Galileo Galilei fu uno dei principali artefici di quel rinnovamento del sapere che gli storici della filosofia sono soliti definire rivoluzione scientifica: un periodo nel quale s'imposero nuovi paradigmi interpretativi della realtà e, nel contempo, furono messi in discussione e lasciati cadere quelli usati dalla scienza aristotelica tradizionale. La fondazione della scienza moderna ebbe luogo con il contributo di alcuni tra gli ingegni più acuti dell'Europa intera. Si situa tra il De rivolutionibus orbium celestium (Sulle rivoluzioni dei corpi celesti, 1543) dell'astronomo polacco Nicolò Copernico (Nikolaj Kopernik, 1473-1543) e i Philosophiae naturalis principia mathematica (I principi matematici di filosofia naturale, 1687) dell'inglese Isaac Newton (1642-1727). Laddove Copernico aveva usato il termine revolutio in accezione tecnica, per descrivere il moto di rivoluzione dei pianeti attorno al Sole, le sue scoperte e quelle posteriori alla sua opera sono a buon diritto definite una rivoluzione nella più comune accezione del termine: ossia un drastico e radicale sviluppo dei metodi di conoscenza. Più esattamente, a essere rivoluzionari furono sia il nuovo metodo messo a punto dagli scienziati europei, sia le scoperte ottenute grazie al metodo stesso.
Dal punto di vista del metodo i nuovi scienziati introdussero una concezione della natura come sistema autonomo e oggettivo, regolato da leggi traducibili in termini matematici. La figura dello scienziato moderno, nel contempo, si definì nei suoi nuovi compiti: fondare la comprensione delle leggi naturali sopra osservazioni svolte con strumenti tecnici (come il celebre cannocchiale); tradurre e interpretare tali osservazioni in termini geometrico-matematici; comunicare le scoperte a una comunità scientifica che, come lui, sente l'urgenza di penetrare le leggi della natura e di servirsene (come sempre più si chiarirà con l'avvento dell'Illuminismo) per il progresso dell'uomo. Dal punto di vista delle scoperte la fisica moderna diede risultati rivoluzionari in ambiti molteplici (meccanica, idraulica, termologia, idrostatica, ottica, acustica, etc.). Ma quelle più sconvolgenti, anche agli occhi dei non scienziati, furono le scoperte astronomiche, che a poco a poco costrinsero gli uomini ad abbandonare la concezione geocentrica del cosmo formalizzata da Aristotele e Claudio Tolomeo; e ad abbracciare una nuova visione eliostatica, nella quale la terra al pari degli altri pianeti ruota attorno al Sole, occupando un posto marginale dentro a spazi di estensione non determinabile.
È vero, sì, che nel sistema tolemaico, quello accolto dal cristianesimo come l'unico compatibile con le Scritture, la terra stava al centro del cosmo nel punto più lontano da Dio e conteneva al proprio interno l'Inferno. Ma si trattava pur sempre di un rassicurante sistema antropocentrico, che attribuiva ai cieli – composti di un quinto elemento, l'etere, più puro dei quattro presenti nel mondo sublunare – una consistenza incorruttibile. In una visione eliocentrica, invece, la terra perdeva la sua supposta centralità e i cieli si rivelavano corruttibili tanto quanto la terra. L'eliocentrismo, al quale Copernico era approdato per mezzo di congetture geometrico-matematiche, fu fatto proprio da Galileo, il quale, pur senza poterlo dimostrare in modo inconfutabile, lo rese di gran lunga più probabile del sistema geocentrico per mezzo di osservazioni compiute grazie al cannocchiale e e calcoli matematici. Si trattava del frutto più sconcertante della nuova scienza e non a caso fu in campo astronomico che il nuovo metodo fu più avversato dai custodi del sapere aristotelico, quello che per secoli e secoli era stato il più efficace paradigma interpretativo del reale e che, come si è detto, da sempre si era sposato alla visione biblico-cristiana del cosmo. È per questa ragione che la nuova scienza fu combattuta non solo dagli scienziati aristotelici, ma anche dalle istituzioni ecclesiastiche. In Germania Lutero stigmatizzò immediatamente l'eliocentrismo. In Italia, dopo una fase iniziale di cauta e curiosa apertura nei confronti delle scoperte di Galileo (soprattutto per merito degli scienziati gesuiti), la Chiesa cattolica si chiuse a poco a poco su se stessa, costringendo da ultimo lo scienziato, dopo un primo ammonimento (1616), all'abiura e agli arresti domiciliari (1633). Rinvigorita nella sua autorità spirituale dopo il disciplinamento seguito al Concilio di Trento, la Chiesa, infatti, temeva di veder messa in discussione l'autorità delle Sacre Scritture, dove si legge espressamente che è il sole a muoversi e non la terra (si ricordi, in particolare, l'episodio veterotestamentario di Giosué, al quale Jahvè concede di fermare il sole, in modo da poter completare la strage dei nemici del popolo ebraico prima del tramonto, Gs 10, 12-14). D'altro canto a destare inquietudine negli scienziati aristotelici era il metodo stesso di Galileo. La nuova scienza promossa dallo scienziato italiano, infatti, non coincide con il possesso di una tradizione immutabile. Al contrario essa impone a chi la coltiva una ricerca per statuto inesauribile: è fondata su esperimenti e dimostrazioni ed è propensa, da una parte, a mettere in discussione il principio di autorità, dall'altra, a riconoscere i limiti della conoscenza umana. Il vecchio e venerato scienziato, ormai prossimo alla morte, fu dunque costretto ad abiurare come eretiche le ricerche astronomiche di una vita intera.
Il fatto che Galileo sia stato avversato dalle istituzioni cattoliche, pur essendosi sforzato di mostrare la piena compatibilità tra scienza e fede, ha indotto in passato alcuni storici a collocare il suo nome accanto a quello di Giordano Bruno (1548-1600) e Tommaso Campanella (1568-1639), due filosofi che similmente furono perseguitati dall'Inquisizione per le idee contenute nei loro scritti. Il primo, com'è noto, fu arso vivo in Campo dei Fiori, mentre il secondo sfuggì alla condanna capitale fingendosi pazzo nel corso di una lunga prigionia. L'accostamento di Galileo a Bruno e Campanella, i quali, come lui, furono altresì grandi scrittori, è solo in parte legittimo. È vero, sì, che Bruno raccoglie, prima di Galileo, la concezione copernicana, postulando un sistema di mondi infiniti; e che Campanella, quando Galileo è ammonito la prima volta, prende le sue difese componendo un'Apologia pro Galileo (1616). Vero è anche, però, che sia Bruno sia Campanella appartengono a due stagioni filosofiche per così dire «pre-scientifiche». Entrambi si collocano ancora nell'orbita del naturalismo cinquecentesco, pur con le rispettive differenze: il primo è incline a una forma d'intuizionismo eroicamente anti-cristiano; mentre il secondo s'ispira a un cristianesimo profetico ed eterodosso. Entrambi, inoltre, concepiscono la scienza come un'attività individuale, da rivelare a pochi iniziati. È solo con Galileo che la conoscenza della natura si spoglia di componenti magiche ed esoteriche e si impone come metodo razionale, che aspira a essere condiviso da un'ancora embrionale «comunità scientifica».
Il successivo affinamento del metodo galileiano avrebbe provocato una progressiva, drastica divaricazione tra il linguaggio scientifico e quello letterario. Primo teorico della necessità di adeguare la scienza al libro della natura, scritto in caratteri matematici, è Galileo stesso a istituire una differenza tra i due linguaggi. Tuttavia Galileo è anche il primo a evitare con cura il loro scollamento, affidandosi a un rapporto di collaborazione reciproca tra conoscenza scientifica ed espressione letteraria. È per questa ragione che i capolavori scientifici galileiani sono anche capolavori letterari, col risultato che gli storici della letteratura sono tenuti a occuparsene tanto quanto quelli della scienza. In virtù del suo messaggio rivoluzionario, infatti, Galileo ricorse a tutte le risorse della retorica – nelle opere a stampa, in quelle manoscritte e nelle lettere – per persuadere gli uomini del suo tempo circa la validità del nuovo metodo e delle scoperte da esso prodotte; e per indurli a rigettare gli schemi interpretativi aristotelici basati sul principio di autorità (ipse dixit). Agli occhi di Galileo, di conseguenza, scienza e letteratura, pur parlando due linguaggi intrinsecamente diversi, devono per forza interagire in una dimensione organica: interpretare (scientificamente) la natura e introdurre una nuova visione del mondo, ai suoi occhi, importa tanto quanto riferire (letterariamente) le osservazioni e rendere persuasive le interpretazioni di quelle osservazioni contro le obiezioni dei custodi del paradigma esegetico tradizionale. Senza una parola in grado di «rifare i cervelli» (per usare una formula pregnante dello stesso Galileo, VII, 82) le scoperte scientifiche, infatti, apparirebbero inutili o addirittura false.
La dimensione letteraria è a tal punto pervasiva negli scritti galileiani, specie in quelli successivi alle osservazioni astronomiche del 1609, da imporsi come un lascito a molti dei suoi eredi, i quali, sulla scia del maestro e ispiratore, avrebbero dato vita al nuovo genere letterario della «prosa scientifica». Tra le figure di scienziati che, come Galileo, sono famosi sia per le loro scoperte scientifiche, sia per l'efficacia stilistica dei loro rendiconti, si ricordino almeno gli studiosi d'idraulica: Benedetto Castelli (1578-1643) e Evangelista Torricelli, inventore del barometro (1608-1647); nonché lo scopritore dei vasi capillari Marcello Malpighi (1628-1694). Degne di nota sono anche figure meno innovative dal punto di vista scientifico, ma straordinariamente efficaci dal punto di vista letterario, come Lorenzo Magalotti (1637-1712), grande osservatore e descrittore della natura degli odori. Si aggiunga che l'avvento di una prosa scientifica complementare al metodo galileiano ha non poche conseguenze sulla storia del romanzo moderno, il genere che inizia a imporsi non a caso negli stessi anni in cui opera Galileo (il Don Chisciotte di Cervantes esce in due parti tra il 1605 e il 1615). Lo sguardo analitico sulla natura imposto dal metodo galileiano, infatti, venne a incidere sul linguaggio esatto e dettagliato proprio del romanzo realistico moderno, sino ai Promessi sposi manzoniani (cfr. E. Raimondi, La nuova scienza e la visione degli oggetti, in «Lettere italiane», XXI, 1969, pp. 265-305, poi riedito col titolo Verso il realismo, in Id. Il romanzo senza idillio. Saggio sui «Promessi sposi», Torino, Einaudi, 1974, pp. 3-56). La stessa attitudine ermeneutica di Galileo, sempre incline a rappresentare in modo carnevalesco il sapere tradizionale e ad additare come metodo virtuoso quello di chi rifugge (socraticamente) ogni dogmatismo e concepisce la conoscenza come frutto d'ipotesi e deduzioni, ben si concilia, del resto, con quella che è la natura dialogica e polifonica del romanzo moderno, così com'è stata chiarita da Michail Bachtin (Estetica e romanzo, trad. it. Torino, Einaudi, 1979). Ben si capisce, dunque, perché in tempi recenti Italo Calvino abbia affermato che Galileo sarebbe «il più grande scrittore della letteratura italiana d'ogni secolo» (Una pietra sopra, in Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, I, p. 228). Calvino chiosò poi il suo provocatorio giudizio (criticato, in particolare, da Carlo Cassola) ricordando che già Leopardi nello Zibaldone aveva lodato Galileo per la «precisione» e l'«eleganza congiunte»; e spiegando di aver inteso, più precisamente, il massimo scrittore in prosa, ossia il massimo argomentatore insieme a Machiavelli (Una pietra sopra, cit., pp. 231-233).
Accostandoci agli scritti di Galileo saremo costretti, dunque, a forzare e a dilatare il concetto falsamente rassicurante di letteratura come regno di finzioni e di belle apparenze; e a osservare da vicino una scrittura che è, anzitutto, una forma di pensiero chiamata a corroborare una nuova, rivoluzionaria visione del mondo.
Galileo nasce a Pisa nel 1564. Il padre, il fiorentino Vincenzo, è un nobile decaduto, commerciante di lana, ma si premura di assicurare al figlio un'istruzione umanistica. Vincenzo, del resto, era anche esperto di musica e collaborava con la camerata de' Bardi, l'élite di musicisti all'avanguardia nella definizione dello stile monodico che portò alla nascita del melodramma. Quando il giovane Galileo deve iscriversi all'università, il padre lo spinge allo studio della medicina. Tra 1581 e 1585 Galileo segue con insofferenza i corsi all'università di Pisa, interrompendoli senza laurearsi. Nel frattempo obbedisce alla sua vocazione, dedicandosi alla matematica, alla fisica e alla geometria sotto la guida di Ostilio Ricci (1540 - 1603). L'ammirazione per Archimede si traduce in una dissertazione originale, La bilancetta (1586), dove il giovane Galileo rende conto di una sua invenzione nata dopo aver perfezionato le idee dello scienziato greco: l'opera, come molti degli scritti successivi, avrebbe avuto una circolazione solo manoscritta. Nel frattempo, appassionato di poesia, Galileo interpreta e postilla autori classici e moderni: Dante, Petrarca, l'amato Ariosto e il detestato Tasso. Nel 1589, nella città natale, ha inizio la carriera accademica. Galileo ottiene una cattedra di matematica per un triennio e si dedica al trattato De motu. Nel 1592 lascia l'Università di Pisa per quella di Padova, dove insegnerà matematica fino al 1610, mettendosi al servizio della Serenissima: la repubblica di Venezia, infatti, lo assolda «perché, prima che uno scienziato, voleva un tecnico, un ingegnere, un abile costruttore di strumenti scientifici in grado di contrapporsi con il suo operoso pragmatismo alle astrattezze metafisiche degli aristotelici» (A. Battistini, Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e Pensiero, 2000, pp. 15-16).
In questo contesto si abitua a far collaborare scienza e tecnica: quando sente parlare di un'invenzione fiamminga che consente di avvicinare con la vista oggetti lontani, ha l'idea di costruirne un esemplare, che egli chiama cannocchiale, non a scopo ludico o militare, ma scientifico. È così che nell'inverno del 1609 egli può osservare il cielo con la precisione di cui nessun occhio umano, prima di allora, aveva goduto: scopre che le macchie lunari dipendono dal fatto che la luna presenta un paesaggio montuoso analogo a quello terrestre; scopre che le cosiddette stelle fisse sono in realtà molto più numerose di quanto non si veda a occhio nudo; scopre che la stessa Via Lattea è formata da miriadi di stelle; e scopre, infine, che attorno a Giove orbitano quattro satelliti. Tali rivelazioni bastavano a mettere in crisi il sistema tolemaico, pur senza poter dimostrare il sistema copernicano. Le conseguenze erano facilmente deducibili: non esiste il cosiddetto quinto elemento, l'etere, che renderebbe i cieli di una consistenza diversa da quella sublunare; i confini dell'universo sono molto più vasti e misteriosi di quanto pensato fino a quel momento; la terra, soprattutto, non è l'unico centro di gravitazione, e dunque diventa lecito immaginare che sia la terra, sia Giove possano ruotare attorno al Sole, come proposto da Copernico.
Conscio della portata di queste scoperte, all'inizio del 1610 Galileo licenzia un breve rendiconto, composto in latino in modo che potesse avere la massima diffusione anche al fuori dell'Italia. È il Sidereus nuncius ('avviso celeste') che l'autore dedica a Cosimo II dei Medici (1590-1621, al potere dal 1609) nella speranza che il granduca lo richiami nella natia Toscana. Per la stessa ragione i satelliti di Giove sono battezzati Satelliti Medicei. Lo stile del rendiconto è ad arte disadorno. Galileo non indulge a descrivere il proprio entusiasmo di osservatore: dopo aver chiarito la natura del telescopio, riferisce asciuttamente le quattro sconvolgenti scoperte con la fiducia che esse parleranno da sole. L'autore evita, dunque, di polemizzare con la scienza aristotelica e di fare ipotesi sulla natura infinita del cosmo (il che l'avrebbe forse associato all'eretico Giordano Bruno); ma insiste sui satelliti di Giove come elemento a favore dell'eliocentrismo copernicano, al quale, come sappiamo dalle lettere, aveva aderito già da tempo.
Il rendiconto, pubblicato a poche settimane di distanza dalle osservazioni, ebbe un'eco clamorosa. Agli occhi dei suoi contemporanei, né solo in Europa, Galileo fu salutato come un secondo Colombo. Se quest'ultimo aveva scoperto l'esistenza di un nuovo continente, lo scienziato toscano fu visto come un viaggiatore interstellare, scopritore dell'incognita natura dei cieli. La vita di Galileo, a quel tempo vicino alla cinquantina, subì una svolta: il granduca richiamò il suddito a Firenze, dove fu nominato filosofo ducale senza alcun obbligo d'insegnamento accademico.
Nel Sidereus, composto celermente, Galileo aveva promesso un trattato di più largo impegno, un De systemate mundi che sarebbe diventato anni dopo il Dialogo dei massimi sistemi. Una volta tornato a Firenze, tuttavia, incalzato da numerose occasioni di dialogo e di confronto, non ebbe l'agio di dedicarsi a questa e alle altre opere sistematiche che aveva in mente. Il successo del Sidererus, del resto, aveva mutato le condizioni del suo autore: Galileo, filosofo e scienziato della corte medicea, era ormai un uomo pubblico, punto di riferimento in Italia e in Europa per un numero crescente di estimatori e allievi. Nel 1611, in particolare, fu accolto trionfalmente a Roma, dove si creò il principale nucleo galileiano attorno all'accademia dei Lincei presieduta dal nobile romano Federico Cesi (1585 - 1630). L'accademia, in realtà, era nata nel 1603 sotto l'emblema della lince, ma fu rifondata in base ai principi della nuova scienza: libertà della ricerca, necessità di mettere in discussione il sapere aristotelico, saggia ammissione d'ignoranza di fronte ai fenomeni che non si riescono a interpretare, etc.
Galileo, in questi anni, fu dunque impegnato in una lunga e infervorata opera di persuasione nei confronti degli allievi e di difesa del proprio metodo e delle proprie scoperte nei confronti degli aristotelici. Non a caso furono in molti a vedere in lui un nuovo Socrate, per la sua urgenza comunicativa, per la sua abilità nell'insegnare dialogando e instillando il seme del dubbio, per la sua ironia nei confronti nei suoi avversari e per il suo fervore filosofico. Fu appunto tale urgenza che indusse Galileo alla scelta rivoluzionaria di abbandonare il latino e usare il volgare come lingua di scienza. Il latino, infatti, era sentito come la lingua del vecchio sapere aristotelico, laddove il volgare avrebbe permesso di raggiungere e convertire alla nuova scienza il maggior numero possibile di ingegni. In questo contesto si capisce perché le opere più sistematiche composte da Galileo negli anni successivi al Sidereus rimasero manoscritte, destinate a essere ripensate e inglobate negli scritti successivi.
A stampa invece dovevano andare prima le opere di carattere contingente, nate dal dialogo con gli avversari. Tale è la genesi del Discorso intorno alle cose che stanno in su l'acqua (1612), nel quale Galileo affronta problemi di idrostatica, difendendo il suo metodo contro Ludovico delle Colombe (1565 - 1616?), aristotelico oltranzista. Una genesi contingente ebbe pure un'opera pubblicata l'anno seguente: Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti (1613). La materia torna qui a essere astronomica, poiché concerne le macchie solari, scoperte quasi contemporaneamente da Galileo e da uno scienziato gesuita, Christoph Scheiner (1573 - 1650). Quest'ultimo, per non intaccare il principio d'incorruttibilità dei corpi celesti, le aveva interpretate come ombre di corpi celesti frapposti tra la terra e il sole. Galileo, invece, smonta le argomentazioni del gesuita, attribuendo le macchie al corpo solare in base a quella correlazione di osservazioni sperimentali e applicazione di criteri matematici che è tipica del suo metodo. Al pari del Discorso, l'Istoria voleva essere moderna anche per la forma retorica: se il primo si affidava a un tono 'discorsivo', la seconda si presentava come un ciclo di tre lettere inviate al corrispondente tedesco Markus Welser (1558 - 1614). Era il segno dell'urgenza comunicativa di Galileo, di quella spinta che lo induceva a scegliere non più la forma chiusa (di ascendenza aristotelica) del trattato, bensì le forme 'discorsive' prossime al genere (socratico e platonico) del dialogo.
La propensione a trattare problemi di scienza nel genere epistolare spiega anche il famoso ciclo di quattro lettere composte tra il 1613 e il 1615 note come «lettere copernicane». L'occasione è data dalle obiezioni che sempre più spesso giungevano allo scienziato da parte dei suoi oppositori ecclesiastici, in primis domenicani, per il suo copernicanesimo. Cautamente lo scienziato non risponde a stampa, ma diffondendo in ambienti pubblici quattro lettere in forma manoscritta: una diretta all'allievo Benedetto Castelli (21 dicembre 1613), due a Pietro Dini (16 febbraio e 23 marzo 1615) e una a Cristina di Lorena (giugno 1615), madre del granduca Cosimo. Lo scienziato argomenta la piena compatibilità di fede e scienza, anche quando quest'ultima, come accade nel momento in cui abbraccia posizioni copernicane, sembra smentire affermazioni contenute nelle Scritture. Per smontare la contraddizione, lo scienziato sostiene che Dio sarebbe autore non di uno ma di due libri: la Bibbia e la Natura, fondamento della religione la prima e della scienza la seconda. Sulla base di questa distinzione risulterebbe improprio usare la Bibbia per interpretare la Natura, poiché la prima non ha il dovere di essere scientifica; anzi, per farsi capire, essa indulge ai pregiudizi degli uomini, attribuendo a Dio mani e piedi; o lasciando credere che il Sole si muova attorno alla terra. Aderendo alla retorica coeva dell'arguzia, Galileo afferma che la Bibbia insegna «come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (V, 319). Anziché placare gli animi degli avversari, le «lettere copernicane» furono per molti materia di scandalo.
Si venne così all'editto del 1616 che impediva a G di porre argomenti a favore dell'eliocentrismo. Non si trattava di una condanna esplicita: Galileo era una figura troppo prestigiosa, di salda fede cattolica e ancora ammirato da molti gesuiti, nonostante la polemica con Scheiner. L'intenzione, però, era quella di obbligare lo scienziato al silenzio. Non a caso all'ammonimento seguì la messa all'indice del De rivolutionibus di Copernico, fino a quel momento non censurato.
Dopo l'editto lo scienziato fu indotto a ripiegare su ricerche di tipo tecnico, tenendo a freno la propria ansia di interpretare i fenomeni celesti. Ma una nuova occasione di dibattito venne da tre comete che si resero visibili a occhio nudo nell'autunno del 1618. In quei giorni purtroppo Galileo giaceva a letto malato e non ebbe agio di osservarle, ma il fenomeno, anche per via delle credenze popolari che lo associavano a eventi infausti, fece non poco parlare di sé, tanto più che in quello stesso anno ebbe inizio la guerra dei Trent'anni (1618 - 1648). Ad assumersi il ruolo d'interprete ufficiale del fenomeno, in linea con le posizioni scientifiche della Chiesa, fu un matematico gesuita, Orazio Grassi (1583 - 1654), in una dissertazione intitolata De tribus cometis: disputatio astronomica (1619). Grassi, come altri gesuiti, non si fondava sul sistema cosmologico tolemaico, bensì su quello, ibrido, del danese Tycho Brahe (1546 - 1601), il quale consentiva di conciliare eliocentrismo e geocentrismo, postulando la terra al centro di un sistema di pianeti orbitanti attorno al sole: le orbite delle comete erano così assimilate a quelle dei pianeti.
Galileo, il quale non voleva guastarsi i rapporti con i gesuiti, ma non voleva nemmeno perdere l'occasione di ribadire la bontà del proprio metodo e l'utilità del cannocchiale (messa in dubbio dal Grassi), rispose dietro una maschera, componendo con l'allievo Mario Guiducci (1583 - 1646) un Discorso delle comete che fu edito in quello stesso 1619 a nome del solo Guiducci. I due autori smontavano con cura le ipotesi di Grassi, interpretando il moto delle comete come rettilineo, anziché circolare, e la loro luminosità come un fenomeno apparente. A questo punto Grassi, e con lui l'intera Compagnia del Gesù, si sentirono punti sul vivo. Anche il gesuita volle indossare una maschera e dietro lo pseudonimo di Lotario Sarsi Sigensano (pseudonimo anagrammatico di Orazio Grassi savonese) rispose con una piccata Libra astronomica ac philosphica (1619). Il titolo metaforico dell'opuscolo alludeva alla volontà di soppesare e neutralizzare le obiezioni espresse nel Discorso delle comete, ma anche al fatto che le comete, apparse nel segno dello Scorpione, erano state assegnate dal Grassi, erroneamente, alla Bilancia.
A questo punto si faceva urgente una controreplica, dal momento che i gesuiti presumevano di aver inferto un colpo mortale alla nuova scienza. Galileo concepì la sua risposta come un'estesa lettera a Virginio Cesarini (1595 - 1624), figura scelta non a caso: si trattava di un nobile ecclesiastico romano, il quale aveva lasciato la compagnia del Gesù ed era entrato nei Lincei, dopo aver conosciuto Galileo a Roma tra 1615 e 1616. Galileo lavorò alacremente alla risposta tra il 1619 e il 1623, anno in cui, col nome di Urbano VIII, fu eletto papa il cardinale fiorentino Maffeo Barberini (1568 - 1644). Tale elezione suscitò grandi speranze in Galileo, dal momento che il papa conterraneo, oltre a essere illuminato mecenate e raffinato poeta, si interessava anche di scienza. Sperando in quella che egli chiama una «mirabil congiuntura» (XIII, 135), ossia una meravigliosa coincidenza di eventi che avrebbe potuto conciliare la nuova scienza e la fede cattolica, Galileo pubblica la sua risposta (1623), dedicandola al papa con un titolo metaforico: Il saggiatore.
Dal momento che 'saggiatore' era detta la bilancia di precisione degli orafi, sin dal titolo Galileo sfoga una vis polemica contro la grossolana 'libra' dell'avversario. Dal punto di vista della storia della scienza, poco conta il fatto che la spiegazione delle comete sostenuta da Grassi fosse più vicina al vero, mentre l'ipotesi di Galileo sbagliata (le comete – oggi sappiamo – non sono corpi apparenti, ma reali, dotati di orbita ellittica). Nel Saggiatore, infatti, Galileo volle racchiudere anzitutto il manifesto della nuova scienza: traendo spunto dal fenomeno in questione (le comete), l'autore affronta in modo asistematico una varietà di argomenti (come l'utilità del cannocchiale, la natura del calore e quella dei suoni), enunciando e mettendo alla prova il nuovo metodo, basato sull'osservazione diretta della natura e sul rifiuto del principio di autorità. In un celebre brano Galileo pone in antitesi il sapere aristotelico, che lascia l'uomo nel labirinto di una presuntuosa ignoranza, e la nuova scienza che invece consente di leggere la verità del cosmo, assimilato a un libro scritto in caratteri geometrico-matematici.
Il saggiatore, però, non è solo un capolavoro scientifico, ma anche letterario. Nella struttura di una lettera dilatata a dismisura, Galileo riporta e commenta 53 stralci della Libra, ricorrendo a uno stile polemico spesso ironico o sarcastico. In questo modo, il genere epistolare, adibito a commento, assume l'aspetto di dialogo a distanza, dove lo scienziato interloquisce sia con l'intendente (Cesarini), sia con il presuntuoso ignorante, spesso chiamato in causa non in quanto Grassi, ma in quanto Sarsi, così da rendere il sarcasmo più libero e pungente. Si crea così un'ironica polifonia di voci, che anticipa la triade Salviati-Sagredo-Simplicio dei Massimi sistemi: il latino oziosamente elegante, ma confuso del Grassi è fatto stridere di continuo contro il nitido volgare di Galileo, scientificamente esatto, cauto e rispettoso del proprio oggetto. La struttura variegata e policentrica permette, altresì, non poche divagazioni. Celebre è l'apologo dell'indagatore di suoni, nel quale una figura di un curioso, alter ego dell'autore, incarna lo spirito conoscitivo dello scienziato moderno, attento a registrare la varietà dei fenomeni che compongono il libro della natura e al tempo stesso socraticamente prudente nell'interpretazione.
Con ritardo Grassi rispose con una Ratio ponderum librae et simbellae (1626), che Galileo postillò ferocemente, ma alla quale non volle dare pubblica risposta, sia perché il Saggiatore aveva ottenuto larghi consensi, anche da parte del papa, sia perché da molti anni lo scienziato aveva a cuore la stesura di opere che fossero meno d'occasione e di più ampio respiro. Dopo il Sidereus, infatti, Galileo aveva composto abbastanza poco e molte delle sue più recenti scoperte erano rimaste inedite, riferite nelle lettere o affidate a manoscritti. Sentendosi vecchio, avverte l'urgenza di dedicarsi alle «due summae (quella astronomica e quella fisico-matematica), salvando le fatiche di quarant'anni e consegnandole alla storia della scienza e della letteratura» (M.L. Altieri Biagi, Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Letteratura Italiana diretta da A. Asor Rosa. Le Opere, II, Torino, Einaudi, 1993, pp. 894-971; citazione da p. 900). Le due summae sarebbero divenute il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632) e i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed i movimenti locali (1638).
Dei due ambiti quello destinato a incontrare più aspre resistenze era l'astronomico. Nonostante l'editto, Galileo non aveva smesso di cercare prove a suffragio del sistema eliocentrico. Le osservazioni svolte sino allora rendevano probabile, ma non ancora certa la validità del sistema eliocentrico. Ora Galileo ambiva a fornire finalmente quella che ai suoi occhi era la prova decisiva del movimento della terra: il moto delle maree, un problema scientifico al quale aveva già dedicato un Discorso del flusso e riflusso del mare, composto nel 1616 e lasciato inedito. D'altro canto, se non voleva subire il silenzio che gli era stato imposto, lo scienziato si vedeva costretto a dissimulare su due fronti: doveva usare la cautela nei confronti degli interlocutori ecclesiastici e, nel contempo, ostentare fiducia con i protettori medicei, in modo da non preoccuparli. Probabilmente si rendeva conto che l'opera sarebbe incorsa in censure e che i suoi veri lettori sarebbero stati i posteri. Con animo sospeso e inquieto, tra interruzioni dovute a malanni senili, dal 1624 al 1630 Galileo attese al suo capolavoro, che egli avrebbe voluto intitolare Dialogo sopra il flusso e riflusso del mare. Dopo lunghi indugi, dovuti a varie cause (la necessità di valutare quale ambiente fosse più favorevole alla pubblicazione, Firenze oppure Roma; la morte prematura di Cesi, fondamentale intermediario tra il papa e Galileo; la peste del 1630), l'opera uscì a Firenze nel 1632 con il titolo più innocuo di Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, dedicata al protettore mediceo Ferdinando II (figlio di Cosimo).
Se il titolo caro all'autore smentiva il fatto che il contenuto dell'opera fosse ipotetico, il titolo definitivo, più cauto, «accennava alla maggiore o minore 'probabilità' di due teorie cosmologiche» (A. Battistini, Galileo, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 119), in modo da prevenire le obiezioni degli ambienti ecclesiastici più ostili – in primis i domenicani, ma, dopo il Saggiatore, anche i gesuiti – assai pericolose a causa dell'editto. Certo, l'amicizia del papa era d'aiuto: nel 1624 Galileo aveva avuto l'onore di essere ricevuto per ben sei volte dal Barberini, guadagnandosi la libertà di trattare l'eliocentrismo e il moto terrestre non come un fatto reale, ma almeno come ipotesi matematica. In questa luce, oltre alla trasformazione del titolo, trovano spiegazione gli altri due interventi che Galileo, al fine di ottenere l'imprimatur, concordò con il Maestro del Sacro Palazzo, Nicolò Riccardi, sempre in accordo con papa Barberini: 1) l'avvertimento, nella prefazione, che il moto della terra è trattato come una «pura ipotesi matematica», una «fantasia ingegnosa», un «capriccio matematico», la cui trattazione sarebbe resa urgente dalla necessità di «mostrare alle nazioni forestiere, che di questa materia [il copernicanesimo] se ne sa tanto in Italia […] quanto possa mai averne imaginato la diligenza oltramontana [gli scienziati europei]» (VII, 29); 2) la collocazione, in chiusura, di un argomento teologico teso a ridimensionare, se non proprio a neutralizzare, la portata rivoluzionaria del copernicanesimo e a presentare le proposte contenute nel dialogo come un'innocua fantasia. L'argomento, il cosiddetto «argomento del fine» (cioè relativo alle insondabili finalità della Creazione), consisteva nel seguente assunto: se si presuppone che la Provvidenza è onnipotente, non è possibile vincolare l'universo all'ipotesi eliocentrica, dal momento che Dio creatore può aver agito in molti modi che oltrepassano le facoltà cognitive concesse all'uomo. L'argomento, che il Barberini aveva opposto a Galileo già durante il suo cardinalato, anziché incoraggiare a quella cautela virtuosa descritta nel Saggiatore, finiva per svuotare di senso ogni teoria scientifica, rendendo inutile e aleatoria qualsiasi interpretazione dei fenomeni naturali. Galileo, pur non potendo far propria questa posizione, si sentì in obbligo di troncare le discussioni che avevano dato materia al Dialogo con questa che egli definisce, ossequiosamente, «mirabile e veramente angelica dottrina» (VII 489).
Titolo, prefazione e conclusione dell'opera venivano incontro, dunque, alle richieste di revisori e protettori, dissimulando onestamente la natura dimostrativa dell'opera e facendola apparire un'argomentazione ipotetica. I contenuti, messi in scena sotto forma di dialogo, emergevano, invece, con la consueta potenza retorica.
Il Dialogo mette in scena un colloquio fittizio che s'immagina avvenuto nell'arco di quattro giornate, in anni non remoti, fra tre personaggi in una casa patrizia di Venezia. I primi due interlocutori portano la maschera di personaggi realmente esistiti, due amici dei quali Galileo aveva compianto la morte prematura. Il primo è il fiorentino Filippo Salviati (1582-1614), che era stato un allievo di Galileo e che qui figura come portavoce della nuova scienza, sostenitore dell'ipotesi eliocentrica. Il secondo è il veneziano Giovan Francesco Sagredo (1571-1620), il gentiluomo padrone di casa, il quale svolge la funzione d'intendente non professionista: ossia non coinvolto in prima persona nelle ricerche scientifiche, ma animato da una passione per la conoscenza, e dunque immagine ideale del lettore, sollecitato a scegliere fra l'uno e l'altro sistema astronomico. A questi s'aggiunge il terzo interlocutore, Simplicio. Si tratta di un personaggio immaginario, introdotto come portavoce del sistema tolemaico e dunque come rappresentante della scienza aristotelica: il nome, ricalcato su quello di un commentatore di Aristotele d'età bizantina (vissuto tra V e VI secolo d. C.), è al tempo stesso segno della sua attitudine a parlare di scienza sulla base dei libri altrui e delle sue scarse capacità intellettuali, della sua semplicità. Ciascuna delle tre figure è una proiezione dell'autore: Galileo s'identifica più esplicitamente in Salviati, portavoce del nuovo metodo scientifico; nondimeno s'immedesima sia in quello che gli considera il proprio pubblico di non scienziati (Sagredo), sia nei propri oppositori, da correggere e ammaestrare con ironia e sarcasmo (Simplicio).
Il contenuto dell'opera non è affatto riassumibile, dal momento che, soprattutto nelle giornate I-III, Galileo usa una tecnica perpetuamente digressiva, dibattendo, accanto all'argomento principale, un gran numero di argomenti complementari. Si può dire, almeno, che la giornata I tende a rendere omogenei mondo terreno e mondo celeste, vanificando la distinzione aristotelica tra i quattro elementi del regno sublunare e il quinto elemento celeste, l'etere. La II giornata mira a neutralizzare le opposizioni di coloro che negano il moto diurno della terra (il moto della terra però non è ancora dimostrato). La III giornata provvede ad argomentare il moto annuo della terra attorno al Sole sulla base di prove celesti. La IV giornata, infine, torna sulla terra, adducendo quella che Galileo considerava la prova terrena del moto terrestre: le maree. A torto si è voluto additare in questa la giornata più debole, poiché in seguito la spiegazione galileiana delle maree si sarebbe rivelata erronea (oggi sappiamo che le maree sono prodotte dalla forza d'attrazione dell'orbita lunare). Al contrario, le maree sono il culmine argomentativo del Dialogo, che non a caso Galileo volle ambientare in Laguna. La spiegazione astronomica delle maree, infatti, consente all'autore di rompere il guscio di dissimulazioni introdotte nel titolo, all'inizio e alla fine dell'opera; e di parlare del sistema eliocentrico non come ipotesi, ma come un fatto reale, dimostrabile per via sperimentale.
Per dibattere «la costituzione dell'universo», Galileo adotta la forma che Platone aveva usato per esprimere contenuti dottrinali: il dialogo filosofico. Scegliendo la forma-dialogo, che si era imposta come un genere di punta del classicismo (sul modello dei dialoghi di Platone in greco e di Cicerone in latino, erano apparsi il Cortegiano di Castiglione, gli Asolani e le Prose di Bembo, sino al più recente Dialogo della musica del padre Vincenzo), Galileo prendeva le distanze dal genere più usato per le materie scientifiche, ossia il trattato. Se quest'ultimo costituiva una struttura chiusa e sistematica, il dialogo si poneva invece come una struttura libera e aperta.
Fra le molte ragioni che sono state ipotizzate dagli studiosi per spiegare la scelta di Galileo se ne possono ricordare quattro. Ovviamente esse non si escludono, semmai si completano. In primo luogo l'adozione del dialogo si connette a una concezione asistematica del sapere. Come Socrate, maestro di Platone e protagonista di molti dei suoi dialoghi, anche Galileo ritiene che il sapere implichi la messa in discussione del sapere tramandato e il riconoscimento dei limiti propri della natura umana. Per questa ragione la forma dialogica, fluida, frastagliata e ricca d'incertezze, si rivela la più adatta a veicolare la conoscenza del mondo.
In secondo luogo il dialogo è la forma più adatta a teatralizzare il farsi della conoscenza, quella che meglio permette di mettere in rilievo non solo le scoperte, ma anche il metodo che le ha rese possibili. In questa luce l'avvicinamento al genere dialogo da parte di Galileo fu progressivo e inquivocabile: dopo aver abbandonato il trattato (forma praticata ancora ai tempi della Bilancetta e del De motu), lo scienziato aveva provato prima il ragguaglio (Sidereus), poi era passato al discorso (sull'idrostatica e le comete) e alla lettera scientifica, che a ben vedere è un dialogo a distanza (Macchie solari e Saggiatore), per approdare, infine, al dialogo in quanto forma più adatta a veicolare i contenuti e i metodi della nuova scienza. Nei Massimi sistemi, in particolare, Galileo porta a compimento il dialogismo immanente al Saggiatore, dove il triangolo implicito Galileo-Sarsi-Cesarini svolge la funzione che nei Massimi sistemi assume la triade Salviati-Simplicio-Sagredo.
In terzo luogo agli occhi di Galileo il dialogo dové apparire il genere più idoneo a favorire nei lettori quel drastico cambio di mentalità chiesto loro da una scienza basata non sul principio dell'ipse dixit, ma sulle «sensate esperienze» e sulle «necessarie dimostrazioni» (secondo quanto teorizzato nella lettera copernicana a Cristina di Lorena, V, 316). Proprio perché si rende conto, della necessità di «rifare i cervelli» (VII, 82), inducendo i suoi lettori a mettere in discussione i fondamenti di un sapere aristotelico che aveva avuto fortuna per più di due millenni, Galileo sceglie il dialogo anche perché lo ritiene una forma argomentativa allettante e avvincente. In questa luce, va interpretata la straordinaria perizia con la quale Galileo accompagna le argomentazioni dei suoi personaggi. Da una parte, le battute di Sagredo e Salviati sono sostenute da una ricca gamma di metafore ingegnose, similitudini calzanti e digressioni didascaliche; d'altro canto, come in una commedia filosofica, sono messe in scena le false sicurezze di Simplicio e le sue maldestre e spesso ridicole difese del sapere aristotelico. La stessa struttura policentrica e digressiva del Dialogo (che può ricordare, per certi aspetti, quella del Furioso ariostesco – tanto amato da Galileo – basato sull'entrelacement) si spiega con la vena per così dire missionaria di Galileo, il quale si sente apostolo di una nuova visione del mondo che ha bisogno di essere sostenuta e predicata con ogni mezzo.
Infine, un'altra ragione che indusse Galileo a scegliere il dialogo si può additare nella ricerca di maggiore libertà espositiva. Galileo sapeva che l'opera avrebbe incontrato molti nemici e intuiva che forse sarebbe stata censurata; e dunque volle cautelarsi in anticipo, argomentando a favore del sistema tolemaico non ex cathedra, ma per mezzo di una fittizia conversazione tra amici e affidandosi alle maschere di Salviati e Sagredo. Salviati, a sua volta, fa più volte riferimento alle scoperte di un innominato «Accademico Linceo», dietro il quale si nasconde Galileo stesso, che funge da quarto personaggio implicito nel dialogo. La strategia dialogica, con la sua polifonica moltiplicazione di maschere e punti di vista, avrebbe così potuto permettere allo scienziato-scrittore (o almeno questa era la speranza) di sfuggire alle critiche che sarebbero piovute sopra l'opera.
Al di là della maschera dialogica, la fede copernicana di Galileo, già duramente ammonito nel 1616, emergeva dal Dialogo con tutta evidenza. Lo scienziato, d'altronde, perse anche l'appoggio del papa, il quale fu indotto a credere che Simplicio, in bocca al quale Galileo pose l'argomento del fine che conclude l'opera, fosse una sua controfigura beffarda. Il Dialogo fu così messo all'indice e il suo autore, ormai vecchio e malato, fu chiamato Roma per abiurare. La pena del carcere fu commutata negli arresti domiciliari e nel divieto d'insegnamento.
Recluso nella villa suburbana di Arcetri (sui colli fiorentini), Galileo passò i suoi ultimi anni privato della conversazione con gli allievi. Ma anche in queste condizioni, malato e quasi cieco, il vecchio scienziato compose l'altra summa che si era proposto di realizzare. Già nel 1633 comincia un nuovo dialogo in quattro libri con i tre stessi protagonisti dei Massimi sistemi: essendogli preclusa la materia astronomica, Galileo s'assume il compito di fondare due nuove scienze, quella relativa alla «resistenza dei corpi solidi ad essere spezzati» e quella del «moto locale». Una volta conclusa, l'opera non poté essere pubblicata in Italia, bensì in Olanda, a Leida, dove apparve nel 1638 con il titolo Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla mecanica e i movimenti locali. Del resto, proprio in Europa le opere in volgare di Galileo, di allievi e seguaci avrebbero trovato sempre maggiore diffusione attraverso una rete di traduzioni (già nel 1635 esce a Strasburgo la versione latina del Dialogo sopra i massimi sistemi).
Quel primato che sempre più la cultura italiana andava perdendo nel campo della poesia (nonostante la prestigiosa pubblicazione parigina dell'Adone, nel 1623), lo avrebbe riacquistato nel campo della letteratura scientifica. Il grande scienziato-scrittore morì nel 1642, dopo aver continuato a lavorare sino allo stremo delle forze, sconfitto ma conscio di potersi rivolgere almeno ai posteri e agli scienziati stranieri.
TESTI
Tutte le opere di Galileo si leggono nell'ed. nazionale in 20 voll. diretta da A. Favaro, Firenze, Barbèra, 1890-1909 (rist. 1968), da cui provengono le citazioni sopra riportate.
Tra le edd. autonome e commentate si ricordano:
Sidereus Nuncius, a cura di A. Battistini, trad. di M. Timpanaro Cardini, Venezia, Marsilio, 19972;
Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, a cura di M. Montinari, Roma, Theoria, 1982;
G. Galilei e M. Guiducci, Discorso della comete, ed. critica a cura di O. Besomi e M. Helbing, Roma-Padova, Antenore, 2002;
Il saggiatore, a cura di L. Sosio, Milano, Feltrinelli, 1965;
Il saggiatore, ed. critica a cura di O. Besomi e M. Helbing, Roma-Padova, Antenore, 2005;
Scienza e religione. Scritti copernicani, a cura di M. Bucciantini e M. Camerota, Roma, Donzelli, 2009 (contiene le «lettere copernicane»);
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a cura di L. Sosio, Torino, Einaudi, 1970;
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, ed. critica a cura di O. Besomi e M. Helbing, Roma-Padova, Antenore, 1998;
Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di E. Giusti, Torino, Einaudi, 1990;
Lettere, a cura di E. Ardissino, introduzione di A. Battistini, Roma, Carocci, 2008 (scelta dell'epistolario).
Per un'antologia della prosa scientifica secentesca post-galileiana, cfr. Scienziati del Seicento, a cura di M.L. Altieri Biagi e B. Basile, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980.
STUDI
Biografie critiche:
M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell'età della Controriforma, Roma, Salerno Ed., 2004.
L. Geymonat, Galileo Galilei, Torino, Einaudi, 1957
S. Drake, Galileo. Una bibliografia scientifica, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1988.
Studi attenti agli aspetti letterari della prosa gailileiana:
M.L. Altieri Biagi, Galileo e la terminologia tecnico-scientifica, Firenze, Olschki, 1965;
Ead., Dialogo sopra i due massimi sistemi, in Letteratura Italiana diretta da A. Asor Rosa. Le Opere, II, Torino, Einaudi, 1993, pp. 894-971;
A. Battistini, Galileo e i gesuiti. Miti letterari e retorica della scienza, Milano, Vita e Pensiero, 2000;
Id., Galileo, Bologna, Il Mulino, 2011 (nuova versione della precedente Introduzione a Galilei, Bari, Laterza, 1989);
E. Bellini, Umanisti e lincei. Letteratura e scienza a Roma nell'età di Galileo, Padova, Antenore, 1997;
La prosa di Galileo: la lingua, la retorica, la storia, a cura di M. Di Giandomenico e P. Guaragnella, Lecce, Argo, 2006;
P. Guaragnella, La prosa e il mondo. «Avvisi» del moderno in Sarpi, Galilei e la nuova scienza (1986), Bari, Adriatica, 1982.