati sul motivo del viaggio. Gli scenari paesistici perdono qualsiasi concessione a soffuse morbidezze idilliche. Persino là dove Alfieri vagheggia il ripiegamento nella pace agreste, l'invocazione perde qualsiasi connotazione nostalgica e il paesaggio vira alle potenti lacerazioni dell'anima. Talora i sonetti, in un ossessivo corteggiamento della morte, si nutrono anche di suggestioni di un orrido mai di maniera.
Il gruppo di rime composte nell''84 a Siena, a contatto con la freschezza dell'amata lingua toscana, approfondisce i temi della solitudine, della morte e del funebre onirismo. Nei testi successivi Alfieri accentua la componente diaristica e occasionale, trasfigurando minute schegge di vita in potenti occasioni di rivelazione. Di più, a testimonianza di quanto il canzoniere alfieriano non si configuri come ripetizione stanca di moduli pienamente acquisiti e sperimentati, si pensi alla evoluzione della tonalità. Dal grido vibrante, la lirica si attenua, si distende nella calma sommessa del canto.
Anche il paesaggio abdica all'aspra grandiosità e, pur non assumendo certo i tratti di certo pittoresco stilizzato, è mitigato in una cornice di intima malinconia. Così la voce poetica assume un andamento sommesso, che rinuncia ai proclami della retorica tribunizia. La medesima intonazione pervade la seconda sezione delle Rime, che contiene i testi redatti dal '94 in poi. All'intensità appassionata subentra ora un senile ripiegamento, il culto esclusivo di una malinconica dolcezza di sentire. Si acuisce, tuttavia, il senso di solitudine nella percezione, umanissima invero, dell'età che si invola e dell'incupirsi di ogni illusione.

 

7. L'altra faccia del tragico (l'indiavolato tafferuglio dell'anima)

 

7. 1. La sublimazione del comico
Alla sublimazione dell'arte, tenacemente perseguita da Alfieri e che informa l'anima del suo universo tragico, fa da contraltare l'abbassamento comico che caratterizza la produzione comica. L'astigiano è, infatti, autore di sei commedie, redatte tutte a Firenze nello scorcio della sua esistenza: L'Uno, I pochi, I troppi, L'Antidoto, La finestrina e Il divorzio.
I primi quattro testi si configurano come una tetralogia politica, tesa a demistificare, con sapiente humour corrosivo da conte philosophique, le magagne di ogni forma di governo. In particolare, L'Uno contiene una critica impietosa all'assolutismo; I pochi condanna, invece, l'oligarchia; I troppi biasima la democrazia. Interessante è il tentativo, per altro maldestramente perseguito, di coniugare alla pars destruens una pars construens.
Nella commedia L'antidoto, infatti, Alfieri si impegna nella teorizzazione di un efficace antidoto al veneficio di queste forme di malgoverno. Pare che la forma di governo misto, identificabile pressappoco con la monarchia costituzionale, si configuri come la più efficace per garantire ordine e felicità comune. Ma l'esile impianto ideologico inficia la robustezza della architettura drammatica, ridotta a trame esili e davvero poco convincenti.
I personaggi, infatti, paiono privi di consistenza psicologica, stereotipati in una gestualità inerte e meccanica. Essi affollano la trama con il loro carico di grettezze e meschinità. Di fatto, i personaggi delle commedie non riescono a istituire alcuna forma di comunicazione e i dialoghi, spesso fiacchi e incespicanti, si rivelano monologhi meramente giustapposti. Impossibile non ricavarne un'impressione di fastidioso artificio.
Alla sublimazione del vero tragico corrisponde, ora, un abbassamento prosaico: Alfieri persegue una sistematica desacralizzazione di ogni eroismo. I Gracchi, figura centrale de I pochi e argomento in voga nell''800, non si configurano più come gli eroi della tradizione, strenui difensori degli interessi della plebe, ma come un'accozzaglia di politicanti gretti e interessati, che non esitano a mascherare il proprio egoismo dietro una retorica demagogica. La desublimazione appare, dunque, come la costellazione di senso per l'altra faccia del tragico: universo di cortigiani, lacchè, tutti adulazioni e moine.

7. 2. La finestrina
Interessante pare, al contrario, la commedia La finestrina. Certo occorre sfrondare il campo da alcune posizioni ideologicamente limitate, come la facile liquidazione dell'Oriente di Confucio e Maometto, venata da una vis polemica davvero stordente. La commedia contiene, tuttavia, alcuni motivi di sicuro interesse. Giova a questo testo, come alla commedia Il divorzio, critica caustica all'istituzione familiare, l'inversione di rotta. Infatti entrambe le commedie possono essere definite, con la dovuta cautela, commedie di costume.
La Finestrina trae linfa vitale dalla sua surreale vena satirica, dall'estro sulfureo e un poco luciferino che la caratterizza. Come è noto, l'opera rappresenta i tre Giudici Minosse, Radamanto ed Eaco alle prese con il compito arduo di giudicare le anime. Ma il loro operato si mostra sempre più maldestro: i Campi Elisi rigurgitano di anime bennate.
Si impone, necessariamente, l'intervento di un esame più severo: Mercurio viene inviato nella casa di Plutone con la malaugurata idea di incidere sopra il cuore un grande spacco, a guisa di finestra, per ficcare il naso nel guazzabuglio dell'animo umano. Va da sé che ogni amore si rivelerà presto vanità e ogni slancio altruistico ambizione ipocrita. Un gran puzzo, insomma, esala da quelle carni guaste: meglio davvero tenersi chiusa la finestra propria e rinunciare, per sempre, a spiare nelle altrui feritoie. A fronte della compiaciuta chiusa, dal marcato sapore epidittico, l'aspetto più convincente del testo risiede nella estravagante e stralunata diavoleria che lo informa.
L'humour irriverente, memore del talento fantastico di Luciano di Samosata, coniugato alla fantasticazioni ariostesche, dà vita a un pastiche dai toni satirici e paradossali, degno dell'estro di Swift. E certe riflessioni sulla necessità sociale di vestire maschere preludono agli assunti del relativismo etico e gnoseologico pirandelliano, scevro, tuttavia, della sua inquieta problematicità radicale. Il sulfureo tafferuglio di ombre che agita La finestrina potrebbe avere esercitato, in anni più recenti, una certa fascinazione nella piece Faust '67 di Tommaso Landolfi, a testimonianza, se mai ve ne fosse bisogno, degli accenti di sicura modernità che tramano la produzione di Alfieri.

 

BIBLIOGRAFIA

 

Edizioni e Opere complete:

Opere, Torino, 1903, 11 voll.
Tra le edizioni commentate delle tragedie sono da citare quelle a cura di G.R. Ceriello (Milano, 1955-1957, 5 voll.); di G. Zuradelli (Torino 1973, 2 voll); di A. Di Benedetto (con introd. Di M. Fubini, Milano-Napoli 1977); e di L. Toschi (con introd. Di S. Romagnoli, Firenze 1985, 3 voll.). E' da ricordare il volume delle Opere, a cura di V. Branca (con la collaborazione di G. Guerra, Milano, 1965).

Studi:

U. Foscolo, Saggio sulla letteratura contemporanea in Italia e Della nuova scuola drammatica in Italia, in Saggi di letteratura italiana, ed. critica a cura di C. Foligno, Firenze, 1958.
G. Mazzini, Del dramma storico (1830), in Scritti editi ed inediti, ed. nazionale, Imola, 1906.
V. Gioberti, Pensieri e giudizi sulla letteratura italiane e straniera raccolti da tutte le sue opere ed ordinati da F. Ugolini, Firenze, 1956.
N. Tommaseo, Alfieri, in Dizionario estetico, parte moderna (1840), Milano, 1853.
C. Tenca, Vittorio Alfieri (1850) in Saggi critici. Di una storia della letteratura italiana e altri scritti, a cura di G. Berardi, Firenze, 1969.
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