Il "padre" Dante
La grande letteratura italiana ha inizio con Dante: come colsero già benissimo poeti, artisti, filosofi romantici italiani ed europei (specialmente inglesi), Dante si può dire che rappresenti una sorta di "ponte" tra età antica ed età moderna. Ma soprattutto la letteratura in volgare in Italia ebbe con lui il suo autentico inizio: indicare quindi in Dante, come fecero gli uomini del nostro Risorgimento, un vero e proprio "padre della patria" ha forse qualcosa di retorico ed eccessivo, ma non è poi così lontano dalla realtà delle cose.
La letteratura come identità culturale del nostro vissuto
La storia culturale del nostro paese, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue varie articolazioni geografiche e localistiche, è innanzitutto storia letteraria: la letteratura è il luogo in cui confluiscono le esperienze più importanti di molte discipline e di molti saperi, in una misura che non è paragonabile a quella di nessun altro paese. Pensatori di primo piano come Machiavelli, Galilei, Vico, Benedetto Croce, Gramsci, ad esempio, non a caso sono anche classici della nostra letteratura: l'esperienza letteraria è, in un certo senso, il punto fondante dei vari saperi, il futuro di ogni apprendistato culturale e, non a caso, ha rivestito e riveste, da sempre, nella scuola un ruolo centrale. Studiamo "italiano" e "letteratura italiana" non solo perché ci corre l'obbligo di approfondire le radici della nostra lingua madre ma in particolare perché, attraverso questo studio, possiamo ripercorrere le tappe dell'intera identità culturale del nostro vissuto. Come si può ben comprendere, quindi, si tratta di uno studio tutt'altro che erudito o astratto: bensì di un modo per penetrare dentro le ragioni e i percorsi che hanno edificato il nostro stesso presente e la nostra identità. Il viaggio attraverso i classici è affascinante proprio per questo, fra l'altro: perché, anche dopo tanti secoli, essi ci parlano, e noi li consultiamo su questioni fondamentali che sono al centro della nostra stessa vita: l'amore, la morte, il senso profondo di ciò che facciamo, il desiderio di volare con la fantasia oltre il reale e il possibile, l'anelito a raggiungere vette altissime di speculazione senza rinnegare il nostro corpo e la nostra "fisicità". Tutto ciò era già pienamente presente nel grande poema dantesco: in Dante la letteratura italiana inizia immediatamente con questa ambizione conoscitiva ed esplorativa a vastissimo raggio e Dante segna perciò in modo indelebile le caratteristiche della nostra tradizione letteraria e della sua centralità rispetto ad ogni altro sapere.
Ragionare sulla "lunga durata"
Si apre con Dante una stagione di lunga durata che possiamo condurre fino a Foscolo, altro spartiacque primario rispetto alla nostra letteratura e al suo specifico: con Foscolo, con la sua opera di frontiera e di confine, con l'avvio della stagione romantica ha inizio nella letteratura italiana la vera e propria età moderna, di cui è difficile individuare gli ultimi esiti. Ovvero, siamo noi davvero e solo dei "postmoderni"? Siamo, all'alba del Terzo Millennio, con la lezione, ad esempio, di Italo Calvino o di Umberto Eco, oltre la modernità e già avviati in direzioni del tutto nuove o "altre" rispetto allo stesso Novecento? Ma sono problemi che ovviamente vanno affrontati in altra sede. Qui abbiamo voluto solo proporre una periodizzazione di lungo respiro che non esclude affatto la necessità di periodizzazioni più particolari e "tradizionali": in altre parole, dire che alcuni grandi fenomeni culturali e letterari (anche rispetto al mondo classico) accomunano l'età che va da Dante a Foscolo, e altri fenomeni quella che da Foscolo giunge alle mobili frontiere novecentesche non vuol dire negare le peculiarità e il valore di più limitati ambiti cronologici, ormai ben consolidati nel sapere comune, Medioevo, Umanesimo, Rinascimento, Barocco, Illuminismo, Romanticismo, Decadentismo, Avanguardia, ecc. Vuol dire piuttosto abituarsi a ragionare, come da tempo fanno gli storici, su durate molto lunghe, su permanenze importanti, fondamentali anche in letteratura, come del resto ebbero a mostrare, pur nella loro diversità di impostazione metodica, grandi critici come Erich Auerbach o Ernst Robert Curtius: ragionare in questi termini ci aiuterà anche a capire le radici "europee" delle nostre stesse tradizioni.
Una complessa definizione di Medioevo
Il concetto di Europa infatti non è astratto se sappiamo ripercorrere le nostre più significative tradizioni letterarie, il pulsante e dialogante patrimonio che per secoli ha visto intrecciare le voci di italiani ed europei attraverso la produzione e la circolazione di tanti testi, di tante fucine intellettuali. Come diceva il grande poeta romantico inglese Shelley (1792-1822), la letteratura e la poesia uniscono ciò che altri saperi dividono: dalla nostra città alla nostra regione fino all'Italia e all'Europa troveremo, nelle differenze (così importanti, ad esempio, nella storia, anche linguistico-dialettale, italiana), molti fili e tracciati che ci uniscono. La letteratura, i suoi classici, i suoi grandi protagonisti – e in Italia con una forza del tutto particolare – sono la via maestra per riconoscerli e rifarli nostri. E per procedere in tale direzione è necessario partire dalla complessa e affascinante stagione medievale e dagli snodi problematici che di essa sono propri e che da quasi un secolo ormai studi fondamentali innanzitutto di storici, ma ovviamente anche di filologi romanzi, filosofi, letterati ci hanno squadernato con prospettive di ricerca fortemente innovative. Chiariamoci subito: il lungo tragitto storico che dalla fine dell'Impero romano giunge all'età umanistica e rinascimentale, al XV secolo, non è sintetizzabile in alcuna formula di comodo.
Arbitrarie schematizzazioni
E in realtà gli stessi picchetti cronologici che lo delimitano sono fortemente arbitrari e di uso pratico, così definiti come li definirono, nella prima metà del XV secolo, umanisti del calibro di Leonardo Bruni o Poggio Bracciolini in entusiastica scoperta filologica e storica di alcuni elementi fondativi della cultura classica latina e greca. Ma già, ad esempio, nello stesso periodo, un grande storico, antiquario, umanista come Flavio Biondo (1302-1463), nel ricostruire, nelle sue Decadi, proprio il lungo arco di secoli che aveva fatto seguito alla fine dell'Impero romano poneva sul tappeto distinzioni più sfumate e arricchiva di colori tutt'altro che uniformi la tavolozza culturale e storica dell'età di mezzo. E, sempre a stare al XV secolo, elementi altri rispetto alla tradizione classica e pur decisivi nella costituzione dell'impasto complicatissimo del "puzzle" medievale, come l'ebraismo o i fondamenti della cultura islamica, erano oggetto di attenzione non convenzionale da parte di intellettuali del calibro di un Galeotto Marzio (1427-1490) o di un Pico della Mirandola (1463-1494). E così se da un lato Roma antica non svanisce d'un colpo ma decade nel corso di un periodo molto lungo, iniziato nel cuore stesso della sua storia – memorabili in merito le osservazioni di un maestro dell'antichistica come Santo Mazzarino (1916-1987) –, impregnando di sé con nodi indissolubili le pratiche consuetudinarie dei barbari invasori almeno fino alla grande "rottura" della conquista longobarda (questo vero spartiacque fu appunto già ben colto proprio dal Biondo); dall'altro lato l'onda lunga di pratiche religiose, istituzionali, sociali, culturali medievali va tracimando ben oltre il canonico Quattrocento umanista fin nel cuore della modernità: basti pensare all'apprendistato sul diritto romano o su quello canonico, all'eredità religiosa e teologica di tanti ordini monastici e al ruolo della Chiesa e dell'Impero di matrice carolingia, alla pratica ermeneutica fondata sul commento con le glosse, alle strutture feudali di organizzazione sociale ed economica del territorio, ai modelli cavallereschi, a molteplici forme di elaborazione dell'immaginario e dei labili confini tra realtà e finzione, tra mondo reale e mondo spirituale o visionario, alla codificazione di alcuni generi letterari di grande impatto sociale come il poema, il canzoniere lirico (ulteriormente e definitivamente rielaborato e riproposto in chiave esistenziale nuova poi da Petrarca) o la novella.
L' Umanesimo e le forme della transizione
Se parlare di Medioevo vuol perciò dire collocarsi tra questi picchetti mobili, ciò non significa certo annullare le distinzioni nel mutarsi delle epoche ma semmai addentrarsi meglio nelle "faglie" di transizione, nei punti a più alta densità di convivenza tra permanere di antiche culture e affermarsi di forti esigenze di rinnovamento (il rinascere appunto petrarchesco e quattrocentesco a partire da una acquisizione nuova del patrimonio antico-classico del sapere): emblematica in tal senso l'epoca, in Italia, che va dal Duecento e da Dante alla prima età dell'Umanesimo, l'età del Petrarca, dei Salutati e dei Bruni, dei Biondo, dei Valla e degli Alberti, l'età in cui rinasce ad esempio in Occidente, a partire dall'Italia, la conoscenza diretta del patrimonio greco classico, dopo secoli di oblio, e contestualmente però permangono vivaci le letture arabe-medievali dei classici della filosofia greca (si pensi infatti alla lunga durata dell'aristotelismo averroista ancora in pieno Cinquecento ad esempio con Pomponazzi (1462-1525), Machiavelli, Vettori (1499-1585), Nifo (1473 ca-1538/1546) e tanti maestri delle Università di Bologna, Padova, Napoli e di altre ancora). È un'epoca in definitiva che si configura come una chiave di volta per comprendere le forme della transizione, l'intreccio delle culture vecchie e recenti e le peculiarità del nuovo, specie in ambito letterario.
Un'"ermeneutica infinita" E perciò ci si consenta ancora qualche osservazione che riteniamo doveroso rimettere al centro del dibattito critico: innanzitutto occorre con forza richiamare l'attenzione sulla gigantesca mole di elaborazione ermeneutica che, nel Medioevo, attraversa tutte le religioni e va tracimando ovunque tra Mediterraneo e Nord Europa come modello nella stessa pratica di lettura ed interpretazione dei testi in quanto tali, di fede o laici che fossero. Dalle comunità ebraiche in esercizio sulla Torah e alle prese con l'esteso mare della tradizione talmudica e cabbalistica all'esegesi continua sul Corano delle grandi correnti politiche e teologiche dell'Islamismo e ovviamente al cimento cristiano, patristico occidentale (e agli inizi ancora in clima di piena "romanità" con Girolamo, Ambrogio, Agostino, Benedetto e così via) e bizantino, ma poi continuo nei secoli, su Vecchio e Nuovo Testamento è una intera civiltà di dotti, religiosi, fedeli più o meno colti che per secoli e secoli impernia i paradigmi del sapere sulla lettura, sul "commento" e sull'esegesi di testi scritti, ovvero i libri fondativi delle proprie religioni. Per di più, e molto maggiormente di quanto si suole pensare, in una continua reciproca osmosi, molto oltre le guerre e le persecuzioni che periodicamente sembravano ergere steccati impenetrabili tra popoli e comunità di diverse estrazioni religiose. E si aggiungano poi, all'interno stesso del cristianesimo come dell'Islamismo e dell'Ebraismo, le profonde divisioni, le violente scissioni o le tendenze scismatiche (o "eresie" com'era uso dire in ambito cristiano) rispetto alle posizioni di volta in volta dogmatiche ed egemoni, il tutto alimentato da un confronto duro e continuo intorno all'interpretazione, che si riteneva più corretta e vicina alla Verità, dei Testi fondativi delle reciproche fedi. Studiare letteratura del Medioevo (ma anche storia dell'arte ovviamente o filosofia), perciò, vuole innanzitutto dire la necessità di fare i conti con questa "ermeneutica infinita" che imprime i suoi statuti alla pratica del leggere, dello scrivere, del commentare ovvero della letteratura al suo cuore. Vuol dire di conseguenza cimentarsi con un abito connaturato di allegoresi dei testi, di loro fruizione a più livelli, dal letterale all'allegorico appunto, che è statuto decisivo delle consuetudini sapienziali medievali così distanti dalle nostre in tal caso. Ma non solo ovviamente in letteratura se questo abito fondativo forgia dei suoi caratteri, ad esempio, il modo con cui in Occidente, da Bologna in primis, ci si riavvicina al corpo del diritto romano per commentarlo con "glosse" ermeneutiche; o se, presso la cultura islamica, diviene strumento essenziale, più o meno nello stesso periodo, per leggere e commentare con Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198) i grandi del pensiero filosofico greco, Platone e Aristotele, in una operazione di mediazione culturale del sapere greco in chiave "mediterranea" nuova che segnerà profondamente lo sviluppo della filosofia, della letteratura non meno che della scienza tra Medioevo ed età moderna. O ancora: si pensi al minuzioso e capillare lavorio filologico sui testi che caratterizza la cultura bizantina sempre a partire dalla grande stagione ermeneutica di cui prima si diceva.
La riappropriazione dei classici
Nella cultura cristiana medievale-occidentale tutto ciò ha una ricaduta decisiva sulle modalità di riappropriazione dei classici latini e di quei classici greci conosciuti essenzialmente solo grazie alle traduzioni e ai commenti arabi (la conoscenza del greco in Occidente, come dicevamo poco sopra, si era dispersa, ed è ben noto, nell'epoca medievale e rinascerà in Italia grazie ai dotti bizantini esuli nel primo Umanesimo dopo la caduta per mano turca di Costantinopoli), modalità che seguono il modello esegetico, allegorico e sapienziale collaudato già sui testi sacri: Virgilio (70 a.C.-19 a.C.), Orazio (65 a.C.-8 a.C.), Ovidio (43 a.C.-17), Seneca (4 a.C.-65), Lucano (39-65), Cicerone (106 a.C.-43 a.C.), Aristotele (384/383 a.C.-322 a.C.) entrano a forza nel cursus dell'intellettuale cristiano mediati da procedure esegetiche consolidate e da letture allegoriche atte a "sminare" l'oggettiva conflittualità che poteva aprirsi tra i capisaldi della cultura pagana e generazioni addestrate alla centralità del messaggio cristiano e della figura "scandalosa", e apparentemente inconciliabile con la cultura classica, del Gesù risorto – rilanciata in tale centralità da San Francesco (1182-1226) in piena età comunale –. Il Cristo uomo e Dio, sofferente tra gli uomini e morto e poi risorto è exemplum decisivo per l'immaginario medievale e lo sforzo di conciliazione di tale fede con il lascito classico resta una delle imprese più straordinarie e originali della cultura medievale realizzata soprattutto sul terreno dell'arte e della letteratura. Il Medioevo fu anche tutto ciò e lo studioso di letteratura o di storia dell'arte non può non accentuarne il peso decisivo per i suoi studi.
La formazione del letterato
Ed è attraverso simili procedure ermeneutiche che si costituisce il terreno di formazione dei maggiori poeti, scrittori, artisti e letterati tra XII e XV secolo, l'età appunto di cui si diceva: siamo di fronte infatti ad un esplosivo intreccio tra apprendistati giuridici, teologici, scientifici, retorico-stilistici, allegorizzanti che non è in alcun modo possibile confinare in astratti canoni e partizioni, come spesso si continua a fare, di pura "letterarietà". All'altro polo, certo, dei protocolli letterari medievali vi è l'immenso campo dell'immaginario su cui da tanto tanti storici come Le Goff soprattutto hanno puntato l'attenzione. La questione è fondamentale: per un verso essa rimanda a quella sfera del divino e dell'"invisibile" che è connaturata all'ermeneutica dei testi sacri di cui si parlava. Ma vi è altro ovviamente. Vi è il nesso con l'oralità e l'ancestralità delle antiche culture e credenze popolari e pagane. Vi è una "alterità" precopernicana, spesso irriducibile ai nostri canoni, nella concezione del Mondo, del Cosmo, del Cielo, della Natura, cui si accede come a un grande libro da sviscerare in modo allegorico: in essi albergano foreste intricate di simboli e immagini, presenze visibili e invisibili ma sempre concepite come reali, storie complesse e molteplici ricche comunque di "senso" da decifrare, con una "pienezza" che noi, educati alla percezione dei "vuoti", dell'assenza e dell'infinito propri del sublime romantico, facciamo fatica a comprendere e rivivere. Il "silenzio" stesso dei monaci e degli eremiti è un silenzio operoso e partecipe della ricchezza e della pienezza appunto del mondo e di Dio; non è il silenzio angosciato di fronte al vuoto e al nulla, che sfocia fino all'urlo di Munch (1863-1944), dell'età moderna. Vi è la scoperta dell'infinita galleria del mondo animale (reale e fantastico in continuità seriale) ovvero dell'altra faccia della "creaturalità" in cui l'uomo è calato, emblema di contiguità e differenza, domesticità e ferocia: di qui le letture allegoriche e le complesse simbologie legate al mondo animale tali da dar vita a vari e fortunatissimi generi letterari, dal favolistico al sapienziale al narrativo sia epico che novellistico (con il grande protagonista Renart/Volpe). Vi è l'ansiosa esplorazione di tutte le possibili vie di un "infinito narrare" (quell'attitudine umana al pensiero narrativo esplorata da Jerome Bruner), attraverso i generi più disparati (e molto la geniale intuizione di Jolles sulle "forme semplici" ci aiuta a discernerne le dinamiche e le possibili origini) secondo una polarità che va dal massimo di fantastico al massimo di verosimile fino a sconfinare nel terreno storiografico e cronachistico: senza cesure interne ma con un continuum che mescola forme, trame e personaggi (e ce lo ricordava nei suoi studi, importanti per tutto quello che qui andiamo dicendo, Hans Robert Jauss). Emblematica, in tal senso, la vasta letteratura medievale su Alessandro: al tempo stesso personalità storica, precorritore e figura quasi del romano e bizantino Impero d'Oriente, exemplum ora positivo ora negativo per intenti paideutici, ora protagonista di mirabolanti avventure tra cielo, terra, mare del tutto aperte alle suggestioni del piacere della narrazione fantastica come dimensione indispensabile e coessenziale alla stessa facoltà scientifica e raziocinante.
La novella e la tradizione comica
Quanto in Dante e in Boccaccio si trova di questa radicata humus medievale filosoficamente attenta alla potenza immaginativa della fantasia come indispensabile strumento conoscitivo del nostro intelletto! È la dote in definitiva che consente proprio a Dante lo sforzo supremo di riferire e narrare ai lettori la sua esperienza della visio divina e celeste in Paradiso. Eppure è proprio a partire da questa peculiarità della narrativa medievale che possiamo riconoscere, ai suoi albori, la grande questione epistemica, cara al dibattito di tutta l'estetica moderna, del rapporto tra realtà e finzione, tra immaginazione e verità, tra fantasia ed esigenza morale del "verosimile" con funzione di formazione e non solo di intrattenimento. Forse è a queste radici, a questo duplice statuto, e non a improbabili allusioni a una storia mai ben certificata di letteratura popolare, che va ricondotto uno dei prodotti più originali della nostra civiltà letteraria ovvero la novella, dal Novellino al Boccaccio e fino ai ricchissimi esiti rinascimentali (uno su tutti: Bandello. Che è poi la grande, vera linea "europea" della nostra tradizione comica, realistica e carnevalesca oltre che narrativa: non sono i pur simpatici Cecco Angiolieri o Rustico Filippi o Folgòre di S. Gimignano (sui quali in anni passati si costruì quasi una ideologia di entusiasmo populistico imperniata intorno al mito della cosiddetta letteratura comico-realistica) a farci transitare dal Medioevo verso il moderno dipanarsi del comico e del realistico, del ferino e del picaresco ma la grandissima "invenzione" del Boccaccio col Decamerone (paragonabile solo, per importanza, al poema dantesco) poi mediata da un vivacissimo e decisivo rovello umanistico di Alberti, del Panormita, del Piccolomini, del Burchiello, del Pulci e di un Pontano in cimento filologico su Plauto (255/250 a.C.-184 a.C.) ma anche sulle forme del sermo d'intrattenimento e della facetudo). Ancora una volta si è costretti a "legare" un aspetto del tardo medioevo ad esperienze della raffinata civiltà umanistica quasi ad avvalorare la convinzione, che avevamo prima esposta, di come sia indispensabile esplorare ed interrogare, come decisiva, quella "faglia" di sovrapposizioni scrittorie ed ermeneutiche collocabile in Italia tra XII e XV secolo e di cui si vanno qui in parte definendo i molteplici tracciati. Il discorso può essere poi esteso alla letteratura di viaggio (anche nell'aldilà), collocata anch'essa fra due poli estremi di istanze narrative, tra l'estro del mirabolante e la verosimiglianza puntuale del resoconto realistico, così cara ai cristiani (Marco Polo!) come a musulmani ed ebrei e peculiare di tutte le culture mediterranee fin dall'archetipo dell'Odissea e di Ulisse (così magistralmente ritrascritto dal "medievale" Dante!).
Romanità, urbanità, ruoli sociali
Per giungere infine alla fondamentale scrittura e pratica storiografica che attinge radici inequivoche nel possente lavoro di scavo sulla storia romana compiuto dai giuristi glossatori alla ricerca di nuove identità per i nuovi Comuni. Anche su ciò occorre intendersi: se il Medioevo è a lungo la civiltà dei castelli, dei monasteri, delle foreste e delle campagne, è nel Medioevo, dall'anno Mille o giù di lì, che la dimensione delle città, dell'urbanitas poi così cara agli umanisti, si afferma in forme inedite (anche sul piano urbanistico-architettonico) rispetto alle stesse fisionomie urbane antiche ed è infatti essenzialmente urbana la caratura dei fenomeni culturali e letterari che fin qui abbiamo descritto, urbana e spesso connotata da una laicità prorompente che stacca alcuni resistentissimi cordoni ombelicali che legavano importanti aspetti della vita civile e istituzionale delle città esclusivamente ai paradigmi formativi della prassi religiosa e monastica – gli affreschi a Siena del Buon Governo della città di Ambrogio Lorenzetti (1290 ca-1348) sono esemplari per quanto qui argomentiamo –. Ciò che ovviamente non toglie nulla all'importanza del permanente influsso di quell'ininterrotto e inossidabile "abito ermeneutico" proprio di tutte le culture religiose medievali, di cui dicevamo quasi in apertura, e che continuerà a convivere per secoli intrecciato ai valori laici emergenti dalle società comunali; il che è poi connotato primario e costante dell'identità del Medioevo in quanto tale. Che non è mai solo religioso, solo laico, solo mercantile, solo monastico, solo cavalleresco ma è insieme tutte queste cose e tante altre ancora che proprio arte e letteratura ci testimoniano con straordinaria evidenza. Ma appunto il quadro non sarebbe almeno in parte esaustivo se non richiamassimo l'affermarsi nella civiltà medievale di complicate dinamiche antropologiche di grandissimo interesse proprio per chi si occupa di letteratura: in una società classica e poi medievale adusa al primato dei bellatores (celebrati dalla grande poesia epica di tutti i tempi), dell'aristocrazia del sangue, al primato del vir condottiero, politico, mercante, vescovo, ecco affacciarsi in Europa (e già col ciclo arturiano in parte e ovviamente soprattutto con la grande stagione provenzale) e poi in Italia (alla Corte di Federico II) modelli di costume amoroso e di sua trascrizione poetica che sembrano dettare nuove istanze e nuovi protocolli per il ruolo stesso assegnato alla donna e al suo poeta-sapiente, e fino al culmine davvero rivoluzionario e sul piano letterario e su quello antropologico e su quello religioso-salvifico dello Stilnovo. Lo snodo, ancora una volta, è per la letteratura italiana sempre quello, è l'epoca del Duecento e di Dante, di Petrarca, di Boccaccio e del primo umanesimo. Aveva allora davvero ragione Zumthor: di quell'epoca così lontana e talora troppo complicata da decifrare compiutamente con gli strumenti a nostra disposizione e che pure oggi così tanto solletica il nostro immaginario anche popolare, di quel Medioevo che ci ha segnati nel profondo possiamo avere forse solo una idea frammentaria, parziale, connotata di testimonianze non sistematiche che però vanno come ricollocate in scansioni cronologiche e geografiche da ripensare con curiosità nuova, specie se vogliamo addentrarci in alcune fondamentali stagioni della nostra civiltà letteraria.
In principio era il latino
In principio era il latino: da questo dato non si può prescindere dovendo affrontare la letteratura in Italia e in Europa, prima di Dante. Non solo il latino era stato la lingua del grande Impero romano e quella in cui tanti capolavori della cultura classica erano stati scritti ma, pur tra molte trasformazioni, aveva continuato, per tutto il Medioevo, ad essere il principale strumento di comunicazione nell'Europa dei dotti, delle corti, dei centri conventuali e religiosi, delle università. La produzione del sapere filosofico, letterario, teologico, scientifico, giuridico, la stessa liturgia della Chiesa con i suoi testi erano in latino: un latino ormai particolare, diverso da quello classico, specie nel lessico e in alcune clausole sintattiche, ma pur sempre latino (il cosiddetto latino medievale). Dalle costole del latino, in particolare dal latino parlato, dalla lingua d'uso già operante presso la Roma antica, precocemente si affermarono in tutta la Romània medievale (cioè nei territori che avevano visto estendersi l'Impero di Roma) parlate locali, volgari appunto (che traevano radici dalla lingua del vulgus, del popolo, non dalla lingua scritta dei dotti), denominate lingue romanze in quanto derivate dal ceppo romano-latino a tutte comune: così in Francia, in Spagna, in Italia, in isole come la Sardegna e la Sicilia, nell'attuale Romania, lungo il Medioevo, prima a livello parlato, poi, con scansioni diverse a seconda dei vari siti, e comunque già a partire dall'anno Mille, anche a livello di piena dignità letteraria, emergono definitivamente lingue e dialetti che stanno alla base delle lingue moderne di questi paesi.
La tensione universalistica
Ma è evidente che la radice unitaria di questa molteplice tavolozza di parlate, gerghi, lingue è riconducibile alla lingua latina e alla cultura classica: l'Europa e l'Italia nascono profondamente legate (e lo saranno per sempre) a quella fondamentale stagione, di cui il latino fu uno dei simboli più rilevanti e significativi. Per altro, nel profondo del tessuto medievale, come ben sottolineò a suo tempo Giovanni Tabacco, opera, accanto alla "parcellizzazione" feudale, un'opposta tensione universalistica imperniata intorno all'Impero e al Papato nel loro complesso evolversi in tanti secoli di storia e che non restò senza conseguenze sui dispositivi culturali e letterari in uso (si pensi all'utopia universalistica e imperiale così ancora viva in Dante) a partire dalla funzione stessa del latino in intreccio con le lingue nuove emergenti. Ivi compresa la imponente questione dei rapporti con l'Impero d'Oriente – a lungo e almeno fino a Carlo Magno (742-814) l'unico titolare riconosciuto dell'eredità imperiale romana anche in Occidente – e quindi con la vasta galassia della cultura bizantina: stagione che si era di fatto aperta fin dall'abile politica di Costantino (274-337) e dalle connesse istanze ideologiche e culturali promosse dal grande Eusebio di Cesarea (265-340) e in seguito rafforzata con il poderoso "assestamento" giuridico, ideologico e istituzionale voluto da Giustiniano (482-565). Cultura bizantina che aveva ben radicati capisaldi proprio in Italia, lungo la dorsale adriatica e fin dalla stagione ravennate. È a Ravenna infatti che si definisce in Italia e in Occidente un crogiuolo di saperi e rapporti tra culture germaniche, lasciti romani-latini e profonde influenze bizantine – Teodorico (454-526) con la sua Corte ne impersonano quasi la sintesi – che avranno lungo corso fino agli esordi dell'Umanesimo con inaspettati esiti sul piano persino del diffondersi e della promozione del volgare – si pensi alle recenti, importanti acquisizioni filologiche intorno a testimonianze ravennati – la cosiddetta Carta ravennate – di produzioni poetiche profane in volgare del primissimo XIII secolo se non della fine del XII e perciò molto precoci rispetto alla stessa Scuola siciliana o si pensi ovviamente agli ultimi anni di vita a Ravenna di Dante con le connesse politiche culturali di Guido Novello da Polenta (1275 ca-1333) –. Lo snodo occidentale-bizantino con la sua capitale Ravenna andrebbero perciò ricollocati più adeguatamente nella geografia della nostra cultura letteraria. Nella quale, per tornare al nostro discorso, il latino continua comunque per secoli a svolgere una funzione essenziale.
La Chiesa e l'antico
La Chiesa stessa, del resto, molto cauta nell'uso ufficiale delle parlate volgari, assunse precocemente il latino come propria lingua per il suo valore universale: sicché la tradizione giudaico-cristiana, che pure si era forgiata nel contesto medio-orientale e poi affinata nel confronto con la tradizione greca, in Occidente modulò rapidamente i suoi testi, i suoi codici di comunicazione (dalla liturgia alle prediche, alle preghiere) attraverso il latino; fondamentale la traduzione in latino della Bibbia operata da san Gerolamo (342-420), la cosiddetta Vulgata, che consentì per secoli l'accesso ai testi sacri da parte dell'Occidente cristiano. Ma fondamentale anche il ruolo giocato da un altro grande padre della Chiesa e grande scrittore latino, sant'Agostino (354-430), che, nelle opere e nella vita, pose come centrale il problema del rapporto tra emergente cultura cristiana, fede cristiana, e mondo classico pagano, mondo di valori "altri" rispetto a quelli evangelici: sant'Agostino mise del tutto in luce il conflitto che inevitabilmente si apriva tra queste due concezioni del mondo. La storia della cultura e della letteratura medievale è perciò, spesso, proprio storia di questo snodo conflittuale, di questo rapporto, per un verso, di amore per la cultura classica e la sua lingua (ma l'Occidente cristiano, come si ricordava nel paragrafo precedente, perderà presto conoscenza del greco, che tornerà ad essere studiato e praticato solo dal XV secolo), per l'altro di opposizione, di confronto, di richiamo a una identità giudaico-cristiana con i suoi valori non riconducibili alla cultura classica. Da tale crogiuolo emersero spunti potenti per la letteratura medievale. Va infatti ricordato che al crollo della struttura statale romana i centri di raccolta e di produzione del sapere (scuole, biblioteche ecc.) si erano disseminati, frazionati, diradati e avevano quasi rischiato di soccombere.
I benedettini e la scrittura
I signori e gli Stati sorti dal crollo dell'Impero romano non erano ancora in grado di istituire adeguate strutture di studio e di educazione: sicché questa funzione e questi compiti vennero quasi esclusivamente assunti e fatti propri, almeno fino all'XI secolo, dalla Chiesa e dagli ordini religiosi. Le chiese vescovili, i monasteri, le abbazie erano centri di propaganda religiosa e di fede ma anche di studio; i testi antichi venivano raccolti e ritrascritti da monaci pazienti adibiti a questo compito; si arricchivano le biblioteche e si formavano, in molti casi, scuole vere e proprie in cui i giovani potevano avviarsi allo studio. Imponente fu, in questo senso, il ruolo dell'ordine benedettino, fondato da san Benedetto da Norcia (480-547), e che svolse, sia sul piano della diffusione capillare della pratica monastica come pratica di meditazione e al tempo stesso di operosità, sia sul piano della trascrizione e tramando, nei suoi scriptoria appunto, di un vasto patrimonio di testi, una funzione decisiva. Benedetto stesso del resto rappresentò un esempio memorabile di sintesi fra vocazioni cenobitiche cristiane e prodigiosa capacità organizzativa ereditata dalla sua educazione "romana" e dall'attenta osservazione dei modelli istituzionali dell'antica Roma (e ne dà piena testimonianza la sua originalissima Regola): fra l'altro, proprio il luogo del suo decisivo tirocinio, Subiaco, mostrava, ancora ai suoi tempi, accanto alle grotte di pastori ed eremiti, possenti i segni monumentali-imperiali di Roma con la grande capacità di intervento funzionale sul territorio che le era propria, dalla grandiosa residenza di Nerone e dalle imponenti opere idrauliche da lui volute lungo il corso dell'Aniene a finitime altre imponenti testimonianze dell'età traianea. Del resto proprio per questo, per comprendere l'insieme della cultura medievale italiana ed europea, resta imprescindibile fare riferimento alla vastissima diffusione dell'esperienza monastica in tutti i suoi aspetti, culturali, sociali, economici, teologici.
Boezio e Cassiodoro
La cultura, le arti, la letteratura medievali nascono perciò sotto questa profonda influenza impressa dal Cristianesimo organizzato, dalla Chiesa e dai suoi ordini monastici (si pensi, più avanti, al ruolo di francescani e domenicani), che occupano il vuoto lasciato dalla generale crisi delle istituzioni laiche, in fertile e contraddittorio cimento-confronto con la tradizione classica e con la sua imponente eredità letteraria e linguistica di matrice latina. Eredità che, al tramonto dell'Impero, già grandi personalità avevano contribuito a rilanciare verso il futuro: si pensi a Severino Boezio (480-574) e alla sua Consolazione della filosofia, viatico per intere generazioni di intellettuali e letterati medievali e umanisti, o a Aurelio Cassiodoro (490 ca-583) e alla sua preziosissima ricognizione enciclopedica del sapere antico.
La rinascita carolingia
L'avvento al potere tra fine VIII e inizi del IX secolo di Carlo Magno produsse effetti significativi sul piano culturale: l'idea imperiale che il grande sovrano realizzò era sicuramente ispirata dal desiderio di far rivivere anche in Occidente, e in cooperazione competitiva e proficua col Papato, il grande, antico modello romano. Di qui deriva l'impulso da lui dato agli studi classici e alla promozione culturale in genere: di nuovo una corte, dei signori, dei "laici" ridiventavano protagonisti in campo letterario, filosofico, artistico mantenendo una piena autonomia rispetto ai centri religiosi. Presso Aquisgrana, la capitale cara a Carlo Magno, sorse un vero e proprio gruppo culturale guidato dal grande monaco Alcuino (735-804), che richiamò le maggiori intelligenze del tempo. Fra queste ricordiamo Paolo Diacono (morto nel 799), autore di opuscoli religiosi, carmi poetici, ma soprattutto grande storico dell'epoca longobarda. Con lui altri personaggi di rilievo si riunivano intorno ad Alcuino: lo scienziato irlandese Dungal (IX sec.), il poeta spagnolo Teodulfo (750 ca-821 ca), lo storico francese Eginardo (775 ca-840). Presso la corte di Carlo Magno si riprese – come si diceva – con energia lo studio dei testi antichi, riscoperti, riletti e ricopiati. Infatti, prima della moderna scoperta della stampa, nel Medioevo, come già nell'antichità, i testi venivano ricopiati a mano da particolari esperti in quest'arte (gli amanuensi o copisti): perciò era possibile riprodurne un numero limitato di copie, che comportavano costi elevati e una circolazione ristretta. Il "libro" era insomma un bene prezioso, presente, come abbiamo visto, solo nelle biblioteche delle chiese, dei conventi, di qualche ricco signore o mercante. Inoltre va aggiunto che il numero di persone in grado di leggere e scrivere era bassissimo, anche tra i ceti più elevati dei "laici": di qui la scarsa produzione libraria nell'alto Medioevo. Nonostante questi ostacoli oggettivi Carlo Magno e la sua corte protessero e agevolarono l'attività di studio e trascrizione di antichi testi (anche innovando e rendendo più chiara la grafia dei copisti con la cosiddetta scrittura "carolina" appunto): sicché ancora oggi possiamo leggere molte opere di importanti autori latini proprio perché in quei secoli i monasteri da un lato e la corte carolingia dall'altro le strapparono all'incuria dei tempi.
L'importanza dell'oralità
Ma ciò al tempo stesso ci rende una, seppur pallida, idea di cosa sia stata l'"oralità" nel mondo medievale e per altri secoli ancora: ovvero la scrittura, lo studio silenzioso, le competenze sofisticate di lettura ermeneutica erano conquiste impervie ed isole sparse in un mare di tramandi mnemonici, di formule narrate e ripetute oralmente, di letture ad alta voce per sé o per vari uditorii, di inni sacri o composizioni profane cantate e ricordate solo grazie alla melodia musicale o al ritmo. Oralità medievale perciò non significa solo cultura popolare, giullaresca o naif ma anzi veicolo talora quasi unico di trasmissione di saperi e testi di cultura religiosa e profana elevata in contesti socialmente alti eppure non sempre permeabili alle pratiche scrittorie e di alfabetizzazione dopo il crollo delle istituzioni scolastiche romane (dello stesso Carlo Magno, del resto, grande sovrano anche sul piano culturale, non conosciamo con esattezza di quali effettive competenze scrittorie fosse dotato ma sappiamo con certezza che fu certo forgiato in molti casi dagli insegnamenti orali dei sapienti alla sua Corte): anche di questa dimensione medievale, per noi cosi singolare, di saperi e culture fortemente intrecciati tra scrittura, esegesi anche raffinata dei testi e pervasiva, dominante oralità occorre sempre tener conto per comprendere dinamiche e movimenti complessi e talora per noi inesplicabili della letteratura medievale. Va perciò sempre ricordato che parlando di diffusione e ricezione dei saperi anche classici parliamo, prima dell'invenzione della stampa, di fenomeni che pertengono alla scrittura come all'oralità.
Le universitates
La diffusione in ambiti un po' più vasti dell'antica cultura classica, il sorgere di corti ansiose di diventare centri di diffusione dei saperi, il rinascere a nuova vita di molte città e quindi di traffici, mercanzie, fiere, viaggi e scambi di idee, la stessa opera imperiale avviata da Carlo Magno favorirono, intorno all'anno Mille, un'intensa crescita di produzione letteraria, giuridica, filosofica. Principale segno di questo rinnovamento laico del sapere fu il rapido affermarsi delle università in alcune città europee (Bologna per prima, poi Parigi, Oxford e così via), fin dall'XI secolo. Erano i luoghi dove le universitates (comunità) di studenti, guidate da appositi maestri, potevano approfondire e perfezionare particolari branche del sapere, indispensabili alla vita civile del tempo: innanzitutto le leggi, fondate sullo studio del diritto romano che si andava riscoprendo dopo secoli di abbandono, conseguente soprattutto alle invasioni barbariche che avevano fatto prevalere prassi consuetudinarie proprie del costume germanico; le prime facoltà, infatti, furono quelle di giurisprudenza, atte a educare notai, politici, esperti di diritto, tutti laici pronti a fornire, nelle città, nei comuni, nelle corti, la loro preziosa opera di consulenza e servizio per la vita istituzionale e politica. Seguirono quasi contestualmente corsi di studio e facoltà di medicina, di filosofia, teologia, humanae litterae.
A scuola dai Romani
La riscoperta appunto del diritto romano e del corpus giustinianeo, l'esigenza di adattarne le norme al nuovo contesto, la pratica di studio e di tecniche conseguenti furono tappe essenziali nel costituirsi dell'Europa moderna fin dalle sue radici medievali: è ovvio che da quell'antica riflessione attinga il plurisecolare dibattito sulle leggi, le istituzioni e il loro ruolo, i diritti di regnanti e sudditi ovvero il centro nevralgico stesso del consolidarsi nel tempo di stati e assetti sociali. Ma tale riflessione non va certo conclusa nell'ambito, pur decisivo, della storia del diritto: a Bologna con Irnerio (1050 ca-1125 ca) e Accursio (1184-1263) e poi via via nelle principali università si definiscono, chiosando i testi del diritto romano, un costume filologico ed ermeneutico, uno studio antichistico e storiografico che peseranno in modo assolutamente determinante per lo svolgersi della cultura umanistica. I capisaldi sono la centralità dell'exemplum della Roma antica e l'intreccio fra la sua storia e la storia del consolidamento delle sue istituzioni. Tema che, come sappiamo, è ancora decisivo, ad esempio, per Machiavelli. La riflessione dei maestri giuristi medievali comporta così varie conseguenze rilevantissime: il costituirsi di una nuova e laica prospettiva storiografica; l'affinamento di una tecnica esegetico-filologica dei testi, attraverso l'esercizio del commento e della glossa, che confluirà per intero nella pratica commentaria degli stessi testi letterari durante la stagione tardomedievale (a Bologna basti pensare a un Giovanni del Virgilio [fine XIII sec.-1327 ca] a un Benvenuto da Imola [1338-1388]) e umanistica (e con punte non casualmente eccezionali a Bologna, patria di quegli studi, con maestri come Beroaldo, Codro, Giovan Battista Pio ma anche a Firenze, ad esempio, con la magistrale applicazione sia sulle Pandette sia sui testi letterari e filosofici greco-latini classici di un Poliziano); la riconosciuta necessità, così ben presente agli antichi romani, di accordare la pratica del giure ad un sofisticato percorso stilistico, retorico e letterario in grado di perfezionare la formazione complessiva del giurista come del nuovo ceto dirigente laico di Comuni e Signori (le celebri scuole di retorica dei cosiddetti dettatori, spesso ispirati a Cicerone [106 a.C.-43 a.C.], con ancora una volta un non casuale primato di Bologna con Guido Faba [1190 ca-1243 ca] e a Firenze con Brunetto Latini).
Lo Studio bolognese
Non è chi non veda quale rilevanza tali capisaldi della cultura giuridica universitaria medievale, certo uniti a nuove istanze epistemiche, rivestiranno nel definirsi della stagione umanistica. Forse è proprio studiando questo percorso (da sempre sottostimato nella storia della critica letteraria ma per fortuna terreno di interesse da tempo di raffinati filologi, storici e storici del pensiero e del diritto come, ad esempio, Paul Oskar Kristeller, Giuseppe Billanovich, Domenico Maffei, Walter Ullmann, Ronald Witt o Eugenio Garin) che si può cogliere appieno il crogiuolo fondativo, complesso e articolato, della stagione che sta tra Medioevo e Umanesimo, tra Dante e Salutati (1331-1406), forse decisiva per il costituirsi di intere filiere di pensiero rinascimentale. Fra l'altro, per stare alla lezione di Dionisotti, porre in rilievo primario questi nessi vuol dire mettere in discussione, come si diceva in esordio e come già si accennava a proposito di Ravenna, non solo pigre e ormai inadeguate cronologie ma anche schematiche e obsolete "geografie": è indubbio infatti che, nella storia letteraria e culturale tra Medioevo e modernità, occorra ridare, ad esempio, a Bologna quell'assoluta centralità che emerge ad ogni passo dei nostri studi e che la rende paragonabile a quella che sarà Firenze per il Rinascimento. Dal Medioevo in avanti da Bologna infatti passano i maggiori letterati, giuristi, artisti di tutta Europa e la sua identità di ineludibile "crocevia" resta un segno peculiare per secoli della città e cifra di un'intera stagione culturale italiana ed europea (come da tanto ci ricorda Ezio Raimondi). Bolognesi che vanno in Europa: giuristi, storici, umanisti letterati, artisti, specie pittori e soprattutto architetti-urbanisti, e basti ricordare Vignola (1507-1573), Serlio (1475-1554), Francesco Primaticcio (1504-1570), Aristotele Fioravanti (1415-1486 ca), Alessandro Pasqualini (1493-1559), o scienziati come Domenico Maria Novara (1454-1504) – fra i maestri di Copernico –, Aldrovandi (1522-1605), i molti adepti di Galileo e fino a Marsili e Galvani (1737-1798), e che talora si spingono anche molto oltre i confini canonici (fino in Russia, dal Rinascimento alla grande stagione settecentesca di artisti italiani a S.Pietroburgo, ad esempio); ed europei di ogni paese (il grande Dürer [1471-1528] è emblematico per la cifra peculiare del suo soggiorno) che si fermano a Bologna (fino ancora al pieno Ottocento e perciò come non pensare a Stendhal [1783-1842] inguaribile "bolognese"). Non sarà casuale allora, tornando al Medioevo e all'Umanesimo, l'apprendistato giuridico e scientifico a Bologna di Dante, Petrarca, Salutati, Alberti, Galeotto Marzio (1427-1490), Copernico (1473-1543) e tanti altri così come non sarà casuale che, proprio tra le carte dei notai bolognesi, compaiano, fra le prime, citazioni della Commedia o precoci testimonianze delle principali scuole liriche volgari italiane del Duecento.
Il caso di Guido Guinizzelli
Quell'intreccio tra conquiste epistemiche dei maestri di diritto e piena consapevolezza del ruolo delle humanae litterae di cui si diceva è davvero clamoroso a Bologna, specie se pensiamo a quanto, molto più di quel che di solito essi hanno voluto accreditare, abbia pesato l'apprendistato giuridico bolognese negli autori sopra richiamati: anche il Petrarca "politico" e "romanista", polemista ed entusiasta sostenitore di Cola (1313-1354) con piena cognizione di causa della storia di Roma e delle sue istituzioni è debitore verso quella formazione. Né sarà casuale che esplicitamente, e forse forzando persino un po' i termini reali della questione, Dante voglia aggiudicare al bolognese, poeta e probabilmente politico e giurista, Guinizzelli il ruolo di riferimento primo per la nascita della rivoluzionaria avanguardia toscana dello Stilnovo. Proprio perché quell'avanguardia poetica si configurava al tempo stesso come avamposto di un profondo rinnovamento antropologico e religioso non meno che politico e culturale, dal ruolo della donna, mediatrice unica per l'accesso al divino, all'impianto filosofico e razionalistico della propria formazione alla radicale messa in discussione del primato feudale del "sangue" rispetto a quello del sapere e della cortesia amorosa: per dirla alla Duby, i bellatores medievali, forse per la prima volta in modo così esplicito (e per un appuntamento di simile portata occorre attendere poi fino alle pagine dell'Arte della guerra di Machiavelli o al Cortegiano del Castiglione con le sua regole di "grazia" e di cursus letterario-umanistico), sono sotto scacco da parte di un manipolo di giovani intellettuali coraggiosi che pretendono di porre alle loro radici di poeti un nesso indissolubile tra ispirazione del cuore, vocazione ai saperi razionalistici di marca averroista e apprendistato politico e giuridico, ben sintetizzato nella tradizione culturale bolognese e in quello che a loro doveva apparire il suo esponente emblematico, il Guinizzelli appunto.
La teologia da Anselmo a Gioacchino da Fiore
Non più quindi solo i centri religiosi, monasteri e cattedrali, erano luogo di studio e di formazione: ma anche le università, le corti, le città costituivano i centri laici dello studio e della cultura superiori. La cultura filosofica e scientifica era ancora fortemente legata alla teologia e alle dispute interne alla Chiesa cristiana, ma incominciava il faticoso percorso verso una nuova concezione della ragione umana, intesa come fondamentale strumento di conoscenza del mondo e di ascesa verso Dio: si pensi ad Anselmo d'Aosta (1033-1109) e soprattutto ad Abelardo (1079-1142). Noto per il suo romantico e tragico amore per Eloisa, quest'ultimo è fra i fondatori di un metodo nuovo di sviluppo logico della ragione umana, dei suoi strumenti, dei fini etici che le sono propri. Così come più tardi lo sarà Giovanni di Salisbury (1110/1120-1180), uno dei maggiori pensatori del Medioevo. Prodromi di quella grande stagione, nel XIII secolo, di filosofi-teologi come Alberto Magno (1206-1280) o Tommaso d'Aquino (1225-1274), referenti essenziali nella formazione di Dante e nel caso di Tommaso, e dei suoi adepti, geniali mediatori tra istanze del nuovo razionalismo di ascendenza araba-averroista che si stava imponendo come egemone nei principali centri di studio, da Parigi all'Italia, e istanze cristiane: certo preponderante abito mistico viene contestato da Tommaso ed esaltata invece la funzione conoscitiva della ragione e dei saperi anche per il rafforzamento della fede e della morale cristiane e dei suoi dogmi teologici. Molti, intorno al Mille, furono gli uomini di fede che si proposero il rinnovamento della Chiesa, cui rivolgevano l'accusa di essersi allontanata dalla purezza evangelica: fra questi ricordiamo Pier Damiani,(1007-1072), grande tempra di polemista, fustigatore di costumi, teologo volto all'impegno militante ma anche profondo conoscitore delle scienze del tempo, precorritore di quei fermenti libertari ed evangelici che molto si propagheranno nel secolo successivo, specie ad opera dell'infiammata e polemica azione di Gioacchino da Fiore (1145-1202).
Sapere e monachesimo
L'apprendistato culturale e scolastico del giovane del tempo contemplava lo studio di sette materie (o arti: artes, com'erano allora definite), ovviamente in latino: grammatica, retorica (oggi diremmo: stile e letteratura), dialettica (l'arte logica del ragionare, il primo rudimento della filosofia), aritmetica, geometria, astronomia, musica. Una volta completato, in scuole per lo più religiose o di maestri privati, questo ciclo di studi, i più ricchi e volenterosi passavano agli studi universitari di giurisprudenza, medicina, filosofia o alla scienza ecclesiastica, la teologia, che, essendo studio di "cose divine", religiose, era considerata la scienza superiore per eccellenza. Dopo l'anno Mille è per lo più questo il percorso formativo che il giovane ha davanti a sé; come si vede siamo ben lontani dai tanti "specialismi" cui la scuola moderna ci ha abituato. L'importante appariva allora fornire al giovane, accanto alle nozioni essenziali dei principali rami del sapere, un "metodo" che poi gli giovasse in ogni settore in cui fosse destinato ad operare.
È evidente che in tali programmi il sapere religioso manteneva un ruolo essenziale, ma esso era sempre più affiancato da tutte quelle conoscenze atte a forgiare la ragione umana e ad ampliare la conoscenza del mondo; in particolare i rinati studi di filosofia (lo dicevamo poco prima) offrivano nuovi strumenti razionali mentre la ripresa degli studi giuridici apriva la strada a nuovi sviluppi della società. Il quadro che finora abbiamo delineato ha un valore generale, ma vi si distinguono tante realtà particolari differenziate. L'Italia ad esempio non aveva una fisionomia unitaria propria. Era divisa e lacerata come tanti altri paesi dopo la caduta dell'Impero romano, anzi più di altri paesi perché a causa del suo passato aveva dovuto subire devastazioni, invasioni e rapidi mutamenti di regimi. Nonostante ciò, proprio in Italia, mentre alcune città che avevano goduto di grande prestigio durante l'Impero romano (come Aquileia) andavano decadendo, altre (fra cui Ravenna, Pavia, Milano, Bologna) assurgevano nel Medioevo ad un ruolo importante, anche come centri culturali. Monasteri e centri religiosi di grande fama andavano diffondendosi lungo la Penisola, creando una vera e propria rete di "oasi" di studio, di raccoglimento, di iniziativa politica e culturale in mezzo a un Paese spesso travolto da incessanti lotte e da un generale arretramento delle condizioni economiche e sociali, almeno fino all'XI secolo: il secolo della "rinascita", quando fioriscono le abbazie benedettine di Montecassino, Bobbio (Piacenza), Nonantola (Modena), Novalesa (Torino), Pomposa (Ferrara). Questo ricco intreccio di città, centri di studio, monasteri, scuole laiche e religiose preparò un terreno che, a partire dal XIII secolo e dall'epoca delle civiltà comunali, porterà proprio in Italia ricchissimi frutti.
Pedagogia e agiografia
Come abbiamo visto, in questi secoli la lingua d'uso letterario rimase il latino: un latino oggi detto appunto "medievale", ricco ugualmente di originalità e vivacità, nonostante la sua diversità dal modello classico. Anche nei generi letterari qualcosa mutò: generi che erano stati cari alla cultura latina e greca andarono quasi scomparendo (commedia e tragedia, poesia bucolica), altri si trasformarono (opere di storia, trattati, poesia epica), altri ancora nacquero del tutto nuovi, in virtù soprattutto dell'influenza cristiana (inni sacri e laudi, quasi sempre composti per essere cantati, prediche, vite di santi). In prosa hanno un peso significativo le opere di cronaca storica o di biografie più o meno romanzate: vite di imperatori, di eroi anche antichi (appunto il caso di Alessandro), di papi, di santi oppure vicende di popoli e genti (la Storia dei Longobardi di Paolo Diacono). Nelle cronache medievali avvenimenti importanti sono spesso mescolati ad eventi quotidiani secondo un vivace impasto ben poco influenzato dai modelli classici. L'intento è innanzitutto educativo, volto a mostrare sia la grandezza e la nobiltà dei vari signori, popoli, santi, sia il disegno che la provvidenza divina ha voluto tracciare nelle cose umane mediante le loro azioni ed imprese. La grande prosa latina medievale è soprattutto lo strumento di tanti trattati filosofici e religiosi che caratterizzano il dibattito di quei secoli e che ricordavamo nei paragrafi precedenti. In poesia comincia ad affermarsi una poesia epica, in origine in latino e poi via via nelle varie lingue locali, che narra le gesta, più o meno leggendarie, di eroi dei vari popoli. Vastissima poi, lungo tutto il Medioevo, la produzione di inni sacri o laudi: spesso testi poetici bellissimi di profonda ispirazione religiosa destinati ad essere cantati nelle cerimonie sacre sia quotidiane che solenni.
La poesia goliardica, tra profanismo e dissacrazione
In campo laico, con l'affermarsi delle università e l'accrescersi, nelle città e nelle corti, di folle di studenti, prende vigore una poesia di tipo profano, dissacrante, spesso irridente e sensuale, ispirata ai modelli dell'antichità pagana e destinata anch'essa spesso al canto: un canto fortemente ritmato e irruente diverso dalla dolce e maestosa melodia dei canti liturgici e sacri. Sono i canti goliardici; goliardi si proclamavano gli studenti in quanto seguaci di Golia, il biblico diavolo protettore dei dissoluti buontemponi, e anche in quanto fortemente presi dai piaceri della "gola", del bere e del mangiare: la goliardia, come mentalità e forma stessa di vita di giovani e studenti nelle città universitarie, ha avuto una vita lunghissima, fino quasi ai nostri tempi; oltre ai temi giocosi e scherzosi si affermano anche temi amorosi, ora sensuali ora malinconici, che in certi casi sembrano quasi preludere alla grande poesia amorosa, provenzale e italiana, del XII e XIII secolo. Accanto agli studenti sono spesso protagonisti e attori di questo filone letterario i chierici vaganti, ovvero chierici che avevano abbandonato la vita religiosa, dotati di una certa cultura e vaganti di città in città e di corte in corte, nonché giullari, buffoni, giocolieri, comici di professione che popolavano le dimore dei più ricchi e potenti, pagati per allietarne le giornate (più avanti avrà un certo sviluppo anche una vera e propria poesia giullaresca). In questi ambienti di corte, nelle dimore dei ricchi o dei potenti, prende piede insomma una letteratura d'intrattenimento, un tipo di letteratura, cioè, volta per lo più ad intrattenere signori, ospiti, dame, ora con poesie cantate, ora con scherzose parodie, ora con lunghi racconti. La narrazione (lo dicevamo in precedenza) era particolarmente gradita: poteva riguardare sia gloriose vicende e leggende di eroi e guerrieri (la poesia epica) sia viaggi sia favole, brevi aneddoti, racconti di un fatto comico, singolare, esempi di comportamento, illustrazioni di proverbi (molti spunti nelle ricerche e negli studi di Cesare Segre). Queste sono di fatto fra le radici della novellistica, del racconto breve o novella, che avrà tanta importanza nella letteratura e nel gusto dei lettori delle epoche successive.