Il mondo utopico del Rinascimento tra paganesimo e cristianesimo
L'età dell'Umanesimo e del Rinascimento ha espresso in forme straordinarie, che tutt'oggi permangono come luoghi comuni della cultura universale, sogni e utopie di vita, speranze di palingenesi di mondi perduti: progettazione di nuove città (vd. Pienza), ricostruzione della Città Eterna (Roma), un ripensamento complessivo dei modi di vivere e di comportarsi – soprattutto in determinati ambienti (la corte) – e, in ambito artistico, un modo inaudito di inventare il futuro guardando al mondo classico come costante modello e pietra di paragone. Tale carica innovativa si manifestò non senza attriti e contrasti col mondo medievale e con le sue persistenze e resistenze. Una delle cose che più colpiscono degli intellettuali di questo periodo è infatti il tentativo di tenere insieme, in maniera talora più talora meno sincera, con mirabili arditezze, la cultura di Roma, quella di Atene e quella di Gerusalemme: ambizione che raggiunse il suo acme, a fine Quattrocento, con Pico della Mirandola. Se in ambito letterario dovessimo scegliere un genere emblematico di questa tensione utopica che guarda al futuro traendo forza sia dalla cultura secolare-pagana che da quella cristiana potremmo prendere la poesia pastorale, genere ripreso e rideclinato infinite volte dagli umanisti del Quattrocento sulla scorta dei progenitori Petrarca e Boccaccio. Coi suoi simboli, i suoi significati cifrati (spesso criptici), i suoi "veli" pastorali, questa forma di poesia virgiliana di gran moda in questo secolo esprime come meglio non si potrebbe l'estetica di una stagione. E se dovessimo, ancora, scegliere un autore dal quale cominciare a raccontare questo secolo irregolare e bizzarro (così lontano dal vicino Cinquecento che impose invece norme, canoni e modelli), potremmo scegliere l'autore di una raccolta bucolica che ha imperversato nelle aule di mezza Europa per tutto il Cinquecento, l'Adolescentia del frate carmelitano e grande poeta cristiano Battista Mantovano, non a caso definito da Erasmo da Rotterdam il "Virgilio Cristiano". Con quel titolo, Adulescentia, si prefigurava ad un itinerario di formazione cristiana calato nei realia della Pianura Padana, ma con esso si alludeva anche alla giovinezza di una società, di un mondo che per l'autore stava rinascendo, anche se quel mondo e quella società, nell'anno in cui usciva questa operetta (1498), cominciavano in realtà, lentamente, a declinare.
Il caso emblematico di un poeta cristiano
Non aveva ragione Erasmo nel profetizzare a Battista Mantovano, dopo la morte, una fama pari a quella del suo grande conterraneo Virgilio. Quell'enorme fama, infatti, l'«onesto» Mantovano – come lo chiameranno gli inglesi – la ottenne già in vita. «Le mie opere si leggono dovunque, e sembrano riscuotere il favore del mondo intero […] mi giungono di frequente lettere dalle Gallie, dalla Britannia, dalla Germania, dalla Dacia, dall'Oceano fino al mare del Nord, da cui apprendo che i miei libri colà sono stimati, letti da tutti, da tutti lodati» poteva egli dire orgogliosamente nel 1507. Ma, il Mantovano, insomma, chi era costui?
Era un frate carmelitano, principale esponente della Congregazione Mantovana, gruppo riformato dell'ordine, la cui prima fortuna fu quella di nascere nella patria di Virgilio, a metà del Quattrocento, e di avere come insegnanti di humanae litterae due grandi umanisti, Gregorio Tifernate e Giorgio Merula. Furono senza dubbio loro ad istillargli l'amore per la poesia degli autori pagani che egli alimentarà nel corso di tutta la sua vita. Oggi la poesia non fa più paura a nessuno, ma in quei tempi sì, eccome. La poesia era considerata dai più una cosa pagana, piena di miti e simbologie che il Cristianesimo aveva reso datati, spesso addirittura oscena o comunque capace più di sviare che di condurre alla virtù. Nel 1397, un secolo prima che il Mantovano stampasse nella sua città natale il suo capolavoro, la raccolta di ecloghe Adolescentia, la prima cosa che il condottiero riminese Carlo Malatesta aveva fatto entrando nella città di Mantova era stata di gettare nel fiume Mincio la statua di Virgilio, dicendo che solo ai santi, non ai poeti, si potevano innalzare statue.
In quei centouno anni, molte cose erano cambiate. Maestri come Guarino Veronese a Ferrara, Gasparino Barzizza a Padova, Vitttorino da Feltre a Mantova, avevano insegnato il latino a generazioni di allievi a partire direttamente dai testi degli antichi autori, dimostrando nei fatti come, anche le parole dei poeti non corrompessero gli animi dei giovani ma, al contrario, li educassero ad una vera humanitas. Coluccio Salutati prima, Leonardo Bruni poi, sulla scia di Boccaccio, avevano insistito sul fatto che gli strumenti retorici di cui la poesia si serviva (fictiones), in primo luogo l'allegoria, erano non dissimili da quelli utilizzati nelle Sacre Scritture per far comprendere il senso di concetti molti difficili. Anche la poesia, dunque, poteva rivendicare un suo potenziale educativo.
Lo battaglia contro la "cattiva" poesia
Il divario esistente tra i notevoli esiti teorici dell'avanguardia umanistica, in fatto di riflessione sulla poesia, e i suoi "prodotti di punta", rimase molto profondo nella prima metà del Quattrocento. Nel 1426 usciva a Bologna una raccolta di epigrammi così scandalosi da essere bruciati a più riprese nelle piazze di molte città. Si intitolava Hermaphroditus e, già dal titolo, si intuisce che non era roba da educande. Nell'Hermaphroditus si potevano leggere decine di brevi componimenti latini 'spurcissimi', ispirati, come lessico e argomenti, a Catullo, Marziale, ai carmina priapea e ad altra produzione licenziosa medievale. I dotti li leggevano spesso sottobanco, utilizzando le accortezze di chi sfoglia una rivista pornografica. Ma a più d'uno capitò di fare terribili figuracce. Se ne può leggere una, davvero simpatica, nella vita del cardinale Giuliano Cesarini scritta da Vespasiano da Bisticci.
L'opera del Panormita ebbe un grandissimo successo tra il pubblico adulto e molti umanisti europei, come Conrad Celtis e Jan Everäertz, seguirono la via di questa scandalosa poesia. Certo, il libretto del Panormita, con tutta la sue progenie, rappresentava un caso estremo. Per quanto non oscena, sfiorava però corde licenziose anche il nuovo indirizzo di poesia elegiaca: l'Angelinetum del siciliano Giovanni Marrasio, la prima fortunata raccolta di elegie umanistiche, di ispirazione classica e petrarchesca, composte a Siena e dedicate ad Angelina Piccolomini; la Xandra del fiorentino Cristoforo Landino, altra raccolta di elegie per la donna amata, che dà il nome alla raccolta; il Pruritus, composto a imitazione dell'Hermaphroditus e gli Hendecasyllabi, ritratti delle belle cortigiane aragonesi nei bagni napoletani di Baia, del più squisito e raffinato, assiema al Poliziano, tra i poeti della fine del secolo, Giovanni Gioviano Pontano, umbro di nascita e napoletano d'elezione.
Una pedagogica censura
Queste raccolte si prestavano bene alla fruizione ipercolta e raffinata di una ristretta cerchia di specialisti della poesia, i signori mecenati con la loro corte di eruditi, piuttosto che ad un uso scolastico. La canonizzazione di un autore al rango di "classico" passava attraverso la sua adozione a libro di testo sui banchi di scuola, e ciò sanciva la sua promozione ad auctoritas capace di proporsi quale modello da imitare. Contro i nuovi 'catulliani' si sviluppò in Italia, ma soprattutto nell'Europa di Erasmo, una vera e propria campagna di boicottaggio. Già il bolognese Giovanni Garzoni sconsigliava la lettura di autori ritenuti dannosi come Catullo, Tibullo, Properzio, Marziale; autori che invano si sarebbero ricercati nella sua ampia biblioteca. Simili condanne si possono leggere nelle lettere di Erasmo e dei suoi amici stampatori e nuovi pedagoghi, con alle spalle, spesso, una formazione nelle scuole italiane: Badio Ascensio, Jacob Wimpheling, Conrad Celtis, Sabastian Brant. Per educare la gioventù francese e tedesca bisognava evitare la poesia dei vecchi poeti erotici e dei loro emuli moderni: erano indispensabili testi capaci di coniugare le bonae litterae (cioè il buon latino) con i bona instituta (i precetti morali cristiani).
È in questo clima, nell'attesa crescente, cioè, di un "Virgilio cristiano" che sapesse coniugare le forme della poesia pagana coi contenuti della vera religione, che si spiega l'esagerato successo di Battista Spagnoli Mantovano. Egli non fu il primo, ma senza dubbio il più efficace fra i poeti che 'cristianizzarono' le forme metriche classiche. Prima di lui il lodigiano Maffeo Vegio aveva scritto in versi una vita di S. Antonio abate (Anthonias); il domenicano fiorentino Domenico da Corella aveva composto un grande poema in distici sul Salvatore, il Theotocon (1468); e sempre a Firenze Ugolino Verino aveva inserito la materia cristiana nel genere epigrammatico. Anche l'umanista Antonio Geraldini da Amelia (1448/9-1489) scrisse dodici ecloghe cristiane, in cui si narrano avvenimenti della storia dei santi sotto travestimenti pastorali, e che riscossero un notevole successo nei programmi scolastici europei; esse, a ulteriore riprova del carattere cosmopolita di questa produzione, furono composte a Barcellona all'inizio del 1484 e pubblicate a Roma l'anno successivo.
Un poeta in trionfo
Ma il successo travolgente dei poemi dello Spagnoli, in particolare delle sue ecloghe, sta non solo nell'aver cristianizzato il genere bucolico, ma anche, e forse soprattutto, nell'avergli impresso una forte carica pedagogica (che il commento dell'umanista fiammingo Badio Ascensio esalterà) aliena da eccessi pedanteschi. Del resto da sempre l'insegnamento del latino a scuola era cominciato con le Bucoliche di Virgilio. Quello che si verifica, nel Cinquecento europeo – anche se non dappertutto e non senza contrasti - è la sotitituzione, in ambito scolastico, di un classico antico con un classico moderno. Alcuni umanisti tedeschi arrivarono infatti a preferire il Virgilio cristiano a quello pagano, «per l'abbondanza della latinità, per la chiara dolcezza dello stile, per gli argomenti più utili, per la pudicizia e l'onestà»: sono parole di un prete educatore, Jacob Wimpheling (1450-1528), grande insegnante ed organizzatore, a Strasburgo, della Sodalitas literaria Argentinensis. Non c'è quindi da stupirsi che moltissimi grandi dell'Europa del Cinquecento abbiano appreso i rudimenti del latino dalle ecloghe del Mantovano. «Battista Mantovano fu il primo poeta che lessi, poi vennero le Eroidi di Ovidio e quindi mi imbattei in Virgilio», è la testimonianza preziosa di Lutero, nei suoi Discorsi a Tavola (1532). E ancora Oloferne, un pedante pedagogo che fa il suo ingresso nel quarto atto della commedia shakespeariana Love's Labours' Lost, cita ai suoi scolari, prima di Orazio e Ovidio, il primo verso delle ecloghe del Mantovano, vero e proprio tormentone che Shakesperare stesso avrà memorizzato in un'aula scolastica.
La potenza regolata dell'amore
Prima che si diffondesse lo stereotipo deteriore dell'Italia bella ma corrotta, la Germania cercava negli autori italiani dei maestri di stile e di etica. In figure ideali come Francesco Petrarca, Cola di Rienzo, Enea Silvio Piccolomini, i protoumansiti tedeschi del XV secolo vedevano il paradigma del perfetto uomo nuovo italiano. Enea Silvio Piccolomini, prima di diventare papa col nome di Pio II (1458-1464), in onore dell'eroe virgiliano suo omonimo, 'pio' per antonomasia, visse circa dieci anni a Vienna. Qui per la prima volta un poeta italiano, un secolo dopo l'incoronazione capitolina di Petrarca, avvenuta a Roma nel 1341, fu insignito della corona d'alloro da un imperatore, Federico III. Fu un vero e proprio trionfo. Un evento, certo, di enorme impatto e rilevanza.
E fu probabilmente anche grazie a questo avvenimento che due operette del Piccolomini scritte di lì a pochi anni di distanza ebbero una diffusione straordinaria, contribuendo moltissimo, assieme alle opere di Petrarca e Boccaccio, a foggiare il moderno ideale letterario della passione amorosa: la sua commedia latina Chrysis – composta a Norimberga nel 1444 - e l'Historia de duobus amantibus, una sorta di breve romanzo epistolare ante litteram. La Chrysis prende spunto da una vera storia d'amore "internazionale", che riguardò un amico del Piccolomini, il cancelliere imperiale Kaspar Schlick, invaghitosi perdutamente di una tanto bella quanto irraggiungibile donna senese. Le donne, come è noto, possono indurre a compiere degli spropositi. Il ventenne conte Giovanni Pico della Mirandola, ad esempio, sempre perso tra profonde riflessioni teologiche, fece scandalo quando, nel 1486, rapì ad Arezzo l'affascinante Margherita, moglie di Giuliano de' Medici.
Nella Chrysis del Piccolomini, invece, la rinuncia dell'amante infelice ad appagare il suo smodato desiderio sancisce il trionfo di un ideale di misura ed equilibrio – qui sta la lezione – che sempre dovrebbe prevalere nell'essere umano. La 'storia dei due amanti', Eurialo e Lucrezia, tradotta in tedesco nel 1468 da Niklas von Wyle (1410-1478), contribuì anch'essa notevolmente a far entrare nella letteratura tedesca un moderno modus amandi.
Favole plurilingue piene di saggezza
Assieme alle opere del Piccolomini, nelle celebri Translatzen (1478) del Wyle, compaiono scritti di Poggio Bracciolini e l'Asino d'oro di Apuleio, che sarà oggetto di grande attenzione a Bologna da parte di Filippo Beroaldo, suo primo e più celebre commentatore (1500); ma compaiono anche alcune novelle boccacciane, come quella di Guiscardo e Ghismonda, tradotta in tedesco dalla versione latina di Leonardo Bruni. La novella di Griselda, che chiude il Decameron, riscritta in latino da Francesco Petrarca, era invece già stata tradotta in tedesco nel 1432 da Erhart Gross, col titolo di Grisardis, poi dal Wyle e infine da Heinrich Stainhöwel, che tradusse pure, sempre del Boccaccio, il De claris mulieribus («Von den synnrichen erluchten Wyben»). Dal 1476 al 1480 si susseguono varie edizioni del suo Äsop, di cui proprio Lorenzo Valla una ventina di anni prima, a Roma, aveva eseguito una traduzione latina dall'originale greco. Sono solo alcuni esempi che illustrano quanto abbia ragione Umberto Eco a dire che la traduzione è la vera lingua dell'Europa.
Il genere favolistico ha d'altronde goduto di ininterrotta fortuna nella storia della letteratura. Esso era stato riportato in luce, in età umanistica, da Leon Battista Alberti, nel 1437 a Bologna, dove il geniale umanista compose cento apologhi in soli dodici giorni. Questa forma breve di narrazione, pur appartenendo a pieno diritto alla letteratura alta, attinge spesso la sua linfa dalla cultura popolare, verso cui una parte dei dotti umanisti nutriva il massimo rispetto.
Da qui alle migliaia di proverbi collezionati da Erasmo non c'è che qualche anno. Nel 1506, all'inizio del suo tour italiano, l'umanista olandese è nella casa-tipografia veneziana di Aldo Manuzio, presso Rialto, e bisogna immaginarselo gomito a gomito a lavorare con lui per fare uscire la seconda ampliata edizione di quello che diventerà uno dei capolavori assoluti dell'umanesimo europeo, gli Adagia (proverbi, appunto), sintesi di filologia, prisca sapientia, paremiografia e annotazioni filologiche, con un occhio, e forse anche l'altro, rivolto ai grandi maestri italiani, Valla, Poliziano e Beroaldo.
Bologna, la dotta che mescola i saperi
All'ombra delle due Torri, da sempre i professori di retorica (oggi si dice 'letteratura'), da Giovanni del Virgilio, coetaneo di Dante, ad Ezio Raimondi, ultimo maestro del secondo millennio, esercitano le loro malìe sugli studenti che non si occuperanno mai in vita loro di Omero, Virgilio e Dante, o che invece se ne occuperanno decidendo di cambiare la rotta professionale stabilita per loro dai genitori. Per ogni studente di ingegneria che oggi se ne sta appollaiato là in alto, nell'ultimo dei banchi, ad ascoltare una lezione di letteratura, si può immaginare un corrispettivo antico. Fra gli "infiltrati" nelle aule dove si commentavano gli antichi poeti dobbiamo immaginarci un tempo Francesco Petrarca, Leon Battista Alberti, il protoumanista tedesco Albreht con Eyb, a perder tempo ascoltando i versi dei poeti mentre i genitori, lontani, pagavano loro vitto e alloggio perché si laureassero in fretta in giurisprudenza.
L'Alberti, mentre negli anni venti a Bologna studiava per raggiungere una laurea in «utroque iure» (diritto civile e canonico), e i perfidi parenti lo escludevano dai benefici del patrimonio familiare, si prendeva beffa dell'infida sorte componendo una commedia latina sul modello di quelle antiche di Plauto e Terenzio, la Philodoxeos fabula (commedia di Filodosso, colui cha ambisce alla gloria), licenziandola con lo pseudonimo di Lepidus. Benché «disadorna ed oscena», come dice l'Alberti stesso, molti la ricopiarono nei loro zibaldoni letterari credendola opera di uno sconosciuto autore antico. Quasi una trentina di anni più tardi, tornava in Italia per continuare, questa volta a sue spese, gli studi di diritto intrapresi anni prima, Albrecht von Eyb, uno dei futuri principali esponenti del primo Umanesimo tedesco. Dopo aver studiato a Pavia, scelse Bologna per completare il suo cursus di studente fuoricorso. La Philodoxeos fabula, che il von Eyb ricopierà, annoterà e da cui attingerà a piene mani per diverse sue opere latine, compare, assieme a molti altri modelli antichi e moderni di "ars dicendi", nella sua celebre Margarita poetica, un manuale di retorica composto a Pavia nel 1459 e destinato a grande fortuna continentale.
Due forze contrastanti? Ragioni della letteratura, ragioni della scienza
«La forza di una cultura – ha detto Eugenio Garin a proposito dell'Umanesimo – sta proprio nella forza delle sue contraddizioni non pacificate». Chissà se tra le contraddizioni si può includere anche questa: da un lato il fascino delle fabulae poetiche, dei miti e della sapienza che esse tramandano con il loro potere polisemico e metamorfico (una forza centrifuga, che scompagina); dall'altro il potere analitico di una ratio con le sue pretese logiche, che vuole stabilire relazioni biunivoche tra le cose e i loro nomi, e trovare precise relazioni di causa-effetto (una forza centripeta, che mette ordine). Meriterebbe davvero un bel premio chi scoprisse la relazione (se relazione c'è) tra, per esempio, la formazione umanistica italiana di Copernico e la sua rivoluzionaria visione del cosmo.
A fine secolo, a Bologna, anche alle prese con gli studi di diritto, il futuro genio dell'astronomia seguiva le lezioni del bizzarro grecista Antonio Urceo Codro. Questi insegnava che tutto aveva avuto origine da Omero, che l'autore dell'Iliade e dell'Odissea tutto aveva insegnato dipingendo un antico affresco primigenio. In fondo anche quello di Copernico non fu un guardare nuovo al cielo che era un guardare antico, pre-tolemaico, alle concezioni eliocentriche di un Aristarco di Samo? una rivoluzione in senso letterale, tanto della terra intorno al sole, quanto del genere umano intorno alle sue origini? Che poi si sa che alle origini non si torna mai, che nella 'rivoluzione' si trova sempre un ostacolo che la rende incompleta: l'America di Colombo. E allora comincia, ma su diversa orbita, un nuovo giro dell'umanità.
Il "nonno spirituale" di Copernico (in quanto maestro del suo maestro) era anch'egli affascinato da ciò che accadeva sopra la sua testa. Johannes Müller da Königsberg (1436-1474), detto il Regiomontano, poco prima della precoce morte, dedicava al re ungherese Mattia Corvino, gran mecenate di cultura, le sue Tabulae Primi Mobilis, una ricerca empirica sull'universo, che doveva accostarsi a quelle degli autori antichi per giungere alla verità (il "nocciolo") da cui sarebbe scaturita una visione unitaria dell'intero universo. Questa ansia di verità somiglia molto a quella che promana da molte pagine del Poliziano filologo, tanto che molte volte, di fronte alle pagine filologiche dell'«homericus adulescens», ci si domanda se ci si trovi davanti ad un letterato o non, per caso, ad uno scienziato...
Nella vecchissima abbazia di Parc (attuale Belgio), estate dell'anno 1504
Chissà cosa provò Gert Geertsz, più noto come Erasmo da Rotterdam, quando capì di avere tra le mani un manoscritto dell'amato Lorenzo Valla (1407-1457), il grande restauratore della lingua latina. Il giovane Erasmo si era nutrito degli scritti filologici e filosofici di Lorenzo Valla, tanto da compendiare in numerosi fascicoli, come uno scolaro diligente, il capolavoro del maestro italiano: a vent'anni ricopiò infatti in ordine alfabetico le sue Elegantie latine lingue, il grande antidoto contro il latino medievale che avrebbe dovuto favorire un integrale ripristino del latino classico. Se per gli umanisti, da Petrarca in avanti, i manoscritti erano come persone, con cui confidarsi e da riempire di annotazioni come fossero un diario privato, allora, per il futuro autore dell'Elogio della follia quel polveroso manoscritto che gira e rigira tra le mani è come il "clic" della cornetta alzata, dalla parte opposta del cavo telefonico, dall'autore prediletto. La possibilità di un nuovo dialogo con lui. Quel volume, vecchio magari mezzo secolo, come l'ultimo respiro del Valla, conteneva uno scritto inedito dell'umanista romano, la più ardita delle sue tante opere ardite, una nutrita serie di critiche (Adnotationes) alla traduzione che Gerolamo aveva fatto dei Vangeli, delle Lettere apostoliche e dell'Apocalisse, compresi nel Nuovo Testamento. Facile capire perché quell'opera scandalosa giacesse abbandonata e dimenticata dai più, accantonata nella biblioteca di una vecchia abbazia, quando i torchi della stampa già da decenni imprimevano opere di autori antichi e moderni.
Chissà cosa provò, il nostro Erasmo, ad avere quel tesoro tra le mani. Si sentì forse un liberatore, con quel senso di esaltato entusiasmo che animò tutti i veri pionieri delle scoprte di codici antichi, al pari di Poggio Bracciolini, l'umanista fiorentino che, quasi novant'anni prima, nell'abbazia di San Gallo, alla stessa età di Erasmo che ora sprizza entusiasmo dagli occhi, liberò dalle catene, assieme ad altri illustri compagni, come Lucrezio, l'amato Quintiliano, con tutte le membra a posto.
Umanisti sempre col cappello in testa
Durante il Concilio di Costanza (1414-1418), dove era al seguito del papa Eugenio IV, tra una sessione di lavoro e l'altra, Poggio si concedeva lunga pause, andando di biblioteca in biblioteca, a spulciare, crediamo, scaffale dopo scaffale, in cerca di tutto ciò che avrebbe potuto interessare lui e i suoi dotti amici italiani (perché, come dirà poi Erasmo, «in nessuna riserva [rispetto alle biblioteche] è più gradevole cacciare»). Non diversamente da lui farà Nicolò Cusano, originario di Cues, ma italiano "d'adozione", che nel 1426 scoprì, nel convento di Fulda, la Germania dello storico Tacito e, l'anno seguente, sempre a Costanza, ben dodici commedie fino ad allora sconosciute del grande commediografo latino Tito Maccio Plauto.
Benché gli spostamenti sei secoli fa fossero certamente meno agevoli di oggi, saremmo nel torto credendo che gli umanisti fossero persone sedentarie. I manoscritti e le idee in essi contenuti circolano perché i promotori di questa avanguardia viaggiano molto, a volte moltissimo, stanno spesso col cappello in mano e la valigia aperta. Erasmo, anche da questo punto di vista, è davvero il degno successore di Petrarca: come quest'ultimo, benché ci tenesse ad esser detto 'florentinus', visse tra Avignone, Valchiusa, Praga, Milano, Parma, così Erasmo, nato a Rotterdam, si muove nel corso della sua vita tra Leuven, Basilea, Parigi, Oxford, Venezia. A quale letteratura nazionale appartengono questi grandi nomi? Si tratta davvero di intellettuali cosmopoliti nel senso più genuino del termine. Seguendo le orme di questi giganti, anche umanisti 'minori' macinano parecchi chilometri. L'umanista lucchese Andrea della Rena (1477-1517), per esempio, detto Ammonio, dopo aver lavorato a Roma presso la corte pontificia, si reca in Inghilterra, ospite di Thomas More; molto stimato anche da Erasmo, è accolto con grandi onori, come nunzio di papa Leone X, alla corte del re inglese Enrico VIII.
Un'edizione che spalanca le porte
Ma torniamo al nostro Erasmo, che nel frattempo ha ricopiato il testo presente in quel manoscritto della vecchissima abbazia di Parc e presto metterà al corrente della sua scoperta i suoi migliori amici. Il 13 aprile del 1505, a Parigi, messa da parte ogni precauzione, le Adnotationes del Valla vedono la luce, per i tipi di Badio Ascensio, l'umanista fiammingo amico di Erasmo che in Francia, con le sue centinaia di edizioni di classici, diventerà un secondo Aldo Manuzio. Al protonotario apostolico Christopher Fisher, che lo convinse ad affrontare i rischi legati alla pubblicazione di quell'opera, Erasmo scrisse da Parigi una celebre lettera in cui, forte della lezione civile del maestro, si dimostra consapevole delle critiche cui si esporrà.
Valla non è dunque solo benemerito, secondo Erasmo, per la sua battaglia linguistica volta al ripristino del latino classico, ma anche per aver debellato una 'inveterata malattia' combattendo per la verità, che per l'umanista italiano sta sempre dentro i testi, non fuori di loro. Per questo lo scritto che sta pubblicando - Erasmo lo sa bene - è qualcosa di culturalmente eversivo. Perché se è possibile criticare il libro per antonomasia, la Bibbia, o meglio, la traduzione in cui quel libro sacro è circolato per secoli, allora non ci sarà ambito del sapere tramandatoci che rimarrà immune dalla critica della ragione umana. È un colpo mortale inferto al principio di autorità. Si apre la strada, da molti sempre mal vista, ad una critica filologica e linguistica del Testo Sacro, la filologia vetero e neo-testamentaria. Non è un caso che proprio nell'anno fatidico, quel 1517 in cui scoppia la Riforma protestante, Ulrich von Hutten (1488-1523) pubblichi per la prima volta a Magonza la Falsa Donazione di Costantino, la scandalosa orazione con cui, quasi ottant'anni prima, Valla aveva dimostrato apocrifo, grazie ad un'ineccepibile analisi linguistica, il documento su cui per secoli la Chiesa aveva legittimato il proprio potere temporale.
Fino a dove osa la filologia
In quegli anni vede pure la luce nella città spagnola di Alcalà l'ultimo dei sei volumi della Bibbia Poliglotta Complutense, la prima edizione critica trilingue (latino, greco ed ebraico) dell'intero testo biblico, che sarebbe diventata una delle vette dell'Umanesimo filologico europeo. Fu un autentico capolavoro d'equipe, coordinato dal cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, cui diedero il loro convinto contributo alcuni "nipotini" intellettuali di Valla, fra cui Elio Antonio De Nebrija (1442/4 – 1521/2).
Nella lettera rivolta al lettore del Novum Instrumentum, il suo primo tentativo di edizione critica del testo sacro, Erasmo scriveva da Basilea alla fine del 1515: «Dunque ti prego, ottimo lettore, di avvicinarti anche tu al libro con pie orecchie e cuore cristiano. Che nessuno prenda in mano queste cose con lo stesso spirito con cui si prendono le Notti gelliane o i Miscellanea di Angelo Poliziano […] Ci dedichiamo alla materia sacra, la materia in cui più di tutte è raccomandata semplicità e purezza, dove è ridicolo voler mostrare l'umana erudizione, è empio vantarsi dell'umana eloquenza».
Ma confrontarsi col testo 'recepito' della Bibbia non significò soltanto forgiare un nuovo strumento di analisi critica. In alcuni paesi, infatti, come in Germania e in Ingilterra, alcuni umanisti si cimenteranno nella traduzione in volgare del testo sacro, o di parte di esso, dando un contributo fondamentale allo sviluppo delle proprie lingue nazionali. Come, infatti, la traduzione in tedesco della Bibbia da parte di Lutero costituisce un vero e proprio monumento della lingua tedesca, così la traduzione inglese del Nuovo Testamento (1525), e dei libri compresi nel Pentateuco e di quello di Giona, da parte dell'umanista inglese William Tyndale (1494-1536), costituiranno la Bibbia di re Giacomo e una base imprescindibile per la moderna prosa inglese.
Un felice ritorno da Parigi
Quando nel 1476 il giovanissimo professore di retorica e poesia Filippo Beroaldo tornò nella sua città, Bologna, al termine di un anno "sabbatico" trascorso a Parigi a discutere con gli studenti della Sorbona sulla Pharsalia di Lucano, un suo grande amico, nonché confessore spirituale, il frate Carmelitano Battista Spagnoli Mantovano, esternava il suo sentimento di gioia in una elegante poesia latina. Fra i tanti insegnamenti che gli studenti transalpini ricevettero da Filippo Beroaldo, dovettero sentire più di una volta quello che sarebbe diventato un suo vero e proprio cavallo di battaglia. Che se, come voleva Platone, i poeti erano invasati da un divino furore, allora anche i loro interpreti, ovvero i commentatori, dovevano essere dotati di una medesima ispirazione.
Chissà perché non provò a restare a Parigi. Forse fu veramente convinto dalle Muse a tornare indietro. Forse non lo pagavano abbastanza? Più probabilmente, egli sentiva, nella capitale di uno stato che cominciava la sua modernità letteraria, un clima di rivalità e tensione in cui sapeva di non riuscir a sopravvivere. Presto la Sorbona sarebbe infatti diventata terreno di scontro tra poeti-professori arrivisti, molti dei quali provenienti dall'Italia. L'umanista forlivese Fausto Andrelini – ad esempio – conterraneo del grande Flavio Biondo, e poeta prodigio, a Roma, dell'Accademia pomponiana, si trasferirà a Parigi alla fine degli anni Ottanta, e qui diventerà poeta acclamatissimo, cantore regio, pronto a intonare carmina sulle vittorie di re Carlo in cambio di un ingente stipendio. Nelle aule della Sorbona, dove entrerà in potente conflitto con un altro professore italiano, Girolamo Barbi, tanto da costringere quest'ultimo alla fuga, l'Andrelini si "francesizzerà" a tal punto da giudicare, da francese, i fatti militari che cominciavano a smuovere l'Europa moderna. Un bell'esempio di quel carattere "cosmopolita" degli intellettuali italiani che Antonio Gramsci additerà come uno degli ostacoli maggiori per la creazione in Italia di una letteratura nazional-popolare.
Lo spirito del Beroaldo
Il Beroaldo non è il tipo da vestire i panni del poeta regius. È troppo scanzonato e autoironico. Preferisce un esercizio della sua professione dimesso, senza obblighi mondani, in un clima intimo e familiare, a contatto coi suoi studenti, illustrando gli amati autori latini che va via via commentando: Svetonio, Properzio, Apuleio…
Quanto il "contatto diretto" con gli studenti sia possibile, quando a lezione ha davanti più di trecento studenti, quasi tutti fuorisede, boemi, ungheresi e stranieri d'ogni parte, c'è da domandarselo. Certo riesce a guardare in faccia i tanti che al pomeriggio prendono lezioni private da lui e che gli consentono di arrotondare il non lauto stipendio. La cariche di prestigio, che danno un po' di agio economico, arrivano spesso quando si è già anziani: l'incarico come "Arcigrammatico", vale a dire primo segretario del Senato bolognese, gli verrà assegnato solo nel 1505, qualche mese prima della sua morte. Prima i soldi, chi esercita un lavoro che per antonomasia "non dat panem, sed aliquando famem", li raccimola un po' qua un po' là, magari mantenendo i contatti con i vecchi alunni danarosi, e facendo leva, con la consueta leggerezza, sui loro sentimenti.
Così, ora che nella sua dimora, a molte centinaia di chilometri da Bologna, il boemo Venceslao legge la lettera del suo ex professore italiano, sorride benevolmente. Vi legge una proposta interessante: un cavallo e alcune pellicce (22) in cambio del nuovo commento a Svetonio!
Beroaldo poi non riesce a frenare le classiche raccomandazioni del maestro all'ex allievo. Lo esorta «a non abbandonare del tutto gli studi letterari» (ma lo fa col linguaggio saporito dei comici, per non risultare pedante) perché una citazione fatta da lui vale più di seicento citazioni sciorinate dalla sua bocca di grammaticus professionista. Beroaldo nutre la convinzione, che sarà propria ancora dell'Erasmo dell'Institutum principis christiani, che l'eloquenza sia la splendida regolatrice degli Stati. Chissà quante raccomandazioni di questo tipo, lungo i secoli: di Aristotele a Alessandro, di Seneca a Nerone, e poi di Guarino Veronese a Leonello d'Este, di Leon Battista Alberti (Trivia senatoria) e di Poliziano a Lorenzo e Piero de' Medici, di Erasmo al futuro imperatore Carlo V.
Cani e leoni
Da bravo maestro è ai suoi migliori allievi, tutti stranieri, che il Beroaldo filologo e oratore dedica le sue opere migliori. Perché si ricordino di lui, ma anche, e non secondariamente, perché siano stimolati a non abbandonare gli studi intrapresi con tanto ardore all'ombra delle Due Torri. «Numerosi scolari dalla Boemia – ricorda il Beroaldo – venivano ogni anno in questo nostro ginnasio per coltivar l'ingegno e apprendere a menadito la lingua latina, uscendone tutti puliti ed eleganti». Nitidi…elegans…ornatus…candidus: sotto questa retorica della 'pulizia', che riempie tanti epistolari umanistici, si avverte veramente tutta l'importanza che una stagione culturale ha tributato allo studio della parola degli antichi. Meglio vivere un giorno da conoscitori del latino che una vita intera da 'illetterati': potremo così parafrasare il senso di quello che il nostro Beroaldo scrive in una sua orazione alle "decurie" di scrivani del ducato di Milano dopo un terremoto che ha colpito Bologna: «Quelli che trascorrono una lunga vita senza coraggio, senza gloria, senza lettere, non mi sembra che abbiano vissuto a lungo, ma che siano esistiti a lungo. Un solo giorno da conoscitore del latino mi sembra preferibile ad una lunga vita da ignorante, per Ercole! Un unico erudito vale più di una caterva di seicento mila indotti».
Noi diremmo: meglio un giorno da leoni che una vita da coniglio. E veramente, nelle polemiche fra umanisti, nelle aspre invettive che spesso nascono tra l'uno e l'altro, chi crede di saperne di più si rappresenta come un leone in grado di sbranare il cane malcapitato, a causa della sua imprudenza, a tiro delle fauci del rivale. Il sapere è forza. Sapere – si dirà più tardi – è potere.
Ma, al di là delle rivalità fra schiere di umanisti, il Quattrocento è pieno di appelli a studiare per diventare uomini a pieno titolo. Pochi anni prima, nel 1476, uno scolaro straniero allievo di Battista Guarino, già compagno di banco di Copernico, pronunciava a Ferrara, al cospetto del signore della città, Ercole d'Este, un'orazione in lode della filosofia e delle scienze: «L'ardore ce lo suggerisce, e sempre ci induce a gridare la parola che tutto riassume: studiamo!»
I veri vivi, i veri morti
Questo allievo tedesco, che sarà uno dei principali importatori dell'Umanesimo in Germania, aveva italianizzato il suo nome in Rodolfo Agricola e, come tutti i capifila dei grandi movimenti, verrà dipinto come uomo eclettico e versatile, eccellente sia come pittore che come musicista, ed esperto pure nelle arti ginniche. In maniera simile lo svizzero Jacob Burckhardt, l'iniziatore della moderna storiografia sul Rinascimento, descrive l'«uomo universale» Leon Battista Alberti.
Ferrara era uno di quei centri umanistici, rinomati per la scuola di Guarino Veronese, in cui i rampolli dell'alta società europea accorrevano da ogni dove. Janos Vitz, primate e gran cancelliere di Ungheria, mandò a sue spese in Italia molti giovani affinché studiassero. Qui iniziò a studiare, proprio sotto Guarino, messer Giovanni vescovo di Cinque Chiese, che poi si fece onore come poeta, col nome di Giano Pannonio, e che, una volta tornato in patria, fonderà uno studio a Buda per riproporre la nuova metodologia pedagogica appresa in Italia.
Questo terremoto culturale ha davvero l'Italia come suo centro sismico. Il medesimo motto «Vivo» è inciso sul sepolcro dell'umanista Pomponio Leto, allievo di Valla e "leader" dell'Accademia romana, e su quello di Conrad Celtis, primo tedesco ad essere incoronato poeta nel 1487, a Norimberga, da Federico di Sassonia. Che significa? Che chi ha servito le lettere ha eternato se stesso e ha servito non solo la società temporalmente e spazialmente determinata in cui la sorte lo ha costretto a vivere, ma anche la civitas dei posteri indeterminata nel tempo e nello spazio. Non è un caso che proprio il padre dell'Umanesimo, Francesco Petrarca, scriva la sua lettera più importante rivolgendola "ai posteri" (Posteritati), e che nel I libro delle Disputationes Camaldulenses dell'umanista fiorentino Cristoforo Landino (1428-1498) si discuta proprio sul senso della vita attiva e di quella contemplativa, dando a quest'ultima la palma, perché chi si dedica agli alti studi serve non solo la sua patria ma l'umanità intera. I veri vivi, dunque, non sono coloro che respirano e che ci stanno fisicamente accanto (che possono essere già morti in vita), bensì i sapienti di ogni tempo e, per i più avveduti, di ogni luogo.
Acquisti sfrenati
Quando l'inglese Andrew Holes riempì l'ultimo centimetro cubo di spazio disponibile nel carro che aveva adibito al trasporto dei libri comprati a Firenze e si volse a guardare la grande schiera di compagni che ancora rimaneva a terra, capì subito, con malcelata sofferenza, che la sua persona e il patrimonio di codici che aveva acquistato nella patria della nuova cultura avrebbero dovuto raggiungere l'Inghilterra con mezzi e per rotte diverse. Una fitta di dolore, poi un lieve attacco di panico. Affidare ad una nave un carico così prezioso, per il quale si erano impegnati gli ultimi denari messi da parte per l'avventura italiana, non era certo una decisione che si prendeva alla leggera. Ma alternative più tranquillizzanti non c'erano. Quali tesori avrebbero attraversato, forse per la prima volta, lo stretto della Manica? Ci saranno state le nuove traduzioni di Aristotele compiute da Leonardo Bruni, i Moralia di Plutarco, forse, chissà, anche la Geografia di Tolomeo da poco tradotta in latino.
Andrew Holes, procuratore del re d'Inghileterra, dopo alcuni anni passati a Roma presso la curia pontificia, si concesse il lusso di una pausa di due anni a Firenze per un prolungato shopping librario. Forse fu proprio lui uno dei primi ad inaugurare l'acquisto di libri (italiani) a peso, addirittura a carrettate, vizio che caratterizzerà alcuni bibliofili inglesi dal Cinquecento in avanti, da sir Cotton all'eccentrico Thomas Phillips: quest'ultimo, che visse nel XIX secolo, sarà costretto addirittura ad abbandonare la sua casa invasa dagli ospiti di carta e, indebitato fino al collo, a trovare un alloggio di fortuna. Alla sua morte lasciò la famiglia nei guai finanziari, ma, in compenso, lasciò anche alla patria un tesoro librario da far restare a bocca aperta il più raffinato studioso di humanae litterae.
La storia dell'umanesimo è stata fatta anche da coloro che, desiderosi di compagni di carta, forse senza neanche conoscerli bene, si sono spesso indebitati per portare in patria volumi nuovi e sconosciuti. Ciascuno di quei codici va inteso come un seme piantato nell'orto della cultura europea.
Imperdibili traduzioni d'autore
Jorge Hasznz, arcivescovo di Klocza (Ungheria), si fece prestare duecento ducati per pagare gli ultimi libri comprati a Firenze. Anche chi, come il praghese Venceslao K?ižanovský, aveva interessi prevalentemente filosofici e teologici, durante il grand tour italiano si preoccupò di ricopiare le ultime traduzione dai classici greci eseguite dai maestri italiani: è a Bologna, dove studia negli anni '50, che questo futuro maestro di teologia ricopia con cura le traduzioni fatte da Leonardo Bruni e Guarino Veronese degli scritti di Senofonte, Platone (l'apologia di Socrate), del trattato pedagogico di Plutarco, ma anche di alcune orazioni di Cicerone recentemente scoperte (la Pro Pomponio e la Pro Marcello), accanto ad altre di un nuovo classico, il papa umanista Pio II, al secolo Enea Silvio Piccolomini.
Andrew Holes, assieme a Thomas Bekynton e Adam de Moleyns, fa parte del circolo di maniaci bibliofili riuniti attorno ad Humphrey, il Duca di Gloucester (1391-1447). Il quale non ha neanche bisogno di muoversi da casa perché i libri degli italiani gli giungano tra le mani. A lui, figlio del sovrano Enrico IV, i libri per cui va matto arrivano direttamente a casa con la dedica degli autori, o dei traduttori. A lui, alla fine degli anni Trenta, Leonardo Bruni dedica la sua traduzione della Politica di Aristotele; e sempre a lui Pier Candido Decembrio indirizza la sua traduzione della Repubblica di Platone.
Questi titoli costituivano dei veri e propri status simbol che non potevano mancare nella biblioteca di un signore che volesse far bella mostra di cultura umanistica. Tra i fiori all'occhiello della biblioteca del marchese di Santillana, ?ñigo López de Mendoza, splendevano come gemme preziose le versioni latine dell'Iliade e delle Vite plutarchee eseguite dal Decembrio e il Fedone platonico tradotto dal Bruni. La traduzione dell'Etica aristotelica del cancelliere fiorentino circolava per la penisola iberica già nella prima metà del XV secolo.
Un'orda inferocita di giuristi pavesi
Un giorno dell'anno 1433, per le strade di Pavia, un'orda inferocita di giuristi rincorreva il giovane professore di retorica dell'Università. Si trattava di un tentativo di linciaggio, cui il ventiseienne Lorenzo Valla sfuggì trovando riparo (ironia della sorte) dentro una chiesa. Potrebbe cominciare con questa immagine simbolica del grande filologo che corre a perdifiato una trattazione sulla disputa delle arti all'interno del sistema universitario dell'inizio del XV secolo, dove la facevano ancora da padrone le facoltà di diritto e medicina. Perché i causidici pavesi ce l'avevano tanto con Valla? Perché il giovane umanista romano aveva osato sbeffeggiare, con la superbia che gli era propria, l'opera del grande giurista trecentesco Bartolo da Sassoferrato, mettendone alla berlina l'ignoranza. Per Valla ignoranza equivale a uso di un latino che, infrangendo con le sua anomalie e solecismi il sistema linguistico degli antichi, diventa privo di significato, logicamente senza senso. L'elegantia che egli cerca di ripristinare nel sistema linguistico, ormai contaminato dalla barbarie medievale, ha ben poco a che vedere con una purezza estetica. Da logico quale è, Valla è alla ricerca di una linearità di rapporti fra le parole e le cose da esse significate che consenta di ricostituire una "ecologia" dei testi latini.
Quello che Valla fa nelle sue Elegantie latine lingue è infatti esattamente un'operazione di ripulitura del linguaggio sporcato, contaminato da secoli di tradizione medievale che si era curata solo delle res, dei significati, incurante dei verba, che avevano deragliato dai loro binari logico-semantici. Usa come sapone la consuetudine linguistica latina così come essa si è storicamente determinata dalle origini (Plauto) fino a Boezio, con un'attenzione tutta particolare, però, agli usi linguistici dei grandi maestri di retorica, Cicerone e Quintiliano, e degli storici. Senza l'utilizzo corretto della lingua latina, ogni sapere diventa per Valla «cieco e illiberale». Ne deriva quindi che il ripristino del "sistema"-lingua latina rappresenta la condizione sine qua non per il ripristino della cultura, nelle sue diverse sfaccettature, e della civiltà tout court. La sfida che Valla lancia nel proemio delle Elegantie lingue latine è tutta rivolta al futuro.
Firenze infestata di streghe
A un certo punto della sua vita, assai vicino alla sua precoce dipartita, ad Angelo Poliziano, che poteva guardarla dall'alto, dalla villa fiesolana dell'amico Lorenzo, signore della città, Firenze apparve infestata di streghe. Il peggior incubo per la terza pagina dei giornali, sol che ci fossero già stati: infestata di streghe la nuova Atene, la culla della Renovatio litterarum, a cui tutti i dotti d'Europa guardavano, e per vantarsi della cui cittadinanza spesso i professori mentivano spudoratamente nelle città universitarie d'Europa: nel 1467, ad esempio, Jacobo Publicio, umanista di Salamanca, andava a caccia per la città di Lipsia di studenti cui impartire lezioni private di retorica e poesia, spacciandosi per cittadino "de Florentia".
Quella splendida Firenze, dunque, Poliziano la vide un giorno popolata di streghe. Fortunatamente non si verificarono rapimenti di bambini nel sonno o altre diavolerie del genere (malefatte che la tradizione popolare addebitava a queste malefiche donne). Perché quelle lamie ('streghe', appunto) le vedeva solo il Poliziano, assillato dalle critiche di tutti quei filosofi che a Firenze non lo lasciavano in pace da quando si era messo in testa di poter tenere, da 'grammaticus' quale era, corsi accademici sul filosofo Aristotele. Quell'Aristotele che l'amico Pico della Mirandola, in contrapposizione alle streghe neoplatoniche guidate da Marsilio Ficino, aveva riammesso nel novero degli antichi sapienti. Molti anni dopo, nel maggio del 1526, una commissione di professori di teologia dell'Università Sorbona di Parigi condannava i Colloquia di Erasmo non solo per gli errori in materia di fede, ma anche e soprattutto per l'arroganza del suo autore, che aveva voluto proporre profonde questioni teologiche a semplici studentelli di grammatica («grammaticulis»): un vero oltraggio per i baroni accademici che da secoli si occupavano di simili questioni.
Alla ricerca di un sapere umano
A quelle streghe il Poliziano, professore di retorica dello Studio fiorentino, rispose dedicando loro una prolusione ad un suo corso accademico, quello del 1491, sugli Analitici di Aristotele. «Credono di essere uomini, ma sono streghe», andava ripetendo, a se stesso e agli amici. Contro quella turba di platonici tutti protesi al cielo, fulminati dalla pura contemplazione speculativa, che teme il contatto con la "sordida materia", Poliziano è alla ricerca di un sapere umano, magari più limitato, ma più concreto. Il sapere, per lui, non si sviluppa verticalmente, dalla terra al cielo, ma orizzontalmente, seguendo lo sdipanarsi del filo della storia umana. «L'afferrarsi del Poliziano al testo, al termine – ha scritto Eugenio Garin – significa fedeltà rigorosissima all'umanità del linguaggio e alla sua storia: fedeltà all'istanza critica avanzata dagli studia humanitatis». Quasi contemporaneamente, il coetaneo collega bolognese Filippo Beroaldo andava sostenendo, anche lui contro i filosofi di professione, che bisognava abbandonare le pretese di indagine sui misteri ultimi dell'universo, e concentrarsi invece sulla realtà mondana, quella sola in cui la facoltà conoscitiva dell'uomo ha probabilità di successo.
I due colleghi, al di qua e di là dell'Appennino, nutrono la stessa estrema fiducia nelle possibilità conoscitive che l'analisi linguistica, o la scienza della parola, porta con sé: mentre Beroaldo comincia ad analizzare il linguaggio succoso e 'versicolore' delle Metamorfosi di Apuleio, Poliziano apre i suoi corsi accademici esaminando l'Institutio oratoria di Quintiliano, uno dei testi-guida di tutto l'umanesimo della parola; è lui, inoltre, il primo professore in Europa ad utilizzare la Poetica di Aristotele in un corso dedicato al teatro comico, prima che l'operetta dello Stagirita, tradotta in latino alla fine del secolo da Giorgio Valla, diventasse un best-seller, un vero vademecum della moderna estetica europea.
Scienziati dei testi
Ciò che è difficile per noi capire è quanto la battaglia di un Valla e di un Poliziano, che appare a tutta prima come una battaglia di retroguardia, rivolta al passato, rappresenti in realtà una rivoluzione che va forse ben al di là della stessa consapevolezza che ne avevano i loro autori. La cosa si può forse comprendere se non si guarda frontalmente il nostro oggetto di studio, ma, come dire, "di sguincio": non sono certo nuovi i contenuti che questi due filologi ripescano pazientamente dall'antichità, ma nuovi sono gli strumenti, la metodologia, che adottano per il recupero del passato.
Da questo punto di vista si può dire che Valla e Poliziano sono due gran nomi della storia della civiltà europea (Garin) e che il loro approccio analitico-induttivo alla critica del testo apre le porte al metodo galileiano. Diversa l'applicazione, ma unica la ratio. È proprio in un trattato di retorica dell'umanista bizantino Giorgio Trapezunzio, i Rhetoricorum libri, che si trova del resto per la prima volta la parola «methodus», intesa come via o procedimento di ricerca e trasmissione ordinata di conoscenze. Si tratta anche di una nuova esigenza storica: il vecchio sapere delle scuole medievali, dove la logica e la teologia procedevano per farraginosi sillogismi, non è più in grado di fornire prove argomentative sicure, di soddisfare le esigenza di una cultura più legata alla vita terrena e ai suoi fenomeni: è questa una delle lezioni impartite dal trattato De inventione dialectica dell'umanista olandese Roelof Hysman, quel Rodolfo Agricola che fu geniale interprete dell'umanesimo italiano su scala europea.
«I pazienti e scrupolosi correttori di manoscritti tanto spesso scorrettissimi», è il parere di Ladislao Mittner, «erano, loro pure, scienziati e crearono una nuova scienza tecnica, senza la quale sarebbe stato senza fondamento concreto qualsiasi posteriore "scienza dello spirito". La teologia medievale fu vinta definitivamente non solo dal cannocchiale, ma anche dalla filologia». Non occorrono infatti solo occhi nuovi per guardare alle nuove cose. Occorre anche una mente abbastanza spaziosa per accoglierle.
Smontare e rimontare i testi…
Un grande poeta tedesco dei nostri tempi, Hans Magnus Enzensberger, traduttore nella sua lingua di poeti come Fortini e Sanguineti, ha affermato recentemente che fare una traduzione di un testo letterario equivale per lui a smontare un oggetto, proprio come fa un orologiaio quando si trova di fronte un orologio da riparare. E, ancora, che non c'è procedimento più utile della traduzione per capire e giudicare un testo letterario, di qualunque genere esso sia.
Che i testi letterari fossero sempre dei riassemblaggi di materiale precedente lo aveva già compreso Leon Battista Alberti, che nel proemio al terzo libro di una sua opera morale scritta in volgare, i Profugiorum ab erumna libri, dà al contempo un breve saggio di poetica e di teoria della letteratura. L'immagine del mosaico e del mosaicista rende benissimo il fine lavorìo di intarsio, di taglio e cucito, che gli umanisti compiono sia quando 'riparano' le opere degli autori antichi sia, in fase creativa, quando montano propri assemblaggi testuali, come bravi meccanici, a partire da quei pezzi che trovano nella loro officina. Vale a dire, da quei pezzi di verso, o di frase, che la loro memoria onnivora e fagocitante ha immagazzinato e che, quando scrivono, saltano fuori anche senza volerlo. I più versati nella scrittura creativa se ne accorgono e, scrivendo e riscrivendo, a volte coll'aiuto degli amici, cercano di allontanarsi il più possibile dal modello di riferimento. La maggior parte, invece, non si preoccupa di lasciare nella propria "insalata" delle citazioni non sminuzzate provenienti dai classici, maestri di lingua e di cultura. Ma c'era anche chi questo metodo non apprezzava. Quando nel 1457, pochi mesi prima di morire, Valla pronuncia a Roma, nella chiesa domenicana di S. Maria Sopra Minerva, il suo personalissimo "elogio" di S. Tommaso, ci fu chi, tra il pubblico, diede di gomito al compagno, sussurrandogli all'orecchio che chi stava parlando era un pazzo, perché il suo discorso era come un vestito di Arlecchino, pieno di toppe prese qua e là, da questo e quell'altro autore.
…fino alle singole parole
L'acume critico-analitico degli umanisti non scompone solo i testi, ma anche le singole parole. Per dimostrare l'insensatezza del linguaggio mostruoso creato artificialmente dai filosofi scolastici medievali, al di fuori di ogni regola della lingua latina, Valla, filologo-logico, procede verso il linguaggio dell'odiata dialettica medievale con quella che, in termini algebrici, potremmo chiamare una scomposizione ai minimi termini. Veramente esemplare è il modo in cui denuda il roboante participio sostantivato «ens», parola principe della scolastica medievale, facendolo restare con una misera foglia di fico in mano.
Un geniale riformatore della logica della seconda metà del Seicento, e iniziatore del calcolo combinatorio, Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716), lesse con straordinaria attenzione, da ragazzino, almeno un libro di Lorenzo Valla, quello sul libero arbitrio. «Ero ancora un ragazzetto – confessa Leibniz – e avevo appena imparato a intendere gli autori latini, quando fui incantato dal libro di Lorenzo Valla contro Boezio». Più che l'argomento trattato, deve essere stato il metodo del Valla ad aver colpito l'inventore del calcolo combinatorio: quando, infatti, nella maturità, sosterrà che nell'affrontare un problema «l'analisi riduce il problema proposto a parti più semplici e si svolge per salti, come in algebra, o mediante problemi intermedi, noi avvertiamo, nel modo di ragionare, una sensazione di familiarità.
Sfidare gli antichi…
Nel momento in cui Aristotele o Tolomeo sono visti legati ad una stagione, in quel punto stesso finisce la loro autorità assoluta e metatemporale (Garin). Che si parli delle regole da seguire per scrivere una buona poesia, oppure di come trattare le fonti storiche, o, ancora, di sanare la parte corrotta di un testo, ci si scontra sempre col problema del rispetto dovuto alle "autorità". Parlando una volta, durante una lezione, del suo concittadino e amico pittore Francesco Francia, il professor Beroaldo disse che, impegnate nella rappresentazione della natura, le sue mani di orafo e di pittore «gareggiavano» (certantes) con quelle degli antichi.
Gareggiavano, già. Per alcuni umanisti – i più pedanti, i meno originali – questa era una sorta di bestemmia. Per Paolo Cortesi, ad esempio, rivale di Poliziano, c'è un unico modello possibile quando si vuol scrivere prosa, e questo è Cicerone. Anche solo l'avvicinarsi agli esiti della sua prosa sarebbe stato un grosso successo. Per Cortesi il modello di Cicerone si impone come l'unico, in quanto la sua perfezione assoluta lo pone come oggettivazione metastorica, oltre cui non è possibile progresso. Per Poliziano invece, che quando prende in mano la penna ha in mente l'immagine dell'ape che coglie fior da fiore, come prima di lui Petrarca, e come dopo di lui Erasmo, scrivere bene significa crare un ottimo miele col polline prelevato da una molteplicità di fiori (gli autori). «Non sarò Cicerone?» ribatte ironico Poliziano alle accuse del Cortesi, «ma io sono Poliziano, non Cicerone».
Il criterio del conveniente ('aptum'), che ha la meglio su quello di bello assoluto, permetterà di raggiungere, attraverso la grazia, la bellezza e la nobiltà, l'idea – nei suoi esiti estremi – di un'umanità molteplice, capace di contemplare diverse dignità di stile, di vita, di pensiero.
…e superarli
Se in Poliziano l'intento agonistico è celato sotto la pretesa di affermare la propria individualità, nel battagliero Valla è dichiarato in modo da non lasciare dubbi. Nell'ultima delle sue tante polemiche, quella con l'umanista bolognese Benedetto Morandi, sulla contestata genealogia dei re Tarquini tramandata dallo storico Livio, l'umanista romano afferma che per i moderni non avrebbe senso scrivere se, contrastando gli antichi, essi non fossero in grado di correggerne gli errori.
Sono gli umanisti stessi, poi, a mettere in guardia i posteri dal trattarli con la reverenza che si deve a nuove autorità. Il più grande filologo, assieme al Poliziano, della seconda metà del Quattrocento, il veneziano Ermolao Barbaro, al termine della sua più celebre opera di erudizione, le Castigatiuones plinianae, in cui emendò da molte centinaia di errori il testo della Naturalis historia di Plinio, avvertiva il lettore a non prendere come un oracolo quanto aveva letto, e a verificare sempre ogni verità a partire dalle fonti. Metteva insomma in guardia dal pericolo di sostituire a un'autorità antica un'autorità moderna.
Gli umanisti più dotati e sicuri non riconoscono altro magistero che quello dell'intransigenza critica. Eliminata ogni mediazione, il corpo a corpo deve essere direttamente con gli antichi. Un umanista francese, uno dei più grandi della prima metà del Cinquecento, che diceva di amare Marsilio Ficino come un padre, e che nel 1514 si farà editore di tutte le opere di Nicolò Cusano, Lefevre d'Etaples, ritradurrà tutto il corpus aristotelico avvalendosi dell'aiuto di molti collaboratori: Josse Clichtove, Thibaut Petit, Beatus Rhenanus e Charles de Bovelles. Lo farà sbarazzandosi dei commenti medievali che rendevano il testo oscuro e senza timori reverenziali verso le traduzioni delle opere morali e politiche dello Stagirita fatte da Leonardo Bruni che da quasi un secolo circolavano per l'Europa. È anche con intraprese di questo tipo che Lefevre d'Etaples opererà una profonda riforma pedagogica nel Collegio parigino del cardinal Lemoin.
Il genio universale del Rinascimento: Leon Battista Alberti
Esaltato da Burckhardt come "uomo universale" emblema del Rinascimento italiano, anticipatore di Leonardo, oggi scorgiamo, dietro alla mente eclettica e alla immaginazione poliedrica di Leon Battista Alberti (1404-1472) – che fu infatti architetto, scultore, letterato in volgare e in latino, musico, matematico – anche una razionalità stoica in grado di autoarginare l'ambizione umana in spregio ad ogni mito antropocentrico, di cui si fece beffa. Dopo di lui solo Leopardi saprà esaltare a così alto grado le capacità umane nel momento stesso in cui ne commiserava i limiti imposti per natura. Enfant prodige alle prese con malattie, malasorte e con parenti canaglie, gli piacque di rappresentarsi, sin dalle sue prime prove letterarie (la commedia Philodoxeos fabula, 1428), come un giovane in cerca di Gloria ma perseguitato da povertà e sfortuna; questo tema lo ossessionerà per tutta la vita, se esso si insinua in molte delle sue Intercenales (Erumna, Corolle) e se, sui rimedi dalle disgrazie, scrisse, in volgare, una sorta di manuale dal sapore stoico, i Profugiorum ab erumna libri. Anche tra i cento Apologi che compose in latino nel 1437, su modello esopiano, la maggior parte sono disincantati e amari. Benemerito della nostra lingua – a lui si deve una precocissima grammatica dell'italiano come lingua d'uso –, la portò ad alta dignità letteraria col suo trattato De familia (1433-1440), la sua opera giustamente più nota, col quale cercò di ingraziarsi quei fiorentini che avevano esiliato i suoi parenti; ma pure con la sperimentazione in volgare di molti generi della letteratura latina (bucolica ed elegia: Tirsi da una parte, Deifira ed Ecatonfilea dall'altra). Per promuovere la lingua italiana organizzò a Firenze anche una grande gara poetica (Certamen), nel 1441, che si rivelò però un autentico fallimento. Passò così gran parte della sua vita – aveva già preso gli ordini minori – presso la curia romana; indole malinconica, quasi bipolare, di giorno lavorava alla stesura di un trattato di architettura, il De re aedificatoria, destinato a diventare il più importante dopo quello di Vitruvio (lo dedicherà a Niccolò V nel 1451), o eternava la sua persona nella progettazione di opere mirabili quali il Tempio Malatestiano a Rimini o S. Maria Novella a Firenze; di notte si dava alla stesura semisegreta di un'operetta onirica come il Momus, in cui trasfigurava grottescamente i personaggi con cui aveva a che fare di giorno. Oltre a dispensare consigli a pittori, col De pictura (dedicato a Brunelleschi) e a scultori, col De statua, in tarda età distillò la cultura e l'esperienza accumulata scrivendo ancora sulla famiglia e dando suggerimenti all'«iciarco» (il capo-famiglia) nel dialogo De iciarchia (1470). La dimensione mediana familiare, lontana tanto dall'ambizione del princeps – cui peraltro egli non lesina ammaestramenti – quanto dalla solitudine totale del vagabondo – figura esaltata nel Momus – pare infine configurarsi come la più sicura per attraversare il fiume della vita.
La "funzione Ulisse" del sapere
È dunque un senso di sfida nei confronti del sapere costituito, una inesausta curiosità per il sapere che giace ancora nascosto, che contraddistingue, come si sarà ormai capito, la stagione culturale dell'Umanesimo. La possibilità di trovare il manoscritto di un antico autore sconosciuto nella biblioteca di un monastero, esercita sugli umanisti, da Petrarca a Erasmo, passando per Poggio Bracciolini e Giovanni Aurispa, la medesima irresistibile forza di attrazione che spinge l'Ulisse dantesco a varcare le colonne d'Ercole per seguire «virtute e conoscenza». Il 6 luglio 1417, per dire degli ostacoli che avrebbero potuto impedire all'amico Poggio Bracciolini le sue meravigliose scoperte, l'umanista veneto Francesco Barbaro uso un tricolon che ricorda molto quello utilizzato da Ulisse, nel celebre canto XXVI dell'Inferno, per elencare gli ostacoli affettivi che avrebbero potuto (e dovuto) distoglierlo dall'idea del "folle volo".
Il desiderio di conoscenza (curiositas) coincide con la voluptas, che già gli antichi insegnavano essere figlia di Amore e Psiche, entrambi colpevoli di curiosità. La voluptas che provano Valla e Poliziano di fronte ad un autore sconosciuto, o alla nuova lezione di un testo noto, è la stessa.
La via che porta dall'Ulisse dantesco a Cristoforo Colombo, passa dunque necessariamente per Poggio Bracciolini, assunto come rappresentante di tutte le centinaia di indefessi umanisti che scoprirono e ricopiarono autori greci e latini da secoli nel dimenticatoio. Scoprire significa poi spesso rimettere in circolazione testi segregati, lungo tutta l'età medievale, per il loro contenuto eterodosso, e sottoporli al giudizio critico di quella che si sarebbe chiamata Respublica litterarum: è il caso, per esempio, del De rerum natura di Lucrezio – altra "scoperta" tedesca di Poggio – la maledetta opera materialista in cui il poeta latino esponeva in versi le teorie del filosofo greco Epicuro.
La palestra degli umanisti
Non c'è autore antico, per quanto il suo pensiero possa essere radicale e in contrasto con l'impostazione cristiana, verso cui gli umanisti più sensibili non dimostrino il loro interesse. Dall'inizio alla fine del secolo è proprio questa disponibilità al dialogo e al confronto, inteso come unica via percorribile per giungere a una verità non imposta dogmaticamente dalla Chiesa o dalle sette dei filosofi scolastici, a caratterizzare l'atteggiamento del migliore umanesimo. Leonardo Bruni, nel primo grande testo programmatico dell'Umanesimo quattrocentesco, i Dialogi ad Petrum Paulum Histrum (1404), stende un sentito encomio della disputa fra dotti (43), come approfondito e sereno scambio di esperienze e valutazioni culturali.
È il medesimo appello che prorompe ad un certo punto dell'eroica Oratio de hominis dignitate che Giovanni Pico della Mirandola avrebbe voluto pronunciare pubblicamente a Roma nel 1487; a lui, che, enfant prodige della filosofia, appena ventitreene, aveva voluto, a sue spese, convocare di fronte al papa Innocenzo VIII e all'intero collegio cardinalizio tutti i sapienti dalle più remoti parti d'Europa, per discutere le sue novecento tesi filosofiche, portatrici di una nuova universale concezione del sapere, a lui sarebbe risultata gradita anche la sconfitta sul campo, qualora il dibattito avesse dimostrato l'erroneità delle sue posizioni. Perché questo "vizio" della discussione (44) lo condivideva coi sommi filosofi dell'antichità, Aristotele e Platone.
Con una disponibilità non dissimile al dialogo tra posizioni non facilmente conciliabili, parecchi anni prima, nel 1433, Ambrogio Traversari, priore fiorentino del convento camaldolese di Santo Spirito, aveva risposto, affogato com'era di affari, con una breve lettera a Lorenzo Valla in merito al dialogo De voluptate appena composto dal giovane amico; i primi due libri dell'operetta valliana erano fortemente antistoici e filo-epicurei, esaltavano cioè il primato dell'utilitas e del piacere sull'astratta virtù propria del vir bonus. Ma, nonostante questo, nella sua breve lettera di risposta, il religioso Traversari offriva insperate (per noi) aperture di credito alla molteplicità delle visioni, legittimando la diversità di posizioni filosofiche, qualora debitamente argomentate.
Guardare di sguincio o di fronte
Spesso è guardando "di sguincio" l'oggetto di studio che si capisce, e si fanno scoperte importanti. Come se la scoperta fosse sempre potenzialmente nell'aria, e a noi spettasse tradurla in atto trovando l'esatto punto di osservazione sulla realtà in esame. La verità è sempre una relazione (fra testi, fra contesti, fra autore e lettore), mai un valore assoluto: anche questo ci hanno insegnato i nostri filologi-umanisti.
Se invece di guardare di fronte, al centro della piazza omonima, la facciata fiorentina di S. Maria Novella, ombelico del Rinascimento italiano, la guardiamo "di sguincio", spostati tutti sulla destra, vediamo bene come quella "pagina" di Leon Battista Alberti sia inserita in un "libro" gotico, quello della chiesa dei domenicani, che di tutt'altra, ben anteriore, realtà culturale è espressione. Nello stacco netto tra corpo e facciata della chiesa, realizzata da uno dei geni universali del Rinascimento, Leon Battista Alberti, sembra di trovare un "correlativo oggettivo" di quello che fu il Rinascimento: una pellicola di esaltante armonia senza tempo, di grazia sublime, sovrapposta a un corpo massiccio, meno vanitoso ma più funzionale, cui il tempo non pare abbia risparmiato neppure un minuto dal momento della sua venuta al mondo. L'effimero, bellissimo ed eterno, che beffa l'utile, elementare e transeunte. È questa un'istantanea che reca giustizia al nostro Rinascimento?
Qualche decennio prima, nel 1436, a poche centinaia di metri dalla facciata da cui siamo partiti, veniva terminata la cupola "autoreggente" dell'amico di Leon Battista Alberti Filippo Brunelleschi. Nell'esaltante sfida alla forza di gravità lanciata dall'architetto del comune di Firenze, l'umanesimo ribatte ogni accusa di culto della forma e di leziosità e si propone invece come potente messaggio universale rivolto al genere umano, ad ogni singolo uomo. Là (ancora fermi a guardare di sguincio S. Maria Novella) una cultura raffinata e aristocratica che sancisce la separazione di arte e vita; qua (a naso in su in piazza Duomo), nel fausto intrecciarsi di sapienza costruttiva e spericolato sperimentalismo, un monumento che riassume l'umanesimo civile fiorentino e che non cessa di riproporre e vincere, attimo dopo attimo, la sua scommessa lanciata all'architettura e al buon senso, facendosi beffe della forza di gravità.
Sacerdoti e naviganti
Non c'è dubbio che l'umanesimo sia stato, 'tecnicamente' un'avanguardia esclusiva, che annoverò al suo interno alcune centinaia di dotti che nutrivano un vero e proprio culto per le humane litterae: sacerdoti di un culto laico, per molti di loro non c'è nulla di più desiderabile che sublimare la realtà nella splendida Arcadia, mondo dell'arte e della quiete incorruttibile, senza tempo. Da questo punto di vista la produzione umanistica parla, trasversalmente, a quella genìa di fruitori e produttori di letteratura del passato e del futuro, più che agli uomini che vivono questo mondo. Ma negare che un'osmosi ci fu, e pure determinante, fra mondo delle lettere e vita, che ci furono libri che si innestarono nell'immaginario collettivo, che meravigliarono e mossero persone ben al di fuori di quella ristretta cerchia di professionisti, significa espungere il precipitato più ricco e succoso di estenuanti studi d'erudizione. Significa guardare solo frontalmente il nostro Umanesimo, e non "di sguincio".
Nell'Utopia di Thomas More, testo capofila di un genere fortunato, il protagonista Raphael Hythlodaeus si finge un marinaio di Amerigo Vespucci. La letteratura attinge dalla vita, da un "eroe" dei tempi moderni. I tempi erano maturi, i mercanti pronti e la borghesia fremeva, ma, forse, senza quell'interesse enorme per la geografia che si sviluppò nel Quattrocento, in ambito erudito, nessuno degli avventurieri che conosciamo sarebbe partito alla ricerca di terre lontane e promesse. Già nei primi anni del Quattrocento, infatti, a Firenze, Jacopo Angeli da Scarperia attendeva alla traduzione della Geografia di Tolomeo. Nel 1477, mentre a Bologna una équipe di inquieti umanisti e scienziati dava alla luce Tolomeo nella lingua latina dell'Angeli, a Roma il giovane Domizio Calderini lavorava ad una parallela edizione, ridisegnando pure quelle carte geografiche che la plurisecolare tradizione del testo aveva inghiottito. Senza queste carte, senza le forti suggestioni offerte da questi libri, forse Cristoforo Colombo non si sarebbe mai messo in testa di circumnavigare il globo terrestre per raggiungere le Indie.
Nuove coordinate
Nella bisaccia di Colombo, oltre ad autori ancora medievali come Giacchino da Fiore e Albumasar, c'erano l'Historia Rerum Ubique Gestarum di Enea Silvio Piccolomini e, fittamente postillata, quella Naturalis historia di Plinio (che il Poliziano, il Beroaldo e il Barbaro facevano a gare ad emendare), nella traduzione volgare di Cristoforo Landino. Ma oltre ai libri nella bisaccia ci sono gli uomini nel cuore. Tra i grandi umanisti e gli uomini d'azione ci sono spesso delle straordinarie personalità universali, trasversali nelle competenze, come lo scienziato Paolo dal Pozzo Toscanelli, capace di imprimere un senso dinamico alle più avanzate speculazioni del suo tempo. Egli è «presente nelle misure della cupola del Brunelleschi, nelle prose amare dell'Alberti, nelle riflessioni matematiche del Cusano, nelle polemiche astrologiche del Pico, nelle conversazioni filosofiche del Landino e del Ficino» (Garin). A partire dalle riflessioni sviluppate da un mappamondo regalatogli da Francesco Castellani, abbozza una carta geografica che allora dovette sembrare assurda, e la invia in allegato al canonico di Lisbona Fernam Martins (amico e familiare del re di Portogallo), il 25 giugno 1474: «Rimetto … a sua maestà una carta fatta colle mie mani, nella quale si trovano disegnati i vostri lidi, e le isole dalle quali il viaggio si dovrebbe incomiciare, sempre verso occidente, e i luoghi ai quali si dovrebbe giungere, e quanto si dovrebbe declinare dal polo, e dalla linea equatoriale, e quanto spazio, ossia quante miglia converrebbe percorrere per giungere ai luoghi fertilissimi d'ogni specie d'aromi e di gemme. E non vi meravigliate se chiamo porti occidentali quelli dove sono gli aromi, mentre comunemente si chiamano orientali, perché quelli che navigheranno continuamente a ponente, per mezzo della navigazione agli antipodi, raggiungeranno dette regioni».
Meno di venti anni più tardi, proprio dalle coste portoghesi, sarebbero partite le navi di Colombo, in grado di verificare le erronee misure dei geografi attraverso una feconda convergenza di sapere e operare. La tensione tra utopia, letteratura e vita aveva raggiunto il suo culmine.
Bibliografia
Testi
Edizioni (con traduzione a fronte)
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