«Io son libero» poteva finalmente scrivere Torquato Tasso alla sorella Cornelia dopo sette lunghi e tormentosi anni di prigionia nell'ospedale di Sant'Anna. Sette anni di ricovero forzato, tra sconforto, allucinazioni e sofferenze disperate. Dal quel carcere di Ferrara veniva liberato nel 1586 un uomo di quarantadue anni provato, invecchiato precocemente, e ancora prigioniero delle ossessioni della sua mente turbata. Tuttavia non è un uomo finito. Sebbene la sua collocazione sociale ed economica siano incerte e i ricordi dei brillanti successi di cortigiano e di poeta stridano con l'amarezza e il grigiore dello stato presente, Tasso spera ancora.
Comincia così, incessante e talvolta patetica, la ricerca di protezione presso una corte che non può più essere quella di Ferrara. Tasso cercherà plauso e consolazione fidandosi ancora del suo valore: «benchè la fortuna m'abbia privato di tutti i suoi beni», scrive alla sorella, «non ha potuto privarmi di quelli de la natura». La sorte tuttavia non gli sorride più come un tempo e la parabola esistenziale e mondana ha cominciato la sua discesa. Con la detenzione di Sant'Anna la vita del Tasso subisce una deviazione netta e definitiva che sempre più lo allontana dalle ambizioni sociali e dai sogni di gloria che sin dalla più tenera età nutriva.
Nato nel 1544 a Sorrento da Porzia de' Rossi e da Bernardo, Tasso si ritrova molto giovane a raggiungere il padre, prima ad Urbino e successivamente a Venezia. Qui, appena sedicenne, scrive le prime centosedici ottave del Gierusalemme, il poema epico sulla prima crociata che avrebbe dovuto interpretare non solo il bisogno di una nuova ricerca letteraria ma le ansie e i timori diffusi in Europa e nella Repubblica di Venezia provocati soprattutto dall'imminente invasione turca. Il progetto viene tuttavia interrotto perché il Tassino (come lo si chiamava per distinguerlo dal padre), con lucida consapevolezza si rende conto di non possedere ancora gli strumenti e la maturità per realizzarlo. Si dedica quindi, durante gli studi a Padova dal 1560, alla composizione del Rinaldo, un romanzo cavalleresco di impianto tradizionale, che verrà pubblicato nel 1562. Sono anni, quelli padovani e – dal 1562 al 1564 - bolognesi, molto importanti per la formazione del Tasso, durante i quali egli studia filosofia ed eloquenza (in particolare la Poetica di Aristotele) e frequenta letterati e intellettuali quali Scipione Gonzaga, Sperone Speroni, Francesco Piccolomini, Carlo Sigonio e Giovanni Angelo Papio.
Comincia nel frattempo (1562-64) a stendere anche i Discorsi dell'arte poetica e in particolare del poema eroico, pubblicati nel 1587 e stampati nel 1594, dopo nuove aggiunte, con il titolo di Discorsi del poema eroico. Successivamente riprende, con mano più sicura, le ottave del Gierualemme che diventano i primi tre canti del Gottifredo. Anche la scelta della prima crociata si rivela particolarmente opportuna, perché nel 1571, in seguito alla notizia della vittoriosa battaglia navale di Lepanto in cui la Lega Santa infligge una pesante sconfitta alla flotta turca, l'entusiasmo provocato dalla straordinaria vittoria risveglia l'illusione di una nuova crociata europea. La stagione del successo tassiano prosegue successivamente presso la corte ferrarese del duca Alfonso II d'Este (che lo nomina lettore alla cattedra universitaria di geometria e sfera) al quale intende dedicare il nuovo poema.
Nel 1573 viene messa in scena, probabilmente presso la delizia di Belvedere (una delle residenze della corte estense), la favola boschereccia dell'Aminta che diventa subito il modello di un genere nuovo. L'opera rappresenta lo sviluppo drammatico di un genere, l'egloga pastorale, assai diffuso nel Quattrocento e nel Cinquecento. E molteplici e significativi sono i richiami intertestuali dell'Aminta dove accanto ai modelli classici latini e greci, si ripropongono temi e stilemi stilnovistici, oltre a echi della produzione lirica di Boiardo e Ariosto. Ma la cultura e la sapienza letteraria sono prodigiosamente convertiti in naturalezza, nell'incanto di un recitativo limpido e stupito. Appaiono inoltre riconoscibili elementi, personaggi e scenari del milieu ferrarese, tanto che talvolta sembra addirittura che la scena rappresentata sia proprio la delizia di Belvedere. Ciascuno dei cinque atti del dramma, in cui vengono abilmente alternati dialoghi e monologhi, è scandito dalla presenza di un coro finale, mentre la dimensione diegetica resta affidata all'intreccio musicale del movimento narrativo e delle pause liriche. La cornice idillica del racconto è quella di una primigenia vita pastorale dove, in un'apparente perpetua armonia, regna ancora la «bella età dell'oro».
La bellissima e ritrosa Silvia, la ninfa che non intende cedere alle lusinghe dell'amore cui antepone le gioie della caccia, converte in odio il suo sentimento nei confronti del pastore Aminta da quando questi le dichiara la propria struggente passione. Accanto a loro compaiono i più maturi Tirsi e Dafne che cercano di consigliare e avvicinare, ma invano, i due giovani. Finché un giorno Silvia viene rapita da un satiro, i cui appetiti ferini minacciano la verginità della ninfa. Aminta riesce a liberare Silvia e a mettere in fuga il satiro, ma la giovane, anziché mostrarsi riconoscente al suo pudico liberatore, fugge, rinnovando la sua dedizione alla dea Diana e lasciando nella disperazione il pastore innamorato. Gli eventi successivi, assieme a fallaci indizi, inducono Aminta a credere che Silvia sia stata sbranata da una belva, e a decidere, disperato, di lanciarsi da una rupe. Ma alla notizia della morte di Aminta il cuore di Silvia cede il posto alla tenerezza e all'amore, e finalmente, dopo svariate peripezie i due giovani possono amarsi felici. In un gioco di illusioni si inscena così il contrasto fra «amore» e «onore», che propone una meccanica concertata degli affetti piuttosto che l'introspezione psicologica dei personaggi. E l'ambientazione pastorale funziona come una sorta di travestimento, una «favola boschereccia» dentro la corte con chiari elementi autobiografici. L'opera intende rappresentare un luogo della giovinezza e del desiderio semplice e incorrotto; un sogno senza l'artificio cortigiano, uno spazio dello spirito dove le emozioni si esprimono nella loro pienezza originaria, fuori dalla norma sociale della civiltà moderna. Ma di fatto è la corte stessa che viene messa in scena in una singolare commistione di ruoli fra pastori e poeti, con un pubblico che è il vero protagonista di una favola sdoppiata. E l'Aminta è anche un'isola della riconciliazione, della felicità, dell'armonia ritrovata attraverso il potere drammatico della parola che si fa azione, con gli eventi decisivi che non vengono messi in scena ma sono tutti raccontati dal coro.
Si afferma così la forza lirico-evocativa della parola in quanto lo spettatore deve visualizzare a sua volta ciò che viene raccontato. Si generano, alla fine, due spazi: lo spazio del narratore e quello del fatto narrato, mentre lo spettatore viene continuamente invitato a ricostruire un "teatro mentale" a fronte di una parola teatralizzata, tradotta in gesto, in emozione diretta. Ed è molto significativo che il Tasso, a partire dagli anni della sua prigionia, non parlerà più di questa opera, nemmeno negli intenti di risistemazione delle sue opere.
Qui comunque si apprezza già la sua qualità di scrittore romanzesco-sentimentale tra il registro del madrigale e quello del genere pastorale, che si pone a un gradino più basso del linguaggio lirico petrarchesco e si configura come un parlato letterario moderatamente realistico e discorsivo. Accanto a una dominante sensuale – in cui all'amore si accompagna la celebrazione della natura incontaminata dei luoghi – riveste un ruolo fondamentale il motivo drammatico della morte e della instabilità delle cose umane. In fondo Aminta e Silvia percorrono cammini opposti e speculari: il primo passando dall'amore alla morte (la notizia della morte dell'amata lo porta a tentare il suicidio), la seconda, invece, dalla morte all'amore (Silvia scopre di amare il protagonista una volta appresa la notizia della sua morte). I due momenti sono sempre presenti sulla scena, l'uno presuppone l'altro e, benché a lieto fine, la favola pastorale – che in questa commistione di idillio e di dramma prepara la nascita del melodramma – non celebra l'amore solo come mondo dell'eros, poiché la storia amorosa è sempre sfiorata dalle ombre cupe della morte, sovvertendo le aspettative del pubblico e della convenzione teatrale. A ragione è stato notato che l'Aminta, benché tenti di ricreare un mondo perfetto e geometrico dove valgono solo le ragioni incontrastate del desiderio e dell'aspirazione privata alla felicità o il tempo del carnevale, accoglie delle zone oscure e inquietanti che rivelano l'ambiguità di un'armonia costruita dall'immaginazione e dal sogno.
Giunge intanto la conclusione del poema. Ma proprio da questo momento cominciano il travaglio e le ossessioni che renderanno la «mente libera» del Tasso sempre più «confusa ed intralciata», come la descriveva Goethe nel dramma a lui dedicato. L'inquietudine lacerante lo induce nel 1576 ad accusare come eretici se stesso e altri membri della corte presso l'inquisitore di Ferrara. E la faccenda non era di poco conto visto che su Ferrara, feudo dello Stato pontificio, pendeva l'ombra di Roma. Il ducato sarebbe stato annesso dal pontefice nel momento in cui Alfonso II fosse morto senza eredi. Allo stesso tempo, il duca era figlio di Ercole II ma soprattutto di Renata di Francia, la duchessa che aveva favorito i protestanti e addirittura ospitato Calvino a Ferrara. Quindi, le accuse del Tasso, al di là della loro fondatezza, potevano costituire un pretesto per autorizzare interventi romani nella politica del ducato ferrarese.
Per questo ed altri motivi Alfonso II fa rinchiudere Tasso nelle prigioni del palazzo ducale dalle quali però questi riesce a fuggire, rifugiandosi prima a Bologna, dove vorrebbe riaprire il suo processo per eresia, e quindi a Sorrento, a casa della sorella Cornelia. Nel 1578, ottenuto il perdono di Alfonso II, ritorna a Ferrara dove ormai ha perduto tutti i privilegi guadagnati nei suoi anni di servizio: viene infatti alloggiato fuori dal palazzo ducale, senza più il diritto di sedere alla mensa del duca e senza gli stipendi assegnati. Da questo momento comincia inesorabile il declino del cortigiano. Si sposta vagando di città in città, a Mantova, a Padova, a Venezia, a Pesaro. Viene accolto a Torino, presso il ducato di Savoia, dal marchese Filippo d'Este. E ritorna ancora, con nuove speranze, a Ferrara, dove però non viene ricevuto dal duca, impegnato nei preparativi del proprio matrimonio con Margherita Gonzaga. Finiti i lunghi festeggiamenti nuziali, l'11 marzo 1579, Tasso si avvia verso il palazzo ducale e in un accesso d'ira prorompe in insultanti invettive nei confronti del duca e, forse, anche della duchessa Margherita. Informato subito del fatto, Alfonso lo fa rinchiudere nell'ospedale di Sant'Anna, dove comincia una lunga e tormentata detenzione tra sofferenze e allucinazioni, crisi melanconiche e dolori fisici drammaticamente documentati dal suo epistolario. A questa situazione si aggiunge la delusione provocata dalle prime stampe non autorizzate della Gerusalemme che cominciano a circolare. Dispiacere grande visto che la Liberata gode di un successo editoriale immediato, e non porta alcun guadagno all'autore.
I Discorsi dell'arte poetica e in particolare sopra il poema eroico, costituiscono un trattato che mira a rifondare il poema epico. In particolare, Tasso tenta di gettare le basi di un genere rinnovato dalla mediazione tra l'autorevole normativa dell'epos aristotelico, fondato sul criterio rigoroso dell'unità, e le spettacolari avventure del romanzo cavalleresco, con la sua varietà di temi e situazioni. Il Tasso è quindi convinto che, attraverso una sintesi dialettica, la terza via dell'epos moderno sia possibile. Occorre allora rivedere il concetto di "unità": non più un movimento narrativo unico e chiuso, contrapposto alla moltitudine delle cose, ma un intreccio aperto agli «amori, cavallerie, venture e incanti, e in somma invenzioni più vaghe e più accomodate alle nostre orecchie». Ecco dunque la «varietà» nell'«unità» che rende il poema «quasi un picciol mondo». Il poema diventa così un universo e l'autore un demiurgo che configurando – o creando – l'unità di un disegno può riprodurre l'armonia multiforme del reale e tutte le diversità saranno «con discorde concordia insieme congiunte e collegate».
Va anche ricordato che nelle Considerazioni sopra tre canzoni di Giovan Battista Pigna del 1572 (quasi dei «piccioli poemi epici») il Tasso espone una riflessione sulla tecnica narrativa che prevede «di cominciar dal confuso e pervenire al distinto». Attraverso questa modalità, introdotta nella Liberata, si produce nel lettore, condotto solo per tappe progressive verso la chiara conoscenza dei fatti, un coinvolgente effetto di suspence: «questo è un artificio per allettare l'auditore a voler sapere più oltre e per renderlo sempre avido di nuova lezione».
Per quanto riguarda la storicità della materia si sceglierà una storia «cristiana o ebrea» la cui collocazione temporale (non troppo recente né troppo antica) appaia verisimile affinché (e qui Aristotele viene recuperato in pieno) la poesia possa espletare la sua vocazione ossia essere imitazione della storia. In questo modo anche l'uso del «meraviglioso» potrà essere inglobato nella sfera del "verisimile" cristiano, assolutamente capace di inglobare e giustificare la magia e gli eventi sovrannaturali.
In questa cornice storica (non dimenticando che il Concilio di Trento si è concluso da pochi anni ed è partita la vasta campagna di riforma cattolica) si attesta la figura del «perfetto cavaliero» il quale, pur non rinnegando i valori cortesi dell'etica cavalleresca, potrà meglio incarnare le rinnovate esigenze etiche e spirituali del tardo Rinascimento. Il Tasso pone così le fondamenta teoriche per aprire la strada all'epica romanzesca.
Accanto al lavoro teorico bisogna collocare la vasta produzione lirica. Le rime tassiane, inscritte nel solco stilistico del petrarchismo, vengono ulteriormente arricchite dalla retorica «grave» di Giovanni della Casa e dalla sua nuova sintassi. Nella Lezione sopra un sonetto di Monsignor della Casa, Tasso analizza il sincretismo dellacasiano che riesce a combinare felicemente le teorie dell'imitazione aristotelica, dell'oraziano «miscere utile dulci» e dello stile magnifico dello pseudo-Demetrio Falereo. A produrre la "gravità" concorrono il «rompimento de' versi», i «concorsi delle vocali» e «una nobile negligenza per dissimulare l'arte» ovvero la cosiddetta "sprezzatura". Queste riflessioni, assieme al gusto della sperimentazione, dove anche la tecnica si conforma a un pathos intimo e alto, trovano concreta applicazione nella Liberata, e nei circa millesettecento componimenti tassiani composti e ritoccati nell'arco della sua intera vita. È un'attitudine sperimentale che non viene meno neppure negli ultimi anni e si riconosce soprattutto nell'abbandono della forma tradizionale del sonetto a favore del madrigale, più libero dagli schemi e dalle convenzioni accademiche e più facile al concerto dei sentimenti e degli affetti; una musicalità nuova che nasce dal profondo della parola e che troverà il suo erede melodico e sentimentale nel Metastasio, come osserverà, da lettore privilegiato, il Leopardi. Il corpus ricchissimo delle Rime si distribuisce, secondo l'indicazione dello stesso autore, in tre gruppi: Rime amorose, encomiastiche e sacre.
In realtà, per tutta la vita egli sottopone a revisione sia i singoli componimenti sia la macrostruttura di quello che, nelle sue intenzioni, doveva divenire il suo ampio ma organico canzoniere e non semplicemente una sterminata raccolta disorganica pubblicata per gran parte in stampe non autorizzate o tramandata in versione manoscritta o in forma estravagante. Già nel 1567 erano venute alla luce a Padova le Rime degli Academici Eterei, composte in onore della duchessa di Savoia Margherita di Valois, dove il corpus tassiano risulta il più sostanzioso con i suoi trentotto sonetti, due canzoni e due madrigali dedicati a Lucrezia Bendidio e Laura Peperara. E proprio nelle Rime degli Academici Eterei, che riproducono il lavoro dei primi anni Sessanta, si riconoscono già le linee della poetica tassiana matura, la sua precoce e fertile capacità di trovare la propria voce attraverso la tradizione lirica dei classici latini e greci e dei modelli rinascimentali più recenti.
Il giovane Tasso intuisce subito che l'Italia liberata dai Goti del Trissino ha inaugurato, rispetto alla tradizione del romanzo cavalleresco, la strada moderna del poema epico che ben si accorda alle analisi della Poetica aristotelica. Comincia quindi con il Gierusalemme la stesura dell'opera che lo impegnerà per tutta la vita. Tuttavia, rendendosi conto di avere accettato prematuramente la sfida di un epos che parli davvero ai lettori senza i limiti della rigida formula trissiniana (rivelatasi ben presto un fallimento di pubblico e di critica), decide di sospendere il progetto per dedicarsi al Rinaldo, un romanzo in ottave di dodici canti pubblicato a Venezia nel 1562 e dedicato al cardinale Luigi d'Este, fratello del duca Alfonso II. Sebbene si muovesse all'interno di uno spazio consolidato come quello del romanzo cavalleresco e portato all'apice della sua fortuna dall'Ariosto, il Tasso sperimenta un nuovo tipo di racconto per ricondurre il mondo fantastico del romance all'interno di un teatro di sentimenti. Attraverso le soluzioni antiariostesche proposte da Giambattista Giraldi Cinzio, il Tasso sostituisce all'unità d'azione aristotelica, la centralità dell'eroe unico Rinaldo, sul quale si impernia una trama ricca di peripezie e di colpi di scena prodigiosi. Fin dalle prime ottave, risulta chiara l'intenzione di assorbire nelle forme del tradizionale romanzo cavalleresco non solo i modelli classici (virgiliani in particolare), ma anche le nuove sperimentazioni narrative postariostesche, tra ciclo carolingio e ciclo bretone: Tasso, di fatto, mette alla prova il "genere", e vi introduce nuove varianti con la commedia amorosa e d'avventura, dal sapore cortigiano, di Rinaldo e di Clarice.
Nel 1565 Tasso riprende il suo poema che conclude nel 1575 con il titolo provvisorio di Gottifredo; ma nel biennio 1575-76 comincia subito il dialogo epistolare della cosiddetta «revisione romana», con alcuni lettori designati dallo stesso Tasso: Sperone Speroni, Pier Angelo da Barga, Flaminio de Nobili e Silvio Antoniano. Lo scrittore riscrive in seguito la Gerusalemme non solo a causa dei giudizi critici dei revisori ma soprattutto per una crescente insoddisfazione personale che lo sollecitava a rimettere sempre mano al testo. Nel 1576 pubblica inoltre un'Allegoria del poema per rispondere all'accusa di aver contaminato un'opera cristiana con la presenza insidiosa di amori e incanti e per mostrare come invece anche questi fossero il veicolo di alti significati morali. Ma le cose si complicano notevolmente con la detenzione a Sant'Anna dal 1579 al 1586. Nel 1581 infatti il poema vede la luce, all'insaputa dell'autore, per opera di Angelo Ingegneri con il titolo, scelto dal curatore, di Gerusalemme liberata e con due edizioni procurate da Febo Bonnà. E il capolavoro tassiano, che gode da subito di un successo straordinario, con numerose altre edizioni, si impone all'attenzione europea con l'autorità di un classico.
L'azione del poema si colloca alla fine della prima crociata durante la fase di assedio di Gerusalemme rievocando la stagione vittoriosa dell'Europa cristiana. La fonte principale è la Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di Guglielmo di Tiro integrata da altre cronache medievali. Attraverso questa scelta, il fantastico e il meraviglioso possono ben integrarsi con la realtà dei fatti storici. Ma la Gerusalemme liberata è anche una storia di affetti e di sentimenti in cui i protagonisti manifestano una complessità psicologica assai più profonda rispetto agli eroi del romanzo cavalleresco. E l'alternanza tra la visione divina e globale e i vari punti di vista emotivi, "in soggettiva", dei personaggi imprime il ritmo peculiare alla narrazione tassiana. L'attenzione alle motivazioni psicologiche dei protagonisti e l'analisi dei loro moti interiori si risolvono spesso in un'arena in cui gli impulsi, i sentimenti e i pensieri si affrontano come i personaggi sulla scena. È proprio l'impulso emotivo e psicologico del personaggio, anzi, a scandire il tempo e provocare l'azione.
Tra gli eroi cristiani, un rilievo particolare è riservato ovviamente a Goffredo di Buglione (modellato sull'Enea virgiliano). Il suo universo etico prevede che le emozioni e i desideri siano subordinate al senso del dovere che consiste nella priorità della missione da portare a termine: la presa di Gerusalemme. Goffredo non dovrà affrontare solamente l'esercito musulmano ma, sul fronte interno, gestire e contenere l'anarchica e "cavalleresca" spinta al molteplice dei suoi soldati «erranti» sui quali agisce la fascinazione del molteplice romanzesco. Emblematico è il caso di Rinaldo, giovane eroe votato all'azione e alla gloria, che fugge dal campo crociato e viene sedotto dalla maga Armida nel suo giardino incantato sulle Isole Fortunate, in un luogo esotico lontano da Gerusalemme e dalla storia. Solo quando recupererà lo spirito e il ruolo di eroe cristiano Rinaldo potrà ricondurre i suoi impulsi nella sfera dell'ordine e annullare la magia di Ismeno, liberando la selva di Saron e consentendo ai crociati di procurarsi il legname necessario per costruire le macchine belliche. Tancredi vive invece il dramma dell'amore non corrisposto. Il dramma diventa poi tragedia quando Tancredi affronta Clorinda in un duello, carico di un'ambigua sensualità che si risolve nella morte della guerriera. Ma è solo dopo averla mortalmente ferita che Tancredi scopre l'identità della nemica amata e perduta per sempre. Con la morte di Clorinda, battezzata dallo stesso Tancredi, muore anche qualcosa del guerriero che continua a patire ancora nella selva incantata dove gli appare il fantasma di Clorinda. Apparentemente marginale e slegato è l'episodio di Olindo e Sofronia. Se la donna appare più virile del suo innamorato, Olindo a sua volta ha l'ardore e la forza di compiere la scelta assoluta che li conduce entrambi un destino condiviso incontro alla morte. Sofronia è poi l'anti-Armida, la femminilità che ignora la seduzione consapevole. La sua bellezza pura e senza artifici mista a un pudore originario ma con una tempra decisa, può essere letta come il tentativo del Tasso di realizzare una cristianizzazione dell'eros dove il desiderio si converte nell'aspirazione al martirio.
Ma alle debolezze cristiane si avvicendano e si contrappongono, quelle dei musulmani cui si associa però un elemento tragico, cioè la consapevolezza della sconfitta e dell'abbandono divino. L'elegia infelice di Erminia, innamorata senza speranza di Tancredi, è quanto mai sottile e complessa. Le passioni che la dilaniano la rendono un personaggio tenero e vibrante, estranea al mito della guerra, ma pronta all'avventura notturna, dopo aver indossato la corazza sottratta furtivamente a Clorinda, che la porta lontano dal campo di battaglia, nell'arcadia serena dei pastori. Erminia vive così di una passione non corrisposta, nella gentilezza di un animo nobile e puro, inerme e, se necessario, avventuroso.
Armida, la maga, è l'incarnazione della femminilità narcisistica che incanta e incatena. La sua magia diviene fascino e seduzione. L'amore non è per lei che una tecnica di guerriglia, una trappola in cui far cadere i guerrieri cristiani traviati per deviarli dalla missione crociata. Ma la sorte (o la Provvidenza?) le ritorce contro le sue stesse armi e anche Armida conoscerà la sofferenza ardente della passione. E quando Rinaldo, tornato in sé, decide di abbandonarla, Armida, da conquistatrice, gli si offre come serva. Sul versante maschile, ecco invece Argante con la sua violenza rabbiosa e selvaggia che diventa autodistruzione. Ma è soprattutto Solimano, il titano solitario e senza potere, a vivere sino in fondo la visione tragica di una realtà abbandonata da Dio. La sua profonda autenticità si afferma, prima che Rinaldo lo uccida, mentre contempla «quasi in teatro od in agone, / l'aspra tragedia de lo stato umano». Qui Solimano comprende la sconfitta e l'imminenza della morte: segni enigmatici del comune destino umano. È la verità dei vinti. Come già nei Discorsi dell'arte poetica che accompagnano la stesura dei primi canti della Liberata, il Tasso mira a conciliare la problematicità della storia con il senso angoscioso per le sorti dell'uomo entro una struttura certa e coerente, che conferisca unità a un mondo di passioni e di impulsi centrifughi. Diversamente dalla tecnica narrativa ariostesca dell'entrelacement, qui i molti personaggi e le numerose vicende in definitiva si riconducono a due "unità" narrative: un'azione, la conquista di Gerusalemme, e un protagonista, Goffredo. Ciò che importa è far coesistere l'unità in un complesso intreccio di digressioni, muovendo da un nucleo centrale da cui si dipartono gli episodi secondari legati ai vari personaggi, e orchestrando così una sapiente partitura di sequenze e di storie, che diviene tensione, equilibrio dinamico del racconto.
Ma l'unità ha anche un valore ideologico rispetto alla "molteplicità" confusa. La monarchia viene dunque proposta all'inizio del poema attraverso la nomina divina di Goffredo in qualità di comandante supremo delle forze cristiane accreditando così un ordine verticale. Stato e poema in qualche modo coincidono e costituiscono una sorta di "organismo vivente" in accordo con la nozione aristotelica di gerarchia ordinata. Ma in concreto il molteplice resta una sfida, una tentazione, un ostacolo all'interno della trama narrativa che diviene anch'esso parte della trama. La «verisimiglianza» include anche il "meraviglioso" della magia e del sovrannatuale. È il "meraviglioso cristiano" che dà spazio alle apparizioni demoniache, ai riti notturni di un immaginario, vivo e reale anche ai tempi del Tasso, dell'informe e del non-umano. La magia diventa così uno strumento espressivo per esplorare la vita interiore e gli impulsi più oscuri dell'uomo.
Nella Liberata assistiamo a un diverso uso della magia rispetto alle modalità più libere e ingenue della tradizione cavalleresca. Questo "meraviglioso cristiano" permette al Tasso di motivare la presenza di forze occulte anche all'interno di un ordine divino e provvidenziale. Il "meraviglioso" della Liberata può quindi avvalersi di quelle categorie di origine ermetico-platoniche quali la distinzione tra magia naturale e magia cerimoniale (argomento scottante nel Cinquecento che vide schierati anche Ficino e Pico della Mirandola) impersonate rispettivamente dal mago d'Ascalona e da Ismeno. La poesia del Tasso non mira solamente a razionalizzare l'universo dell'occulto ma, per fare un esempio, nel concilio infernale del IV canto, Satana rivendica la propria dignità tragica di ribelle condannato alla sconfitta e al fallimento. Non è ancora il Satana del Paradise lost di Milton, ma ha già il pathos drammatico di un destino che diviene storia, coscienza lucida del negativo e del disordine come forza vitale. Anche il XIII canto, che è il centro del poema, può definirsi alla fine un canto diabolico. La selva che viene occupata dagli spiriti infernali grazie alle operazioni magiche del mago Ismeno diventa uno spazio di allucinazioni e di ombre diaboliche che rendono la foresta la proiezione onirica di chi vi si addentra.
Oltre che di una nuova lingua epica e dispositivi retorici adeguati, l'universo verbale del Tasso si avvale di una parola che riesce a fondere gli elementi pittorici con le emozioni dei suoi personaggi. L'ottava della Liberata cerca sempre di visualizzare gli eventi e i pensieri per farli diventare spettacolo, messa in scena e centro visibile di affetti e passioni. Così, impiegando le immagini e le loro associazioni emotive, Tasso inventa una sorta di montaggio patetico che scandisce la narrazione attraverso un «parlar disgiunto», una struttura paratattica di frasi in sequenza, quasi come altrettante inquadrature di un film. Questa disposizione figurativa e patetica in forma di chiasmo si riflette anche nell'organizzazione dello spazio. Il paesaggio assume un valore preminente proprio perché rimanda all'interiorità affettiva dei protagonisti e ne illumina il destino. Si ricordi che sta del resto nascendo nelle arti figurative il paesaggio come nuovo genere rappresentativo. La Gerusalemme liberata è un poema che si può vedere. Il poeta della Liberata è davvero un narratore, che ha il gusto dello spettacolo e vede il mondo come se fosse un teatro. La stessa guerra, che all'inizio è uno spettacolo festoso, conduce alla fine a un campo di cadaveri e di distruzione, di sangue e di fango, una "orribile armonia" in cui l'esistenza scopre la dissonanza, la ferita antica, la lacerazione dell'essere. E su questa polarità si costruisce anche la storia individuale dei personaggi.
Ma la Gerusalemme continua a vivere, a cambiare, a crescere. Subito dopo aver concluso la Liberata, a parte le sollecitazioni e le proposte (o i sospetti) dei revisori romani, il Tasso, con la ferma consapevolezza che gli viene dalla rilettura e dallo studio dei classici, delle sacre Scritture e delle opere dei Padri della Chiesa, intraprende una "correzione" profonda del testo con l'intenzione di renderlo il vero poema epico cristiano, conforme all'ortodossia controriformistica. Di qui i numerosi cambiamenti che riguardano, come si legge in una lettera a Lorenzo Malpiglio del 1586, la «revisione», la «correzione», l'«accrescimento», il «troncar molte cose […] soverchie, ed altre mutarne». Così la Conquistata, edita nel 1593, conta 24 "libri" dove anche il passaggio da "canti" a "libri" rispecchia il disegno di far coincidere il poema con l'archetipo epico dell'Iliade. Vengono eliminati alcuni episodi ritenuti ora inutili digressioni romanzesche rispetto al corpo centrale dell'azione e alla sua ordinata sequenzialità lineare (vengono così espunti l'avventura di Olindo e Sofronia, il viaggio di Carlo e Ubaldo, e la fuga di Erminia fra i pastori). Allo stesso modo agisce la volontà di attenuare l'impatto del "meraviglioso" verisimile per accrescere la credibilità storica e la funzionalità dell'allegoria. Numerosi sono gli episodi ispirati dai testi della patristica, ma ciò che più conta anche in questo caso è l'allegorizzazione delle immagini e la loro valenza sapienziale. Tuttavia, si attenua la complessità e la varietà degli affetti e dei rapporti umani. Ora, la contrapposizione fra crociati e infedeli, diviene radicale ed esclusiva e un eroe tragico come Solimano non contempla più l'«aspra tragedia dello stato umano», ma viene totalmente assimilato alla sorda ferocia guerriera. La vera novità dell'opera riformata non riguarda tanto la «favola» e la sua concentrazione narrativa quanto una profonda risignificazione del testo e della sua funzione epica, che non è più quella avventurosa e drammatica della Liberata. La voce che racconta ha una severità intensa e solenne mentre il piacere dello spettacolo, il teatro dell'uomo e delle sue passioni, si trasforma in un cerimoniale austero di sentimenti e gesti canonici. Ne deriva una sorta di neoclassicismo cristiano nobilitato dalla poetica e dall'ethos del sublime. I lettori però restano fedeli alla giovinezza affabulatrice della Liberata mentre la Conquistata ne offre di fatto un rifacimento rigido e monumentale.
Nel carcere di Sant'Anna comunque il Tasso non rimane affatto inattivo. Scrive la gran parte del suo epistolario (circa millesettecento lettere) che rappresenta una testimonianza ricca ed autentica dell'intima storia del poeta e delle sue relazioni. Nell'isolamento della prigione la scrittura costituisce quasi esclusivamente l'unico mezzo di relazione e comunicazione con il mondo esterno, oltre che il tentativo di dare un ordine alle tormentate vicende personali e di illustrare il "quadro clinico" della sua malattia. Mentre i contemporanei ritenevano che la follia fosse cagionata da una malinconia di natura fisiologica, il Tasso era fermamente convinto che l'origine del suo male dipendesse da azioni magiche operate dai suoi nemici o da forze occulte del mondo invisibile. Scriveva d'«essere stato ammaliato» e raccontava di «tintinni ne gli orecchi e ne la testa, alcuna volta sì forti che mi pare di averci un di questi orioli da corda», di un «folletto c'apre le casse e toglie i danari» e «mette tutti i libri sottosopra: apre le casse: ruba le chiavi», di «fiammette ne l'aria» e di «faville» che uscivano dai suoi stessi occhi, sino a concludere che più di un «medico» gli occorreva un «essorcista» («perch'il male è per arte magica»). Nel carcere l'angoscia solitaria che opprime l'animo disarmato del poeta, diventava «l'assedio minaccioso di un mondo inafferrabile di fruscii, di voci ("tintinni di orioli da corda", ripetono i suoi racconti), di fantasmi che egli crede di percepire e di cui si sente prigioniero. Il suo rapporto con questo mondo di spiriti diviene cronicamente disperato. Si legge in una lettera del 1585: «... le cose peggiorano molto percioché il diavolo, co'l quale io dormiva e passeggiava, non avendo potuto aver quella pace ch'ei voleva meco, è divenuto manifesto ladro de' miei danari, e me gli toglie da dosso quand'io dormo, ed apre le casse, ch'io non me ne posso guardare».
L'epistolario
Tasso si presenta spesso come vittima, come l'artista "malinconico" perseguitato dal potere. Ma accanto a questi momenti vi sono anche la sincerità e l'immediatezza di chi alle lettere affida le proprie speranze, delusioni e riflessioni morali: la sofferenza e il cruccio quotidiano emergono, in particolare, nelle ricorrenti richieste di aiuti economici e appoggi politici rivolte a principi, signori e prelati. E le lettere più intense e toccanti sono quelle in cui il poeta descrive se stesso smarrito nei labirinti della follia, tra incubi e allucinazioni. Anche se afferma di aver scritto le sue lettere senza impegno e solo per «ischivar vergogna», l'epistolario appare uno dei documenti più vividi della prosa cinquecentesca, in uno stile raffinato e complesso, colto e insieme familiare, di un'eloquenza commossa: un modello di prosa per un "genere" letterario che anticipa quello delle memorie, delle confessioni e persino dei quaderni dal carcere. Mentre da un lato nella libreria del suo castello il Montaigne degli Essais, lontano dalle corti e dai rumori della città, esplora la condizione umana e l'universo della soggettività, Tasso, dal carcere di Ferrara (dove fu visitato dallo stesso Montaigne), traccia il percorso "notturno" di un'angoscia solitaria che opprime l'animo alienato e minacciato da un'interna scissione.
Come l'epistolario anche i dialoghi vengono elaborati quasi per intero a Sant'Anna e il Forestiero napolitano, interlocutore e protagonista, non è che il Tasso incarcerato. Legati alle occasioni più diverse e senza un progetto prestabilito, sono tuttavia accomunati da un disegno stilistico unitario e progressivamente vengono a formare un sistema aperto che non si realizzerà mai nell'ordine chiuso del libro. Per Tasso l'esercizio dialogico costituisce una prova di equilibrato e composto ragionamento e, insieme, una terapia, una risposta alle afflizioni e ai turbamenti di un'infermità riconosciuta quasi come un caso clinico, cercando nella letteratura il sostegno di un ordine razionale, di una integrità intellettuale non intaccata dai tormenti della malattia. Qui però, a differenza dell'atmosfera angosciata e ossessiva delle lettere, l'atmosfera è molto diversa. Quando dialoga con amici, poeti e potenti Tasso prende le distanze dalla cronaca misera del recluso e costruisce una serena ed elegante scena immaginaria di voci, personaggi e situazioni, non dimenticando poi la sperimentazione, tra filologia, filosofia, retorica e letteratura, di nuove forme del genere dialogico all'interno della grande tradizione rinascimentale. Ne viene una scrittura limpida e ornata, con un sapore insieme arcaico e moderno e le diverse stesure dei testi sono il segno di un'attenzione stilistica quanto mai consapevole e laboriosa. I temi di riflessione sono molteplici, dal costume al dibattito filosofico, dalla nobiltà all'amore, dal problema neoplatonico dei demoni a quello della gestione della casa e del patrimonio familiare, dalla poesia all'etica.
Dopo anni di sofferenze, suppliche e lamenti, Tasso viene finalmente liberato nel 1586 con il permesso di soggiornare presso il ducato di Mantova con Vincenzo Gonzaga, figlio del duca Guglielmo. Qui il poeta riprende il precedente testo del Galealto re di Norvegia, rimasto interrotto alla scena IV del II atto, e la stesura compiuta viene pubblicata a Bergamo nel 1587 con il titolo di Re Torrismondo. La rielaborazione di questo testo tragico ambientato nelle lontane regioni del Settentrione avviene dopo una meditata rilettura di Aristotele che nella Poetica, aveva sancito la superiorità della tragedia sull'epica e codificato la sua interna struttura. Il soggetto del racconto trova la sua matrice nelle tragedie senechiane e nel tema dell'incento ispirato dall'Edipo re e rivisitato dalla Canace di Sperone Speroni. Tra le fonti storiche della tragedia (e così era stato anche per il dialogo del Messaggiero) vi è sicuramente l'Historia de gentibus septentrionalibus del vescovo di Uppsala Olao Magno stampata a Roma nel 1555, da cui Tasso ricava le scenografie esotiche dei desolanti paesaggi nordici, sul cui sfondo i personaggi vivono passioni oscure e radicali. In questo Settentrione aspro e tempestoso si colloca la storia di Germondo, re di Svezia, che si innamora di Alvida, principessa di Norvegia, alla quale ha ucciso il padre in battaglia. Il re svedese chiede all'amico Torrismondo, principe dei Goti, di recarsi presso il regno di Alvida col pretesto di prenderla in sposa mentre in realtà dovrà condurla in Svezia e lasciarla al sovrano. Torrismondo esegue la sua missione, ma durante il viaggio di ritorno si innamora di Alvida. Il giovane scopre tuttavia che in realtà Alvida è sua sorella e la terribile verità lo getta nella più cupa e disperata costernazione. La donna, a sua volta, credendo invece di non essere amata, decide di togliersi la vita, e il suo suicidio si porta dietro quello di Torrismondo.
I nuclei profondi che muovono tutto il dramma, assieme al contrasto tra l'amicizia e l'amore, sono le passioni dell'autodistruzione e dell'annientamento, la forza oscura e possente di un destino di amore e morte ispirati forse al mito di Tristano e Isotta. È una tristezza fonda che sembra scendere alle radici dell'essere e che trova espressione nel coro dolente e stupefatto di «Ahi lacrime, ahi dolore: / passa la vita e si dilegua e fugge, / come giel che si strugge. […] Dopo trionfo e palma, / sol qui restano a l'alma / lutto e lamento e lagrimosi lai».
Ma il Tasso resta insoddisfatto e non ha pace. Riprende le peregrinazioni che lo portano nel 1587 a Roma e nel 1588 a Napoli, presso un monastero dove scrive il Monte Oliveto (un poema encomiastico rimasto interrotto rivolto alla congregazione benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto). Gli ultimi anni di vita, trascorsi fra Roma e Napoli, lo vedono impegnato nella stesura di opere di argomento devozionale. Pubblica, come si è già detto, nel 1593 la Gerusalemme conquistata, in ventiquattro canti, riscritta in una severa tonalità epico-religiosa. Si dedica contemporaneamente alla poesia religiosa e scrive due poemetti in ottave, le Stanze per le lacrime di Maria e le Stanze per le lacrime di Gesù Cristo, e fra il 1592 e il 1594 compone, in endecasillabi sciolti, il poema Le sette giornate del mondo creato. Questo poema didascalico in endecasillabi sciolti (quasi un De rerum natura cattolico) racconta ed esalta, sull'esempio degli esameroni medievali e del libro della Genesi, il mito cristiano della creazione e vuole così proporsi come una sorta di enciclopedia poetica su tutto il cosmo. La matrice tomistica avvalora la realtà positiva del creato offrendo di ogni creatura, lungo la scala dell'essere, un preciso significato simbolico e morale. Del tomismo non passano però nel Tasso il rigore speculativo e l'istanza razionale dell'architettura ontologica dell'universo. Resta l'ispirazione trepida e commossa degli elementi celesti e il piacere descrittivo di tutti gli esseri nell'«adorno \ maraviglioso, grande, ampio teatro \ de le cose create (VII, 48-50). Il poema, nel suo elenco brulicante di fenomeni, commenti e citazioni, assume così l'umiltà di un sentimento di preghiera dove i «mortali» sono sempre apostrofati «miseri» o «egri» e ogni prodotto della Natura richiama un continuo monito alla potenza del «gran Mastro» mentre ripetute sono le esortazioni ad ammirare la «maraviglia» delle creature del mondo per trarne un insegnamento morale. Il recupero della patristica, in conformità agli ideali disciplinati della Chiesa postridentina, avvicina il Tasso devoto allo spirito dell'eloquenza borromaica di un Botero o di un Panigarola, dove al docere si associano intimamente le ragioni poetiche del movere. Anche nel grigiore di una vecchiaia precoce, tra stanchezza del vivere e rassegnazione accorata, il poeta del Mondo creato sa ancora mettersi alla prova di un endecasillabo fervido e grave, preludio, per certi aspetti, alla poesia metafisica del Seicento più meditativo.
Nell'autunno del 1594 Tasso ottiene una pensione dal papa, che gli promette anche la solenne incoronazione poetica in Campidoglio, un riconoscimento che lo avrebbe ricompensato parzialmente delle molte angosce sofferte. Ma la sorte non riserva più favori al Tasso che nell'aprile del 1595, poco prima della cerimonia, muore per una grave malattia presso il convento di Sant'Onofrio sul Gianicolo. Si spegne così il testimone più vitale di una stagione storica travagliata e incerta dove le ragioni umane e quelle della poesia coincidono con le contraddizioni di una società in crisi. I tormenti dell'animo, l'irrequietezza, l'insoddisfazione e l'angoscia si manifestano nelle incessanti peregrinazioni del poeta e nei traumi allucinati di sradicamento aggravato dal rigore e dalla disciplina del tardo Cinquecento. E sul piano letterario alla stabilità della molteplice armonia ariostesca segue l'instabilità di un'unità perduta e la norma che la deve neutralizzare. Rispetto al modello romanzesco del Furioso, soprattutto in riferimento alla storicità della materia e all'unità di azione, Tasso sceglie una soluzione radicalmente alternativa. Con la Gerusalemme liberata le individualità e le forze che le guidano acquistano un nuovo rilievo. La coscienza diviene l'arena in cui affetti ed emozioni dei personaggi si affrontano. Da questo teatro dell'anima emerge una nuova soggettività che prefigura il passaggio dall'epos al romanzo introspettivo moderno.
L'itinerario biografico e letterario del Tasso si colloca così in un tempo diviso fra i rigori imposti della Controriforma e il rimpianto nostalgico per il sogno rinascimentale. Orgoglioso della propria giovinezza e della sua inventiva avanguardia egli si sente però "straniero" nella civiltà sempre più chiusa e neo-feudale del potere cortese. «Pellegrino errante» si definirà del resto nelle prime ottave della Gerusalemme liberata. La sua è una coscienza infelice, esposta alla pressione di fattori esterni e interni, simile in qualche modo all'Amleto shakespeariano che di lì a pochi anni apparirà sulla scena europea a interpretare il dramma della soggettività moderna.