1. Nel segno del Tasso
I tre soggiorni di Torquato Tasso a Napoli (1588, 1592, 1594), negli anni in cui lavora alla stesura del Mondo creato, lasciarono un segno profondo negli artisti e negli intellettuali della vivace capitale del Regno, tra i quali il giovane brillante e irrequieto Giovan Battista Marino. Poco si conosce della giovinezza del Marino. La famiglia lo avvia agli studi giuridici, ma il giovane poeta, decisamente propenso ad altre attività e passioni, dopo la rottura col padre Giovan Francesco, sarà presto al servizio di Matteo di Capua, principe di Conca. Presso la corte di questo aristocratico Marino comincia a scrivere l'Adone , la Strage de gl'Innocenti e progetta, sotto l'influsso del Tasso, una Gierusalemme distrutta.
Risale a questo periodo la collaborazione e l'amicizia con Giovan Battista Manso, amico e biografo del Tasso, che affida al Marino la pubblicazione del dialogo tassiano Il Manso, ovvero dell'amicizia e probabilmente lo introduce all'Accademia degli Svegliati. Seguono le due esperienze del carcere napoletano. Le cause della prima, nel 1598, risultano ancora piuttosto oscure. Non è chiaro se l'accusa riguardasse un episodio di sodomia o la seduzione di una fanciulla morta al sesto mese di gravidanza. La seconda detenzione fu causata dalla falsificazione dei documenti riguardanti gli atti processuali di un amico accusato di omicidio. Questa volta il Marino abbandona il carcere grazie alla fuga.
2. Da Roma a Ravenna
Il poeta quindi, dal 1600 al 1605, si rifugia a Roma dove ottiene un grande successo con la pubblicazione delle Rime nel 1602. Qui comincia a ingraziarsi l'ambiente ecclesiastico e a introdursi in quello artistico e mondano. Entra al servizio prima di monsignor Melchiorre Crescenzi e poi del cardinal Pietro Aldobrandini, nipote del pontefice Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini) e diviene il membro di spicco dell'Accademia degli Umoristi fondata nel 1602 e frequentata da artisti e intellettuali del calibro di Gabriello Chiabrera, Giovanni Ciampoli, Giovanni Battista Guarini, Alessandro Tassoni, Gaspare Murtola, Tommaso Stigliani. Si rinnovano gli annunci (che restano tali) sulla composizione del nuovo poema epico della Gerusalemme distrutta che avrebbe dovuto superare il modello tassiano. Ha quindi la possibilità di seguire il cardinal nipote a Ravenna dove, grazie alla lettura in traduzione latina delle Dionisiache di Nonno recupera nuovi temi ed episodi per l'Adone e prefigura gli idilli della Sampogna. Ma del suo entusiasmo per il viaggio a Ravenna si legga dalla lettera che scrisse a Simon Carlo Rondinelli nel 1605:
Fiutaculo (ché così ha nome il mulo, ch'io ho cavalcato in questo viaggio, perché non voleva mai dare un passo, se non teneva il muso fitto sotto la coda dell'altre bestie) mi ha pur finalmente post varios casus portato sano e salvo in Ravenna, se bene co' coglioni tormentati e con le natiche peste. Ma appena giunto, mi è entrato uno sfinimento nel core, che mi fa vivere disperatissimo. Questa è una città, anzi un deserto, che non l'abiterebbono i zingari. Aria pestifera. Penuria di vitto. Vini pessimi. Acque calde ed infami. Gente poca, e salvatica, e senza manichei. O bella Roma, io ti sospiro!
Tuttavia in questi anni il Marino viene a contatto con le città e gli ambienti dell'Italia settentrionale. Pubblica nel 1607 l'idillio Il rapimento d'Europa e stringe rapporti d'amicizia con Gian Vincenzo Imperiali e il pittore Bernardo Castello. Molto proficua per il Marino si rivela la conoscenza dello sperimentalismo concettista praticato nell'Accademia dei Gelati a Bologna. Ma in particolare nuovi orizzonti narrativi e tematici verranno aperti da due pubblicazioni francesi: la nuova edizione dei bucolici ed epigrammatisti alessandrini del 1606 curata da Henri Estienne (Poetae graeci veteres carminis heroici scriptores qui extant omnes) e, come si diceva, la prima traduzione latina delle Dionisiache di Nonno di Panopoli del 1605 che trova a Ravenna.
3. Da Torino a Parigi
Nel 1608 segue ancora l'Aldobrandini a Torino presso la corte del duca Carlo Emanuele di Savoia al quale dedica il panegirico Il ritratto di don Carlo Emanuello. Torino offre a Marino esperienze intense quali la nomina a cavaliere dell'ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e la rivalità con Gaspare Murtola, il poeta di corte con il quale scambia sonetti violenti e ingiuriosi. Il Murtola, profondamente offeso ed esasperato, il 1o febbraio del 1609, giunge persino a sparargli, «suggellando tutte l'altre sue minchionerie con questa» (come scrive pochi giorni dopo il Marino a Fortuniano Sanvitale), senza però colpirlo. Il poeta napoletano tenta una difesa dalle accuse del Murtola (e al tempo stesso chiede clemenza per il suo attentatore) con una lunga lettera al duca:
E che hanno da far le penne innocenti con gli ordigni micidiali? Il suono delle rime col suono delle sparate? Le fischiate delle burle coi fischi de' cannoni? Se pure nutriva nel cuore contro di me così mal talento, doveva bastargli di fulminar rime, e non fiamme, satire, e non palle; doveva contentarsi di vibrar lingua di veleno, e non lingue di fuoco, vomitar fiele da una gola serpentina, e non piombo da una canna ferrata; doveva venir con l'epistole, e non con le pistole; con lo stile, e non con lo stiletto; con l'arco, e non con l'archibugio.
La vendetta verrà poi con la poesia, nei violenti sonetti della Murtoleide. Nel frattempo, le voci sulla presunta empietà di versi osceni scritti dal Marino si moltiplicano al punto da giungere al Sant'Uffizio. Nel 1611 Marino viene fatto arrestare da Carlo Emanuele che l'accusa di averlo satireggiato con le insinuazioni irriverenti di alcune sue poesie. Scrive in una lettera a Francesco Gonzaga che «quando io aspettava qualche ricompensa della mia servitù in questa corte, eccomi in prigione sotto pretesto che io abbia nelle mie poesie scherzato poco modestamente intorno alla persona del serenissimo padrone». Marino soffre molto la detenzione anche perché viene privato dei suoi manoscritti. Scrive in una lettera del gennaio 1612:
Mi trovo nell'inferno; titolo che ragionevolemente do alla caverna, dove mi ritrovo condannato; e molto a ragione, percioché vi è la pena del danno e la pena del senso. […]
A Torquato Tasso non fu mai da Alfonso da Este, prencipe di gloriosa memoria, usata tanta crudeltà, che non potesse almeno nel tempo della sua carcerazione spender l'ore utilmente scrivendo ed emendando i suoi scritti. Ed io solo (se bene il paragone è difforme) sarò quell'infelice, a cui con la perdita della luce e di tutte l'altre cose conviene anche perdere il tempo ed i sudori di tanti anni?
Si vede già (e meglio si vedrà più avanti) come l'ombra del Tasso, non solo delle sue opere ma della stessa biografia, costituisca per il Marino un costante modello di riferimento. Dopo la pubblicazione delle Dicerie sacre (1614), nel 1615, sia per l'invito di Maria de' Medici, vedova del re francese Enrico IV, che per sfuggire alla richiesta di incarcerazione dell'Inquisizione, Marino si sposta a Parigi. Da una sua lettera del 1615 a Lorenzo Scoto ricaviamo le sue prime impressioni sulla società francese:
Vi do aviso che son in Parigi, dove … mi son dato tutto tutto al linguaggio francioso. […] Né più né meno la Francia è tutta piena di ripugnanze e di sproporzioni, le quali però formano una discordia concorde che la conserva. Costumi bizzarri, furie terribili, mutazioni continue, guerre civili perpetue, disordini senza regola, estremi senza mezo, scompigli, garbugli, disconcerti e confusioni: cose, insomma, che la dovrebbono distruggere, per miracolo la tengono in piedi. Un mondo veramente, anzi un mondaccio più stravagante del mondo istesso.
Gli uomini … hanno per costume d'andar sempre stivalati e speronati... Né per altra cagione penso io che costoro sian chiamati «galli», se non perché appunto come tanti galletti hanno a tutte l'ore gli sproni a' piedi. […] Ma in quanto a me più tosto che «galli» doverebbono esser detti «papagalli»; poiché se ben la maggior parte, quanto alla cappa ed alle calze vestono di scarlatto, sì che paiono tanti cardinali, il resto poi è di più colori che non son le tavolozze de' depintori.
[…] Volete voi altro? Infino il parlar è pieno di stravaganze. L'oro s'appella «argento». Il far colazione si dice «digiunare». Le città son dette «ville». I medici «medicini».
Tuttavia questi anni si rivelano particolarmente laboriosi e produttivi. Pubblica, gli Epitalami (dedicati al maresciallo Concino Concini, favorito della regina madre), La Galeria e La Sampogna. Qui, grazie a un lauto stipendio, condurrà una vita ricca e sfarzosa come testimonia una lettera all'amico Sanvitale: «Son vivo (la Dio mercé), sano e (quod peius) ricco come un asino. Le mie fortune qui vanno assai bene. Son ben veduto da questa maestà ed accarezzato da tutti questi prencipi». Marino a Parigi seppe dunque condursi con consumata perizia e accortezza diplomatica evitando le insidie e i contingenti rovesci della politica a corte. Con un colpo di mano, infatti, nell'aprile del 1617, Luigi XIII fa uccidere il Concini, esautorando di fatto la madre dal potere nel regno. Con una mossa spregiudicata Marino scrive, dedicandola a Luigi XIII, un'opera, la Sferza, contro alcuni ministri protestanti che avevano offeso il re. Con questa felice e inaspettata operazione riesce ad ingraziarsi la simpatia e il favore del sovrano francese. Il Marino può così scrivere a Crescenzio Crescenzi che «con la perdita de' miei partialissimi Protettori non ho punto perduto del favore di questa Corona, anzi Sua Maestà mi ha cresciuta la pensione alla somma di dumila scudi».
Tra il 1621 e il 1623 si svolgerà, sempre a Parigi, la travagliata stampa dell'Adone, dedicato al re di Francia. Il 1621 è anche l'anno della morte di papa Paolo V e della successione di Gregorio XV che si dimostra benevolo nei confronti del poeta "esule" tutelandolo dal braccio dell'Inquisizione italiana. Sono proprio gli anni parigini quelli in cui si sviluppa e definisce l'ellenismo del Marino. Proprio in Francia, la riscoperta degli alessandrini greci trova un terreno così fertile che la poesia del Marino (dopo aver assorbito le teorie dei nuovi orientamenti d'oltralpe) vi si impianta e si afferma come brillante punto di riferimento.
4. Gli ultimi anni
Nel 1623 torna trionfalmente in Italia, prima a Torino, poi a Roma dove verrà nominato principe dell'Accademia degli Umoristi. Ma un nuovo evento scuoterà nuovamente lo scenario italiano. Con la morte di Gregorio XV, il nuovo pontefice Urbano VIII (Maffeo Barberini) si impegna a favorire un nuovo orientamento classicistico, patrocinato autorevolmente in ambito culturale e artistico dai gesuiti, che si colloca su un versante opposto rispetto all'edonismo della poesia di Marino. Anche l'Inquisizione e l'Indice riapriranno le ostilità verso il poeta dell'Adone che assisterà alla proibizione di nuove edizioni del poema all'interno degli stati pontifici. Marino decide quindi di spostarsi nuovamente a Napoli, presso il convento dei Teatini. Anche qui viene accolto con grandi onori e diventa principe dell'Accademia degli Oziosi. Come scrive in una lettera ad Antonio Bruni: «Io sono entrato non so come coglionescamente in una grande e continova obligazione, alla quale ormai non posso più supplire, e ne sono già stracco. […] In effetto gli applausi e l'acclamazioni son grandi e tali, ch'io mi vergogno di dirlo». E a Fortuniano Sanvitale:
Mi ritrovo dopo tanti anni di peregrinazione nella mia patria, ricevuto ed accarezzato con tanti onori e con tanti applausi, ch'io, che conosco assai bene i pochi meriti miei, resto pieno di confusione, né posso non vergognarmi di me stesso. […] Son prencipe di questa academia, con concorso frequentissimo di tanta moltitudine di titolati, di cavalieri e di letterati, che veramente è cosa mirabile.
Il successo di Marino quindi non accenna a diminuire ma nel 1624 si ammala e muore l'anno successivo. Con la sua poesia il Marino conquista, tra i contemporanei, un successo che supera quello del Tasso. La sua vita, da Napoli a Parigi, non è vincolata a una corte o a un principe, ma dipende dai ricchi guadagni derivanti dal suo lavoro. Le letture sterminate (benché non conoscesse il greco) e la costante ricerca di novità gli fornirono una erudizione vasta anche se non profonda che tuttavia gli permise di proporsi come audace sperimentatore in tutti i generi letterari.
1. Marino e il marinismo
Già nel Settecento la poesia concettista è conosciuta con il termine "marinismo". Ciò testimonia non solo il successo e l'influenza del poeta napoletano ma la nascita di una nuova lirica che seppe superare il petrarchismo cinquecentesco. Con Marino il codice lirico moltiplica i temi ed estende, innovandolo, il canone estetico del rappresentabile non limitandosi più ai temi amorosi, ma aprendosi a molteplici manifestazioni della vita quotidiana, attraverso la ricerca esasperata degli aspetti rari e bizzarri, inusuali e sorprendenti, senza ritrarsi dinanzi al brutto, o al deforme. Dietro questa esuberante vitalità, si cela forse un senso di vuoto angosciato e di morte che trova una sorta di appiglio nello stordimento della parola e dei sensi. Il Marino diventa l'alfiere di una poesia irregolare e anticlassicista che rifiuta il canone mimetico della verisimiglianza in quanto ha come obiettivo costante l'effetto di sorpresa e di «meraviglia» da suscitare nei lettori. L'imitazione non ha più lo scopo di ripetere i temi e i modelli del classicismo ma quello di creare una serrata serie di figure, di effetti sonori, di accostamenti tematici nuovi e imprevisti. Scrive stizzito in una lettera del 1624 a Girolamo Preti che aveva definito il poema mariniano «poema fantastico e fuor di regola»:
Intanto i miei libri, che sono fatti contro le regole, si vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere; e quelli che son regolati, se ne stanno a scopar la polvere delle librarie. Io pretendo di saper le regole più che non sanno tutti i pedanti insieme, ma la vera regola (cor mio bello) è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo.
2. Le Rime e La lira
Le Rime, pubblicate nel 1602, sono suddivise in due parti. La prima consta di otto sezioni: Amorose, Marittime, Boscherecce, Eroiche, Lugubri, Morali, Sacre e Varie. La seconda è invece divisa per forme e include e raccoglie, con tematiche diverse, Madrigali, Canzoni e Canzonette. In queste poesie si ravvisano, più dei poeti contemporanei napoletani, le profonde tracce lasciate dalle liriche di Luigi Tansillo, Bernardo Tasso e Giovanni Pontano.
Alla ristampa del 1614, dal titolo La lira, si aggiunge una terza sezione di poesie comprendente Amori, Lodi, Lagrime, Divozioni, Capricci. Ristampa sofferta come si legge nella lettera del 1614 a Guidubaldo Benamati:
Chi manda l'opere sua a stampar fuora, dove non possa intervenire l'occhio dell'autore, un gran balordo. Sono in tanta smania, che penso d'impazzirne o di creparne. Insomma le stampe moderne son diventate mercanzie, né tendono ad altro fine che d'interesse; e vi si lavora a giornate ed a a canne, come fanno i muratori. Stentare gli anni per tirare a fine qualche fatica e poi in cambio d'onore, correr rischio di riportarne vergogna! È venuto l'altro volume delle mie rime stampato, ma pieno di tanti farfalloni, che non so se se ne debba sentire maggior rabbia o pietà.
Con un canzoniere di oltre mille componimenti il Marino si propone come l'innovatore del genere lirico tentando di superare, con la moltiplicazione delle possibilità retoriche e tematiche, sia il modello petrarchesco, che rimane sempre – soprattutto per la casistica amorosa – il codice di riferimento, che la tradizione del petrarchismo rinascimentale del Bembo, del Casa e del Tasso benché da quest'ultimo vengono ripresi molti temi. Sul piano retorico la figura più utilizzata è la metafora, figura capace di dinamizzare il messaggio e, attraverso la sua evidenza icastica, metterlo in scena come in un "teatro di meraviglie". È con la metafora che viene a crearsi un'aggiunta di significato poiché anche il lettore viene costretto a un atto creativo che sia in grado di convertire il messaggio dalla lettera, spesso enigmatico, al senso compiuto. Questo atto di decodificazione, avvicina il lettore al processo creativo del poeta con il quale intrattiene, in rapporto di complicità, un godimento intellettuale nel continuo tentativo di decifrarne le soluzioni ingegnose.
3. Le dicerie sacre
Pubblicate, come La lira, nel 1614 quest'opera consta di tre prose: La Pittura, La Musica, Il Cielo. Si tratta in effetti di tre prediche, composte secondo i canoni dell'oratoria sacra, indirizzate a tre membri della famiglia dei Savoia (rispettivamente a Carlo Emanuele, a Maurizio e a Vittorio Amedeo), che costituiscono un episodio forse unico della letteratura italiana poiché scritte da uno scrittore secolare che tuttavia riteneva di aver composto un'opera fondamentale per il mondo ecclesiastico. Scriveva infatti in una lettera del 1614 a Guidubaldo Benamati:
Intanto qui a Torino fo stampare certi miei discorsi sacri, i quali ardisco di dire (e scusimi la modestia) che faranno stupire il mondo. Parrà cosa stravante e inaspettata, massime a chi non sa gli studi particolari ch'io fin da' primi anni ho fatti sopra la Sacra Scrittura. Ma è opera da me particolarmente stimata ed in cui ho durata fatica lunghissima. Spero che piaceranno, sì per la novità e bizzaria della invenzione, poiché ciascun discorso contiene una metafora sola, sì per la vivezza dello stile e per la maniera del concettare spiritoso. L'illustrissimo signor cardinale d'Este, nel passaggio che ha fatto di qua, in due sere ne ha sentiti due, con l'udienza di molti signori principali; ed infine ha conchiuso che questo libro ha da far disperare tutti i predicatori, i quali so che si sforzeranno d'imitar questo modo, ma gli assicuro che non srà tanto facile agl'ingegni mediocri.
Con quest'opera (frutto di un serrato riuso di materiali derivati dalle Sacre Scritture e dalla patristica), dedicata al pontefice Paolo V, il Marino intendeva sfidare sul terreno dell'erudizione e della teologia i maestri riconosciuti del genere omiletico del calibro di Francesco Panigarola, Giulio Mazarini e Vincenzo Giliberto.
4. La Galeria
Divisa in Pitture e Sculture e pubblicata nel 1619, l'opera, che intende allestire una vera e propria galleria di pitture e sculture, è costituita da più di seicento componimenti dedicati alle opere di diversi artisti tra i quali i Carracci e Caravaggio. Così il Marino definiva questa raccolta nella lettera all'amico Bernardo Castello nel 1613:
Ora io non so se V.S. sia bene informata dell'opera ch'io ho per le mani. È intitolata la Galeria, e contiene quasi tutte le favole antiche. Ciascuna favola viene espressa in un disegno di mano di valent'uomo; e sopra ogni disegno io fo un breve elogio in loda di quel maestro, e poi vo scherzando intorno ad esso con qualche capriccio poetico. Già n'ho accumulata una gran quantità de' più famosi ed eccellenti pittori di questa età, e voglio fargli tutti intagliare con esquisita diligenza. Le poesie, che vi entrano, son tutte in ordine; e sarà (credo) un libro curioso per la sua varietà.
La sezione delle Pitture consta di Favole, Historie, Ritratti e Capricci mentre le Sculture si dividono in Statue, Rilievi e Capricci. Formata prevalentemente da madrigali, la Galeria rivela il gusto personale e appassionato del collezionista d'arte che allestisce un museo di immagini e di descrizioni filtrate dalla poesia. Qui viene ripreso e rinnovato il canone oraziano del "ut pictura poësis" dove tuttavia la poesia non cerca solo di imitare la natura ma, ponendosi all'incrocio di diversi linguaggi artistici e attraverso le suggestioni di una raffinata musicalità, ne coglie le analogie profonde.
5. La Sampogna
Raccolta di dodici idilli pubblicata a Parigi nel 1620. Otto "idilli favolosi" e quattro "idilli pastorali" sullo sfondo di paesaggi e temi pastorali in continuo mutamento. Qui il Marino ricrea i racconti mitologici e la tragicommedia pastorale (derivati principalmente da Ovidio, Mosco e Teocrito) immergendoli nella fastosa natura dell'antichità mitica.
1. Il nuovo poema europeo
Pubblicato a Parigi nel 1623 il poema di venti canti dedicati all'amore tra Venere e il giovane Adone (episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio), ebbe subito un grandissimo successo anche grazie ai numerosi rinvii della pubblicazione che ingenerarono nella comunità dei letterati una grande e curiosa attesa. L'edizione parigina, con la dedica rivolta al re Luigi XIII e la dedicatoria alla regina madre Maria de' Medici, contiene in premessa una Lettre ou Discours de M. Chapelain con la quale il Marino intende rivolgersi agli eventuali detrattori del poema. Lo Chapelain dichiara che si tratta di una nuovo tipo di poema («poema di pace») che ricerca la meraviglia non nell'invenzione del soggetto ma nella trattazione elegante ed umile di una favola semplice. Per il Marino, nel costante raffronto con la Liberata del Tasso, la quantità era un fattore strettamente legato alla qualità di un'opera. Nel 1615 scriveva al Sanvitale:
In Parigi penso di dare alle stampe parecchie opere mie, e specialmente l'Adone, il quale se bene è poema giovanile, composto ne' primi anni della mia età, nondimeno piace tanto a tutti gli amici intelligenti per la sua facilità e venustà, che mi son deliberato di pubblicarlo: e avendo fatta questa risoluzione, l'ho accresciuto ed impinguato in modo ch'è molto maggiore l'aggionta della fabrica nuova che non sono le fondamenta vecchie. L'ho diviso in dodici canti assai lunghi, talché il volume sarà né più né meno quanto la Gierusalemme del Tasso. Staremo a vedere la riuscita che farà.
Scrive ancora nel 1615 Ciotti: «il volume sarà poco meno della Gerusalemme del Tasso»; e allo Stigliani: «l'Adone, poema quanto la Gierusalemme del Tasso». Si vanta in una lettera del 1621 a Giulio Strozzi:
Il poema pian piano si è ridotto a tale ch'è per sei volte quanto la Gerusalemme del Tasso. Io non nego che le buone poesie non si misurano a canne; ma quando con la qualità si accoppia insieme la quantità, fanno scoppio maggiore; percioché le storiette e le cartucce alla fine son portate via dal vento, ed i volumi grossi e pesanti se ne stanno sempre immobili.
E infine ancora al Ciotti:
La stampa riesce magnifica e veramente degna di poema regio, perché si fa in foglio grande con dieci ottave per facciata in due file; onde la spesa è grossa, per esser volume forse di trecento fogli, e si fa il conto che sia per sette volte maggiore della Gierusalemme del Tasso.
2. Le fonti
In questo poema smisurato confluivano le sterminate letture condotte dal Marino nell'arco di una vita. In una nota lettera del 1620 a Claudio Achillini scrive:
Sappia tutto il mondo che infin dal primo dì ch'io incominciai a studiar lettere, imparai sempre a leggere col rampino, tirando al mio proposito ciò ch'io ritrovava di buono, notandolo nel mio zibaldone e servendomene a suo tempo: ché insomma questo è il frutto che si cava dalla lezione de' libri. […] Perciò se … razzolando col detto ronciglio, ho pur commesso qualche povero furtarello, me ne accuso e me ne scuso insieme, poiché la mia povertà è tanta, che mi bisogna accattar delle ricchezze da chi n'è più di me dovizioso.
Rispetto alla tradizione classicista italiana scelse però delle strade diverse. Si è già detto dell'elezione delle Dionisiache di Nonno e della poesia ellenista ad alternativa di una letteratura classicista latina. Presente e determinante tuttavia nel poema mariniano è l'opera di Claudiano, come non trascurabili sono le derivazioni da Apuleio e Lucano. E sul versante cosmogonico Marino non si avvale dei classici quali Esiodo e Lucrezio o dei padri della Chiesa (Basilio, Ambrogio). Fondamentale per l'Adone è, ancora una volta, il Tasso con Le sette giornate del mondo creato.
3. «La favola è angusta»
La trama, nella sua struttura narrativa principale, è molto semplice, se non scarna. Lo stesso Marino, a proposito dell'Adone, scriveva a un amico nel 1616: «La favola è angusta ed incapace di varietà d'accidenti; ma io mi sono ingegnato d'arricchirla d'azioni episodiche, come meglio mi è stato possibile»; e ancora ad Andrea Barbazza nel 1620: «lo stile può passare per essere fiorito e venusto, ma la favola è alquanto povera d'azioni». La vicenda mitologica di Adone viene sin dal primo canto condotta sotto il segno di Venere e ai valori (amore, pace, mansuetudine, grazia, pace, ozio, gioia e diletto) che le sono prossimi in contrapposizione alle ragioni della guerra: «Tu dar puoi sola altrui godere in terra / di pacifico stato ozio sereno. / Per te Giano placato il tempio serra, / addolcito il Furor tien l'ire a freno; / poiché lo del'armi e dela guerra / spesso suol prigionier languirti in seno, / e armi di gioia e di diletto / guerreggia in pace, ed è steccato il letto.» (I, 2)
4. La storia – Le iniziazioni (I-XI)
Come in tutti i poemi mitologici la vicenda è chiusa, nel senso che ogni lettore conosce la storia e il suo intreccio e non si aspetta cambiamenti nelle principali vicende della struttura narrativa che può essere scandita in quattro movimenti: l'incontro e l'innamoramento di Venere e Adone; la vita amorosa e felice in comune; l'incidente mortale di caccia occorso ad Adone; la nuova vita di Adone trasformato in anemone dalla dea. Su questo schema Marino opera e introduce vicende e personaggi che espandono e variano la fissità della vicenda: Amore, per vendicarsi della madre che lo aveva battuto, decide di far innamorare Venere del bellissimo ma mortale Adone. Il piccolo dio riesce a fare arrivare Adone a Cipro dove, davanti al palazzo dell'amore, Clizio (Giovan Vincenzo Imperiale) gli racconta la vicenda del giudizio di Paride. Il palazzo di Venere non viene descritto ma rappresentato attraverso un percorso narrativo che ne proietta la costruzione interna attraverso un'architettura simbolica che diviene una sorta di carme figurato. Venere incontra Adone dormiente e, colpita dalla freccia di Amore, se ne innamora. Puntasi il piede con la spina di una rosa viene medicata da Adone che si innamora a sua volta. Amore racconta ad Adone della sua passione per Psiche e Venere gli ingiunge di non andare a caccia narrandogli il mito di Atteone sbranato dai suoi propri cani. Adone e Venere si spostano poi nell'esotico giardino del piacere suddiviso in cinque zone che rimandano ciascuna ad ogni senso del corpo umano. Nel giardino del tatto i due si uniscono in matrimonio. Visitano l'isola della poesia dove Fileno (alter ego del Marino) racconta la sua vita. Guidati da Mercurio visitano i cieli della Luna (che consente l'elogio delle scoperte galileiane), di Mercurio e di Venere dove vengono passate in rassegna le anime delle future donne celebri.
5. La storia – Le peripezie (XII-XX)
L'arrivo del geloso Marte provoca la fuga di Adone che viene dotato di un anello magico in grado di vanificare gli incanti. Adone viene dunque privato dell'anello e imprigionato dalla maga Falsirena, a sua volta invaghitasi del giovane, nella propria dimora sotterranea. Trasformato per errore in pappagallo, Adone fugge dalla prigione e gli capita di assitere alle amorose effusioni tra Marte e Venere nel giardino del tatto. Su consiglio di Mercurio torna quindi alla prigione per recuperare sia l'anello magico che l'originaria forma umana. Tuttavia porta con sé le fatali armi di Meleagro che conducono alla morte colui che le usa. Dopo disavventure e peripezie amorose, Adone riesce a riprendere la sua relazione con Venere. Attraverso una gara di bellezza ottiene di diventare re di Cipro. Regno che tuttavia perde dopo poco ma con grande consolazione, grazie ai trastulli offerti da Venere. La dea però è costretta a lasciare Cipro per presenziare alle feste in suo onore sull'isola di Citera. Così Adone, grazie all'assenza di Venere, può finalmente dedicarsi alla caccia nel parco di Diana dove gli viene teso un agguato da Marte che gli scaglia contro la furia di un cinghiale. Adone, che già porta con sé le mortifere armi di Meleagro, gli scocca contro una freccia di Amore. L'attacco del cinghiale diviene quindi un'assalto di passione che ferisce a morte il giovane in fuga. Alla notizia del ferimento di Adone Venere giunge in tempo per assistere agli ultimi istanti di vita di Adone. Nel frattempo il cinghiale subisce un processo e, dopo aver appurato che l'omicidio era frutto di un violento invasamento amoroso, viene assolto. Alla morte di Adone seguono i funerali e Venere trasforma l'amato defunto in un anemone. Tre giorni di giochi e spettacoli, ai quali accorrono le divinità, e il matrimonio di Fiammadoro (la Francia) e Austria (la Spagna) concludono il racconto.
6. Il fine del poema
Riguardo a un poema sulla favola mitologica di Venere e Adone, al Marino non interessavano questioni quali l'unità dell'azione o la coerenza dei piani narrativi sui quali il Tasso della Liberata, ad esempio, si era molto concentrato. Sulla scorta delle letture di Nonno di Panopoli, Ovidio, Apuleio e attingendo alle arti vicine (come la pittura e la musica), il poeta mette in scena e inanella, su di un esile filo narrativo, una lunga e vertiginosa serie di episodi e di idilli letterari e mitologici, impreziositi da una lingua sovrabbondante e multiforme, e da soluzioni metriche originali, che intendono generare nel lettore gli effetti di stupore, meraviglia e diletto.
7. Didascalie
Sono poi presenti lunghi momenti didascalici dedicati ai luoghi, ai personaggi e alle cose in una moltiplicazione di dettagli e di esplorazioni descrittive minute. Non mancano, nella scia dei poemi esameronici, la descrizione del mondo e delle conoscenze scientifiche anche più moderne (limitate all'astronomia e alle scoperte astronomiche di Galileo) come testimoniano le felici invenzioni linguistiche (non dettate da vere preoccupazioni scientifiche) derivanti dalle recenti applicazioni della tecnica. Noto è il riferimento all'«ammirabile stromento» galileiano che «scorciar potrà lunghissimi intervalli \ per un picciol cannone e duo cristalli» (X, 42, 7-8) che testimonia la capacità di saper modellare una poesia scientifica in grado di rivelare una nuova realtà e una nuova visione del mondo. E non mancano i riferimenti alla contemporaneità che tuttavia sono limitati a forme di omaggio resi a nazioni e città che nulla hanno a che fare con l'ideologia politica del poema epico. Ne risulta un testo consapevolmente concepito per sedurre il pubblico e volutamente incurante delle armonie classiche.
8. Il personaggio di Adone
Come protagonista Adone è un personaggio piuttosto passivo. Non prende mai iniziative e non decide nulla. È piuttosto l'oggetto delle iniziative altrui. Maschio antieroico e imbelle, inetto e facile alla fuga di fronte alle difficoltà, sembra avere più i tratti di una vergine fanciulla che di un eroe epico o da romanzo. Le sue grane vengono risolte da interventi divini. E anche la morte, che arriva dall'impeto virile del cinghiale, lo coglie intento alla fuga.
9. La metafora nell'Adone
Anche per l'Adone vale la preminenza della metafora nella costruzione della lingua e dei concetti. Con la predilezione di questa figura in tutto il sistema retorico, la metafora diviene dunque una macchina creatrice di forme e di contenuti attraverso un procedimento che mira costantemente a spettacolarizzare la parola e a sorprendere il lettore. Un approccio questo che vediamo anche in Emanuele Tesauro, che intitola il suo trattato sulla retorica appunto il Cannocchiale aristotelico.
10. Il modello ingombrante del Tasso
Nemmeno i valori etici sono più quelli dell'epica tassiana che aveva puntato sulla materia della prima crociata, sul valore morale e sulle armi sacre della guerra santa. Nell'Adone i valori vengono cambiati di segno: dal campo di battaglia di Gerusalemme si passa al giardino di Armida. Nel poema del Marino escono di scena la storia e l'ideologia della missione cristiana in luogo di un regno senza tempo dove la pace, l'amore e i piaceri profani diventano il polo attrattivo di tutto lo spazio poetico e narrativo. Significativa è la dimensione simbolica dei luoghi rappresentati soprattutto per le suggestioni liriche e sensuali. Una moltiplicazione, un pullulare di vicende, racconti ed episodi che non modificano il nucleo narrativo della favola dove il momento mitico ed edenico di Cipro (come l'isola di Alcina e di Armida nell'Orlando Furioso e nella Gerusalemme liberata) divengono qui l'intero dilatato sfondo di tutto il poema. L'isola rappresenta dunque un luogo senza tempo di felicità e trastulli al quale si contrappone il sotterraneo di Falsirena. Ma anche nei giardini più belli può nascondersi l'insidia della serpe e sull'isola ciprigna Adone non solo deve affrontare masnadieri e briganti che lo proiettano nella dimensione romanzesca ma è su questo paradiso terrestre che il giovane viene sopraffatto dalla furia fatale e appassionata del cinghiale. In qualche modo si può anzi ravvisare nella figura di Adone una sorta di anti-Rinaldo. Laddove, mentre il giovane guerriero, traviato dalle delizie del giardino di Armida e dall'amore, recupera il senso sacrale della sua missione crociata compiendo il suo destino nella liberazione del santo sepolcro, la sorte di Adone, tutta inscritta sull'isola dorata e senza tempo di Cipro, si compirà antieroicamente per opera di un cinghiale innamorato.
Si può senz'altro affermare che il Tasso provocò nel Marino quella che il critico americano Harold Bloom definisce l'«angoscia dell'influenza» ossia un constante confronto con l'opera e il modello di un maestro riconosciuto ma al tempo stesso ingombrante che ingenera un'ansia creativa, tra la pulsione della sfida e il desiderio di emancipazione, nel tentativo di un superamento. Un tratto esemplare è costituito da quanto il Marino scrive all'amico Castello in una lettera del 1613:
Siami lecito in confidenza di rompere il freno della modestia e di smoderare alquanto in arroganza. Iddio mi dotò (la sua mercé) d'intelletto tale, che si sente abile a comporre un poema non meno eccellente di quel che si abbia fatto il Tasso. […] E se sarà per avventura manchevole in alcuna di quelle parti, nelle quali il sudetto è stato singolare, abbonderò forse di molte di quelle condizioni nelle quali egli è stato difettoso. Tanto basti, e sia detto con quella riverenza che si conviene ad uomo sì grande. Tuttavia ad ogni scimia paiono belli i suoi scimiotti, e s'io non mi posso in altro agguagliare a quel gran poeta, voglio almento pretendere di vincere il paragone nell'esser più matto di lui.
Nella citata lettera all'Achillini del 1620, argomentando sul concetto di imitazione, rimarca quello che a suo avviso è il limite della Liberata:
Il Tasso … è stato maggiore e più manifesto [dell'Ariosto] imitatore delle particolarità, percioché senza velo alcuno trapportaciò che vuole imitare, usando assai forme di dire ed elocuzioni latine, delle quali troppo evidentemente si serve, sì come poco più destro parmi che dimostrato si sia nelle universalità.
E nell'epistolario del Marino si continua a leggere lungo i decenni dell'ossessivo confronto con il Tasso. Si è già detto del raffronto sulle dimensioni tra l'Adone e la Liberata. Il Marino tuttavia rivela un'ansia costante nei confronti del Tasso che va oltre la lunghezza e il numero delle ottave. Ad un anno dalla morte scrive a Girolamo Preti:
Io non ebbi mai sì fatte pretensioni, dico di concorrere o di contendere col Tasso, anzi riverisco la sua memoria come sacra ed ammiro il suo spirito come divino. Niun è che meglio di me conosca le imperfezioni ed i mancamenti dell'Adone, ma sì come son il primo a confessarmi de' suoi peccati, così sarò sempre il primo a scusarlo di quel che non peccò; che il genere della Gerusalemme sia diverso, non si nega; che lo stile sia più magnifico, più laconico, più poetico e più ricco, questo ancora si concede; ma che in quel mio poemazzo non sia pur qualche particella, che gli si possa contraponer ed esser contrapesato alla medesima bilancia, di questo me ne riporto al vostro giudizio.
L'argomento ritorna in una lettera ad Antonio Bruni:
Or come adunque affermar che tra parte e parte d'un poema con l'altro non si possa far parallelo e paragone? È così povero il mio poema dell'Adone, che non abbia cento e mille luoghi da paragonar con altrettanti della Gerusalemme? Il discorso in lode della vita pastorale, che introduco in bocca di Clizio, non è simile a quell'altro del pastore che parla ad Erminia? È così gran bestemmia il dir che si possa comparar un membro all'altro, benché i poemi sieno fra loro diversissimi? Io non ebbi mai pensiero d'emular il Tasso in questo mio poema, ma nemmeno ho per isproposito che un litterato amico voglia far parallelo tra scrittura e scrittura in quelle parti che fra loro, o per io soggetto, o per lo stile, hanno simiglianza.
Con Marino dunque, sebbene distante dalla vocazione teorica del Tasso e del Cinquecento, si assiste all'ultimo grande protagonista di livello europeo della tradizione italiana europea. La sua poesia seppe imporsi nella costante ricerca di percorsi espressivi nuovi, con soluzioni metriche originali e verso un sincretismo con altri altri quali la pittura e la musica. Ma la sua eredità rimase solo per breve tempo un laboratorio. Restò e si impose ben presto e negli anni a venire un ricco e fatiscente museo delle meraviglie di inerte splendore.