1. Intelletto d’amore / 2. L’amore, la filosofia, il volgare / 3. La politica fra militanza e riflessione teorica / 4. Una teoria della lingua e dello stile / 5. Un poema molteplice e un viaggio nell’aldilà / 6. Ardore di conoscenza e follia / 7. La poesia della politica / 8. Conflitti di saperi e ricerca della verità / 9. I sapienti del Paradiso
1.1 Da Bologna a Firenze
Nel 1283, quando riceve un sonetto di corrispondenza inviato ai maggiori poeti del tempo da un rimatore ignoto, intitolato A ciascun'alma presa e gentil core (Vita Nova, 1, 21-23), Guido Cavalcanti è un poeta giovane ma già affermato, uno degli intellettuali più brillanti e originali di Firenze. Guido è colpito dalla qualità della composizione: il poeta vi racconta un sogno in cui appare Amore nell'atto di reggere una donna tra le braccia, di nutrirla con il cuore dell'autore e di allontanarsi con lei verso il cielo. Così Cavalcanti decide di rispondere al sonetto e quando poi si scopre che l'autore è l'appena diciottenne Dante Alighieri, nasce tra i due una grande amicizia e un sodalizio letterario che rinnova il destino della poesia italiana.
I due giovani fiorentini sono uniti nel tentativo di opporsi al magistero poetico di Guittone d'Arezzo, influentissimo nella cultura toscana di quegli anni, e di tracciare una via nuova alla poesia. Ma le vie nuove nascono sempre da un dialogo con la tradizione precedente o dalla ripresa e dallo sviluppo di linee minoritarie. Così Guido, Dante e alcuni altri giovani poeti fiorentini, negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta del Duecento, traggono ispirazione da alcuni componimenti innovativi del bolognese Guido Guinizzelli risalenti agli anni Sessanta-Settanta. Si tratta di testi, fra i quali spicca la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore, che avevano suscitato reazioni polemiche da parte dei rappresentanti della scuola guittoniana, in quanto vi avvertivano pericolose novità rispetto ai moduli dominanti. In particolare Bonagiunta Orbicciani da Lucca rimproverava a Guinizzelli l'eccessiva «sottigliansa», cioè la difficoltà concettuale della sua poesia, derivanti anche dall'uso di una terminologia filosofico-scientifica e di moduli scritturali. Su tali sviluppi avrà certo influito l'ambiente bolognese, intellettualmente d'avanguardia in quanto sede della più prestigiosa università europea, insieme con quella di Parigi. A Bologna si ascoltavano, infatti, i corsi dei maestri più innovativi e stimolanti, nei campi del diritto, della retorica, della filosofia del linguaggio, delle scienze naturali, della metafisica.
E Dante riconoscerà più volte a Guinizzelli il ruolo di precursore del nuovo stile fiorentino e in particolare della propria poesia. Memorabile in tal senso l'incontro messo in scena nell'ultima cornice del Purgatorio, in cui il bolognese è definito «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d'amor usar dolci e leggiadre» (Purgatorio,XXVI 97-99).
1.2 Un dolce stil novo
Lo stesso Guido Cavalcanti si troverà coinvolto in polemiche simili a quelle che opposero Guinizzelli a Bonagiunta, e così in alcune occasioni, fra cui nel sonetto Di vil matera mi conven parlare, in risposta alle accuse di Guido Orlandi, si trova a rivendicare gli aspetti della nuova esperienza poetica: la fedeltà al dettato d'Amore (v. 16: «Amore ha fabbricato ciò ch'io limo») e la qualità stilistica piana e dolce (vv. 10-11: «là dove insegna Amor, sottile e piano, / di sua manera dire e di su' stato»). Sono caratteri che saranno poi fissati nella celebre terzina dantesca, ancora nel corso degli incontri purgatoriali con i poeti, e qui proprio con Bonagiunta Orbicciani (Purg. XXIV, 34-63) : «I' mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch' e' ditta dentro vo significando» (Purg. XXIV, 52-54).
Oltre a Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, sono fiorentini anche altri poeti del gruppo come Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, Gianni degli Alfani e il cosiddetto «Amico di Dante», identificato da alcuni studiosi in Lippo Pasci de' Bardi, ed è toscano anche Cino da Pistoia, intellettuale di grande prestigio e prosecutore dell'esperienza stilnovistica nei primi decenni del Trecento, fino a trasmettere l'esperienza ai giovani Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.
Pur essendo impegnati attivamente nelle vicende politiche, i poeti dello Stilnovo trattano nei propri componimenti esclusivamente il tema amoroso. Il poeta, spiritualmente nobile (dotato di «cor gentile»), vive l'amore come un processo di elevazione morale e spirituale, e fa dell'amore, a partire dalla propria esperienza autobiografica, l'oggetto di un'indagine attuata anche attraverso strumenti filosofici e scientifici. La donna amata è mediatrice fra l'uomo e la sfera divina: Guinizzelli assimila la funzione della donna a quella delle intelligenze angeliche, che traducono in atto la volontà divina, mettendo in movimento le sfere celesti. Nello stesso modo la donna avvia l'amante verso la perfezione spirituale.
Sul piano stilistico si ricerca la dolcezza: una sintassi lineare, una lingua raffinata, la rinuncia a forme "plebee", l'uso limitato di artifici retorici. Ma questo stile "dolce" e "piano" non implica una facilità di lettura. Al pubblico è richiesta una cultura raffinata per comprendere le sottili allusioni ai concetti della filosofia scolastica, dell'averroismo, della teologia mistica e della metafisica della luce; le similitudini relative a complessi fenomeni scientifici; l'analisi, stringente e oggettiva, della psicologia amorosa.
1.3 La Vita Nova e il primo degli amici: un dibattito sull'amore
Ma la tensione fra amore e ragione, desiderio e virtù, passione fisica e perfezionamento spirituale è risolta solo parzialmente e provvisoriamente da Guinizzelli. Ne è prova il ben diverso svolgimento dei motivi dello Stilnovo da parte di Guido Cavalcanti, il quale giunge a una concezione dell'amore come passione negativa e dolorosa, che colpisce la parte sensitiva dell'anima, non quella razionale, e spinge le facoltà del soggetto a una distruttiva battaglia interiore, in cui la ragione soccombe trascinata dagli impulsi sensibili, dal desiderio ansioso e inappagabile. E la riflessione di Cavalcanti sulla natura dell'amore è profondamente segnata dalla filosofia aristotelica e dagli studi scientifici di matrice universitaria, come appare con particolare evidenza nella canzone Donna me prega. Nonostante la dolcezza dello stile, la poesia amorosa di Cavalcanti è dunque, nei suoi componimenti più importanti, fortemente drammatica e intonata a una concezione pessimistica dell'amore.
I limiti e le contraddizioni dello stilnovismo guinizzelliano e di quello cavalcantiano sono superati in un libretto rivoluzionario, la Vita Nova, scritto da Dante nella prima metà degli anni Novanta (1293-1295). Qui egli raccoglie alcune delle sue poesie giovanili e altre composte per l'occasione, disponendole in modo tale da delineare uno sviluppo narrativo nelle vicende del suo amore per Beatrice e nella poesia che canta questo amore. Inoltre i testi poetici sono accompagnati da brani in prosa che svolgono diverse funzioni: integrano e arricchiscono la narrazione, offrono spiegazioni e commenti ai testi poetici in chiave autoesegetica.
Nonostante l'amicizia con Guido Cavalcanti, definito da Dante «il primo delli miei amici», sia inscritta nel libro, la Vita Nova propone un'idea dell'amore e della poesia d'amore completamente diversa rispetto a quella elaborata da Cavalcanti nella parte più prestigiosa della sua produzione poetica. Tuttavia la relazione cronologica fra la Vita Nova e Donna me prega è incerta: non si sa con sicurezza quale dei due testi sia stato scritto prima e quale dopo, ma è evidente l'irriducile opposizione fra le due prospettive.
Nei primi capitoli, pur in chiave stilnovistica e guinizzelliana, il libretto dantesco rimodula tipici schemi cortesi, fra cui quelli legati alla necessità di celare l'amore per Beatrice, fingendo di amare invece un'altra donna (detta perciò donna dello schermo). Ma Dante fa esplodere le contraddizioni insite in questi schemi: per rispettare le regole della cortesia e celare l'amore per Beatrice, egli finisce per mostrare con troppa insistenza, «oltre li termini della cortesia», l'amore per la donna dello schermo, danneggiandone così la reputazione e provocando lo sdegno di Beatrice.
Ma non basta: la reazione di Beatrice coinvolge un altro degli elementi cardine dello stilnovismo guinizzelliano: il saluto della donna, fonte di salute, cioè di salvezza e beatitudine per l'amante-poeta. Dante si trova a riflettere dolorosamente sul potere salvifico del saluto di Beatrice proprio nel momento in cui la donna, sdegnata, lo priva di esso. Da questa privazione consegue una fase cavalcantianamente dolorosa dell'amore e della poesia: il poeta-amante non solo soffre per la privazione del saluto, ma è ormai incapace di tollerare gli effetti devastanti dell'apparizione dell'amata: in sua presenza sbigottisce, si confonde, non riesce ad articolare le parole, perde i sensi sino allo svenimento.
1.4 Il fine dell'amore e lo stile della lode
Ma la grande svolta, il superamento di queste contraddizioni verso una nuova concezione dell'amore e della poesia d'amore, avviene grazie a un dialogo con un gruppo di donne belle e spiritualmente nobili, soprattutto dotate di «intelletto d'amore». Oggetto del colloquio è il fine dell'amore. E qui Dante ammette che in precedenza il fine del suo amore era il saluto di Beatrice, in cui risiedeva tutta la sua beatitudine, ma ora che ne è stato privato, per uscire dalla dolorosa condizione in cui si trova, oggetto anche delle ultime composizioni poetiche, decide di porre il fine dell'amore e la beatitudine «nelle parole che lodano la donna mia». La lode di Beatrice è posta da ora in poi come oggetto della poesia e come fine dell'amore, a partire dalla canzone Donne che avete intellecto d'amore, rivolta appunto alle donne gentili con cui il poeta aveva dialogato.
Se la poetica della lode, che si esprime in una serie di composizioni poetiche fra cui il celebre sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare, apre dunque spazi nuovi alla poesia, superando le prospettive guinizzelliane e quelle cavalcantiane, il libretto dantesco riserva sviluppi ulteriori e novità più radicali. Preceduta da presagi onirici e visionari e in realtà mai rappresentata direttamente, al centro del libro è la morte della donna amata. Ma dopo un periodo di dolore luttuoso, di sofferrenza inconsolabile, illustrato da una serie di componimenti in cui più è evidente il registro elegiaco, peraltro sotteso a tutta l'opera, il poeta-amante sembra trovare dapprima pietà e comprensione e poi anche consolazione amorosa in una donna «pietosa» e «gentile».
Il nuovo amore è però interrotto da una nuova apparizione in sogno di Beatrice, che rimprovera Dante per essersi allontanato da lei. Si apre un nuovo, radicale superamento dei paradigmi amorosi e poetici cortesi e stilnovistici, con le loro tensioni e contraddizioni: l'amore è ora non più per una donna vivente, sia pure miracolosa intermediaria del divino e caratterizzata metaforicamente come donna-angelo, ma per una beata del Paradiso. La donna amata, defunta e pianta luttuosamente, appare gloriosamente risorta alla beatitudine celeste e da lì guida l'amante verso un processo di innalzamento spirituale.
Ma la poesia che può cantare questo amore nuovo e straordinario e la «mirabile visione» in cui Beatrice beata si manifesta all'amante, non è ancora alla portata dell'autore della Vita Nova: l'opera si conclude infatti con l'ammissione di uno scacco per il poeta di fronte a una materia così alta e nuova, ma anche con la promessa di studiare e lavorare nel futuro per potere un giorno scrivere un'opera dedicata a Beatrice nella quale si propone di «dire di lei quello che mai non fue detto d'alcuna».
1.5 Una poetica dell'asprezza per un amore petroso
La promessa formulata nel finale della Vita Nova troverà adempimento nella Commedia, sia pure con modalità straordinarie e imprevedibili nel momento in cui essa veniva formulata. Ma tra la conclusione del libretto e l'inizio della composizione del poema passano circa dieci anni nel corso dei quali il poeta affronta esperienze esistenziali e letterarie del tutto nuove.
Portato a livelli per il momento non più superabili il paradigma stilisticamente sublime della poesia amorosa, esso viene provvisoriamente abbandonato per una serie di esperimenti letterari nel campo della lirica. Tra questi colpisce per la novità e per l'intensità il gruppo delle poesie che gli studiosi definiscono le "rime petrose", in quanto dedicate all'amore per una donna indicata con il nome-senhal Petra o con l'espressione metaforica «bella petra». Se Beatrice, sempre «gentile» e «umile», conduce il poeta-amante verso un processo di innalzamento spirituale, la donna-petra al contrario è «aspra» e «dura» e porta il poeta a un desiderio ossessivo e angoscioso, infine degradante e bestiale.
E coerentemente con la natura "petrosa" della donna amata e con la pungente e ossessiva sensualità del sentimento che suscita nel poeta, anche lo stile di questi componimenti sarà «aspro», quanto era invece «dolce» quello delle poesie per Beatrice. È ciò che dichiara, con la consueta lucidità programmatica, il poeta nell'incipit della più celebre fra le rime "petrose": «Così nel mio parlar voglio esser aspro / come nelli atti questa bella petra» (Rime, CIIII). All'asprezza anche fonica del linguaggio si associa, nelle rime petrose, la durezza delle metafore, prese spesso dal campo semantico della guerra, e il prevalere di atmosfere climatiche invernali: il gelo che stringe la natura trova corrispondenza nell'assenza di calore amoroso dell'implacabile donna-petra e nella ossessiva fissità del desiderio da parte del poeta.
Per l'uso di un linguaggio aspro e difficile Dante sembra essersi ispirato all'esperienza del trovatore provenzale Arnaut Daniel, maestro dello stile detto «trobar clus» ('poesia chiusa, difficile'). In alcuni componimenti poi, proprio sulla scorta dell'esempio di Arnaut Daniel, Dante sperimenta la tecnica della sestina, una canzone in sei stanze di sei versi ciascuna più un congedo, fondata sulla ripetizione di sei sole parole rima, che variano la loro posizione nella strofa secondo un complesso meccanismo detto retrogradatio cruciata. Oltre alla sestina vera e propria, Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra (Rime, CI), anche le altre due canzoni dette "petrose" si fondano sul principio della ripetizione delle stesse parole rima da una stanza all'altra. Ne risultano componimenti privi di sviluppo narrativo o argomentativo, bloccati nell'ossessione di un amore che dalla natura petrosa della donna amata giunge a rendere di pietra non solo lo stile ma anche la mente del poeta («la mente mia, ch'è dura più che pietra / in tener forte imagine di pietra»), e il poeta stesso, infine trasformato in un «uom di marmo», assimilandosi così alla donna che ha «per cuore un marmo».
2.1 Poesia morale e dottrinale
Gli anni successivi alla stesura della Vita Nova vedono Dante impegnato anche nella vita politica, a partire dal 1295. Ma il coinvolgimento nelle lotte tra le fazioni cittadine dei Guelfi Bianchi e Neri lo conduce all'esilio da Firenze, a partire dall'inverno 1301-1302. La nuova e difficile situazione dell'esilio, accanto alle vicende politiche e militari, portano a compimento un processo di spostamento negli interessi e nei progetti letterari di Dante. Sperimentate e arricchite le possibilità della lirica amorosa, egli dedica ora la propria attività poetica e progettuale a canzoni ampie e complesse di materia morale e dottrinale. Progressivamente alcune di queste canzoni vengono a convergere verso il progetto di un'opera più ampia, il Convivio, ancora un prosimetro come la Vita Nova, ma con un ben diverso rapporto tra testi poetici e prosa.
Dante progetta infatti di raccogliere quattordici di queste canzoni (solo alcune delle quali furono poi effettivamente composte) in una vasta opera, aperta da un trattato proemiale e poi costituita dai testi poetici, per lo più incentrati su una virtù o su un problema filosofico o morale, e da un ampio commento in prosa a ciacuna di esse.
Tra le canzoni dottrinali destinate con molta probabilità a essere accolte e commentate nel Convivio si possono ricordare Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, dedicata al tema della leggiadria e Doglia mi reca nello core ardire, sulla liberalità. Qui in realtà la trattazione della liberalità si tramuta in un'aspra critica del vizio contrario, l'avarizia cioè la cupidigia insaziabile delle ricchezze, con toni che preannunciano la tensione profetica e civile della Commedia. La grande canzone Tre donne intorno al cor mi son venute affronta il tema della giustizia, personificata in tre donne che probabilmente rappresentano la giustiza divina, quella umana e la legge positiva. Tali tre donne appaiono ormai esiliate dal mondo, ma trovano rifugio e accoglienza presso il poeta.
In questo clima Dante reinterpreta in modo nuovo, secondo la tecnica dell'allegoria, alcune canzoni d'amore risalenti agli anni della Vita Nova o a quelli immediatamente successivi, e intonate ai modi della poesia stilnovistica. La donna amata cui esse sono dedicate viene ora interpretata allegoricamente, nella prosa del Convivio, come la Filosofia. È quanto avviene per le canzoni Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete e Amor che nella mente mi ragiona, commentate rispettivamente nel secondo e nel terzo trattato del Convivio. Nel quarto, infine, l'ultimo realizzato prima che l'opera fosse abbandonata, viene invece commentata la canzone Le dolci rime d'amor ch'i' solia, che presenta nuovo un registro stilistico, «con rima aspra e sottile», conveniente al tema morale affrontato, la natura della nobiltà.
2.2 La filosofia a Firenze: «scuole delli religiosi» e «disputazioni delli filosofanti»
Se la stesura del Convivio risale agli anni 1304-1307, nel secondo trattato Dante fa risalire il suo interesse e lo studio assiduo della filosofia a più di dieci anni prima, al periodo successivo alla morte di Beatrice, avvenuta nel 1290. Nel secondo trattato del Convivio Dante commenta la canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, un componimento dialogico che mette in scena l'apparire, al poeta affranto per la morte di Beatrice, di una nuova donna che infine fa nascere in lui un nuovo amore. Nel commento si spiega che la nuova donna non è altri che allegoria della filosofia e si raccontano le vicende autobiografiache celate dietro le lettera del testo. Per lungo tempo, racconta lo scrittore, dopo la morte di Beatrice egli era costernato e inconsolabile. Fu la lettura di due libri di argomento filosofico, (Convivio, II, xii, 1-10) il De amicitia di Cicerone e il De consolatione philosophiae di Boezio, ad aiutarlo a uscire dallo sconforto e dalla depressione..
In seguito alla consolazione trovata in questi libri, Dante si appassionò allo studio della filosofia e decise di frequentare le scuole di Firenze dove si tenevanoo corsi e lezioni di filosofia. A Firenze non esisteva ancora l'università, ma gli studia conventuali degli ordini mendicanti erano istituzioni per l'insegnamento della teologia, della filosofia e delle scienze di altissimo livello, con maestri e professori scelti fra gli intellettuali più prestigiosi. In particolare Dante avrebbe frequentato gli studia fiorentini del convento francescano di Santa Croce e di quello domenicano di Santa Maria Novella. Nel primo era ancora vivo l'insegnamento di grandi pensatori francescani particolarmente sensibili alle tematiche mistiche e profetiche, al sapere ermeneutico e simbolico proprio della tradizione biblica e medievale, ma anche di intellettuali appartenenti all'ala più radicale del francescanesimo, i cosiddetti "Spirituali", inclini a un'interpretazione rigida del precetto francescano della povertà e a un energico richiamo a tutta la Chiesa per un ritorno alla povertà evangelica. Anche i domenicani di Santa Maria Novella avevano maestri di prim'ordine: qui Dante potè ascoltare lezioni improntate a un più stretto razionalismo e in particolare all'aristotelismo cristiano che aveva avuto un grande sistematore nei decenni precedenti proprio nel domenicano Tommaso d'Aquino, professore all'Università di Parigi.
Forse è proprio a questa duplice influenza ricevuta nei primi anni dei suoi studi filosofici che risale la complessità del pensiero filosofico dantesco, come appare nel Convivio e soprattutto nella Commedia. Da una parte si mostra spesso incline alle tematiche mistiche, al pensiero simbolico, alla lezione dell'esegesi biblica, alle suggestioni platoniche; dall'altra, i fondamenti e alcune delle princiapli articolazioni del suo pensiero si ispirano alla lezione aristotelica, filtrata attraverso le interpretazioni dei grandi maestri domenicani del Duecento, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino.
2.3 La filosofia in volgare e un pubblico nuovo
Se il secondo trattato rievoca le ragioni autobiografiche dell'amore per la filosofia, in quello proemiale Dante aveva invece presentato gli obiettivi dell'opera e soprattutto aveva difeso la scelta di scriverla in volgare. Il testo si apre (Convivio, I, i, 1-19) solennemente con la citazione dell'incipit della Metafisica di Aristotele: «Sì come dice lo Filosofo nel principio della Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Inoltre la conoscenza è considerata, sempre secondo l'insegnamento di Aristotele, come la via verso la perfezione dell'uomo e dunque la felicità.
Questi assunti aristotelici costituiscono il fondamento che giustifica e sostiene il progetto di realizzare un'opera filosofica rivolta non ai dotti di professione, ma a un pubblico nuovo, finora escluso dall'accesso alla filosofia, alla teologia, alla scienza. Si tratta del pubblico di coloro che, nobili spiritualmente e dunque particolarmente sensibili al desiderio di conoscenza insito «naturalmente» in ogni uomo, a causa di un vita ricca di impegni familiari e civili non hanno potuto studiare il latino e poi dedicarsi allo studio della filosofia.
Così Dante giustifica ripetutamente la scelta di scrivere un libro di filosofia in volgare, anziché, come era consueto, in latino, da una parte con la maggiore appropriatezza di un commento in volgare a canzoni scritte in volgare, ma soprattutto con desiderio di giovare a un pubblico più ampio rispetto a quello che avrebbe potuto fruire l'opera in latino. Del resto anche l'estraneità alla cultura in latino da parte del pubblico cui Dante si rivolge è vista come una qualità positiva in quanto è inquadrata in una contrapposizione nei confronti dei dotti e letterati di professione, che del latino e della scienza fanno un uso strumentale, per ottenere ricchezza e potere.
Ma c'è un'altra caratteritica rilevante del pubblico cui Dante intende rivolgersi (Convivio, I, ix, 1-5): esso è composto sia da uomini che da donne. Si tratta di una novità importante e significativa, in quanto le donne erano allora solitamente escluse dalla conoscenza del latino e dunque dall'accesso alla cultura filosofica e scientifica.
E l'uso del volgare, capace di creare un nuovo pubblico, annuncia l'alba di un'epoca nuova: il trattato in volgare sarà infatti «luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove l'usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce» (I, xiii, 12).
2.4 Il banchetto della sapienza
L'opera di Dante presenta fin dal titolo la metafora del banchetto o convivio, e fa quindi uso delle metafore alimentari per indicare l'attività conoscitiva. Tali metafore sono ampiamente utilizzate nel primo trattato per presentare la struttura e i fini dell'opera. L'autore dichiara infatti la volontà di apparecchiare un banchetto per coloro che sono esclusi dal cibo della conoscenza: in tale banchetto le canzoni costituiranno le vivande, mentre il commento esplicativo in prosa, letterale e allegorico, sarà come il pane che accompagnerà le vivande rendendole digeribili e nutrienti.
E la metafora del cibo si presta anche a un'antitesi fra coloro «che seggiono a quella mensa dove lo cibo delli angeli si manuca e quelli che colle pecore hanno comune cibo». Al centro dell'opposizione fra un cibo angelico e un cibo bestiale è l'uomo che può elevarsi verso una «così alta mensa» o scendere a una «bestiale pastura» fatta di erba e ghiande.
Ma la posizione in cui l'autore si colloca non è quella di un sapiente che elargisce con sussiego il suo grande sapere, bensì quella, più umile, di chi, «fuggito alla pastura del vulgo», non siede alla «beata mensa», ma ai margini e ai piedi di essa e da lì può raccogliere almeno le briciole e gli avanzi caduti dalla tavola. Ed è con queste che intende apparecchiare per gli altri «un generale convivio» della sapienza.
3.1 La provvidenzialità dell'Impero
Probabilmente fra i primi tre trattati del Convivio e il quarto si colloca uno stacco temporale: Dante lavorerebbe così a quest'ultimo negli anni 1306-1307, in contemporanea con l'avvio del poema. Lo stacco è evidente già nella canzone commentata, Le dolci rime d'amor ch'i' solia, per la quale non si richiede il commento allegorico, necessario invece per le due precedenti, in quanto le tematiche filosofiche e morali vi sono affrontate già sul piano del segnificato letterale. In particolare l'argomento trattato nella canzone e nel commento è la natura della nobiltà, un tema di grande attualità e di primaria importanza nel dibattito letterario, politico e filosofico. La definizione proposta da Dante è che essa sia un dono concesso da Dio ai singoli, non alle famiglie: «seme di felicitade messo da Dio ne l'anima ben posta»; il singolo individuo ha poi il compito di coltivare in sé questo seme di felicità.
Ma il quarto trattato del Convivio è importante soprattutto perché mostra per la prima volta una riflessione politica organica da parte di Dante, con una nuova concezione della funzione dell'impero e una nuova valutazione del ruolo storico e provvidenziale dell'impero romano. Infatti nel corso della pars destruens, Dante esamina e confuta varie definizioni alternative, tra cui una attribuita all'imperatore Federico II di Svevia. Il riferimento all'imperatore lo porta ad affrontare un'ampia digressione filosofica e storica sull'impero. Qui Dante sostiene che l'autorità imperiale (Convivio, IV, iv, 1-13) è ordinata provvidenzialmente in quanto è necessaria per il conseguimento della felicità terrena da parte degli uomini. Inoltre proprio il popolo romano sarebbe stato eletto da Dio al compimento di tale missione. Si tratta di posizioni fondamentali che saranno mantenute e sviluppate nel trattato di filosofia politica, De Monarchia, e nella grande poesia politica di molti canti della Commedia.
Ma nel quarto trattato del Convivio è assai significativa anche la dura polemica contro l'avarizia o cupidigia, cioè il desiderio smodato delle ricchezza, che Dante innesta a partire dalla confutazione della definizione popolare della nobiltà come «antica ricchezza». Fin d'ora lo scrittore individua invece nell'avidità di ricchezze una delle cause radicali della rovina della vita pubblica. E la polemica contro l'avarizia sarà uno dei motivi instancabilmente ripetuti nel poema, oltre a costituire una delle basi per l'argomentazione filosofica nel De Monarchia.
3.2 Politica e guerra civile
Dal 15 giugno al 15 agosto 1300 Dante ricopre la carica di priore del Comune di Firenze, la massima tra le magistrature fiorentine. È un periodo di aspre tensioni politiche: si fronteggiano le fazioni dei Guelfi Neri, radicali nel loro appoggio alla politica pontificia, e quella dei Guelfi Bianchi, più moderati e inclini a preservare l'autonomia della politica fiorentina dalle direttive papali. Dante è schierato nella parte dei Bianchi.
Il papa Bonifacio VIII, eletto nel 1295 al posto del dimissionario Celestino V, aveva promosso una politica energica di rafforzamento del potere temporale della Chiesa e più in generale una forte tendenza all'influenza diretta sulla politica italiana ed europea. Tra l'altro aveva anche tentato di annettere allo Stato della Chiesa i territori della Toscana meridionale e in tale occasione aveva richiesto l'aiuto militare delle truppe fiorentine. Ma nella discussione in seno agli organi di governo Dante si era opposto violentemente alla concessione di tale aiuto. L'opposizione all'espansionismo temporale e all'avidità terrena della Chiesa appare dunque un tratto già maturo nel Dante politico militante a cavallo del 1300.
Ma quando, nell'autunno 1301, i Bianchi saliti al potere colpiscono con provvedimenti restrittivi alcuni notabili della parte dei Neri, questi ricorrono all'aiuto di Bonifacio, il quale interviene pesantemente nella situazione fiorentina. Mentre da Firenze viene inviata a Roma un'ambasceria incaricata di trattare con il papa, della quale secondo i documenti avrebbe fatto parte lo stesso Dante, Bonifacio manda invece a Firenze due inviati papali, Carlo di Valois e Matteo d'Acquasparta, con l'incarico ufficiale di pacieri tra le opposte fazioni, ma in realtà con il compito di favorire il ritorno dei Neri esiliati e promuovere un colpo di stato per portarli al potere. E questo è quanto si verifica, proprio mentre Dante è fuori Firenze per l'ambasceria romana.
3.3 Da Firenze all'esilio
Il poeta, colpito da provvedimenti punitivi emanati dal nuovo governo, fra cui l'interdizione dai pubblici uffici e il pagamento di un'ammenda per l'accusa di baratteria, cioè di corruzione, anziché ritornare in città, si unisce agli altri Bianchi vittime di accuse simili e perciò fuoriusciti da Firenze. Perciò, non essendosi recato a Firenze per pagare la multa, viene condannato a morte e alla confisca dei beni.
Inizia un periodo di lotte, in cui Dante è totalmente impegnato: i Bianchi si organizzano politicamente e militarmente, riunendosi anche ai Ghibellini ormai esiliati da tempo, e cercano alleati tra le città e i signori filoimperiali della Toscana e dell'Italia centrale e settentrionale. Ma dopo le prime sconfitte, arriva finalmente la possibilità di avviare una trattativa di pace: nella primavera del 1304 il nuovo papa Benedetto XI affida al cardinale Niccolò degli Albertini da Prato il compito di pacificare la città e permettere così anche il ritorno dei Bianchi fuoriusciti. Alle proposte di negoziato avanzate dal mediatore papale, Dante risponde con una celebre epistola latina (Epistolae, I), scritta a nome dei Bianchi fuoriusciti, in cui, con prudenza ed equilibrio, dichiara la disponibilità a portare avanti le trattative di pace. Ma i negoziati falliscono per l'opposizione dei Neri, che temono di veder diminuire il loro potere.
Deluso dal fallimento delle trattative di pace, Dante si allontana anche dai propri compagni, che insistono nel voler cercare attraverso azioni di guerra il ritorno a Firenze e il rovescimaneto del potere dei Neri, ma vanno incontro a una sanguinosa sconfitta nella battaglia della Lastra del luglio 1304.
Odiato dai Neri e ormai separato anche dai Bianchi, per Dante inizia un periodo di esilio solitario, da una corte e da una città all'altra, alla ricerca di protezione e ospitalità in cambio del suo lavoro di intellettuale, di epistolografo e di diplomatico.
3.4 Arrigo VII e il sogno imperiale
Sono anni difficili e solitari, nel corso dei quali Dante elabora la concezione della necessità e provvidenzialità dell'impero per il conseguimento della felicità terrena da parte degli uomini, esposta nel IV trattato del Convivio, e avvia la composizione della Commedia, in cui, fin dal I canto si auspica l'avvento di un personaggio investito provvidenzialmente della missione di portare salvezza e felicità all'Italia derelitta e devastata dalle guerre civili e dall'avidità dei pontefici e dei signori locali.
Il sogno sembra trovare una possibilità di realizzazione nel 1310. Gli elettori imperiali avevano eletto due anni prima il Conte Arrigo VII di Lussemburgo come Re di Germania e lo stesso papa Clemente V lo aveva riconosciuto come imperatore designato. Così nel 1310, anticipando i tempi rispetto alla data designata per l'incoronazione imperiale a Roma, Arrigo inizia la discesa in Italia, dove dovrà fronteggiare l'opposizione delle città e dei signori guelfi, tra cui Firenze, mentre l'atteggiamento del papa, pur favorevole, non è privo di ambiguità.
Ma per Dante, come per tutti coloro che vedono nella restaurazione del potere imperiale sull'Italia la sola possibilità per il ritorno della pace e della giustizia nelle città italiane dilaniate dalle discordie civili, la discesa di Arrigo è un'occasione storica straordinaria che esalta gli animi e li riempie di speranza. In questo clima di attesa Dante interviene in prima persona, scrivendo nell'autunno 1310 una solenne epistola latina che indirizza ai Re, Signori e popoli d'Italia (Epistolae, V, 1-6). Qui Dante annuncia con entusiasmo l'arrivo di Arrigo e invita tutti gli italiani a sottomettersi all'autorità dell'imperatore e a collaborare con lui alla restaurazione della pace. L'imperatore è investito da Dio di una missione provvidenziale e numerosi riferimenti biblici concorrono a conferirgli una figuralità messianica.
Ma gli auspici espressi da Dante non hanno esito positivo per l'opposizione ad Arrigo da parte di alcune città, prima fra tutte proprio Firenze. Il poeta reagisce nel marzo del 1311 con una violenta epistola rivolta «Agli scelleratissimi Fiorentini che vivono tra le mura di Firenze» (Epistolae, VI, 1-5), nella quale li invita, con linguaggio durissimo, a desidetere dalla loro sconsiderata opposizione all'imperatore.
Il poeta interviene dunque sulle vicende politiche con una serie di potenti epistole, nelle quali mostra di sentirsi a sua volta investito di una missione non solo civile, ma anche in qualche modo profetica, come prova il ricorso al linguaggio biblico e la veemenza con cui si rivolge agli attori sulla scena politica. Lo stesso imperatore è destinatario di un'epistola dura e intensa (Epistolae, VII) in cui Dante, pur confermando la fiducia e la devozione nei suoi confronti, non esita rimproverarlo per gli indugi nella sua azione militare contro le città ribelli.
Ma l'azione dell'imperatore pare ormai indebolita dalle molte opposizioni incontrate, mentre l'atteggiamento del papa Clemente V si fa sempre più ostile. Infine il sogno imperiale di Dante è interrotto dalla morte di Arrigo a causa di febbri malariche, nell'agosto 1313.
3.5 Pace, giustizia, felicità: un trattato di filosofia della politica
La politica occupa una posizione centrale nella vita di Dante e tale importanza è testimoniata anche dal fatto che oltre alla militanza attiva e agli interventi pubblici come quelli delle epistole civili, i temi politici hanno un grande spazio nella poesia della Commedia. Inoltre, a questi problemi Dante dedica anche un trattato filosofico in latino, il De Monarchia. La datazione di quest'opera è uno dei punti più discussi nella biografia dantesca. Le proposte più attendibili oscillano fra gli anni della discesa di Arrigo e gli ultimi anni ravennati. In ogni caso le posizioni politiche di Dante restano sostanzialmente stabili negli anni dell'esilio, a partire dal IV trattato del Convivio.
Il De Monarchia si suddivide in tre libri, che affrontano tre grandi questioni attraverso argomentazioni logico-filosofiche, muovendo da testimonianze storiche, giuridiche, scritturali. Nel primo libro Dante dimostra che l'impero è necessario all'umanità per il conseguimento della pace universale (De monarchia I, iv, 1-6) e della felicità, e per l'esercizio della giustizia. Infatti l'imperatore detiene quel potere sovrano e universale che gli consente di esercitare rettamente la giustizia sulle autorità minori ad esso soggette. E che l'imperatore possa essere veramente giusto è garantito proprio dall'universalità del suo potere: estendendo la propria autorità su tutta la terra, egli non ha più nulla di terreno da desiderare, non è schiavo dell'avidità che invece colpisce gli uomini e provoca le sopraffazioni, le discordie, le ingiustizie. Essendo libero dalla cupidigia, causa principale delle lotte tra gli uomini, le città, gli stati, l'imperatore può esercitare la giustizia in pena libertà e rettitudine.
Ma, dimostrata la necessità dell'impero universale per la felicità degli uomini, resta da interpretare il ruolo storico svolto dall'Impero romano. Il popolo romano ottenne infatti l'impero universale solo grazie alla violenza delle armi e alla cieca crudeltà della guerra, come sosteneva sant'Agostino nel De civitate Dei, oppure è destinato provvidenzialmente da Dio a svolgere la missione storica di reggere l'Impero universale? È quest'ultima la posizione che Dante afferma e sostiene con una pluralità di argomenti che fanno riferimento alla storia profana e a quella sacra. Del resto, secondo Dante, il potere dell'impero romano fu legittimato dallo stesso Gesù. Egli infatti nacque in occasione del censimento romano e poi accettò di essere condannato da un tribunale romano. Infatti, perché il suo sacrificio avesse pieno valore di redenzione per tutto il genere umano, coinvolto integralmente nel peccato dei progenitori, era necessario che egli fosse condannato da un'istituzione dotata piena legittimità e di giurisdizione universale, come era appunto l'Impero romano.
3.6 Il papa e l'imperatore
Nel terzo libro Dante discute il punto più spinoso della questione, quello dei rapporti fra i due poteri universali: l'Impero e la Chiesa guidata dal papa. Egli dimostra la totale autonomia dei due poteri e in particolare insiste sul fatto che l'imperatore derivi il suo potere direttamente da Dio e non da qualche suo ministro umano. Ma il potere universale dell'Impero è gravemente ostacolato dalla Donazione di Costantino, l'atto con il quale, nel 313, l'Imperatore Costantino aveva donato al papa il possesso della città di Roma e di una serie di territori circostanti. Oggi sappiamo che tale documento è un falso, come è stato dimostrato da Lorenzo Valla nel Quattrocento, ma al tempo di Dante esso era ritenuto autentico. Dante mostra però l'illegittimità di questo atto che è all'origine del potere temporale della Chiesa, in quanto l'imperatore non ha la facoltà di alienare da sé nessuna parte dei territori che gli sono affidati direttamente da Dio.
Ma soprattutto Dante proietta la questione dei rapporti fra i due poteri universali sullo sfondo di un grande tema filosofico, la ricerca della felicità. In quanto costituito di corpo e di anima, il primo corruttibile, la seconda incorruttibile e immortale, l'essere umano ha due fini: la felicità terrena e la felicità eterna (De Monarchia, III, xv, 1-18). Ha perciò bisogno di due guide che lo sostengano nel perseguimento di questo duplice fine: se il papa ha la missione di guidare gli uomini verso la felicità nella vita eterna, all'Imperatore è affidato da Dio il compito di guidarli verso la felicità nella vita terrena, possibile solo in un mondo retto dalla giustizia e dalla pace, in cui la cupidigia viene sconfitta.
4.1 Da Babele a Bologna
Se un abitante di Pavia tornasse nella sua città mille anni dopo la sua morte, osserva Dante nel De vulgari eloquentia, non riuscirebbe a capire la lingua parlata dai suoi concittadini! La lingua, infatti, muta nel tempo. Muta in modo per noi impercettibile perché siamo immersi in questo mutamento. Ma se potessimo confrontare due fasi separate nel tempo della lingua parlata nella stessa città potremmo renderci conto delle grandi differenze.
Chi invece visitasse la città di Bologna e parlasse con gli abitanti dei diversi quartieri, si renderebbe conto che gli abitanti del quartiere di Strada Maggiore, nella zona est della città, parlano in modo sensibilmente diverso rispetto agli abitanti del quartiere di Borgo San Felice, verso la parte ovest. Per non dire poi di chi viaggia lungo la penisola italiana e si accorge che in ogni città, in ogni paese, in ogni borgo, la gente parla una lingua diversa. La lingua parlata cambia dunque nel tempo e muta nello spazio (DVE, I, ix, 4-10), è mutevole e corruttibile, soggetta all'uso dei parlanti, agli accidenti della geografia e della storia.
Questa è la situazione linguistica che si presenta a un osservatore attento come Dante, il quale nei primi anni dell'esilio compie numerosi viaggi e brevi soggiorni in molte città e corti dell'Italia centrale e settentrionale. Ed è questa la situazione che egli registra nell'acutissimo trattato che va sotto il titolo di De vulgari eloquentia, composto molto probabilmente negli anni 1304-1305, dopo i primi tre libri del Convivio e prima della stesura del quarto e l'avvio della Commedia.
Dante spiega che alle origini di questa differenziazione linguistica va posto il grande evento biblico della costruzione della Torre di Babele (Genesi, 11, 1-9), con la quale gli uomini tentarono di salire al cielo provocando l'ira e la punizione divina per la loro folle superbia. Fino a quel momento gli uomini parlavano tutti la stessa lingua, la lingua di Adamo, che Dante a questa altezza cronologica identifica con l'ebraico (mentre più tardi, nel XXVI canto del Paradiso, la riterrà invece una lingua ormai estinta), e potevano dunque facilmente capirsi. Ma per punizione divina iniziarono a parlare ciascuno una lingua diversa: la confusione delle lingue (DVE, I, vii, 4-8) punì la loro superbia.
Da questo grande episodio biblico deriva dunque la molteplicità delle lingue parlate dagli uomini, soggette poi ciascuna al mutamento spazio-temporale. In particolare, in Europa si diffusero tre lingue o gruppi linguistici: germanico, greco e romanzo. Da quest'ultima lingua, parlata nell'Europa meridionale, si sono formate le tre lingue di sì, d'oc e d'oïl.
4.2 La grammatica speculativa da Parigi a Bologna
Per ovviare alla frammentazione e al mutamento continuo delle lingue, Dante ritiene che i dotti abbiano escogitato nei vari paesi una «grammatica» (DVE, I, ix, 11), cioè una lingua artificiale, perfettamente regolata e immutabile, con la quale scrivere e comunicare fra loro. In Europa questa lingua è il latino, realizzata al tempo dei Romani e ancora perfettamente conservata, secondo Dante, nell'uso dei sapienti. Nelle altre parti del mondo esistono altre grammatiche, per esempio il greco, cioè altre lingue artificiali perfettamente regolate, che si oppongono alle lingue naturali, parlate dal popolo, perciò dette volgari. Le prime sono immutabili e incorruttibili, le seconde mutevoli e corruttibili, soggette all'uso dei singoli parlanti.
Nella definizione della grammatica come una lingua regolata, «un'identità inalterabile di linguaggio in diversi tempi e luoghi» (DVE I, ix, 11), così come nell'uso del termine inventores all'interno del sintagma «inventores gramatice facultatis» (ivi), Dante mostra di utilizzare nozioni e terminologie elaborate nell'ambito della «grammatica speculativa», una rivoluzionaria corrente della filosofia del linguaggio che si era rapidamente diffusa in Europa, dall'Inghilterra alle università di Parigi e Bologna.
Nella terminologia dei grammatici speculativi ripresa da Dante, gli inventores sono i filosofi che hanno individuato l'esistenza di principi generali che stanno alla base del funzionamento di tutte le lingue, cioè hanno trovato gli universali linguistici che agiscono al di sotto della varietà superficiale delle lingue naturali. I positores sono invece coloro che stabiliscono i singoli nomi, le singole parole concrete.
È una terminologia che trova precisa corrispondenza, tra l'altro, nelle opere di Gentile da Cingoli, professore a Bologna nell'ultimo decennio del Duecento e nel primo del Trecento, dove divulgò le principali nozioni della grammatica speculativa, e in particolare dei filosofi «modisti», che avevano rivoluzionato la filosofia del linguaggio all'Università di Parigi. Naturalmente non si tratta tanto di indicare fonti precise, ma di tener presente che le basi teoriche e terminologiche del De Vulgari eloquentia trovano risonanza nelle correnti di avanguardia della filosofia contemporanea.
4.3 Il latino, «grammatica» d'Europa, e un'arte poetica per il volgare
Il volgare è una lingua più nobile, in quanto naturale, mentre la grammatica (e quindi il latino) è artificiale. Tutto ciò che è naturale è infatti più nobile di quanto è artificiale. Su questo punto Dante ha evidentemente cambiato idea rispetto al Convivio, dove affermava invece la maggiore nobiltà del latino. Ma nonostante la maggiore nobiltà, il volgare è svantaggiato dalla propria variabilità nello spazio, nel tempo e nell'uso. Inoltre, osserva Dante, mentre chi voglia scrivere un'opera letteraria in latino può trovare numerosi trattati che spiegano la tecnica per una composizione corretta, elegante ed efficace, a regola d'arte, niente di analogo esiste per il volgare, né in Italia né altrove. Così gli scrittori in lingua volgare si trovano costretti a procedere a caso, senza la guida di una tecnica, e dunque spesso in modo inefficace.
A questa situazione Dante intende porre rimedio componendo un'opera del tutto nuova, un trattato sulla tecnica per comporre scritti in lingua volgare, sul modello di quelli già esistenti per la composizione in latino. Questo è dunque lo scopo del De vulgari eloquentia ("Sull'eloquenza del volgare"): offrire anche agli scrittori in volgare regole tecniche e una guida sicura per comporre secondo l'arte e la razionalità (regulariter) e non in modo casuale e irrazionale (casualiter).
Il trattato è scritto in latino perché rivolto a un pubblico di dotti e letterati ed è un'opera del tutto nuova, che assorbe però alcuni modelli attivi nella cultura europea medievale. Tra i modelli presenti a Dante sono i trattati di poetica o Poetriae, fioriti soprattutto in Francia tra il XII e il XIII secolo, ad opera di grandi autori quali Giovanni di Garlandia e Goffredo di Vinsauf. Attivi nella memoria dantesca sono anche i manuali di retorica che, sulla scorta dei trattati antichi di matrice ciceroniana, fiorirono nelle città italiane alla fine del Duecento, alcuni dei quali di grande importanza, come la Rettorica di Brunetto Latini e il Fiore di rettorica di Bono Giamboni. Tuttavia il trattato dantesco ha uno spessore filosofico ignoto a queste opere e sostiene la precettistica poetico-retorica con una complessa teoria del linguaggio di matrice biblica e filosofica.
Dalle premesse teoriche che si sono ricordate deriva che il volgare per essere eccellente dovrà cercare di preservare la propria naturalità, che lo rende più nobile del latino, ma cercare di ovviare all'instabilità nell'uso, variabilità nello spazio e corruttibilità nel tempo, mirando a un modello di regolarità, immutabilità e incorruttibilità come quello offerto dal latino, la grammatica d'Europa. O meglio, dovrà ispirarsi al modello della «gramatica quae comunis est», cioè della grammatica come «scientia comunis», di cui parlano i grammatici speculativi.
4.4 I volgari italiani: una rassegna fra dialettologia e storia letteraria
Fra i principi retorici alla base della trattazione dantesca sono quelli classici della tripartizione gerarchica degli stili e del principio della convenientia: esitono cioè tre grandi livelli stilistici, alto (o tragico o sublime), medio e basso (o umile), e ciascuno di essi sarà usato convenientemente rispetto alle capacità dello scrittore e al valore, prestigio e importanza della materia trattata. Il volgare più elevato, che Dante definisce «illustre», potrà essere usato solo dagli scrittori più eccellenti e per trattare gli argomenti della massima grandezza e importanza.
Ma in Italia, qual è il volgare illustre? È forse quello che si parla in una delle città italiane? Dove? Per verificare se esso coincida con uno dei volgari parlati nelle varie città e regioni, Dante passa in rassegna quattordici dialetti italiani, per ciascuno dei quali offre un esempio ed emette un giudizio sempre negativo, con la parziale eccezione del bolognese, pur non privo di difetti.
L'esame di Dante si concentra quindi sui diversi dialetti d'Italia (DVE, I, x, 3-7) con una profondità di indagine e di metodo che fanno del De vulgari eloquentia anche un primo trattato di dialettologia italiana. È da tenere presente però che il fine di Dante non è quello di delineare le caratteristiche di una lingua nazionale, ma di individuare il linguaggio adatto per fare poesia.
4.5 Volgare illuste e stile tragico
Il volgare illustre, con un'immagine tratta dai bestiari, viene paragonato da Dante a una pantera (DVE, I, xvi, 1), di cui ovunque si sente il profumo ma che nessuno riesce mai a catturare. Così, qualcosa del volgare illustre (DVE, I, xvi, 6; xvii, 1-7) si può avvertire in tutti i volgari locali, ma non coincide con nessuno. È invece quella lingua usata da alcuni eccellenti poeti: quelli della scuola siciliana e gli stilnovisti toscani e bolognesi, ben diverso invece dalla lingua rozza, scorretta e municipale usata da Guittone d'Arezzo e dai guittoniani. Oltre a essere illustre, questo volgare sommo dovrà essere cardinale (DVE, I, xviii, 1), costituire cioè come un cardine intorno al quale ruotino i volgari locali, e inotre aulico e curiale (DVE, I, xviii, 2-5): essere cioè il linguaggio della corte regale (aula) d'Italia e della sua corte di giustizia (curia). Purtroppo, dopo la caduta degli Svevi, i quali avevano creato un'aula e una curia in cui risuonava il volgare illustre che poi trovava infatti espressione nella poesia dei poeti "siciliani", nell'attuale situazione politica gli italiani sono privi di un'aula e di una curia. Ma il volgare illustre si sente risuonare nelle opere dei poeti, che hanno il compito di tenerlo vivo, in quanto, benché dispersi nel territorio, essi sono uniti dalla luce della ragione che si rende manifesta nell'unità linguistica.
Con il II libro Dante passa a esaminare l'arte del dire in volgare secondo i vari livelli stilistici, alto, mediocre, umile, fondandosi quindi sulla teoria degli stili (DVE, II, iv, 1-9). In realtà le uniche parti realizzate prima dell'improvvisa interruzione al capitolo XIV sono quelle relative allo stile tragico. Essendo il più elevato, dovrà utilizzare il volgare illustre e trattare solo delle materie più elevate, quelle connesse ai magnalia (DVE, II, ii, 5-7), 'le cose grandi, importanti': salus, amor, virtus (la salvezza, l'amore, la virtù). Dante si sofferma quindi sugli aspetti formali che contraddistinguono lo stile tragico. Tra le forme metriche la preferenza va alla canzone, mentre il verso prescelto è l'endecasillabo, la costruzione sintattica deve essere elevata e ricca di figure; il lessico selettivo e curato anche sul piano fonico, con il giusto equilibrio fra le sonorità dolci e aspre.
5.1 La discesa di Beatrice agli inferi: un amore che salva
Anche attraverso l'aspra esperienza dell'esilio, l'attività e la riflessione politica e culturale di Dante si proiettano su scenari sempre più ampi, come mostrano anche i grandi progetti del Convivio e del De vulgari eloquentia. È in questi anni, intorno al 1306, che matura l'avvio di una nuova opera, la Commedia, un'opera molteplice e complessa, che sembra assorbire nella sua struttura lineare e insieme ricchissima una pluralità di generi letterari, di livelli stilistici, di linguaggi, di dottrine. È anche l'opera che compie finalmente la promessa formulata nell'ultimo paragrafo della Vita Nova, dire di Beatrice «quello che mai non fue detto d'alcuna».
E l'amore di Beatrice è qui il protagonista e il motore dell'azione narrata. La beata che avevamo intravisto nella conclusione del libretto giovanile assunta in cielo fra i beati ora discende nell'inferno, nel limbo, dove si trovano i non cristiani virtuosi, e lì chiede all'anima del poeta latino Virgilio di soccorrere Dante, che rischia la morte. Egli infatti si è smarrito in una selva oscura, [link 73: Inferno, I, 1- 30] dalla quale ha cercato di uscire, dopo una lunga notte, al sorgere di un nuovo giorno. Ma il tentativo di salire su un colle illuminato dalla luce del sole è fallito per l'opposizione di tre bestie feroci, una lonza, un leone e una lupa, [link 74: Inferno, I, 31-60] che lo hanno bloccato e risospinto verso il basso, ancora verso l'oscurità paurosa e mortale della selva. È questo lo scenario allucinato e onirico che si presenta al lettore nel primo canto del poema, ma evidentemente esso è ricco di significati allegorici: la selva allude alla vita peccaminosa in cui l'uomo si smarrisce, il colle alla felicità, il sole alla luce della grazia, le bestie feroci ai vizi che impediscono all'uomo il cammino felice di una vita virtuosa.
E mentre il protagonista precipita nuovamente verso la selva dell'infelicità, dello smarrimento nel peccato, della dannazione, ecco che l'ombra di Virgilio (Inferno, I, 61-90) gli appare e gli propone un «altro viaggio» (Inferno, I, 91-136): un viaggio straordinario attraverso i regni dell'aldilà, l'inferno, il purgatorio e il paradiso. Nelle condizioni attuali, infatti, in cui i vizi e soprattutto l'avarizia, rappresentata dalla terribile lupa famelica e insaziabile, devastano la vita dell'uomo, portando ovunque guerra e ingiustizia, non è possibile per l'uomo essere felice, non si può salire il colle della felicità.
Dunque la fuga dalla selva potrà avvenire solo attraverso un processo di conoscenza che porti prima di tutto alla consapevolezza del male e delle sue conseguenze, terrene ed eterne, attraverso la visione dell'inferno in cui sono atrocemente puniti i peccatori. Si passerà quindi a comprendere la necessità del pentimento e della penitenza, ma anche ad ammirare la misericordia divina che accoglie i peccatori pentiti e li purifica attraverso un cammino penitenziale nel purgatorio, rendendoli atti a salire al cielo; e si giungerà infine alla visione della beatitudine dei giusti nella gloria celeste. È questa l'esperienza eccezionale che Virgilio propone al protagonista, ma è Beatrice (Inferno, II, 43-142) colei che, mossa da amore, è scesa dal paradiso per salvare Dante. E così sarà lei a condurre il viaggiatore dell'aldilà nella terza parte del viaggio, dal paradiso terrestre attraverso i cieli fino all'Empireo, sede autentica del paradiso.
5.2 I grandi modelli dell'aldilà
Pur accogliendo in sé e rielaborando una molteplicità di generi letterari, la Commedia è dunque prima di tutto un poema che racconta un viaggio nell'aldilà. Il contatto con il mondo dei morti e il dialogo tra l'eroe vivente e i defunti è uno dei motivi fondanti della letteratura europea, fin dall'antichità. Nella cultura greca, accanto ai racconti di tante discese agli inferi, spicca l'evocazione dei defunti da parte di Ulisse nell'XI libro dell'Odissea, mentre nella letteratura latina assume un'importanza straordinaria il VI libro dell'Eneide, interamente dedicato da Virgilio al racconto della discesa di Enea nell'Averno, per incontrarvi il padre Anchise e avere da lui le rivelazioni necessarie ad avviare la catena degli eventi che porterà alla fondazione di Roma. Anche la Bibbia contiene qualche occasionale informazione sull'aldilà, sulle pene cui sono sottoposti i peccatori e la beatitudine eterna riservata ai buoni. In particolare il testo scritturale più ampio in proposito sono alcuni capitoli dell'Apocalisse (Apocalisse, 20-21), in cui è descritto brevemente il fuoco eterno in cui brucerano i dannati dopo il giudizio finale e più ampiamente la Gerusalemme celeste, la città di Dio in cui regneranno i giusti.
Ma l'unico testo biblico che fa riferimento esplicito all'esperienza dell'aldilà da parte di un vivente è un breve passo della Seconda Epistola ai Corinzi di san Paolo (2 Cor., 2, 12-14), nel quale l'apostolo delle genti racconta di essere stato rapito in paradiso e lì di aver udito «parole arcane che l'uomo non può dire». Coerentemente con tale dichiarata indicibilità dell'esperienza paradisiaca, Paolo non aggiunge altro. Ma nei primi secoli dell'era cristiana si moltiplicano i testi che raccontano "apocalissi", cioè rivelazioni ricevute da profeti e visionari, molte delle quali contengono anche una rappresentazione dell'aldilà. Sono testi spesso redatti originariamente in greco e poi diffusi, tradotti in decine di lingue, in tutto il bacino del Mediterraneo e nel Vicino Oriente. E tra queste Apocalissi apocrife (così definite in quanto non accolte dalla Chiesa nel canone dei libri autentici della Bibbia) spicca proprio l'Apocalisse di Paolo, detta anche Visione di Paolo che racconta con ricchezza di dettagli l'esperienza dell'aldilà taciuta nella lettera ai Corinzi.
5.3 Dall'Europa all'aldilà: viaggi e visioni
Tradotta in latino e in molte altre lingue, e poi con il tempo nei volgari europei, la Visione di Paolo sarà uno dei testi fondanti la letteratura medievale dell'Aldilà. Nei secoli altomedievali si moltiplicano i racconti delle visioni oltremondane, alcune raccolte nella grande opera di Gregorio Magno (VI-VII secolo), i Dialoghi. Nell'epoca carolingia (VII-IX secolo) si sviluppa la tendenza a inserire nel racconto delle visioni anche l'incontro nell'aldilà con personaggi famosi, re o figure della famiglia reale, visti nella loro condizione oltremondana: la visione dell'aldilà si può caricare dunque anche di riferimenti e significati politici, entrare direttamente nella lotta politica nell'aldiquà!
Tra le varie parti dell'Europa un contributo spettacolare alla letteratura dell'aldilà è quello offerto dall'Irlanda: con la Navigazione di san Brandano, sviluppando la tradizione celtica degli imrama (racconti di viaggi per mare), si propone l'esperienza di un oltremondo posto non verticalmente sopra o sotto la terra, ma orizzontalmente su isole lontane al di là del mare; mentre il Purgatorio di san Patrizio dà un contributo significativo al consolidamento delle credenze su un regno intermendio di purgazione; e di area irlandese è anche la Visione di Tundalo, poi tradotta in tutte le lingue e diffusissima come un vero best seller medievale. Ma tutta l'Europa contribuisce a questa letteratura: per citare solo pochi testi esemplari, si possono ricordare per la Francia la Visione di Baronto; per l'Italia la Visione di Alberico; per la Germania la Visione di Godescalco, per l'Inghilterra la Visione di Turkill. Alcuni di questi testi, originariamente scritti in latino da un monaco, sono poi anche messi in versi da grandi poeti, prima in latino, come la Visione di Wettino di Walafido Strabone (IX secolo), poi nelle lingue romanze, specie in antico francese, come la Navigazione di San Brandano anglo-normanna di Benedeit (XII secolo) e il Purgatorio di San Patrizio di Maria di Francia (fine XII secolo).
E oltre alle versioni da una lingua all'altra e dalla prosa alla poesia, vengono prodotti anche testi originali in volgare, e finalmente anche nei volgari italiani, tra cui i famosi poemetti duecenteschi di Giacomino da Verona e di Bonvesin da la Riva. Ma pure il mondo arabo-islamico ha la sua tradizione visionaria, che penetra in occidente con il Libro della Scala, tradotto dall'arabo in castigliano, in latino e in francese alla corte di Alfonso il Savio.
5.4 Un'enciclopedia dei generi letterari europei
Se la struttura immediata della Commedia è quella di un racconto di un viaggio nell'aldilà e dunque questa è la prima tradizione letteraria, ampia e complessa, che viene assorbita nel nuovo poema, il testo dantesco si presenta a una lettura più attenta come una autentica summa dei generi letterari dell'Europa medievale. Il testo si carica di complessi significati allegorici: lo stesso Virgilio, che guida Dante attraverso il viaggio nei primi due regni, e poi Beatrice, che lo conduce nell'ascesa paradisiaca, pur conservando tutta la forza di personaggi storici, con la loro individualità vivace e precisa, si caricano anche di signficati allegorici, più o meno netti. Virgilio infatti è anche rappresentazione allegorica della ragione umana che opera al di fuori della fede cristiana, mentre Beatrice della fede o della rivelazione, o della grazia che giunge al peccatore e gli concede una possibiltà di salvezza.
E il viaggio narrato attraverso l'aldilà è un viaggio di conoscenza, nel corso del quale i personaggi incontrati offrono al pellegrino una serie di lezione su ogni campo del sapere. Ma questo era lo schema, realizzato in modi di volta in volta diversi, di una delle più significative esperienze della letteratura europea medievale, quella della poesia allegorico-didattica. Vi appartengono alcuni fra i testi più celebri e diffusi, sia in latino, come il De mundi universitate di Bernardo Silvestre e l'Anticlaudianus di Alano di Lilla, sia in volgare, tanto in francese, come il Roman de la Rose, [link 92] quanto in toscano, come il Tesoretto di Brunetto Latini.
Ma ben più di quanto avvenga in queste opere, Dante fa entrare nei singoli discorsi pronunciati dai personaggi una molteplicità di generi letterari. Oltre ai generi dottrinali, come la lezione universitaria su argomenti filosofici, teologici e scientifici, colpisce soprattutto l'assunzione di tutte le tipologie della letteratura religiosa: la predicazione, l'agiografia, la laude, la preghiera, l'esegesi biblica, la mistica, la profezia.
E soprattutto viene reinterpretata la grande poesia d'amore, che è una delle linee principali delle letterature romanze medievali: i miti dell'amore cortese sono assunti e trascesi nel mito dell'amore per e di Beatrice, che conduce l'amante verso la salvezza, verso il paradiso e la visione di Dio. La novità straordinaria del personaggio di Beatrice è messa in scena in modo spettacolare all'inizio del Paradiso. L'ascesa paradisiaca di Dante e il suo «trasumanare» (Paradiso, I, 43-75), cioè l'andare al di là della condizione umana, ha avvio grazie a un singolare triangolo degli sguardi: Dante fissa il suo sguardo negli occhi di Beatrice che sono a loro volta fissi nel sole, simbolo evidente della luce divina. Così la luce del sole è percepita da Dante in modo indiretto, in quanto essa si riflette negli occhi di Beatrice. Ma è attraverso questa luce mediata da Beatrice che si avvia l'ascesa di Dante verso il cielo, che si compirà nell'Empireo e nella visio Dei finale. Inizia a trovare compimento il personaggio di Beatrice, che Dante ha costruito fin dalla Vita Nova per rappresentare la bellezza umana in cui si riflette la bellezza divina, e che è capace di guidare colui che la ama verso la fonte divina della bellezza che in essa si riflette.
5.5 «Io non Enea, io non Paulo sono»
Dopo aver inizialmente seguito l'invito di Virgilio a «tenere altro viaggio» attraverso i regni dell'aldilà, Dante appare dubbioso dell'impresa, come si racconta nel II canto dell'Inferno. Virgilio, che è pur sempre «ribellante» alla legge di Dio ed escluso dal paradiso, propone un viaggio oltre i limiti posti all'esperienza degli uomini. E i due soli esempi, che vengono alla mente di Dante personaggio, di uomini viventi che hanno avuto il privilegio di fare esperienza dell'aldilà sono Enea e san Paolo (Inferno, II 10-42).
Ma entrambi, spiega preoccupato il protagonista a Virgilio, vi andarono per seguire un ordine divino o da Dio stesso portati, e il viaggio oltremondano si inseriva per loro all'interno di una missione provvidenzialmente ordinata e dotata di straordinari conseguenze, di un «alto effetto» su tutto l'umanità. Infatti Enea discese agli inferi per incontrare il padre Anchise e ricevere rivelazioni necessarie per la fondazione di Roma e dell'Impero. Paolo, d'altra parte, «lo Vas d'elezïone», fu rapito in paradiso perché al ritorno avrebbe dovuto recare «conforto a quella fede / ch'è principio alla via di salvazione», rendere più forte la fede cristiana attraverso i propri scritti teologici.
Dunque tali esperienze dell'aldilà erano concesse all'interno di missioni decisive per l'umanità: per la felicità terrena, grazie alla fondazione dell'Impero, e per quella eterna, grazie al rafforzamento della fede. Davanti a precedenti così impegnativi, Dante personaggio domanda: «Ma io perché venirvi? o chi 'l concede?». E aggiunge: «Io non Enëa, io non Paulo sono; / me degno a ciò né io né altri 'l crede». Ma il lettore intuisce che sono proprio questi i modelli del viaggio di Dante nell'aldilà e che i due grandi testi che le narrano, l'Eneide e la Bibbia, sono i grandi modelli letterari con i quali il poema dantesco intende misurarsi.
Virgilio risponde (Inferno, II 43-142) solo alla seconda domanda del protagonista: lo concede Dio stesso, attraverso l'intervento di «tre donne benedette», Maria, Lucia e Beatrice. E quest'ultima è scesa nel Limbo per sollecitare l'intervento del poeta latino in soccorso di Dante.
5.6 «Ma io, perché venirvi?»
Rassicurato, Dante segue Virgilio, ma solo più tardi avrà una risposta esplicita alla prima domanda, «Ma io, perché venirvi?». E sarà Beatrice, nel paradiso terrestre, a inaugurare la serie delle investiture profetiche, che costituiscono la vera risposta a tale domanda e l'indicazione precisa della missione di cui Dante è investito. Egli deve osservare e ascoltare tutto, fissarlo nella memoria, per poi scrivere quanto ha veduto: «in pro del mondo che mal vive / […] quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive» (Purg. XXXII 105-108); e udito: «Tu nota; e sì come da me son porte, / così queste parole segna a' vivi» (Purg. XXXIII 55-56).
Attraverso queste investiture, Dante costruisce la propria identità profetica sui modelli del profetismo biblico: l'ordine a manifestare agli uomini quanto rivelato da Dio era infatti uno dei motivi fondamentali dei libri profetici. La prima investitura di Dante, per esempio, «quel che vedi […] fa che tu scrive», traduce quella di Giovanni nell'Apocalisse: «Quod vides, scribe in libro» (Apoc. 1, 11).
L'incontro con l'avo Cacciaguida (Par. XVII 100-142), nel cielo di Marte, è evento centrale nel viaggio oltremondano: all'annuncio finale dell'esilio Dante risponde esprimendo la preoccupazione che l'osservanza del compito profetico gli possa provocare ulteriori sofferenze, rendendogli nemici quanti si sentiranno offesi dalle sue rivelazioni. La replica di Cacciaguida ribadisce le investiture precedenti, «tutta tua visïon fa manifesta», e conferma il carattere benefico e salvifico per l'umanità: «Ché se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta» (Par. XVII 124-132).
6.1 Oltre le colonne d'Ercole
Ma nel II canto dell'Inferno, accanto ai modelli positivi di Enea e Paolo, si profila anche l'ombra di un modello negativo, che il lettore potrà riconoscere solo più avanti, quando giungerà alla lettura del canto XXVI e scoprirà la tragica vicenda dell'ultimo viaggio di Ulisse, un mito che Dante "inventa", pur partendo da spunti presenti nei classici latini, specialmente Ovidio, e nelle letterature romanze. Qui il viaggiatore dell'aldilà accompagnato da Virgilio incontra nel cerchio dei fraudolenti, nella bolgia dei consiglieri di frode, avvolti e nascosti da una fiamma eterna, l'anima di Ulisse, che, su richiesta di Dante e Virgilio, racconta il suo ultimo viaggio (Inf. XXVI 85-142).
Dopo la prigionia presso la maga Circe, sulle coste tirreniche della penisola italiana, anziché fare rotta verso casa, Ulisse e i suoi si dirigono verso Ovest, per esplorare il Mediterraneo occidentale. Ma giunti alle colonne d'Ercole, l'eroe greco racconta di aver convinto i suoi uomini a compiere un viaggio temerario e finora intentato: andare avanti attraverso l'oceano, per fare «esperienza / del mondo sanza gente». Sembra un'impresa eroica e trionfale, un modello per il desiderio della conoscenza che anima l'uomo e lo spinge a sfidare l'ignoto, quello stesso desiderio che quasi un paio di secoli dopo la composizione del poema dantesco spingerà Cristoforo Colombo e gli altri esploratori alle loro navigazioni oceaniche e l'uomo europeo alla conquista di mondi sconosciuti.
Ma questa spinta, che Dante riconosce ed esalta nel personaggio di Ulisse, deve ancora fare i conti con un mondo chiuso, regolato, con lo spazio fortemente simbolico e teologizzato della cultura medievale. Lo spazio oceanico segnato dalle colonne d'Ercole e interdetto all'uomo è segno della consapevolezza del limite, della finitezza delle capacità di comprensione e conoscenza della mente umana rispetto all'infinità del creatore. È una nuova variazione del mito biblico del divieto edenico (Genesi, 2, 15-16 e 3, 1-24), come è confermato in paradiso dallo stesso Adamo che spiegherà a Dante che il peccato che ha causato la caduta non è tanto «il gustar del legno», l'atto concreto del mordere il pomo dell'albero proibito, «ma solamente il trapassar del segno» (Par. XXVI 115-117). Ed è proprio questo andare oltre il limite segnato dalle colonne d'Ercole, «là dove Ercule segnò li suoi riguardi / acciò che l'uom più oltre non si metta» (Inf. XXVI 108-109), ciò che decide il tragico destino di Ulisse e dei suoi uomini.
Dopo cinque mesi di navigazione essi giungono infatti di fronte a un'altissima montagna, dalla quale però si scatena un vento turbinoso che provoca rapidamente il naufragio della nave. Leggendo la cantica successiva, il lettore potrà capire che Ulisse era giunto davanti all'isola-montagna del Purgatorio, nella cui vetta si trova il paradiso terrestre, il luogo da cui l'uomo, proprio per il suo «trapassar del segno», è stato bandito.
6.2 Il folle volo
Nel II canto dell'Inferno il lettore può trovare alcune precise spie lessicali usate da Dante personaggio per indicare il timore di compiere un'impresa trasgressiva dei limiti concessi all'esperienza degli uomini. L'«alto passo» indica il passaggio pericoloso che conduce dentro la difficile impresa del viaggio oltremondano (Inf. II 12: «prima ch'a l'alto passo tu mi fidi»), e la stessa espressione sarà usata da Ulisse per ricordare il momento in cui la sua nave ha varcato le colonne d'Ercole, violando consapevolmente i confini voluti dalla divinità (Inf. XXVI 133: «poi ch'intrati eravam ne l'alto passo»).
L'aggettivo folle è posto invece a conclusione del dubbioso discorso di Dante a Virgilio: «temo che la venuta non sia folle» (Inf. II 35). Dante è subito rassicurato da Virgilio, ma Ulisse, al contrario di Dante, non entra nell'«alto passo» per volontà divina, anzi lo fa contro il divieto divino, e per questo la sua impresa è ripetutamente indicata come folle: «de' remi facemmo ali al folle volo» (Inf. XXVI 125); «il varco / folle d'Ulisse» (Par. XXVII 82-83).
6.3 L'altezza e il freno dell'ingegno
Ma prima dell'incontro con Ulisse e del racconto del suo ultimo viaggio, all'inizio del canto XXVI, si trova un'importante dichiarazione proemiale all'intero episodio pronunciata da Dante poeta: «Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi, / e più lo 'ngegno affreno ch'i' non soglio, // perché non corra che virtù nol guidi» (Inf. XXVI 19-22). La vicenda di Ulisse coinvolge e addolora sia Dante personaggio sia Dante poeta e quest'ultimo ne trae una lezione più ampia, che coinvolge l'intero campo della sua vita intellettuale. Il viaggio di Ulisse appare allora come una corsa sfrenata dell'ingegno senza la guida della «virtù», un'esplorazione senza limiti morali al desiderio di conoscenza.
Tale indifferenza morale è parsa simile a quella di certe correnti della filosofia contemporanea a Dante, definite aristotelismo radicale o averroismo, che tendevano alla separazione di scienza e morale, e rivendicavano l'assoluta autonomia della ragione. Si tratta di una filosofia complessa, che aveva nell'Università di Parigi i suoi principali rappresentanti, fra i quali il celebre Sigieri di Brabante, accusato da molti di eterodossia e in particolare duramente avversato nella stessa università dal collega Tommaso d'Aquino, che pur riconoscendo spazi di autonomia alla scienza, alla filosofia e alla ragione, le subordinava però alla teologia e alla fede. Ma le dottrine averrostiche si erano diffuse ben presto per l'Europa e in particolare erano influenti in certi ambienti dell'Università di Bologna. Da qui la presenza di elementi provenienti da queste filosfie anche in intellettuali vicini a Dante, come Guido Guinizzelli e soprattutto Guido Cavalcanti.
E proprio il rapporto con Cavalcanti è uno dei più complessi e decisivi nella biografia intellettuale di Dante. Nel poema Guido è incontrato in modo indiretto (Inf. X 52-75), nel cerchio degli eretici, dove è dannato il padre Cavalcante. Qui Guido è caratterizzato, nelle parole del padre, dalla «altezza d'ingegno» (Inf. X 58-63), mentre Dante ammette invece che il suo viaggio oltremondano non è un privilegio dovuto alla propria «altezza d'ingegno», ma al sostegno divino, che si realizza attraverso l'invio di una guida come Virgilio («da me stesso non vegno»).
Attraverso la parola chiave ingegno Ulisse è collegato quindi alla figura di Cavalcanti: l'eroe esploratore dell'ignoto oltre i limiti concessi all'uomo sembra rimandare al poeta-filosofo contemporaneo, che inclina alle posizioni dell'averrosimo quanto ad autonomia della ragione nel processo conoscitivo, mentre nega il potere salvifico dell'amore come guida verso il divino. Entrambi sono infatti eroi dell'ingegno, quell'ingegno di cui Dante sa ora riconoscere i limiti e che ha imparato a tenere a freno, a non lasciar correre senza la guida della virtù, della morale, della fede.
7.1 «Il veltro verrà»
Non sorprende, vista la centralità della politica nella vita, nell'attività pubblica e nella riflessione teorica di Dante, lo spazio rilevante che al tema politico è riservato anche nella Commedia. Fin dal primo canto si annuncia l'arrivo di un personaggio che sconfiggerà l'avarizia, rappresentata dalla lupa, che provoca la rovina della vita pubblica nell'«umile Italia», causando discordie, guerre civili, ingiustizie e sofferenze. Tale personaggio è rappresentato allegoricamente come un «veltro» (Inf. I 91-111), cioè un cane da caccia, coerentemente con l'immagine zoologico-venatoria delle bestie, la lonza, il leone, la lupa, che impediscono a Dante l'ascesa al colle della felicità.
Del veltro esistono numerose interpretazioni offerte dagli studiosi nel corso dei secoli, e lo stesso Dante ha voluto forse che l'annuncio profetico fosse oscuro e ambiguo, perché potesse prestarsi a diverse interpretazioni a seconda delle circostanze. Tuttavia la lettura più probabile e accreditata vede nel veltro un imperatore o un rappresentante dell'Impero che riporterà la pace e la giustizia nell'Italia dilaniata dalla cupidigia, dall'ingiustizia e dalle guerre civili.
Al momento della stesura del canto, verso il 1306, l'identificazione restava aperta e indeterminata, ma in seguito, anche nelle reinterpretazioni successive dell'autore, il veltro sembrerà incarnarsi di volta in volta in un preciso personaggio storico, come Arrigo VII, nel periodo della discesa in Italia che accese tante speranze, o più tardi il vicario imperiale e signore di Verona Cangrande della Scala, ospite generoso e protettore di Dante.
Del resto, Dante manterrà la stessa aperta indeterminazione nelle profezie politiche, pur evidentemente riferite a una figura imperiale, anche più avanti, verso la conclusione del Purgatorio, quando annuncerà l'avvento di «un cinquecento, diece e cinque, / messo di Dio» (Purg. XXXII 109-160 e XXXIII 31-78), per punire la «puttana», cioè la Chiesa simoniaca dei papi avignonesi e «quel gigante che con lei delinque» (Purgatorio XXXII-XXXIII), cioè, stando all'interpretazione più probabile, il Regno di Francia di Filippo il Bello, che corrompe e tiene soggiogata la Chiesa, anche in funzione anti-imperiale.
7.2 Firenze, la città partita
Il tema politico è pervasivo e tocca quasi ogni canto della Commedia, in cui l'incontro con i personaggi dell'aldilà o i riferimenti ai loro luoghi d'origine offrono l'occasione per un esame delle singole situazioni politiche delle città e dei regni d'Italia e d'Europa. Ma in particolare Dante affida ai sesti canti di ciascuna delle tre cantiche del poema il compito di svolgere il tema politico secondo una prospettiva sempre più ampia, che va dal particolare all'universale: Firenze nell'Inferno, l'Italia nel Purgatorio, l'Impero nel Paradiso.
Nel VI canto dell'Inferno (Inf. VI 34-90) è messo in scena l'incontro nel cerchio dei golosi con il fiorentino Ciacco, che riconosce Dante e si riferisce a Firenze come città «piena d'invidia». Immaginando che i defunti possano avere conoscenza più profonda della realtà terrena e anche degli eventi futuri Dante gli rivolge tre domande sulla situazione e il destino della «città partita»: «ma dimmi, se tu sai, a che verranno // li cittadin de la città partita; s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione / per che l'ha tanta discordia assalita» (Inf. VI 60-63).
La risposta di Ciacco presenta un oscuro vaticinio degli avvenimenti futuri, in cui è possibile riconoscere l'allusione ai fatti degli anni 1300-1302: la rissa di Calendimaggio (1° maggio 1300), fra Cerchi e Donati, con il ferimento di uno dei Cerchi («Dopo lunga tencione / verranno al sangue»); l'ascesa al potere dei Bianchi, guidati dai Cerchi, e la condanna all'esilio dei principali capi dei Neri nel giugno 1301 («la parte selvaggia / caccerà l'altra con molta offensione»); il rovesciamento della situazione, con la caduta dei Bianchi e l'ascesa dei Neri grazie all'aiuto di Bonifacio VIII, nell'autunno-inverno 1301-1302 («Poi convien che questa caggia / infra tre soli, e che l'altra sormonti / con la forza di tal che testé piaggia»); infine il lungo potere dei Neri e la dure sofferenze che essi imporranno alla parte sconfitta («Alte terrà lungo tempo le fronti, / tenendo l'altra sotto gravi pesi, / come che di ciò pianga e che n'aonti»).
Come si vede, per parlare degli avvenimenti politici successivi alla primavera del 1300, periodo in cui è ambientato il viaggio nell'aldilà, Dante si serve della tecnica delle profezie post eventum: cioè assegna alle anime dell'aldilà la conoscenza del futuro e gli fa annunciare, con le ambiguità e le oscurità tipiche del linguaggio profetico, fatti di cui in realtà l'autore conosce perfettamente lo svolgimento, in quanto avvenuti prima della stesura dei vari canti del poema, a partire dal 1306.
7.3 Le «tre faville», «la gente nova e i subiti guadagni»
L'analisi delle cause della discordia civile che Dante affida a Ciacco è più morale che strettamente politica: «superbia, invidia e avarizia sono / le tre faville c'hanno i cuori accesi» (Inf. VI 74-75). La triade di vizi alla radice del male nella vita pubblica rimanda alla triade bestiale del primo canto, che impedisce l'ascesa al colle della felicità. A causa di questi vizi regna l'ingiustizia e la discordia nelle città e dunque è impossibile la felicità che l'uomo, in quanto animale sociale, può perseguire solo all'interno di una società ordinata, in cui regnano la giustizia e la pace.
Dopo tante allusioni disseminate nel corso del poema, Dante torna in modo ampio e approfondito sui temi della politica fiorentina nel Paradiso, in occasione dell'incontro con l'avo Cacciaguida (Par. XV 91-148 e XVI 1-72), morto da martire come crociato in Terrasanta, nel cielo di Marte (Par. XV-XVII). Cacciaguida rievoca l'immagine mitica e utopistica della Firenze dei suoi tempi, piccola ma pura, nobile, pacifica: «Fiorenza dentro da la cerchia antica / […] / si stava in pace, sobria e pudica» (XV 97-99). E indica la causa della decadenza morale e della discordia civile di Firenze in termini socio-economici e demografici, mettendo sotto accusa l'inurbamento di popolazioni provenienti dal contado, con la conseguente «confusion de le persone», e il turbinoso sviluppo demografico ed economico, che sconvolge gli antichi equilibri.
Del resto lo stesso Dante personaggio aveva pronunciato nell'inferno un giudizio simile: «La gente nova e i subiti guadagni / orgoglio e dismisura han generata, / Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (Inf. XVI 73-75).
7.4 «Ahi serva Italia»
Le dolorose discordie civili che sconvolgono Firenze e sono la causa anche delle disgrazie personali e dell'esilio di Dante trovano corrispondenza in molte città e stati regionali italiani, dilaniati dalle guerre tra opposte fazioni o vittime di disordine e decadenza, anche a causa dell'assenza del potere imperiale in grado di svolgere una funzione di guida e garanzia al di sopra delle parti. Così nel VI canto del Purgatorio l'analisi politica si sposta da Firenze alla situazione italiana. L'Italia è per Dante l'insieme di tante situazioni politiche particolari, città-stato come i Comuni, piccoli stati di origine feudale, piccoli regni regionali: in realtà manca quella prospettiva nazionale e unitaria che a questo passo dantesco è stata sovrapposta dalla retorica risorgimentale.
La celebre invettiva che si apre con le parole «Ahi serva Italia» (Purg. VI 58-151) è infatti pronunciata direttamente dalla voce del narratore, e scaturisce come commento all'incontro nell'Antipurgatorio fra due personaggi, i quali, appena scoperto di essere entrambi mantovani, prima ancora di conoscersi per nome, si abbracciano fraternamente. L'abbraccio fra i due concittadini sconosciuti fa da doloroso contrasto con la situazione delle città italiane, in cui i concittadini «non stanno sanza guerra» e «l'un l'altro si rode / di quei ch'un muro e una fossa serra».
Per cogliere la forza terribile del verbo rodere, qui usato da Dante, occorre ricordare che il lettore ha incontrato pochi canti prima l'immagine agghiacciante del conte Ugolino (Inf. XXXII 124-139 e XXXIII 1-90) che appunto rode la testa dell'arcivescovo Ruggieri, realizzazione infernale ed eterna del cannibalismo civile, illustrato anche attraverso la terrificante immagine classica di Tideo e Menalippo, personaggi della Tebaide di Stazio: «Non altrimenti Tidëo si rose / le tempie a Menalippo per disdegno, / che quei faceva il teschio e l'altre cose» (Inf. XXXII, 130-132). E infatti Pisa, teatro della terribile sciagura del conte Ugolino, poco dopo veniva definita come «novella Tebe» (XXXIII 89), con un'espressione che si estende, attraverso i molti riferimenti alla materia tebana, a colpire tutte le città italiane, dilaniate dalle discordie civili e dagli odi fratricidi come l'antica città greca che vide la tragica guerra tra i fratelli Eteocle e Polinice.
Nel VI canto del Purgatorio Dante passa in rassegna i territori italiani, senza trovare alcuna parte che goda di pace e di stabilità, ma non esita nel segnalare le responsabilità delle istituzioni universali, l'Impero e la Chiesa. Dante considera l'Impero vacante, in quanto dopo Federico II gli imperatori eletti non sono scesi in Italia a ricevere l'incoronazione a Roma. Così è feroce il giudizio su Alberto I, che come il padre Rodolfo I trascura l'Italia e i doveri imperiali nei suoi confronti, ma viene duramente criticata anche la gerarchia ecclesiastica, che dovrebbe favorire il ripristino dell'autorità imperiale e invece lo ostacola perché non siano limitate le mire temporali della Chiesa.
7.5 Il «sacrosanto segno»: l'aquila imperiale
L'Impero è per Dante l'istituzione ordinata provvidenzialmente da Dio per guidare gli uomini verso la felicità terrena. Ha dunque un posto altissimo nella sua concezione politica, come è ripetutamente ribadito a partire dal IV libro del Convivio, nel De monarchia e in tanti passi del poema, in particolare nel XVI canto del Purgatorio, dove Marco Lombardo ripropone la dottrina che definisce l'Impero e la Chiesa come «due soli» (Purg. XVI 82-114), cioè due guide, autonome tra loro, stabilite dal cielo per condurre gli uomini alla felicità nella vita terrena e nella vita eterna.
Ma la lode dell'Impero e della sua funzione è limitata nel poema sempre al tempo passato o a un futuro profeticamente annunciato. Il presente dell'istituzione imperiale è invece sempre giudicato negativamente, per la sua assenza dalla scena politica italiana, causa di terribili conseguenze. Gli imperatori contemporanei sono sempre criticati per il loro rifiuto di scendere in Italia a ribadire la sovranità imperiale sulla penisola, con l'unica eccezione di Arrigo VII, che infatti sarà sempre lodato, nonostante l'esito infelice della sua impresa, fino agli ultimi canti del poema.
All'istituzione imperiale è dedicato il VI canto del Paradiso (Par. VI), costituito da un lungo discorso interamente pronunciato dall'anima dell'imperatore Giustiniano, promotore nel VI secolo della grande impresa del Corpus iuris civilis, la raccolta delle leggi civili romane, che resterà per secoli alla base di ogni ordinamento giuridico europeo. Nel poema dantesco l'imperatore rievoca in chiave celebrativa le grandi imprese compiute dal «sacrosanto segno», cioè dall'aquila simbolo del potere imperiale, con una rassegna trionfale che parte da Enea e arriva sino a Carlo Magno.
Ma dopo la celebrazione della gloria dell'Impero il canto presenta anche un'aspra riflessione sulla situazione attuale e le critiche in questa occasione sono rivolte a coloro che contrastano la sovranità universale dell'Impero, cioè il regno di Francia e i Guelfi suoi seguaci, che al «pubblico segno», cioè all'aquila imperiale, sostituiscono «i gigli gialli», emblema della casa di Francia, segno cioè di un regno particolare, soggetto al potere universale dell'Impero. Tuttavia la censura colpisce anche i Ghibellini, sedicenti seguaci dell'Impero, che in realtà molto spesso appoggiano le rivendicazioni imperiali non per disinteressato senso di giustizia, ma per ricavarne vantaggi personali e di parte.
Ma esiste un'altra minaccia più radicale e pericolosa: il papato, che usurpa le prerogative del potere politico universale, impedendo che l'Impero guidi efficacemente l'umanità verso la felicità terrena. Accecata dalla cupidigia e concentrata solo sui beni e poteri mondani, la Chiesa di Roma trascura i propri doveri religiosi di guida per l'umanità verso la felicità eterna. Il canto inizia infatti ricordando il gesto di Costantino, che portò l'aquila verso oriente, spostando la capitale da Roma a Bisanzio, e offrì alla Chiesa la donazione di Roma e del territorio circostante, fondamento giuridico del potere temporale del papato.
8.1 Aristotele e il dibattito filosofico nell'Europa medievale
La cultura filosofica dell'Europa medievale, che a un osservatore lontano pare unitaria e compatta, si rivela a uno sguardo un po' più ravvicinato percorsa da conflitti accesissimi e animata da dibattiti straordinariamente intensi, che dalle grandi università, come quelle di Parigi e di Bologna, e dalle grandi scuole conventuali, penetra nelle province e nelle città, influendo sulla formazione dei singoli intellettuali e scrittori, sulla loro visione del mondo, sugli strumenti concettuali e terminologici attraverso i quali percepiscono e rappresentano la realtà.
La "scoperta" della filosofia aristotelica aveva rinnovato profondamente il pensiero filosofico europeo, aprendo un'epoca razionalistica, che affida il processo conoscitivo a un'epistemologia fondata sulle dimostrazioni logiche. Ma accanto al razionalismo, l'aristotelismo diventa il riconoscimento di un'autorità che non si può mettere in discussione e che offre con le sue affermazioni il punto di partenza a eventuali altre dimostrazioni. Aristotele viene chiamato semplicemente, anche dallo stesso Dante, «il Filosofo» e definito poi «il maestro di color che sanno» (Inf. IV 131).
Ma in realtà lo stesso aristotelismo medievale è un fenomeno culturale molto complesso ed è attraversato da profonde divisioni. Di particolare rilievo è il conflitto che oppone i "teologi", che cercano di conciliare la filosofia aristotelica con l'ortodossia cristiana, come Tommaso d'Aquino, grande intellettuale domenicano e professore all'Università di Parigi, e i "filosofi", cioè gli aristotelici radicali o averroisti, come Sigieri di Brabante, anch'egli professore a Parigi. Nelle opere e nell'insegnamento degli averroisti, le opere aristoteliche di fisica, metafisica, psicologia, con i commenti dei filosofi arabi, sono la base per sostenere posizioni inconciliabili con la fede cristiana, come l'eternità del mondo, la mortalità dell'anima, l'unità dell'intelletto possibile. Da qui dibattiti infuocati e aspri contrasti, ma anche severe condanne e censure ecclesiastiche. All'Università di Parigi le opere aristoteliche di fisica e psicologia vengono vietate nella facoltà di teologia, mentre continuano a essere lette e commentate nella facoltà di arti.
8.2 La tradizione esegetico-simbolica, il platonismo, la mistica
Tuttavia rimane attiva e vivace anche nel Duecento e nei primi decenni del secolo successivo la grande e moltepice tradizione medievale che, anche qui con molte diverse sfumature, si fondava sulla lettura e l'interpretazione della Bibbia e sull'insegnamento dei Padri della Chiesa. In questa secolare tradizione culturale l'esegesi del testo sacro è la fonte di ogni verità: l'autorità e il fondamento della conoscenza non sono riconosciuti ai sistemi logici e razionali dell'aristotelismo ma alla Bibbia e alle tecniche allegoriche dell'esegesi scritturale. Infatti Dio ha lasciato le tracce della verità e della sua volontà nei suoi due libri, la Bibbia e il creato, che gli uomini devono interpretare attraverso tecniche di esegesi simbolica.
A queste correnti di pensiero esegetico e simbolico possono essere in qualche misura accostate altre linee della cultura medievale: la tradizione agostiniana; la presenza incerta ma persistente del platonismo medievale; l'influenza della teologia mistica legata alla tradizione degli scritti di Dionigi Pseudo-Areopagita; la nuova teologia mistica sviluppatasi nel XII secolo presso l'Abbazia di San Vittore a Parigi, con grandi rappresentati come Ugo e Riccardo di San Vittore, quest'ultimo citato esplicitamente da Dante, che lo pone nel cielo del Sole quale maestro di sapienza mistica (Par. X, 131-132: «Riccardo, / che a considerar fu più che viro»).
Inoltre il Duecento vede un rinnovato diffondersi di importanti compilazioni enciclopediche, tra cui spiccano, verso la metà del secolo, il De proprietatibus rerum di Bartolomeo Anglico e lo Speculum maius di Vincenzo di Beauvais, a cui si aggiunge poi, qualche anno più tardi, il Tresor di Brunetto Latini, in francese. E nelle enciclopedie si può osservare una spiccata tendenza al sincretismo, alla combinazione di informazioni, notizie, citazioni provenienti da testi diversi. Così le frasi di Aristotele si possono trovare accanto a quelle della Bibbia o di Agostino o di Isidoro di Siviglia o di Dionigi.
8.3 Dante e i saperi del suo tempo
Nel periodo successivo alla morte di Beatrice, Dante, come racconta egli stesso nel Convivio, frequenta a Firenze «le scuole delli religiosi e le disputazioni delli filosofanti». Due delle scuole certamente frequentate dal poeta sono gli studia conventuali dei domenicani e dei francescani a Firenze. Da qui deriva al poeta una duplice influenza che forse è alla base della complessità dei riferimenti filosofici che si possono incontrare nelle sue opere e in particolare nella Commedia.
Il poema dantesco ha una struttura enciclopedica ma non sistematica e manifesta chiaramente un'intenzione totalizzante di rappresentare l'universo nella sua totalità. Questi caratteri del testo conducono Dante ad attingere materiali, elementi, notizie, concetti, terminologie da campi del sapere diversi e anche da singole dottrine filosofiche che non necessariamente egli condivide nella loro interezza. Il poema ha fini complessi, poetici e autobiografici, ma anche morali e religiosi: la purezza dottrinaria nel seguire una singola posizione filosofica non sembra una delle linee guida del poeta.
Per questo non pare opportuno privilegiare in modo esclusivo una sola delle prospettive filosofiche presenti, come invece è stato fatto in passato attribuendo un valore assoluto alla presenza delle dottrine aristoteliche nell'interpretazione di Tommaso d'Aquino (quindi detta tomista). Accanto a questa, indubbiamente presente e significativa, ne esistono molte altre, legate alle diverse interpretazioni dell'aristotelismo, al platonismo, alla tradizione agostiniana, al sapere simbolico e allegorico della tradizione biblica che si ritrova anche nelle enciclopedie e negli scritti "naturalistici"; alla teologia mistica, alla metafisca delle luce, e a molte altre linee e tendenze di cui Dante assorbe e riutilizza singoli elementi e aspetti, per inglobarli nella sua summa enciclopedica e poetica.
Le scienze e le prospettive conoscitive umane sono tutte mobilitate e utilizzate a fondo, e in particolare si porta al limite l'uso delle facoltà logico-razionali per spiegare ogni aspetto della realtà. Ma con altrettanta decisione il poeta insiste nel ribadire i limiti delle facoltà razionali umane nella comprensione dei misteri più profondi del divino.
8.4 Le Atene celestiali e filosofi del nobile castello
Nel IV libro del Convivio Dante immagina una sorta di luogo celeste, «quelle Atene celestiali», in cui si trovano a contemplare concordemente la verità divina i filosofi che pure in vita avevano dibattuto su posizioni del tutto diverse, come i rappresentanti delle grandi scuole filosofiche dell'antichità: «si sale a filosofare a quelle Atene celestiali dove li Stoici e Peripatetici e Epicuri, per la luce della veritade etterna, in uno volere concordevolemente concorrono» (Conv. IV 14 15). È un modo per riconoscere un'armonia nella ricerca dei filosofi di soddisfare il naturale desiderio dell'uomo di conoscere, e tale armomia persiste anche quando, per la fraglità e l'incertezza delle facoltà umane, si giunge a conclusioni diverse.
Anche fra gli spiriti magni del limbo (Inf. IV), uno dei luoghi oltremondani di cui Dante offre una rappresentazione più innovativa rispetto alla tradizione medievale, si trova un gruppo assai eterogeneo di filosofi, scienziati e sapienti non cristiani, associati nel soggiorno nel luogo nobile e sereno del nobile castello, ma esclusi dalla salvezza paradisiaca e dall'accesso alla suprema conoscenza del divino nella beatitudine celeste. Tutti i filosofi si trovano qui riuniti intorno ad Aristotele: «vidi 'l maestro di color che sanno / seder tra filosofica famiglia. // Tutti lo miran, tutti onor li fanno» (IV 131-133). I più vicino al Filosofo sono «Socrate e Platone, / che 'nnanzi a li altri più presso li stanno» (134-135), le cui posizioni sono certo ben diverse da quelle aristoteliche, e poi tutta una serie di filosofi presocratici, le cui dottrine Aristotele aveva apertamente criticato, come Dante poteva leggere negli scritti del filosofo e nei commenti medievali. E seguono poi una serie di scienziati antichi e di filosofi-scienziati di religione islamica, i celebri Avicenna e Averroè. Anche i sapienti del limbo sono stati distanti nelle rispettive posizioni nella vita terrena, ma ora appaiono concordi in questo luogo.
Essi ricevono onore in tale posizione privilegiata, e testimoniano insieme del valore e dei limiti della ragione umana e delle sue più alte espressioni nella filosofia al di fuori della fede cristiana. Non è un caso che i principali fra questi siano poi citati all'inizio del Purgatorio, dove Virgilio ricorderà dolorosamente i limiti della ragione umana nel comprendere i misteri divini e l'esclusione dalla conoscenza della verità di coloro che hanno fidato sulla sola ragione umana: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. // State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria; // e disiar vedeste sanza frutto / tai che sarebbe lor disio quetato, / ch'etternalmente è dato lor per lutto: // io dico d'Aristotele e di Plato e di molt'altri» (Purg. III 34-44).
9.1 Nel cielo del Sole
L'immagine delle Atene celestiali trova uno spettacolare compimento nella celebrazione dei sapienti cristiani messa in scena nel cielo del Sole. È un'ampia sequenza, che si snoda per quasi cinque canti del Paradiso, dal X al XIV, nella quale trova la celebrazione più alta il desiderio umano di conoscenza, che si esprime negli sforzi dei sapienti, anche se questi, nella difficoltà e confusione causata dalle limitate capacità umane, possono arrivare talvolta a conclusioni diverse e contrapposte.
Qui appare la perfetta concordia celeste fra gli ordini religiosi mendicanti, rappresentati dal domenicano Tommaso d'Aquino, che pronuncia una sorta di sermone agiografico in onore di san Francesco, e dal francescano Bonaventura da Bagnoregio, che a sua volta innalza un panegirico a san Domenico. Ma di là dalla perfetta e provvidenziale armonia fra i due ordini religiosi, esaltata apertamente, in questo cielo è implicita l'esaltazione dell'unità dei sapienti cristiani nella ricerca della verità.
Così in questo cielo si trovano cultori di diversi saperi: soprattutto filosofi e teologi (Boezio, Tommaso d'Aquino, Alberto Magno, Pietro Lombardo, Sigieri di Brabante, Bonaventura da Bagnoregio, Ugo di san Vittore, Pietro Mangiadore, Pietro Spano, Anselmo d'Aosta, giuristi (Graziano), re sapienti (Salomone), teologi mistici (Dionigi lo pseudo-Areopagita, Riccardo di san Vittore, storici (Orosio), enciclopedisti (Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Rabano Mauro), frati francescani (Illuminato e Agostino), profeti biblici e profeti moderni (Natan, Gioacchino da Fiore), oratori sacri ed esegeti biblici (Giovanni Crisostomo), grammatici (Donato).
Ma soprattutto colpisce la compresenza, nella prima corona dei sapienti, di Tommaso d'Aquino e di Sigieri di Brabante, sostenitore delle posizioni dell'aristotelismo radicale contro il quale Tommaso aveva aspramente polemizzato in vita. Nella prospettiva celeste queste differenze appaiono meno importanti e si celebra soprattutto il comune amore per la ricerca della verità, illuminato dalla fede cristiana.
9.2 Sapienza, contemplazione e santità
Ma nel cielo del Sole si presenta anche una delle strutture fondamentali del Paradiso, fondata sull'esaltazione della santità. Il grande intellettuale domenicano Tommaso d'Aquino offre infatti un racconto agiografico teso a celebrare la vita e la santità di san Fancesco (Par. XI) e a lui risponde un altro dei sapienti del Sole, il filosofo francescano Bonaventura da Bagnoregio, che pronuncia a sua volta un sermone agiografico in onore di san Domenico (Par. XII). Vengono dunque esaltati i due santi che con la loro azione riformatrice avevano rinnovato profondamente la Chiesa all'inizio del Duecento, fondando gli ordini detti "mendicanti", francescani e domenicani perché celebrano i valori evangelici della povertà e si affidano al sostegno dei fedeli.
Ma tali ordini si caratterizzano anche per la presenza nelle città, e per gli intensi rapporti che intrecciano con la cultura cittadina, attraverso la predicazione, le opere di pietà, la presenza di scuole, studia e grandi biblioteche conventuali, che costituiscono grandi centri di diffusione culturale e di insegnamento, non inferiori agli studia universitari. E Dante deve in effetti la sua formazione filosofica proprio alla frequentazione dei due studia fiorentini dei domenicani (Santa Maria Novella) e dei francescani (Santa Croce).
Il panegirico di san Francesco pronunciato da Tommaso d'Aquino esalta la scelta di povertà operata dal santo e la compresenza nella sua figura di umiltà, ardore mistico ed enegica combattività apostolica. Della figura di san Domenico si esalta l'amore per la fede che lo porta a lottare con le armi della predicazione per diffondere la verità e sradicare l'eresia. E di entrambi si celebra soprattutto, con molti strumenti retorici, la fedeltà a Cristo e la volontà di imitare il modello del Salvatore, ponendosi a loro volta come nuovi modelli per i cristiani.
A questo grande dittico agiografico, cioè di narrazione della vita dei santi, risponde un secondo dittico agiografico, rappresentato nel cielo di Saturno, il cielo che ospita gli spiriti contemplanti. Qui Dante incontra due grandi santi che gli raccontano essi stessi i momenti fondamentali della propria vita e della propria azione nella Chiesa. Dunque in questo caso si tratta di una sequenza auto-agiografica, in quanto la vita è raccontata dal santo in prima persona, a differenza di quanto avveniva nel cielo del Sole.
In particolare si tratta di due santi appartenenti alla spiritualità monastica benedettina, fondata sulla vita in monasteri isolati, sulla preghiera e sull'ascesi. I due sono san Pier Damiano, monaco della famiglia benedettina dei Camaldolesi (Par. XXI, 105-142) e poi dello stesso fondatore del monachesmo occidentale, san Benedetto da Norcia (Par. XXII 1-99) Il cielo di Saturno esalta dunque il monachesimo come quella forma di vita eremitica costituita da rinuncia al mondo, solitudine, preghiera, studio, meditazione, che permette di giungere già in questa vita a contemplare le verità divine e gustare la dolcezza delle cose celesti.
9.3 Mistica e scienza
Dopo aver visitato i regni dell'aldilà, con la guida prima di Virgilio e poi di Beatrice, Dante giunge nel vero paradiso, costituito dal cielo Empireo (Par. XXX), un cielo di luce puramente spirituale e intelligibile: «ciel ch'è pura luce: // luce intellettüal, piena d'amore; / amor di vero ben, pien di letizia; / letizia che trascende ogne dolzore» (Par. XXX 39-42). Qui è guidato da san Bernardo di Chiaravalle, un grande scrittore cristiano del XII secolo, celebre per la sua teologia mistica, la sua devozione mariana e le grandi doti di oratore sacro, alla contemplazione dei beati e degli angeli nella loro realtà, l'«alto trïunfo del regno verace». Infine, Bernardo, da grande e devoto mariologo, innalza una preghiera alla Vergine (Par. XXXIII 1-54) perché ottenga per Dante la grazia della visione di Dio. La preghiera di Bernardo è esaudita e il pellegrino può raggiungere il culmine della sua esperienza, prima di tornare alla vita terrena e lì compiere la missione che gli è stata affidata.
La visione di Dio che viene rappresentata nell'ultimo canto del poema è suddivisa in tre fasi, non perché nella divinità questi aspetti siano separati, ma perché le facoltà visive del contemplante si rafforzano progressivamente e gli permettono di penetrare progressivamente sempre più a fondo nella realtà del divino. Inoltre il poeta, che cerca di mettere in versi un'esperienza così straordinaria, denuncia continuamente i limiti e gli scacchi della memoria e del linguaggio umano (Par. XXXIII 55-75), incapaci di contenere e di esprimere, se non in minima parte, la visione della divinità.
Dapprima Dio appare a Dante come il principio unitario e ordinatore della molteplicità del reale, (Par. XXXIII 76-96), come un libro in cui sono perfettamente ordinate tutte le pagine, cioè tutti gli enti, le proprietà, le relazioni che appaiono nel mondo caotici e disordinati come fogli sparsi: «legato con amore in un volume, / ciò che per l'universo si squaderna».
Nel secondo momento Dante può cogliere la trinità e unità divina (Par. XXXIII 97-126) come tre cerchi «di tre colori e d'una contenenza; // e l'un da l'altro come iri da iri / parea reflesso, e 'l terzo parea foco / che quinci e quindi igualmente si spiri» (vv. 135-120). L'immagine usata da Dante può essere detta, ma non realmente rappresentata, è un'immagine che porta verso la natura divina, ma deve poi essere abbandonata. Di speciale interesse è poi l'uso di una similitudine scientifica per indicare la generazione del Figlio dal Padre: «iri da iri» allude infatti al doppio arcobaleno, fenomeno spiegato dalla meteorologia aristotelica tramite il principio ottico della riflessione. La similitudine è però solo parzialmente appropriata e non può essere assunta per spiegare pienamente i rapporti fra le due Persone divine. Infatti per la meteorologia aristotelica uno dei due arcobaleni è più grande dell'altro, mentre per la teologia cristiana fra le persone della Trinità vige la perfetta eguaglianza.
9.4 La quadratura del cerchio
Il momento culminante è infine la visione dell'incarnazione e dell'umanità del Figlio (Par. XXXIII 127-145). Tutto il racconto della visione finale è intervallato da scacchi e cedimenti delle facoltà linguistiche e memoriali del poeta, ma ora è lo stesso personaggio contemplante a non poter comprendere razionalmente il come dell'incarnazione e dell'umanità di Dio. Tale scacco è dichiarato nei termini del fallimento della geometria, della scienza umana, di fronte a un tale insolubile mistero: «Qual è 'l geomètra che tutto s'affige / per misurar lo cerchio, e non ritrova, / pensando, quel principio ond'elli indige, // tal era io a quella vista nova: / veder voleva come si convenne / l'imago al cerchio e come vi s'indova; // ma non eran da ciò le proprie penne».
L'allusione è al problema della quadratura del cerchio, cioè all'impossibilità di trovare un quadrato che abbia la stessa superficie di un cerchio dato. Dante riformula un motivo diffuso nell'innografia medievale, dove si chiamavano in causa problemi insolubili nelle singole scienze per indicare analogamente l'impossibilità di comprendere in modo razionale il mistero dell'incarnazione. Dante è deciso e audace nel mobilitare tutte le risorse delle scienze e della ragione per la comprensione del reale, anche delle realtà oltremondane e della ntura divina. Ma altrettanto deciso è nell'indicare i limiti della razionalità per penetrare i misteri divini.
Così, la comprensione del mistero supremo dell'incarnazione è conclusivamente garantita al contemplante non dallo sforzo intellettuale, ma da un fulgore di grazia che provenendo dall'esterno colpisce e illumina infine la mente di Dante portandola al soddisfacimento del suo desiderio conoscitivo: «ma non eran da ciò le proprie penne: / se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne».
Il culmine dell'esperienza straordinaria di Dante nel suo viaggio oltremondano è dunque il dono di una conoscenza intuitiva e non razionale, propria dell'esperienza mistica, non della scienza. Ma subito quella stessa forza divina che ha concesso tale esperienza, «l'amore che move il sole e l'altre stelle», volge le facoltà affettive di Dante, il desiderio e la volontà, verso il compimento della missione che gli è stata assegnata, la scrittura del poema che raccolta agli uomini questa straordinaria esperienza.