Verona, 1336
Dicono che domani in piazza leggeranno ancora dei versi di quel poeta italiano che vive in Francia. C'è il professore di letteratura dell'Università, mi pare che si chiami Cavalchino o qualcosa del genere, che è proprio fissato con lui: agli esami lo chiede sempre. Per lui questo Francesco Fiorentino è proprio un grande poeta, anche se è giovane, e tra poco spetterà anche a lui la corona d'alloro e allora lo conosceranno in tutto il mondo…e rinascerà la nostra antica grandezza e torneremo orgogliosi di essere figli dei romani. Sarà. Ma "questo grande poeta" scrive in una lingua che non capisco e se la curiosità mi spingerà in piazza, o capiterò di lì, mi toccherà come sempre dar di gomito al vicino e chiedere ad ogni acclamazione ed applauso: "che ha detto?", come una cretina. Questa mania di scimmiottare gli autori morti da millenni, scrivendo in quel latino che capiscon solo i professori! Ma diremi: secondo voi perché quel Francesco si dice "Fiorentino" se Firenze non l'ha vista neanche in fasce? Ma lo capisce anche una ignorante come me: perché non vuol essere da meno di Dante. Li conosco io questi narcisisti: scommettete che non lo citerà mai, facendo finta che per lui non esista, e quando glielo faranno notare lui dirà: "Ma no, cosa dite, non ho mai messo in dubbio che Dante fosse un grande poeta…"
Gotha (Germania), 1985
Come è possibile scoprire a distanza di tanti secoli, dopo che generazioni di studiosi vi hanno dedicato anima e corpo, un testo inedito di una star della letteratura come Francesco Petrarca? Si potrebbe pensare che esso si nasconda, o sia stato nascosto, in un luogo recondito, inacessibile, quasi stregato. Sorride il professor Michele Feo: tra le mani ha un manoscritto confezionato a Praga nel Quattrocento e che, seduti tra le comode poltrone della Forschungbibliothek di Gotha, nella Repubblica Democratica Tedesca, dove si trova anche lui in questo momento, avranno visto e sfogliato decine di studiosi. Un po' distratti, per sfortuna loro e per fortuna del professor Feo, sono rimasti indifferenti di fronte ad un componimento di un tal "Franciscus florentinus", una lettera scritta in versi latini e indirizzata ad un professore di retorica della città di Verona, un tal Rinaldo Cavalchini, come ringraziamento per il suo zelo nel diffondere la sua poesia. Il giovane Michele Feo è già un esperto petrarcologo e sa che quello è il nome che l'autore a lui caro usava prima di essere incoronato poeta a Roma, nel 1341. Gli pare anche di ricordare che due fra quei centoquarantadue versi sono citati da Petrarca stesso in una sua prosa. Quella lettera in versi latini (era lì, a disposizione di tutti, bastava riconoscerla…) è effettivamente del grande poeta, la comunità scientifica glielo riconosce. Tra qualche giorno i titoli dei giornali saranno tutti per lui…
Ma volgiamoci agli alibi dei vinti, di quegli studiosi cioè che, di fronte a quella stessa lettera, hanno voltato la pagina dell'antico codice. Gli esperti di Petrarca sanno quanto egli guardasse a Firenze come alla sua patria d'elezione. Fiorentino era il padre, ser Petracco, guelfo bianco, amico di Dante e assieme a lui esiliato dalla sua città nel 1302. Francesco nasce ad Arezzo (20 luglio 1304), dove trascorre i primi mesi di vita, per poi cominciare a emettere le prime parole a Pisa e nella casa dei genitori all'Incisa Val d'Arno. I viaggi, che caratterizzeranno la sua vita, sono da subito molto insidiosi. All'età di otto anni si trova ad Avignone, dove si è appena trasferita la corte papale e dove suo padre ha trovato lavoro. Comincia gli studi a Carpentras con un pratese dal nome gentile, Convenevole, e nel 1316 intraprende gli studi di diritto a Montpellier. Quattro anni più tardi il padre lo mando a Bologna per continuare gli studi di diritto, dove il giovane fuorisede Francesconon si distingue certo per una condotta esemplare, annoiandosi mortalmente alle lezioni di boriosi professori. Quando non ne può più se ne fugge alle lezioni di letteratura di Bartolomeo Benincasa su Cicerone o di Giovanni del Virgilio, grande ammiratore di Dante. Il quale muore nella vicina Ravenna nel settembre del 1321. Chissà come avrà accolto la notizia, sotto i portici della dotta Bologna, il diciassettenne Francesco Petrarca.
Un "fiorentino" per nulla fiorentino
Sin qui della sua patria "in su la riva d'Arno" neanche l'ombra. E dire che Firenze da Bologna dista meno di cento chilometri, che per l'epoca significa, in carrozza, due giorni di viaggio. Per chi avesse un gran desiderio di rivedere la sua patria non sarebbero molti. Nel 1326 muore il padre e Francesco torna ad Avignone, che è una delle più importanti capitali culturali del tempo, dove si parlano correntemente almeno tre lingue (provenzale, occitanico e latino, e forse un po' di italiano per i tanti fuoriusciti). Qui, venuta meno ogni costrizione ad occuparsi di materie per lui insulse, si dà finalmente agli amati studi letterari. Lo può fare perché un signore lungimirante, Giacomo Colonna, vede che il giovane ha talento e decide di investirvi; quando nel 1330 papa Giovanni XXII lo nomina vescovo di Lombez egli inserisce il giovane Francesco nella lista dei suoi "protetti", tra i quali compare anche Ludwig van Kempen, un musico fiammingo che ritroveremo tra poco sotto mentite spoglie. (La musica e il canto andavano di moda nella società elegante. Tutti suonavano almeno uno strumento ad Avignone, messer Francesco il liuto).
Francesco mette piede a Firenze per la prima volta solo nel 1350, diretto alla volta di Roma. Viene accolto con grandi onori da un drappello di estimatori, guidati da Giovanni Boccaccio. Egli è onorato ma si sente in imbarazzo, prova quasi un senso di estraneità e se ne riparte subito. Vi starà una manciata d'ore al ritorno di quel viaggio e poi, da quel che ne sappiamo, mai più. Anche quando gli amici fiorentini, guidati dal solito Boccaccio, lo chiameranno a occupare la cattedra di letteratura di quella che considera la sua città, egli non solo declinerà, ma, personaggio ormai di spicco nel panorama culturale, accetterà l'offerta dei Visconti, nemici giurati dei fiorentini, e andrà a vivere a Milano.
Capite dunque perché non siano troppo da deplorare gli occhi miopi di quegli studiosi che nel codice di Gotha non riconobbero nella generica attribuzione della poesia il nome di Petrarca. Se un uomo si giudica, come avevano già sancito gli stilnovisti, non dalla famiglia da cui proviene ma da ciò che compie in questa faticosa prova che è la vita, Petrarca non ha voluto essere fiorentino, pur proclamandosi sempre tale. È una delle tante contraddizioni che costellano la sua esistenza. Il manoscritto di Gotha ci dice molto circa l'internazionalità di Petrarca: contiene poesie latine scritte in Francia da un autore nato in Italia e oggi conservate nella biblioteca di una piccola cittadina vicino a Lipsia. Petrarca è il primo intellettuale veramente apolide, con orizzonti europei. Tra l'altro, anche se con un po' di ritardo rispetto ai diciotto anni consueti, è stato il primo scrittore a fare l'interrail.
Senza radici "pellegrino ovunque". Terre nordiche e libertà
Nella primavera-estate del 1333, fattosi chierico per avere qualche beneficio ecclesiastico ed eludere così i volgari problemi di mantenimento, il ventinovenne Francesco parte per un viaggio nell'Europa del Nord. È spinto, come confida al suo signore Giovanni Colonna in una delle sue lettere Familiari (I 4), da "desiderio di conoscere e ardore giovanile". La prima tappa è Parigi e la reazione è quella di ciascuno di noi al suo primo approccio con una città a lungo rappresentata come eccezionale: verificare quanto c'è di vero. «Ero sopraffatto dalla meraviglia – confida Francesco – mi guardavo attorno con grande attenzione perché volevo rendermi conto se fosse vero o falso tutto quello che avevo sentito dire di Parigi. Così mi fermai piuttosto a lungo, e se il giorno non bastava alle mie esplorazioni, aggiungevo anche la notte. Girando e ficcando il naso dappertutto, ho potuto capire quanto di vero e quanto di falso si racconta di Parigi» (Fam. I 4, 4-5). Poi è la volta di Gand, «orgogliosa di avere anch'essa Giulio Cesare come fondatore» (ivi, 5), di Liegi, dove scopre due sconosciute orazioni ciceroniane, di Aquisgrana, «dove viveva Carlo Magno, e il suo sepolcro induce ancora timore ai barbari», per finire con Colonia e Lione. A Colonia sperimenta per la prima volta la bontà del proverbio che tanto piaceva al suo amato Cicerone, «in mezzo a lingue sconosciute siamo tutti sordi e muti» (Fam. I 5, 4). Fortunatamente ha l'aiuto di interpreti gentilissimi e in più, per godere dello spettacolo cui dan vita le donne della città sulle rive del Reno al calar del sole, c'è bisogno solo di una buona vista. Non ci sarebbe che l'imbarazzo della scelta per chi, come il nostro viaggiatore, non avesse il cuore già occupato.
Mentre eravamo intenti a parlare del manoscritto di Gotha, Francesco si è infatti innamorato perdutamente di una ragazza di nome Laura. Siccome stiam parlando di un tipo pignolo, ci confida esattamente più di una volta il luogo, il giorno e persino l'ora in cui Cupido (quante gliene dirà!) ha scoccato la fatidica freccia: era venerdì 6 aprile 1327, nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone. Considerando che si tratta del giorno di Pasqua (RVF 3), e che in quel giorno Francesco, da bravo cattolico non avrebbe dovuto aver pensieri che per il suo Salvatore, possiamo scommettere che gliene deriverà un tal senso di colpa che cercherà di sfogarsi e pentirsi all'infinito. Ma questo filo, una vera e propria corda, lo riprenderemo dopo. Era solo per spiegare il tipo di allucinazione che ha Francesco in questo momento, in una foresta tra Colonia e Lione.
Ritorno all'ozio letterario
Le foreste selvagge che popolano allora tanta parte d'Europa non sono affatto posti tranquilli. Si può dire che i viaggi, soprattutto quelli lunghi, siano sempre sfide contro il destino, contro imprevisti, incidenti, banditi, avversità del tempo. Ma Francesco attraversa una di queste selve insidiose con l'incoscienza e la baldanza giovanile di chi ha appena visto una marea di belle donne e sente che tra poco rivedrà il suo "Sole" (Laura), che ha già preso a cantare nella sua lingua materna (l'italiano): è così eccitato che al posto degli abeti e dei faggi vede "donne e donzelle" (RVF 176).
Oltre che per Laura, Francesco è contento di essere rientrato ad Avignone anche per poter riabbracciare gli amati libri e a parlare con loro di "grandi cose", perché si sa che "nei lunghi viaggi è bandito il conforto dei libri ed è più facile, se sei sempre in movimento, pensare a tante cose piuttosto che a grandi cose". Abbiam detto "abbracciare" come se si trattasse di persone, e infatti è proprio così che il nostro protagonista vede i libri, come degli amici del cuore, coi quali dialoga negli ampi margini che i copisti del tempo lasciavano vuoti per l'agio dei lettori. Da quando suo padre Petracco ha fatto allestire un sontuoso codice con tutte le opere di Virgilio, Francesco non ha smesso di leggerlo e ha cominciato a disprezzare quelle fanfaluche che i suoi compagni leggono sui banchi di scuola, le favoline di Esopo e la grammatica mandata a memoria con quegli orrendi versetti del barbaro Alessandro di Villadieu. Virgilio e Cicerone sono i due grandi autori che gli fanno aprire gli occhi sul mito di Roma, tanto che per essi il poco più che bambino è disposto quasi ad immolarsi piuttosto che vederli ardere vivi in un rogo preparato dal padre, stanco di vedere sempre il figlio che confonde il piacere con il dovere.
Il primo libro non si scorda mai: è il 1325 e Francesco compra ad Avignone il De civitate Dei di Agostino, autore che lo influenzerà enormemente. Da quell'anno comincia la sua fame insaziabile di libri, che lo divorerà per tutta la vita e che lo porterà a scomodare amicisparsi in tutta Europa per ricevere informazioni ma soprattutto copie di libri che ancora non possiede (cfr, per esempio, Fam. III 18). È così, attraverso appassionate letture, che egli cerca di conoscere, abbattendo barriere temporali e spaziali: dove non arrivano i suoi occhi debbono arrivare i libri. A Riccardo Bury, ambasciatore del re inglese Edoardo III ad Avignone, Francesco si rivolge, ad esempio, per ottenere un esemplare della Topographia Hibernica di Giraldo Cambrense: lì forse troverà informazioni precise sulla mitica isola di Tule, che il suo Virgilio nelle Georgiche indica come il confine settentrionale della terra.
Il mito di Roma
Al ritorno dal suo "interrail" Francesco riprende a leggere e ad annotare i libri superstiti dello storico Tito Livio. Si è convinto, per primo, che non basta possedere un unico esemplare della sua Storia di Roma, ma bisogna cercarne parecchi perché ogni volta che gliene capita tra le mani una copia manoscritta la trova molto diversa da quella che ha appena letto. Se Dante aveva contribuito a rafforzare il mito di un "Livio che non erra", egli si rende conto, invece, che Livio può sbagliare come gli altri uomini, ma soprattutto possono sbagliare, e hanno sbagliato moltissimo, i tantissimi copisti che ci hanno tramandato la sua opera nel corso dei secoli. Chi capitasse a Londra e avesse voglia di andare a vedere la mitica Bristish Library, una delle più grandi biblioteche del mondo, potrebbe richiedere in visione l'esemplare di Livio annotato dal nostro, lo stesso su cui un secolo dopo apporrà le sue glosse il grande umanista Lorenzo Valla: capolavoro di filologia sulla base del quale oggi ci è possibile leggere le Deche di Tito Livio e che equivale al ponteggio di cui si sono serviti i restauratori della Cappella Sistina per riportarla all'originario splendore.
È nelle pagine dello storico Livio che Francesco legge la straordinaria epopea repubblicana del popolo romano e dei suoi protagonisti, «i Corneli, gli Scipioni, gli Africani, i Leli, i Fabi Massimi, i Metelli, i Bruti, i Deci, i Catoni, i Regoli…» (Fam. XXIV 8), tanto più innamorandosi di quell'età di mirabili imprese, nella quale farebbe di tutto per vivere, quanto più covando disprezzo per gli uomini del suo tempo e le loro perverse abitudini. Quando, dopo tanto indugiare per timore che la vista diretta deprimesse l'alta idea che aveva sviluppato della città, nel 1337 cammina per la prima volta tra le strade di Roma, confessa, in una cartolina spedita al suo signore Giovanni Colonna, di essere stordito dallo stupore (Fam. II 14).Le vestigia meravigliose di quell'età aurea gli fanno crescere il senso di pietà per la condizione odierna dell'Italia (non tanto perché sia la patria sua o della sua famiglia, ormai l'avrete capito, quanto perché è la patria di Livio, Virgilio, Cicerone): come è possibile che quella che era un tempo la regina del mondo sia ora lacerata internamente da guerre intestine e permetta ai legionari stranieri di farla da padrone sul suo gloriosissimo suolo? La cosa andrà ben denunciata (Epyst. I 3). "Ben può il mio corpo star lungi d'Ausonia (cioè l'Italia) / ma il cuore è lì, ch'iv'entro si nasconde" scrive Francesco nella lettera a Rinaldo Cavalchini con cui abbiamo aperto il nostro discorso.
Livio e Cola di Rienzo
Facciamo ora un passo in avanti per seguire dove ci porta questo filone politico-repubblicano. È il 1343 quando alla corte papale di Avignone arriva un notaio romano dal grande carisma, Nicola di Lorenzo, più noto come Cola di Rienzo, a chiedere a papa Clemente VI l'approvazione per la città di Roma di una nuova costituzione democratica. È un uomo nutrito di cultura classica, Francesco se ne accorge subito, lui che di uomini illustri se ne intende (ne ha scritto, ma senza finirla, come spesso gli capita, una specie di enciclopedia, intitolata De viris illustribus). Ha il carisma degli antichi tribuni della plebe, che Livio vede tanto di buon occhio. Il feeling tra Francesco e Nicola è immediato: leggono e discutono insieme le tre decadi di Tito Livio edite da Francesco, che circoleranno in Francia nel volgarizzamento del priore benedettino Pierre Bersuire e in Italia forse con lo zampino di Boccaccio. Cola è uomo d'azione, ha bisogno di verificare se i principi che assimila dai libri reggono alla prassi: "Ho ritenuto che tutto sarebbe stato inutile, se quel che avevo appreso nei libri non avessi cercato di realizzarlo nella pratica" scriverà orgogliosamente dopo il fallimento della sua rivoluzione, nella quale trascina anche il più meditativo Francesco, che si ritaglia però, da bravo letterato, un ruolo da ideologo.
Nel maggio del 1347 Cola attua a Roma un colpo di stato e instaura un regime di tipo repubblicano. La situazione è entusiasmante ma instabile: molti membri delle famiglie senatorie sono stati arrestati e ora bisogna decidere che farne; tra questi Stefano Colonna, nipote di Giovanni. La lettera esortatoria che Francesco scrive all'amico il 27 novembre è di una chiarezza sconcertante e spiazza se messa a confronto con alcune pagine claustrali del Francesco penitente cristiano: quegli aristocratici vanno eliminati. Solo quasi due secoli dopo uno spregiudicato teorico della politica come Niccolò Machiavelli, non a caso grande lettore di Petrarca, e che con una sua citazione termina il Principe (cap. XXVI), avrà il coraggio di dire che un sovrano, se necessitato, deve saper entrare nel male.
Cola di Rienzo non seppe entrarci, nel male, e la sua repubblica fu repressa. Quando, qualche anno più tardi, il nostro Francesco lo vedrà arrivare in catene ad Avignone, giungendo dalla sede imperiale di Praga, proverà disprezzo per colui "che preferì vivere vilmente piuttosto che morire con onore" (Fam. XIII 6). La sua severità è davvero indicativa dell'esborso emotivo a favore di un progetto politico che gli aveva fatto accarezzare l'idea di veder risorgere la gloriosa repubblica romana. Mentre Francesco pensa che ormai è tempo di valicare la Alpi e venire a vivere stabilmente in Italia (i suoi rapporti con la famiglia Colonna sono irrimediabilmente compromessi), l'ex amico Cola è in un carcere di tutto riguardo: una catena di ferro lo assicura al muro, ma gli sono concessi due libri: la Sacra Bibbia e le Storie di Livio.
2.1 Guerra a Capranica
All'inizio dell'anno 1337 Capranica sembra la casa del demonio. Imperversa la guerra tra le due fazioni nobiliari che si contendono il primato della città di Roma, gli Orsini e i Colonna. Ci sono scontri di una violenza inaudita, molti assalti da entrambe le parti e praticamente tutti i viaggiatori diretti a Roma sono stati costretti a fermarsi alle porte della città. Tra questi ce n'è uno davvero strano. Dicono sia "un giovane poeta che viene dalla corte di Avignone, piuttosto schivo, con uno sguardo penetrante, al suo primo viaggio nella città eterna", "magari pensa che sia ancora la Roma di Cesare e Augusto, e di incontrare Virgilio e Orazio!" malignano alcuni, che lo vedono un po' trasognato. Ogni giorno sembra che debba partire, fa preparare il suo seguito, e alla fine quando tutto è pronto chiede ancora un po' di tempo e lo si ritrova al tramonto che vaga per le colline, e son costretti a dirgli di venire via, che è pericoloso. Anche di giorno, a volte, fra strepito di armi e fragore di trombe lo trovi lì a passeggiare e meditare. Chi lo conosce dice che è un tipo un po' indeciso, molto contrastato, che come tutti i poeti smania dal desiderio di scrivere qualcosa per cui venga ricordato dai posteri. Speriamo che Roma gli dia ispirazione. Nel frattempo, però, se tornasse qui, al sicuro, renderebbe tutto più semplice, per sé e per i suoi compagni di viaggio.
2.2 Conquistare la gloria
"E quando gli altri accorrono alla rocca fra strepito di armati e fragore di trombe mi vedresti mentre vago fra questi colli nel costante pensiero di qualcosa che mi conquisti gloria fra i posteri (…) e se tu mi domandassi se vorrei andarmene di qui, non saprei che dirti: desidero partire e mi piace rimanere" (Fam. II 12). Da un po' di tempo, a forza di nutrirsi di cultura classica, a Francesco gli è presa questa smania per la gloria. Una parte di lui sa già quello che ripeterà sino alla sfinimento in vecchiaia, che cioè "la gloria è simile a qualcosa di vano, assai simile a un soffio di vento"; ma l'altra parte gli solletica il desiderio e gli mostra, adducendo prove incontestabili, che "in essa c'è un non so che di dolce che sa blandire anche gli animi grandi". D'altronde Scipione l'Africano e Cesare, i due grandi condottieri romani, da che altro furono mossi se non dal desiderio di gloria, con l'acquisto della quale, liberatisi dal carcere terreno, hanno potuto osservare la terra, piccola come un puntino, dall'alto dei cieli dove risiedono i loro colleghi, gli eroi della patria (Cic., Somn. Scip. 14)? E tutti i grandi condottieri sarebbero ancora conosciuti se non ci fossero stati poeti o storici in grado di eternare la loro fama? Basta, è deciso: Francesco scriverà un grande poema, una enciclopedia storica con la vita degli uomini celebri (romani, stranieri e moderni) e una di fatti e avvenimenti storici da ricordare. E siccome l'età esecrabile in cui gli è toccato di vivere non gli offre esempi preclari di uomini virtuosi, prenderà materia per il suo canto da Livio. Se c'è ancora qualcuno in grado di apprezzare, verrà premiato come deve.
Finalmente si decide a partire per Roma.
Sicuramente qualcuno non è contento di questa deliberazione. È uno degli ultimi arrivi nella schiera di maestri di Francesco: Agostino. Molto probabilmente anche adesso le sue Confessioni sono in una tasca del suo vestito, o in valigia. Da quando, infatti, nel 1333 il suo amico frate agostiniano Dionigi di Borgo San Sepolcro, professore di teologia presso lo Studio di Parigi, gliene ha regalata una copia "tascabile" (Sen. XV 7), Francesco la porta sempre con sé. L'anno scorso, partiti con l'idea di fare una scampagnata, Francesco e il fratello Gherardo son giunti addirittura sulla cima di un monte chiamato Ventoso (Fam. IV 1). Anche Gherardo ha la fissa dei posti isolati e infatti fra poco si chiuderà in un convento. Francesco gli invidia la sua andatura, sempre decisa, come di chi ha la meta ben fissa in testa; lui, invece, si distrae spesso, poi cerca scorciatoie per recuperare tempo, infine apre le Confessioni del suo amato Agostino, in un punto a caso, proprio dove il maestro accusa gli uomini di andare a caccia dei posti più reconditi della terra ma di non scrutare dentro se stessi. Sembra rivolgersi a lui. Loci o loca (luoghi fisici o brani di libri), non importa, sempre distrazioni sono, se si considera che intanto il tempo fugge, il fiume della vita scorre, mentre il proprio "io" non migliora.
2.3 Il tempo delle prime opere
Tutto ciò, in teoria, il nostro Francesco lo sa bene, ma non riesce ancora a mettere in pratica ciò che in linea di principio trova giusto. Lui ancora non lo sa ma tra qualche anno gli verrà l'idea di scrivere un libretto intimo, poco più che un diario, dove dialogherà col suo Agostino, un po' come una penitenza per non essere riuscito a liberarsi delle due principali catene con cui il mondo lo tiene legato a sé: l'amore e la gloria. Lo chiamerà "Il mio segreto" (De secreto conflictu curarum mearum) e lo chiuderà in un cassetto, sapendo, forse, che qualcuno, prima o poi, lo troverà. È un dialogo fra lui e Agostino, con la verità, sempre muta, a fare da giudice. Agostino fa una bella ramanzina all'allievo, rimproverandogli il peccato dell'accidia (un misto delle nostre noia e depressione) e l'attaccamento a falsi piaceri che lo distolgono in continuazione dal vero Bene, Dio. Francesco inverte cioè l'ordine di creatore e creatura, e non è cosa da poco. Francesco annuisce spesso, capisce, o fa finta di capire, perché sul finale, lasciando il lettore allibito, dice che farà quel che potrà ma che al momento ha cose più importanti cui pensare, cioè le sue opere, e gli è proprio impossibile cambiare stile di vita. Magari in futuro. Agostino, anche se lo conosce ormai da tempo, deve esserci rimasto male.
Mentre eravamo intenti ad ascoltare Agostino, Francesco ha intanto terminato le grandi opere. Terminato è una parola grossa, perché, come forse sapete, ha il vizio di lasciare gli scritti incompleti, o di tornarci sopra decine di volte per una costante insoddisfazione. Comunque. Ha scritto alcune decine di vite di uomini illustri, prendendo a modello uno storico latino da lui molto ammirato, Valerio Massimo. Oggi nessuno legge più questi libri ma un tempo erano tenuti in gran conto: pensate che nel 1471 l'umanista e precettore Tomaž Prelokar di Celjc (1430-96) regalerà una delle vite scritte da Francesco, quella del commediografo Terenzio, al futuro imperatore Massimiliano I d'Asburgo, allora solo dodicenne.
Il poema invece lo intitola Africa; l'argomento è la seconda guerra punica e il suo eroe indiscusso è Scipione. In pratica qui il nostro mette in versi la terza decade di Tito Livio. Tutti e nove i libri possono contare, pare, su un solo lettore moderno (il suo editore); d'altronde lo stesso Francesco sa che il prodotto non è proprio riuscito a pieno e infatti, venuto meno l'iniziale entusiasmo, pianta lì anche questa sua fatica, chiedendo inoltre ai suoi amici che ne possedessero una copia di non divulgarla. Ma si sa che le promesse degli amici lontani sono spesso promesse da marinai.
2.4 Finalmente la gloria
Sembra che all'amico Pierre Bersuire lo stesso Francesco abbia dato il permesso di ricopiare un breve brano del suo poema, quello dove si descrivono le divinità pagane: al priore benedettino, che abbiamo incontrato in precedenza, quel brano di opera umanistica serviva, ironia della sorte, per completare un suo trattato dal carattere spiccatamente medievale, l'Ovidius moralizatus, una interpretazione allegorica dei miti pagani. E questo passi. Ma all'amico Barbato da Sulmona, cui Francesco, quando era stato a Napoli, aveva concesso di trascrivere una copia del suo poema a patto che non lo diffondesse, ora arrivano molti accidenti. Francesco non può infatti più andare in una biblioteca (e lui ne vede parecchie) senza imbattersi all'entrata in una trentina di versi del suo poema. Si tratta di un episodio delicato del sesto libro che fa subito molto discutere: è la morte di Magone, il fratello di Annibale, che, ferito in battaglia, muore sulla nave che lo sta riportando a Cartagine, pentendosi dei propri peccati in maniera simile ad un cristiano (Sen. II 1). Ci sono alcuni invidiosi detrattori che dicono che quello non è il modo di morire di un pagano, per giunta in giovane età. Francesco ci ha pensato bene prima di scrivere quel brano, ma alla fine l'ha scritto così perché crede, e lo dirà molti anni dopo all'amico Giovanni Boccaccio, che pagani e cristiani muoiono allo stesso modo, esaminando se stessi, pentendosi, confessandosi, spesso con rimorso. I cristiani sanno a chi e in quale modo rivolgersi. Ma ci sono, potremmo dire con linguaggio moderno, delle costanti antropologiche. E se questo è vero, gli insegnamenti dei pagani non scadono con l'avvento di Cristo, né i loro principi sono in contrapposizione con quelli cristiani. Come sarebbe possibile, allora, che Agostino abbia imboccato la retta via leggendo l'Ortensio di Cicerone (Conf. I 4)? E non è forse vero, come Francesco stesso annota sulla carta di guardia del suo codice virgiliano, che l'apostolo Paolo si recò a Napoli a piangere sulla tomba di Virgilio? È vero, piuttosto, che i pagani, come già aveva detto Dante, si sono comportati come chi guida di notte una comitiva e tiene dietro, e non davanti a sé, la lucerna. Ma questo è proprio un motivo in più per ringraziarli. Chi dubita che se Cicerone, Virgilio e Livio rinascessero non farebbero proprie le verità della Rivelazione? Scusate la digressione, ma il tema non poteva essere eluso.
Ha infranto la promessa fatta all'amico, ma forse è anche merito di Barbato da Sulmona se la fama di poeta di Francesco è cresciuta e nel 1340 riceve non una ma ben due proposte di incoronazione poetica. La prima dall'Università di Parigi, la seconda dalla città di Roma (Fam. IV 4). Secondo voi quale scelse? E infatti scelse proprio la città capitolina. Siccome il nostro vuol proprio essere sicuro di meritarsi la corona, decide di farsi esaminare dal re di Napoli Roberto d'Angiò, sovrano che ha più volte pubblicamente esaltato e di cui piangerà di lì a poco la dipartita in un suo carme bucolico. Il giudice, insomma, era piuttosto ben disposto verso il candidato… E così l'8 aprile 1341, con una solenne cerimonia in Campidoglio, Francesco viene incoronato poeta laureato e pure insignito della cittadinanza romana.
2.5 Lo splendido isolamento di Valchiusa
L'Italia è bella e gli ha dato la soddisfazione sperata. Ma è parecchio impegnativa: è tutto un incontro, un parlare, un festeggiare. E Francesco ha bisogno di pace e tranquillità per poter leggere e scrivere. È vero che il suo amico Azzo da Correggio, signore di Parma, gli può mettere a disposizione quando lo desidera una sua tenuta a Selvapiana, che per uno come lui che sceglierà lo pseudonimo di Silvius/Silvanus è davvero l'ideale. Ma quando c'è la guerra – e in Italia ce ne sono parecchie – anche Selvapiana non è più "piana", e diventa aspra. L'ultima volta, proprio dopo l'incoronazione, gli è toccato fuggire da Parma con le frecce che gli fischiavano intorno e il cavallo correva così veloce che l'ha pure sbalzato di sella e dopo un'imboscata ha dovuto dormire all'addiaccio sotto la pancia del suo ronzinante (Fam. V 10). Di fronte a tutti questi fastidi, si capisce che Valchiusa appaia a Francesco come un porto quieto (Fam. XI 4). Un giorno, mentre è immerso nella lettura della Storia Naturale di Plinio il Vecchio, è preso da un attacco improvviso di gioia che vuole registrare in un margine del libro: "Transalpina solitudo mea iocundissima".
A Valchiusa Francesco può andare in giro anche la notte, tanto si sente sicuro. C'è un fiumiciattolo che scorre placido, il Sorga ed egli vi ha pure piantato una pianta d'alloro. Ovviamente in testa ha sempre la sua Laura (se per ora è stata da noi un po' trascurata, non vuol dire che lo stesso sia avvenuto nella testa di Francesco). Da quando, nel settembre del 1341 è morto il suo signore Giacomo Colonna (che comunque lo raccomanda al fratello Giovanni, cardinale), ad Avignone ci va sempre meno volentieri: lo vede come un posto di corrotti, di bassissimi costumi, e prende a chiamarla Babilonia. "Avignone è il luogo del ribaltamento della storia, luogo del non senso e del caos, dato che i Galli sconfitti da Cesare ora dominano l'Italia e occupano la sede della Chiesa" (R. Mercuri).
Compone anche lettere di forte condanna della Curia pontificia, alcune dedicate al suo amico Cola di Rienzo, e che poi raccoglierà in un libretto Sine nomine ("Senza nome"), perché è pericoloso dare nome a ciò che reca disonore. Per uno di quegli equivoci di cui è ricca la storia, quando nel Cinquecento l'Europa sarà spaccata dalla riforma religiosa, ci saranno alcuni protestanti che tireranno il nostro per la giacchetta: Primož Trubar, ad esempio, padre delle letteratura slovena e predicatore protestante, nel 1562 lo apostroferà come "uomo erudito e pio, antesignano di Joannes Hus, Girolamo Savonarola e Martin Lutero".
2.6 Ridare voce agli amici muti
Nel 1342 si trova ad Avignone una persona eccezionale, in grado di stanare Francesco dalla sua solitudine dolcissima. È il monaco basiliano Barlaam, cultore della lingua greca, roba rara, per quei tempi, nell'Europa occidentale. Potrebbe aiutare il nostro a risolvere un suo grave cruccio: Francesco possiede infatti un grandissimo e preziosissimo volume con sedici dialoghi di Platone (che, da quello che ha imparato da Cicerone, che lo cita spesso, è il principe dei filosofi) ma quella lingua gli è indecifrabile e dunque quello fra lui e Platone è un dialogo tra sordomuti. Mentre incomincia a imparare i primi rudimenti della lingua con Barlaam, il monaco viene nominato vescovo di Gerace e se ne va. Qualche anno dopo, Francesco intercetta l'ambasciatore dell'imperatore d'Oriente, Nicola Sygeros, che è di passaggio ad Avignone e lo prega di inviargli un manoscritto di Omero, il principe dei poeti di ogni tempo. Lo riceverà parecchio tempo dopo, ancora incapace di intendere il greco, e allora sospirerà e lo abbraccerà come cosa viva (Fam. XVIII 2). Solo negli ultimi anni di vita il sempre fedele Giovanni Boccaccio gli invierà una copia di Omero nella traduzione latina fattane da Leonzio Pilato, col quale, ancora una volta, tenteranno inutilmente di imparare quell'idioma.
A proposito di uomini muti o, come diranno i colleghi di Francesco all'inizio del secolo successivo, "rimasti prigionieri in catene": a Verona, scartabellando nella biblioteca Capitolare, Francesco scopre e dunque ridà voce alle lettere che Cicerone scrisse al fratello Quinto, ad Attico e a M. G. Bruto. Si rende conto che accanto alle prove monumentali del saggio e dell'oratore, il grande avvocato romano ha lasciato anche una testimonianza di sé più dimessa, quotidiana, affabile. Accanto al filosofo, trova anche l'uomo, coi suoi difetti che Francesco, con la bonomia di un amico, gli rimprovera (Fam. XXIV, 2, 3). Anche su questo atteggiamento mai prono verso le autorità, che è merito del nostro Francesco aver inaugurato, sarà bene ritornare presto. Adesso sbrighiamoci, che un tremendo cataclisma è in arrivo. In breve: siccome Francesco è uno competitivo e comincia a pensare di pubblicare un libro solo quando ha ben in mente il modello da emulare, questo ritrovamento gli dà l'idea di raccogliere in un volume le già tante lettere in prosa che ha scritto agli amici. Saranno i libri di argomenti "familiari" (Rerum familiarium libri XXIV), che accoglieranno fatti di vita privata e vita pubblica, aneddoti, biglietti, racconti, confessioni, cartoline fino a veri e propri piccoli trattati. Francesco non sa ancora che un evento traumatico ed inatteso sconvolgerà bruscamente tanto la sua vita quanto la sua opera di poeta e – scusate la definizione impegnativa – di filosofo morale.
2.7 Intermezzo (uno sguardo al futuro)
Visto che ci si presenta l'occasione – e per ritardare anche un po' l'increscioso capitolo su un cataclisma di dimensioni bibliche – è bene chiarire subito che, se il nostro sguardo è tarato, come è tarato, su scala europea, dobbiamo capovolgere, come stiamo cercando di fare, la considerazione che abbiamo del Nostro: un poeta in volgare che ha scritto anche alcune operette latine. Il Francesco Petrarca più conosciuto e letto per secoli in tanta parte d'Europa non è stato il cantore di Laura "in rime alte e leggiadre", bensì, a seconda dei casi, il riscopritore della cultura classica, il moralista, il cristiano penitente. Potrà sembrar strano, ad esempio, che in ambiente cieco (col quale il nostro, ebbe, come vedremo, più occasioni di contatto) l'opera a maggior circolazione nei manoscritti e nelle stampe durante Quattro e Cinquecento sia stata la raccolta di sette "Salmi penitenziali" che, pare, egli scrisse in un sol giorno (Sen. X 1), e che a noi moderni può apparire composizione residuale per inquadrare la sua produzione intellettuale. Quando Jan ze St?eda, cancelliere dell'imperatore e protoumanista boemo, scrive a Petrarca, che ha conosciuto proprio a Praga, gli chiede di mandargli un commento del suo criptico Bucolicum carmen che ha ricevuto (lo vedremo), oltre ad esemplari dell'enciclopedia sugli uomini illustri (De viris illustribus) e dell'opera morale "Rimedi contro entrambe le sorti" (De remediis utiusque fortunae), un trattato dove Petrarca insegna a difendersi sia dalla buona che dalla cattiva sorte. Questa operetta, fortunatissima, vede la luce per la prima volta in Germania nel 1467, così come tedesca è la prima edizione di opere quali Il mio segreto e il La vita solitaria, trattato dove, sulle orme di Seneca, si esalta con profusione di esempi il primato dell'ozio letterario sull'impegno pubblico. Uno dei componimenti del Canzoniere più fortunati nel tardo Quattrocento tedesco è quello di chiusura, la celebre canzone dedicata alla Vergine, ma non nella sua versione originale, bensì nella traduzione latina fatta dall'umanista bolognese Filippo Beroaldo il Vecchio, inserita in antologie scolastiche assieme ad autori cristiani antichi e moderni. All'editore Amerbach che aveva da pochi mesi stampato molte opere latine di Petrarca, il grande educatore di Strasburgo Jacob Wimpheling chiede di apprestare anche l'edizione delle opere di Battista Mantovano, insigne alfiere italiano dell'umanesimo cristiano, così che alla prossima fiera di Francoforte, in primavera, questi autori possano rappresentare i nuovi modelli della letteratura moderna.
2.8 La morte bussa alla porta. Il tempo scivola tra le dita
Già nel settembre del 1341 la morte aveva allungato i propri artigli per strappargli via il primo suo grande mecenate, Giacomo Colonna. Nel 1347 la morte gli requisisce Barlaam, il suo ex insegnante di greco. Ma il 1348 è l'anno terribile della peste nera, che falcidia quasi un terzo della popolazione europea e tra quei milioni di abitanti ci sono anche persone carissime al nostro beneamato poeta: in primo luogo c'è Laura, la donna amata da sempre (magari fosse stata solo un'invenzione letteraria, come alcuni hanno insinuato). E invece ora è lì, carne e sangue e "più che neve bianca" (Triumphus mortis, I, 166), poi sarà la volta di Giovanni Colonna, del rimatore Sennuccio del Bene, di Franceschino degli Albizzi. «Il tempo, come suol dirsi, ci è scivolato tra le dita; le nostre antiche speranze sono state sepolte insieme con gli amici. È il 1348 che ci ha resi soli e poveri, e ci ha tolto cose che non si possono recuperare né dal mare Indico né dal Caspio né dal Carpatico; le ultime perdite sono irreparabili; ciò che la morte infligge è una ferita insanabile» (Fam. I 1). Francesco annota meticolosamente sul suo manoscritto virgiliano (che per lui è diventato ormai anche una sorta di diario) il dove, il quando e in che stato d'animo ha ricevuto la ferale notizia, cosicché se ne ricordi ogni volta che prenderà in mano il volume.
Laura, illustre per le sue virtù e a lungo celebrata nei miei carmi, apparve la prima volta ai miei occhi nel primo tempo della mia adolescenza, l'anno del Signore 1327, il sesto giorno d'aprile nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, a mattutino; e in quella stessa città, nello stesso mese d'aprile, lo stesso giorno 6, nella stessa ora prima del giorno dell'anno 1348 la luce della sua vita è stata sottratta alla luce del giorno mentre io per caso mi trovavo a Verona, ignaro, ahimè!, del mio destino. La funesta notizia mi raggiunse a Parma, in una lettera del mio Ludovico, nello stesso anno, la mattina del 19 di maggio. Il suo corpo castissimo e bellissimo fu messo a riposare nel cimitero dei frati minori il giorno stesso in cui ella morì, al vespro. "La sua anima – come dice Seneca di Scipione l'Africano – mi sono convinto che sia tornata in cielo, donde era venuta" (Epist. 86, 1). Ho ritenuto di scrivere questa nota ad acerbo ricordo di tale perdita, e tuttavia con una certa amara dolcezza, su questa pagina che spesso mi torna sotto gli occhi, affinché mi venga l'ammonimento, dalla frequente vista di queste parole e dalla meditazione sul rapido fuggire del tempo, che non c'è nulla in questa vita in cui io possa ormai trovare piacere e che è tempo, ora che è rotto il legame più forte, di fuggire da Babilonia: e ciò per la preveggente grazia di Dio sarà per me facile se rifletterò con virile perseveranza sulle inutili cure, sulle vane speranze e sugli eventi imprevisti del tempo passato (tr. it. di M. Santagata).
Il 1348 è di quei fatidici spartiacque che dividono nettamente le vite. Niente sarà più come prima, si potrebbe dire con una frase abusata. Ma è vero che nella vita di Petrarca c'è un prima e c'è un dopo il 1348. Quel grandioso romanzo dell'anima, mosaico di frammenti, che sono i Rerum Vulgarium Fragmenta ("Frammenti di cose volgari", che noi chiamiamo, comunemente, Canzoniere), sono infatti divisi in due parti, "in vita" e "in morte" di Madonna Laura. Col dolore, giunge anche la maturità. Non si secca la vena creativa (semmai la voglie di sperimentare), ma cresce la consapevolezza dell'artifex – che Francesco inaugura, a detta di Mario Luzi, e senza il quale non ci sarebbe l'artista moderno – desideroso di sistemare, limare, correggere, riordinare, completare il tanto che ha già scritto e aggiungere a questo corpus quello che ancora gli viene da scrivere. La nota obituaria che sopra abbiamo citato si conclude con la constatazione che, ora che non c'è più Laura, il maggior vincolo che lo teneva ancora ad Avignone, il tempo è maturo per allontanarsi definitivamente dalla terra francese. La decisione è presa ma, siccome il nostro non è propriamente un tipo risoluto, ci vorranno ancora più di quattro anni per trasformare il proposito in atto.
3.1 Certosa di Chartrieux, un giorno del 1347
"Chi è quell'uomo entrato stamane tra le nostre mura?". "È il fratello di sangue del nostro Gherardo. Hanno studiato insieme a Bologna, più di vent'anni fa. Erano molto uniti". "Si fermerà molto?". "Credo ripartirà oggi stesso". "Magari, incantato dalla bellezza della nostra certosa, tornerà presto, chiedendo di rimanere". "Non credo, dicono che non sia una persona dai saldi propositi. Sostiene di amare la vita solitaria e a questo argomento ha pure dedicato un libro dedicato a Filippo, il vescovo di Cavaillon, dove cita un sacco di esempi di asceti, santi, papi e Padri della nostra Chiesa per dimostrare che la vita solitaria è molto migliore della vita attiva, spesa tra mille affanni e preoccupazioni". "Sì, ma ho sentito che ha scritto anche un sacco di rime nella sua lingua materna dove racconta quante valli abbia solcato, e quante lacrime spese, e quanti sospiri emessi, e quanto fuoco gli abbia arso le interiora, il tutto per una donna. Speriamo siano solo sfoghi di un malato d'amore e non gli salti in mente di pubblicarli. Non pensa quale cattivo esempio darebbe, un poeta laureato come lui, ai giovani lettori?".
"Hai ragione, devono pure averlo premiato con l'ambita corona d'alloro, qualche anno fa, in Italia. Ma Gherardo stesso mi ha detto che sta cambiando, e che non è più proprio quello di un tempo, che pensava solo agli autori pagani e alla sua Laura. Pare, se non ho capito male, che l'anno scorso abbia composto un dialogo pastorale, a imitazione di quel librettino bucolico di Virgilio che usano nelle scuole, dove dialogano lui stesso sotto il nome di Silvanus e il fratello sotto quello di Monico. Capisci? Lui è Silvanus perché gira sempre come un ebete tra i boschi, incapace di curare se stesso; il nostro Gherardo invece è Monico, "monoculus", perché ha lo sguardo proteso e fisso verso il vero bene. Il primo passo verso la guarigione è rendersi conto di essere malati. Poi ci vuole lo scatto d'orgoglio, soprattutto per uscire da queste malattie dell'animo. Silenzio…! Sto arrivando Gherardo".
"Ho appena congedato mio fratello. Dice che ha molte cose da fare, ma che questa giornata gli è stata molto utile. Mi ha promesso che ci rifletterà sopra e forse ci dedicherà un libro, per incoraggiarci a perseverare nella nostra vita libera da ogni apprensione in ogni momento. Questo nostro ozio religioso gli è parso magnifico e così in contrasto con la sua vita tribolata. Ho cercato di convincerlo a smetterla di pensare alla gloria, ai posteri, alla poesia, se tutto questo lo fa soffrire così tanto. Ma proprio dopo queste mie parole ha detto che si era fatto tardi e doveva lasciarmi".
3.2 "Salve terra carissima"
L'intenzione ormai è chiara: andarsene dalla Francia (o come la chiama lui: Gallia). Via da Avignone-Babilonia, via da Valchiusa; lontano il più possibile da Parigi piena di quei dialettici «nere formiche vomitate dal tronco putrefatto di una nera quercia», che disprezzano Socrate, Platone, Aristotele, Pitagora, irridono Cicerone, Seneca e Virgilio preferendo loro oscuri maestri dal nome impronunciabile che ragionano per capziosi sillogismi che disumanizzano l'uomo (non che in Italia non ci siano, ma speriamo che siano più isolati e meno aggressivi). Il problema adesso è decidere dove andare. Firenze gli farebbe ponti d'oro per venire a insegnare letteratura nella sua università. Il suo grande ammiratore e da poco amico Boccaccio ci spera molto. Ma anche altri signori d'Italia gli fanno proposte interessanti. Tra queste il potente Giovanni Visconti, acerrimo nemico dei fiorentini. Alla domanda di Francesco che gli chiede quali sarebbero i suoi compiti a corte, il signore di Milano gli risponde: «Null'altro che la tua presenza, che onorerà me e il mio dominio». Deluderà forse tutti voi, Francesco, come deluse mortalmente i fiorentini, optando proprio per Milano come sua nuova residenza. È che siamo troppo legati ad una idea di lui come di un ingenuo "sentimentale"; e invece, oltre che poeta laureato, il nostro è pure uno smaliziatissimo intellettuale che vuole sfruttare a pieno le possibilità che la sua fama può ormai procurargli. Fosse un calciatore di oggi, lo si potrebbe accusare di non essere molto attaccato alla maglia.
In un'ottica di storia culturale il soggiorno milanese di Petrarca rappresenta l'incubazione della figura del letterato cortigiano, destinata a diventare dominante in Europa nei secoli successivi. Il fenomeno che da lui prenderà il nome di "petrarchismo" non è un semplice fenomeno letterario di imitazione del suo modo di poetare. È anche, e forse soprattutto, un'ideologia che disinnesca la carica eversiva del poeta e lo converte da potenziale terrorista a cortigiano modello, con una condotta galante, festevole e sorridente (M. Domenichelli). Con Thomas Wyatt (1503-1542) in Inghilterra, per esempio, intorno alla metà del Cinquecento, i confini della poesia tendono sempre più a coincidere col perimetro della corte, all'interiorità del poeta subentrano gli intrighi di palazzo. Un po' più tardi, la regina Elisabetta, sostituendo se stessa a Laura, farà della poesia un mezzo di controllo politico.
Nel 1353, alla soglia dei quarant'anni, ha ormai pronte le valigie ed è finalmente deciso a compiere il grande viaggio di ritorno. I suoi servi ci avranno messo molte ore a caricare tutta la sua biblioteca: pesanti codici rilegati, oppure carte sparse, fascicoli dentro buste dove giacciono, allo stadio larvale o già ben sviluppate, quasi tutte le sue opere. Neanche in viaggio, fra l'asperità delle Alpi, Francesco riesce a placare la sua febbre di leggere e di scrivere. Già in passato gli è già capitato di comporre qualche verso "improvvisato" al passaggio delle Alpi (cfr. Petrarca, Gabbiani, pp. 47-48), come i bozzetti dei pittori che scenderanno in Italia per fare il Grand Tour. Ma questa volta il suo cuore vibra di emozione pura, o almeno sembra, e i pochi versi che essa ispira sono davvero memorabili (Epyst. III 24), degni di essere cantati (non fossero, ancora una volta, in latino) dai patrioti dei secoli a venire.
3.3 Milano
I signori di Milano gli hanno preparato una casa molto confortevole e proprio adatta a lui. È subito fuori dalla città, lontana dal baccano e nei pressi della chiesa che fu di Ambrogio, il maestro di Agostino e patrono della città. Pensate: può camminare, riflettere, leggere e scrivere nei giardini dove anche il santo godeva del suo ozio. Quando entra nella sua chiesa, poi, può vederne un ritratto fatto talmente bene che gli manca solo il respiro per dire che sia Ambrogio in carne e ossa. Sembra proprio realizzato da un mago (ma piano a parlare di magia, che ultimamente alcuni invidiosi hanno accusato Francesco di essere un negromante, e se non fosse stato per la sua fama e per protettori molto potenti, come il cardinale Gui de Boulogne, avrebbe avuto parecchi grattacapi). Chissà quante volte, guardando quel ritratto bellissimo, ha ripensato al suo amico Simone Martini, pittore esimio che ha conosciuto ad Avignone e cui ancora parecchi anni fa commissionò una miniatura per il suo codice ambrosiano, oltre a un ritratto di Laura: quest'ultimo, in particolare, gli è riuscito così bene che sembra che Simone sia andato in cielo a "vedere" l'idea di Laura (RVF 78), piuttosto che dipingerla qui in terra osservando il suo carcere terreno (vogliamo usare le sue parole, che poi sono dell'amico Platone, il lettore non ce ne vorrà). L'ha ringraziato pubblicamente, quel gran artista di Simone, dedicandogli tre sonetti che includerà nella raccolta di poesie che già da diversi anni ha in mente. La pittura piace proprio a Francesco. Secondo lui è un'arte ingiustamente sottovalutata dai suoi contemporanei, che non la includono fra le arti liberali, cioè quelle che rendono libero l'uomo. Se, ora che è rientrato in casa, prendesse fuori il volumone enciclopedico di Plinio, potreste notare che la sezione dedicata agli artisti antichi è tutta piena di postille e manine (che significano: "Hei, guarda bene qua!").
A proposito di quella raccolta di poesie a cui si accennava poc'anzi - che, a sentire come le nomina il loro autore (nugae, cosette), paiono aver goduto di una fortuna eccessiva: quasi tutti i componimenti che ha scritto finora sono frammenti in versi sulla sua situazione di innamorato, realizzati in quella forma breve che usano gli italiani da quasi un secolo, il sonetto. Il titolo provvisorio è Rerum Vulgarium Fragmenta (frammenti di poesie volgari). Non è che, finalmente, si è convertito al volgare. È che, ancora tanti anni fa, Servio, il commentatore del suo Virgilio, gli ha insegnato che nell'antica Roma, accanto alla poesia alta in lingua latina dei poeti che conosce e ammira lui, ce n'era un'altra, più umile, scritta in una lingua e con un ritmo più popolare. E allora Francesco, che vuol fare in tutto e per tutto come gli antichi, e che si sente – megalomane com'è – l'ultimo testimone di civiltà in una età di rovina, scrive in entrambe le lingue: per tutti coloro che sanno leggere le poesie in volgare (i tanti che non sanno leggere apprezzeranno quelle musicate), per i soli letterati le poesie in latino (Epystole), che sono scritte in forma di lettera, sul modello delle Epistolae di Orazio, e hanno quasi sempre come destinatario un amico o un personaggio importante. In quello che poi tutti chiameranno "Canzoniere", ci sono sì componimenti d'occasione, ma la maggior parte è accomunata da un tema dominante e rivolta ad un lettore indeterminato disposto ad accettare come esemplare la vicenda sentimentale dell'autore. Forse lo porterebbe prima a termine, se non fosse distratto da impegni diplomatici.
3.4 La corte praghese
I Visconti non mantengono del tutto la promessa che gli avevano fatto. Non lo assillano, è vero, ma una volta gli chiedono di scrivere una lettera ufficiale, un'altra volta han bisogno di una bella orazione, un'altra urge loro una consulenza. Sanno bene quale aurea avvolga ormai il loro protetto e che effetto di "moral suasion" può avere nelle ambascerie presso le corti straniere. Un vero e proprio "testimonial". Non si peritano dunque, nel corso degli anni, di mandarlo ora a Venezia, ora a Mantova, ora a Praga, ora a Parigi. Nel 1354 Francesco incontra per la prima volta l'imperatore Carlo IV a Mantova. Negli anni precedenti gli ha scritto alcune lettere (Fam. X 1; XII 1; XVIII 1) pregandolo di venire in Italia per porre fine alla contese intestine che la dilaniano da decenni (viene in mente Dante e le sue speranze riposte in Arrigo VII per le sorti dell'Italia! Certo la concezione politica di Francesco è meno coerente di quella dantesca, prima repubblicano con Cola di Rienzo, adesso filoimperiale… la lettura di Svetonio deve averlo influenzato). L'Imperatore è molto gentile con lui: gli chiede notizie sullo sviluppo delle sue opere (sembra interessato agli Uomini illustri e alla Vita solitaria), ma non gli passa neanche per l'anticamera del cervello di farsi salvatore dell'Italia. Come da protocollo, dopo aver ricevuto la corona imperiale dalle mani di papa Clemente VII, se ne torna a Praga. Tempo due anni e i due si rincontrano. Nel 1356, però, tocca a Francesco andare in trasferta, anche questa volta in missione per conto dei Visconti per chiedere al sovrano di spendersi per la pace in Italia. Come diplomatico il nostro beniamino non doveva essere un granché se qualche anno più tardi Carlo scenderà in Italia come nemico dei signori di Milano…Comunque. Francesco viene accolto in pompa magna e nominato persino conte palatino. Egli, che è spesso diffidente e schifiltoso, è sinceramente colpito dal grado di civiltà e di cultura della corte praghese (Fam. XXI 1), dove incontra persone squisite come Arnost z Pardubic e Jan ze St?eda, coi quali stringe profonda amicizia. In particolare, Jan si mostra molto interessato alle sue opere erudite e negli anni successivi gliene chiederà a più riprese degli esemplari.
Quando, nel 1361, il cancelliere praghese riceverà una copia del Bucolicum carmen, una raccolta di dodici dialoghetti pastorali di derivazione virgiliana, risponderà dicendo che ci ha capito davvero poco e che gli piacerebbe che Francesco gli spedisse un commento esplicativo. In effetti ultimamente Francesco si è un po' fissato col valore allegorico della poesia (Sen. IV, 5), che dice essere «un velo», «una corteccia» o «una nube», a seconda dei casi, che ricopre la verità. In questa sua ultima fatica il simbolismo è così criptico che pare impossibile decodificarlo, per non parlare poi della lunghissima decima ecloga, sulla morte di Laura (e forse della poesia stessa), un "mostruoso criptogramma" dove Francesco fa una storia della poesia greca e latina che termina, guarda caso, proprio con se stesso. Anche i colleghi protestano: non si capisce niente! Guarda invece com'erano semplici i versi bucolici di Virgilio! «Ai nostri tempi è pericoloso esprimere la verità, bisogna nasconderla», si difende l'accusato. Nella sua città universitaria, Bologna, maestri come Pietro da Moglio e Benvenuto da Imola metteranno subito questo libretto nei loro programmi universitari, tentando di disvelarne a lezione gli arcani sensi.
3.5 Labilità dell'esistenza
Cumuli di macerie, silenzio e orrore. Appena entra in quella città fantasma a Francesco pare di sognare, di essere vittima di una tremenda allucinazione. Solo qualche mese prima era stato a Basilea ad attendere l'imperatore. Aveva trovato la città stupenda, gentili i cittadini, saggio il governatore e aveva potuto rincontrare dopo parecchi decenni alcuni suoi ex compagni di università coi quali aveva trascorso spensierati anni a Bologna. Ed ora un tremendo terremotodi pochi secondi ha cancellato tutto (De ocio religioso, libro I). Dopo l'esperienza della peste, che ha visto mietere "con una sola falce tutto il genere dei mortali da oriente ad occidente", disseminando le campagne di cadaveri, questa è la seconda campana che suona a morto per il genere umano. Quando si deciderà egli, Francesco Petrarca, a smetterla di considerarsi eterno, se non nel proprio corpo, nelle proprie poesie, nelle proprie riflessioni, nelle proprie intuizioni filologiche? Quando si deciderà che la cultura ha senso solo come preparazione alla morte, come diceva Platone, che giustamente considera il filosofo pagano più vicino al cristianesimo? Guardate: in questo momento è lì che sta scrivendo all'imperatore Carlo (di cui, come di altre persone molto potenti, si stima di essere amico) che gli ha chiesto un espertise per testare l'autenticità di un privilegio che sancisce l'autonomia dell'Austria dall'impero (Sen. XVI 5). È contento perché, sapendo bene il latino, può dimostrare che è un falso, cosa che sta facendo adesso, molto orgoglioso di sé. E magari pensa che questa sua lettera servirà da modello, e che tra un secolo, quando sapranno il latino ancora meglio di lui, magari dimostreranno la falsità di altri documenti anche più importanti (per esempio: la Donazione di Costantino). Però non capisce che tutti questi giorni sono persi?
A questa domanda è impossibile rispondere. Francesco riempe le sue opere di lamenti sulla caducità del mondo terreno e sulla miseria della condizione umana. Quanto siano frasi davvero sentite o di circostanza, visto che alcune ricalcano pari pari sentenze della Bibbia, sarebbe interessante sapere. In ciò, il protoumanista, come vogliono chiamarlo, è ancora assai legato al tempo che l'ha partorito, l'autunno del Medioevo. La cosa più angosciante è che lui vede la strada giusta da percorrere, ma è trascinato "dalla perversa abitudine" e sente "sempre in cuore alcun che di insoddisfatto", come ha confessato ad Agostino che forse gli è apparso in sogno per cercare di salvarlo. Non riesce ad estirpare da sé il desiderio. Anche adesso, dopo la peste, il terremoto, la perdita di molti amici, è ancora lì che corregge e riscrive quella sua raccolta di cose volgari, tentando di cancellare i debiti verso quel poeta conterraneo che ha tentato di rimuovere. È incorreggibile! (ma lui non lo sa, e tenta di correggere all'infinito così se stesso come la sua opera). A proposito di conterranei, guardate un po' chi c'è alla porta.
3.6 Una visita gradita
Nel 1359 Giovanni Boccaccio trascorre alcuni mesi a Milano, ospite di Francesco che sta diventando uno dei suoi migliori amici. Appena lo vede si abbracciano fraternamente e Francesco chiede notizie degli amici fiorentini: il poeta Sennuccio è morto da un pezzo, gli altri, Zanobi da Strada, Francesco Bruni e il Nelli stanno tutti bene e lo vorrebbero a Firenze. Chissà se, in privato, lontano da orecchie indiscrete come le nostre, Giovanni ha poi chiesto spiegazioni sul gran rifiuto fatto sei anni prima dall'amico (ricordate la proposta di andare a insegnare a Firenze?). Siccome è una persona gentile, comunque, Giovanni ha portato due doni. Di cosa si può trattare se non di libri? Il primo è il Commento di Agostino ai Salmi, che Francesco gradisce moltissimo perché ne aveva una copia mutila e il secondo… (qui la faccia dell'ospite si fa più seria)…la Comedìa di Dante Alighieri, che Giovanni reputa "divina" e che si appresta a commentare pubblicamente nella città di Firenze. Girano strane voci sull'atteggiamento di Petrarca verso il "padre" Dante. Alcuni calunniatori dicono che lui sia invidioso del suo successo. Ma come è possibile, dice Francesco a Giovanni, che io sia invidioso di un poeta letto dai tintori, dagli osti, dai lanaioli? Lui, Francesco, ha meno successo perché, come Virgilio e Ovidio, non è un poeta popolare. Il giudizio, più che fugare le accuse, sembra confermarle. Niente affatto. "Io ammiro moltissimo Dante" dice Francesco tirando fuori tutta la sua personalità bipolare. E poi sente il bisogno di stilare la classifica, come succede in tutti i gruppi infantili: "Mettiamo Dante al primo posto, io secondo e tu terzo, ti va bene?". Per spiegare come mai non ha mai letto bene la Commedia, dice che da giovane si accorse che era una poesia così potente da influenzare qualsiasi mente. La sua originalità poetica ne sarebbe stata compromessa (Fam. XXI 15).
Francesco ha elaborato a proposito dell'imitazione letteraria una interessante teoria, che naturalmente ha ripreso da altri, come spesso fa, riadattandola. Dice che la poesia è come il miele che il poeta-ape deve produrre prendendo il polline un po' da ogni fiore. Che l'opera deve stare al suo modello di riferimento come un figlio sta al padre, con un'aria, un "non so che"di familiare che li accomuna ma non li fa uguali (Fam. XXXIII, 19). È proprio dei vigliacchi attenersi servilmente ai modelli. Ecco perché Francesco ha l'ansia che il lettore scopra le sue ascendenze letterarie e quando rilegge ciò che ha scritto cerca sempre di allontanarsi dal modello; e in ciò chiede anche l'aiuto degli amici, come del fidato Giovanni, quando non gli riesce di correggere un verso che suona troppo virgiliano. Insomma: anche gli antichi erano uomini – questa lezione vale tanto in campo artistico quanto in campo filosofico – anche Cicerone e Aristotele hanno commesso errori, e se li si segue pedissequamente, come le scimmie, si rischia di cadere nei loro stessi errori. In questo l'umanesimo progressista, cioè antidogmatico ed eclettico, che arriva a Erasmo passando per Valla e Poliziano, è largamente debitore dell'insegnamento del nostro.
Giovanni se ne torna a Firenze con la speranza che Francesco si decida a leggere Dante, così che le loro discussioni, che vertono sempre sui classici antichi, possano anche volgersi alla letteratura moderna. Ma se per Francesco la lettura avviene sempre con una penna in mano, che lascia tracce evidenti e parlanti, allora possiamo dubitare fortemente che egli lesse con attenzione il capolavoro dantesco: il manoscritto che Giovanni lasciò quel giorno sul tavolo della sala è conservato oggi alla Biblioteca Vaticana, e ha solo una noticina piccola e quasi indecifrabile. È in questi casi che viene da pensare che Francesco, ben sapendo che i posteri avrebbero esaminato scrupolosamente ogni manoscritto passato per le sue mani, abbia voluto, anche coi chiaroscuri lasciati nei margini dei propri libri, indirizzare le analisi verso quel ritratto ideale di sé cui lavorò indefessamente per tutta la vita.
4.1 Il vecchio e il Po
Ma è proprio lui, ser Francesco Petrarca, che scrive su quella piccola imbarcazione, in mezzo alle acque del Po? Si sa che non smette mai di leggere e scrivere ma, per Bacco, con tutte queste onde, potrebbe anche fermarsi. Starà forse difendendosi da qualche detrattore e accusando qualche categoria professionale, ne sono sicuro. Ultimamente è preso piuttosto di mira. Certo, lui ha cominciato presto a inveire contro gli avvocati. Poi si è scagliato contro i medici, scaldandosi un po' troppo, dicendo che loro van fieri di osservare le urine, i poeti invece si occupano delle virtù e dell'animo umano. Adesso ce la deve avere con quei quattro aristotelici che a Venezia l'han tacciato di ignoranza. Secondo me sta ribattendo proprio a costoro e, se lo conosco bene, starà scrivendo che loro van contando le zigrinature delle code della lucertele e altre amenità del genere, mentre lui trova inutile ogni sapere che non si occupi dell'uomo e non miri a rendere migliore il suo animo.
D'altronde non si può certo dire che lui non si sia speso per la sua causa, quella di studiare l'animo umano, soprattutto in balìa delle passioni. Forse è stato un po' egocentrico nel mettere se stesso sempre al centro, come se lui fosse proprio il prototipo di uomo. E poi, con tutto il bene che gli voglio, non è certo uno che ha il dono della sintesi: la raccolta di poesie che ha regalato all'amico Azzo da Correggio dieci anni fa conteneva centosettanta poesie quasi tutte sullo stesso argomento e di tono un po' monocorde. Mah…dicono ci stia lavorando ancora sopra. Magari riuscirà a rendere questi suoi "frammenti" dell'anima un po' più avvincenti…ho perso di vista la barca. Mi sembra che risalisse il corso del fiume, verso Pavia.
4.2 Ritratto
A Milano non si è trovato male, anzi. Però i Visconti l'hanno mandato parecchio in giro, mentre gli avevano promesso di lasciarlo in pace. Solo questo lui chiedeva. Pensate che più di una volta ha rifiutato l'incarico di segretario pontificio per essere il meno impegnato possibile e poter continuare a studiare (l'ultima volta gli è andata anche bene: ha accondisceso a fare una prova scritta, in curia, e gli han detto che scriveva troppo difficile, che avrebbe dovuto abbassare il livello della sua scrittura, e allora ha avuto gioco facile nel declinare l'offerta). Ora, per onorare gli impegni presi, andrà per l'ultima volta fuori d'Italia in missione per conto dei Visconti a Parigi – siamo nel 1361 – per rallegrarsi col re Giovanni II liberato dagli inglesi. Poi ha già deciso che si trasferirà con tutti i suoi libri a Venezia. Se lo trattano bene potrebbe anche decidere di lasciare al Senato veneziano la sua inestimabile biblioteca. Il tempo fugge, non si ferma neanche un momento – questa cosa lo affligge sin da giovane, figurarsi adesso, con le rughe in viso – e lui non può permettersi di buttarlo via, come ha fatto spesso.
Certo non è più il Francesco dell'età giovanile, e di ciò sarà bene che metta sull'avviso i lettori delle sue opere maggiori, perché sappiano bene che la sua vita è finalmente mutata (RVF 1; Epyst. I 1). Ma è proprio così o è solo un suo desiderio? Non si sa mai bene quanto fidarsi di quello che dice. È tanto tempo che scrive e riscrive le sue poesie volgari, che viene il dubbio che in fondo non siano proprio delle "cosette", come le chiama lui. Prima ne ha fatto dono ad Azzo da Correggio, poi l'amico Giovanni Boccaccio ne ha copiato un'altra versione, e adesso è lì che ci lavora ancora, e sposta, e risistema. Fortuna che questa volta ha un aiuto fidato, il copista Giovanni Malpaghini, uno dei migliori in circolazione. Sembra che con lui Francesco abbia stretto un bel rapporto.
Ma chi è quel pittore che, ora che ha alzato gli occhi dal libro, Francesco vede intento a ritrarlo? Non è un paparazzo, ma "il miglior pittore tra i pochissimi dell'età nostra", mandato dal signore e amico Pandolfo Malatesta (un condottiero amante dell'arte) per avere, dopo il ritratto dell'artista da giovane, anche un ritratto dell'artista maturo (Sen. I 6). E va bene, che faccia pure, pensa Francesco, tanto non gli verrà un granché, e si rimette al lavoro. Ma ha la mente distratta, e pensa: chi può ritrarmi meglio di quanto non abbia fatto io, in tutti questi anni, con l'arte della parola? Bisogna che mandi una copia delle mie poesie d'amore a Pandolfo, visto che è così desideroso di avere un mio ritratto. Ma prima di inviargliela, sarà meglio che la riguardi ancora un po'…
4.3 Il capolavoro della vita: i Rerum Vulgarium Fragmenta
Il dono dei Rerum Vulgarium fragmenta, cioè del suo Canzoniere, a Pandolfo Malatesta, il nostro Francesco lo spedirà solo pochi mesi prima di morire. Ma la redazione definitiva, quella che da Pietro Bembo in avanti è stata presa come base di tutte le edizioni, è conservata ancora oggi nel manoscritto Vat. Lat. 3195 della Biblioteca Apostolica Vaticana, in gran parte autografo di Francesco. È lì che si è finalmente placata l'ansia emendatoria di Francesco; è lì che le tessere del mosaico hanno trovato il giusto ordinamento; è lì che il cerchio finalmente si è chiuso. Diciamo "cerchio", o cerchi concentrici, perché non si può certo parlare di vero percorso, e ancor meno di ascensione al cielo, benché il Canzoniere finisca con una canzone-invocazione alla Vergine. Se Dante arriva in Paradiso con la sua volontà, per la sua "altezza d'ingegno", attraverso le metamorfosi della sua mente e della sua lingua, e giunto al culmine osa protendere lo sguardo a Dio ("ficcar lo viso per la luce eterna"), Francesco, con l'umiltà del cristiano penitente che si sente deficitario, piega umilmente le ginocchia della mente, e attende di essere salvato dalla Grazia. Sa di aver fatto della propria vita come si fa di un'opera d'arte (come si dirà molto più tardi) ed è questo in fondo il suo più grave peccato. Sa di non aver usato i versi "per" un alto fine, ma di aver tutto subordinato alla letteratura. Nonostante la finta umiltà con cui si rivolge alle generazioni future nella lettera Posteritati, sa benissimo che diventerà il maestro operativo di tante letterature nazionali, mentre Dante sarà in eterno un nume tutelare, un nonno austero dalla fantasia troppo alta e dallo stile troppo ardito per diventare un modello.
Ricomporre i frammenti dell'esistenza infranta
Allestendo i suoi Rerum Vulgarium Fragmenta Francesco era consapevole di star confezionando uno dei primi moderni "libri di poesia", vale a dire una opera unitaria composta da frammenti organicamente sistemati a narrare una vicenda d'amore. I 366 componimenti di cui si compone l'opera (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate, 4 madrigali) si suddividono in due parti, in vita e in morte di Madonna Laura: la prima (liriche 1-263) riguarda i ventuno anni che vanno dal 6 aprile 1327 (giorno dell'incontro) al 6 aprile 1348 (morte di Laura); la seconda (264-366) comincia proprio da quella data funesta. Certo, la Vita nuova di Dante offriva un'architettura testuale difficilmente eludibile anche per chi, come il nostro, cercava di rimuovere il "padre"; tuttavia, completamente nuova è l'opera che ne risulta per concezione poetica e assetto dell'opera: il numero complessivo dei componimenti rimanda chiaramente ai giorni di un anno, dalla morte di Cristo che corrisponde alla nascita dell'amore per Laura (il 6 aprile 1327, venerdì santo nella finzione poetica) alla morte di Laura che coincide con la Rinascita di Cristo (6 aprile 1348, domenica di Pasqua), che ricompone, con l'ultimo testo, la Canzone alla Vergine (366) il dissidio tra Creatore e creatura. Ma anche il «dialogo costante con gli amatissimi autori classici» (Chines) costituisce una novità del proto-umanista: con gli elegiaci soprattutto (Properzio, Tibullo, l'Orazio lirico e lo sconosciuto Catullo riscoperto a Verona), ma anche con l'Ovidio delle Metamorfosi, cui Francesco deve l'ispirazione di tante trame mitiche che si dipanano nelle sue rime e l'ideazione di una canzone in particolare (la cosiddetta Canzone delle Metamorfosi: 23, Nel dolce tempo de la prima etade). Nel Canzoniere l'espressione del sentimento amoroso, nelle sue varie articolazioni (il potere salvifico della donna di stilnovistica memoria, la solitudine del poeta, l'assenza dell'amata, la sua durezza "petrosa", la sua bellezza) costituisce il motivo dominante, anche se non esclusivo: oltre a temi esistenziali come il sentimento del tempo che fugge, la vanità della vita, il pentimento del cristiano per i propri errori, in esso trovano infatti posto anche temi politici quali la corruzione della curia Avignonese – vecchio pallino del nostro – (nei cosiddetti "sonetti babilonesi", 136-138) o il lamento per le lotte intestine tra le signorie italiane (128, Italia mia benché 'l parlar sia indarno e 53, Spirto gentil) e testi di corrispondenza (7, La gola e 'l somno et l'otïose piume).
Come già si è accennato, il Canzoniere è frutto di una inesausta ansia di correzione dei testi e revisione del progetto complessivo, testimoniata da diversi manoscritti: dal 'Codice degli abbozzi' (il Vat. Lat. 3196, databile al 1336-1338, latore di soli 22 componimenti) alla primitiva forma Correggio (così chiamata perché allestita per l'amico Azzo da Correggio nel 1357: 170 liriche in una narrazione continuata); dalla forma Chigi (tramandata dal codice Vaticano Chigiano L.V.76, autografo di Boccaccio: 215 testi risalenti al periodo 1362-66) fino all'approdo definitivo nel codice latino 3195 della Biblioteca Apostolica Vaticana: manoscritto in parte idiografo (perché trascritto sotto il controllo dell'autore da Giovanni Malpaghini a partire dal 1366) e in parte di pugno di Francesco stesso, che lo completò negli ultimi mesi di vita: il 4 gennaio 1374 ne farà dono all'amico Pandolfo Malatesta, «sull'uscio della vita, con le dita intitirizzite dal freddo» (Sen. XIII 10).
4.5 Un dono a tutta l'Europa
Quando, nel 2004, si è festeggiato un po' in tutto il mondo il settimo centenario della nascita di Petrarca, in uno dei più diffusi magazine sloveni è uscito un articolo del poeta Rastko Mo?nik, che cominciava così: «Il 20 luglio sono trascorsi settecento anni dalla nascita di Francesco Petrarca. Siccome è anche "nostro", è giusto ricordarlo». Petrarca è anche degli sloveni, come di tutti gli europei.
Il Canzoniere ha istituzionalizzato per secoli i momenti dell'esperienza erotica nella letteratura europea. Dopo aver letto il Canzoniere non c'è stato più poeta che abbia passeggiato melanconico in un bosco pensando alla propria amata lontana senza seguire le orme di colui che «Solo et pensoso i più deserti campi / va misurando a passi tardi et lenti» (RVF 35); o che abbia guardato i capelli biondi della propria bella mossi dal vento senza vedervi dei «capei d'oro a laura sparsi» (RVF 90). Bandito ogni principio di non contraddizione, la schiavitù d'Amore sarà descritta per secoli giustapponendo ossimoro su ossimoro: «ch'io medesmo non so quel ch'io mi voglio, / e tremo a mezza state, ardendo il verno», è la chiusa di un famoso sonetto petrarchesco (RVF 132), che il grande poeta inglese Geoffrey Chaucher (1340-1400) citerà non a caso nel suo poema Troylus and Criseyde. Le parole del Canzoniere stanno sempre dentro un "range" esclusivo, lontano dalle periferie del linguaggio, selezionato sin da principio, e gli oscillamenti del cuore sono retoricamente riflessi da antitesi o dittologie. Il compito del poeta non sta più, come per Dante, nell'esplorazione della vastità del linguaggio (nelle basse come nelle alte sfere), quanto nell'infinita combinazione di pochi termini fortemente connotativi; il loro slittamento semantico, come avviene esemplarmente nella canzone sestina, crea dei «centri vivi di energia» (Noferi) attorno a cui gravita la lirica. Il Canzoniere non conosce un vero e proprio sviluppo; al contrario della Commedia, l'opera non ha un andamento progressivo, ma ciclico: i componimenti sono infatti 366, uno per ogni giorno dell'anno.
Un poeta in Laguna
Dal 1362 al 1368 palazzo Molin, sulla riva degli Schiavoni, ha un inquilino d'eccezione. Il Senato della Serenissima è riuscito a convincere Francesco Petrarca a venire a trascorrere in Laguna la sua vecchiaia, promettendogli di liberarlo da quegli impicci diplomatici cui i Visconti l'hanno più volte costretto. La casa è bella grande, così Francesco potrà tenere presso di sé per lunghi periodi un copista che lo aiuti a ricopiare in bella le sue opere, e invitare gli amici e la figlia Francesca col marito Francescuolo da Brossano, che deve cominciare a istruire sulla gestione del proprio piccolo patrimonio, se è a lui che lo vuole in gran parte lasciare in eredità. Magari tornerà anche a trovarlo il suo amico Giovannin Boccaccio. Francesco è stanco e un po' depresso, benché ormai alla morte di persone care sia abituato: nel 1361 sono morti infatti suo figlio Giovanni e il carissimo amico Socrate (il fiammingo Ludwig van Kempen), cui ha dedicato la poderosa raccolta di lettere Familiari. Adesso ha cinquantasette anni ed è l'età in cui più o meno anche per il suo Cicerone comincia la vecchiaia. La raccolta di lettere che scriverà da qua sino alla morte, e che dedicherà all'amico fiorentino Francesco Nelli (classicizzato in Simonide), la chiamerà Libri di cose senili (Senilium rerum libri), includendovi riflessioni, note di vita privata, brevi trattati. Non facciamo segreto che per narrarvi questa storia che volge lentamente al termine, abbiamo sbirciato più di una volta dentro questi due corposi volumi (Familiari e Senili). Non si tratta, del resto, di scritture private, giacché – vero e proprio genere letterario da Francesco stesso ripristinato sulla scorta di Cicerone e Seneca – queste lettere fanno parte integrante dell'ampio menù di opere che Francesco lascia ai posteri; anzi, proprio qui il nostro autore pare indirizzare il critico che, armato di pazienza, voglia conoscere ogni piega della sua vita, delle sue amicizie, del suo pensiero, del suo tempo. I ventiquattro libri delle Familiari si concludono con lettere indirizzate ai suoi autori preferiti (Cicerone, Quintiliano, Livio, Virgilio, Omero, Varrone, Seneca, Orazio); le Senili invece avrebbero dovuto concludersi con una lunga lettera rivolta ai posteri. Se l'ordinamento delle lettera ha un senso, come è certo che ce l'abbia, questo significa che Francesco si sente il ponte fra passato e futuro: un ponte che ogni uomo di cultura dovrà attraversare.
Nel 1366 pone l'ultima mano ad un'opera cominciata molti anni prima, impregnata di filosofia stoica ma molto medievale nell'impostazione: si tratta di quell'operetta "Sui rimedi alla buona e alla cattiva sorte" (De remediis utriusque fortune) di cui poco fa abbiamo accennato: tante piccole contese tra Gioia e Speranza da un lato, Dolore e Timore dall'altro, che interloquiscono con la ragione, sostenitrice dell'equanimità in ogni circostanza della vita. Il motivo è tutt'altro che originale (ne parlarono già Livio, Cicerone e Seneca) ma l'operetta riscuoterà un enorme successo, soprattutto oltralpe: verrà tradotta in francese già nel 1366 da Jean Daudin, andando a completare i Remedes ou confors des maulz fortuitorum di Seneca eseguita da Jacques Bauchant su richiesta del re. Tutto questo puntare sull'etica gli studiosi della natura non lo capiscono. Quattro averroisti veneziani, di cui Francesco tace il nome affinché non acquistino fama attraverso il suo scritto, condannano la sua ignoranza, e allora Francesco risponde da par suo in una operetta apologetica intitolata "L'ignoranza mia e di molti" (De sui ipsius et multorum ignorantia). Decidano i posteri a chi dare la palma dell'ignoranza. Forse anche perché a Venezia abita gente di questo tipo, nella primavera del 1368 il nostro poeta si trasferisce a Padova, accolto dall'amico Francesco da Carrara.
Trionfi di una vita
Francesco continua a leggere e a riscrivere, a correggere maniacalmente le proprie opere, soprattutto il Canzoniere. A Giovanni Boccaccio che gli consiglia, con la vecchiaia, di riposarsi, risponde che non riesce a immaginare una vita senza le lettere, che sono state per lui sempre il filo conduttore della sua vita, che hanno "disacerbato" il suo dolore quando esso era più intenso, che lo hanno nutrito di sospiri, che gli hanno fatto scoprir se stesso (Sen. XVII 2). Quella della scrittura è una sorta di febbre dell'anima, radicata nelle ossa; per questo brama che la morte lo trovi "intento a leggere e a scrivere o, se Dio voglia, a pregare e a piangere". E così sarà, possiamo dire, se l'ultimo dei Triumphiche compone lo finisce proprio pochi giorni prima di morire. Il lettore non voglia credere che abbiamo taciuto finora di quest'opera volutamente, per fare un favore al nostro. Che non sia un'opera molto riuscita, vuoi per l'incapacità di utilizzare la terza rima, vuoi per l'esclusione del principio coesivo della precedente poesia (il proprio io), non è un segreto. D'altronde Francesco gioca su un terreno non suo: quello narrativo e ascensionale della terzina dantesca. Si tratta di una serie progressiva di "visioni", in cui il trionfatore di un capitolo soccombe nel successivo: Amore trionfa sugli uomini, su lui trionfa Pudicizia (Laura), che è a sua volta sopraffatta dalla Morte; su Morte trionfa Fama, su questa a sua volta il tempo e su quest'ultimo, infine, l'eternità, un nulla angosciante, assenza totale di spazio e di tempo, che somiglia pochissimo ad un paradiso cristiano. A parte questo "nulla" che tocca noi moderni, è notevole il dialogo tra lui e Laura nel Trionfo della Morte, dove finalmente Francesco ha occasione di parlare con la sua amata della loro vicenda terrena. Quel momento, insomma, che tutti gli innamorati delusi aspettano, a giochi terminati. I Triumphi, mai pubblicati in vita da Francesco, furono tolti dal cassetto e divulgati dal genero Francescuolo da Brossano e da Lombardo della Seta. La loro fortuna iconografica sarà imponente, basti pensare che manoscritti dei Trionfi sono stati miniati da pittori del calibro di Apollonio di Giovanni e Piero della Francesca. Questo percorso iconografico, che comprende anche stampe quattro e cinquecentesche e cassoni nuziali, costituisce un interessante capitolo di storia dell'arte, ma ha anche influito sulle vicende dello spettacolo teatrale in età laurenziana (1469-1492) con l'invenzione del trionfo carnascialesco.
L'ultimo di questi Trionfi, dicevamo, Francesco lo compone interamente nell'estremo lembo della sua vita, in una località sui colli Euganei che prima si chiamava Arquà e oggi, visto che lì si è spento il nostro poeta, si gloria di chiamarsi "Arquà Petrarca". Il terreno glielo dona nel 1369 il suo amico Francesco da Carrara e il nostro utilizza parte dei suoi risparmi per farvi costruire una casetta dove trascorrere in serenità, in compagnia dei pochi affetti rimasti, l'ultimo scampolo di vita. Ma un ultimo viaggio ci tiene a farlo: Urbano V, da lui fortemente sollecitato, ha riportato finalmente a Roma la sede papale (anche se non durerà molto). Vuole andare a congratularsi con lui.
Dire, fare…lettere, testamento.
Dopo mille raccomandazioni, si mette in viaggio, nell'aprile del 1370. Non prima, però, di aver fatto testamento, come da prassi, per viaggi così lunghi in una età attempata come la sua. Lascia a Francesco da Carrara un'immagine della beata Vergine, "opera del famoso pittore Giotto…la cui bellezza, non intesa da gente incompetente, è invece oggetto di meraviglia da parte degli esperti". All'amico Giovanni Boccaccio lascia cinquanta fiorini d'oro "perché si compri una sopravveste invernale per lo studio e le veglie notturne". Dalla pagina emerge un sorriso. Sorriso che si tramuta improvvisamente in una fitta di dolore quando, giunto solo a Ferrara, Francesco è colpito da una sincope. È la prima zampata sferratagli dalla morte, cui comunque non basterà questo primo colpo per portarselo via.
È costretto a interrompere il viaggio e a voltare la carrozza per tornare nella sua casa di Arquà. Non riesce a placare il suo istinto di pellegrino, se ancora nel 1372 progetta di andare a Perugia a trovare l'amico e legato pontificio Philippe de Cabassoles. Il progetto è vanificato dalla morte dell'amico, nell'agosto di quello stesso anno. La morte gli manda messaggi, direttamente rivolti a lui, o per interposta persona. Quando il 15 novembre del 1372 deve lasciare Arquà per la guerra scoppiata tra Venezia e Padova, continua qui a scrivere e rivedere le sue opere.
Un giorno prende in mano senza troppa convinzione il libro di novelle che gli ha inviato l'amico Giovanni Boccaccio, il Decameron. Lo sfoglia, lo leggiucchia (il volume è così grosso e poi è scritto in volgare: non ha tempo da perdere), non gli piace proprio tutto, ma qua e là trova storielle che gli garbano. In particolare è avvinto dall'ultima novella, quella di Griselda, estremo magnifico esempio di "magnanimità" femminile. La impara a memoria e poi si mette a riscriverla in latino, come omaggio all'amico: se questi l'ha scritta in volgare rivolgendosi alla schiera di donne italiane che non sanno il latino, Francesco la riscrive nella lingua dei dotti perché possa valicare le Alpi e diventare patrimonio della Repubblica delle Lettere (Sen. XVII 3). E così succede: l'appassionante storia della moglie del marchese Gualtieri di Saluzzo, da lui vessata fino all'inverosimile ma sempre obbediente e fedele, gira l'Europa col titolo De insigni obedientia et fide uxoria come magnifico esempio di pazienza, prodotto agiografico accostabile alle vite di Santa Gertrude, Santa Barbara, Santa Lidvige. Diventa quasi un best-seller, di cui si ignora spesso il vero autore. Geoffrey Chaucher, nei suoi memorabili Canterbury Tales, la traduce in inglese, e si vanta col lettore (cosa a stento credibile) di averla appresa a Padova direttamente dalla voce di Petrarca.
Forse con un libro in mano, come avrebbe desiderato, Francesco Petrarca finì la sua traversata terrena nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, poche ore prima di compiere settant'anni, nella sua casa di Arquà, che diverrà presto meta di pellegrinaggi.
Come un gabbiano ipotetico
Avete mai provato l'esperienza di stare sul ponte di una nave e vedere, pochi metri sopra la vostra testa, un gabbiano che pare immobile, e che invece sta volando sfruttando la scia d'aria creata dal natante? Deve essere capitata un'esperienza simile anche al giovane Francesco (prima di rifiutarsi, in seguito a brutte esperienze, di viaggiare in mare) di fronte alle coste di Roma, mentre navigava verso Napoli. In quel momento ebbe una sorta di visione, prese carta e penna e buttò giù dodici versi latini: cosa ci sarebbe di più bello che trascorrere la vita volando assieme a Laura, trasformatasi in gabbiano, con lei accarezzando all'unisono i flutti del mare, seguendola ovunque volesse? Niente di più bello, certo, se ci fosse anche il miglior amico (Socrate), anche lui trasformato in gabbiano, anche lui in compagnia della sua dolce metà (Petrarca, Gabbiani, pp. 23-24). Allora Francesco potrebbe, dall'alto del cielo, vedere la nave della sua vita, che ha sempre traballato su un mare periglioso. E vedrebbe, forse, anche il "vasel" su cui furono posti Dante, Guido e Lapo con le loro rispettive donne, un souhait che espresse un sogno analogo a quello di Francesco, di coniugare cioè insieme amore ed amicizia, le cose più sublimi con cui l'uomo riesce ad attraversare l'oceano dell'esistenza.
"Qual grazia, qual amore o qual destino / mi darà penne in guisa di colomba, / ch'i mi riposi e levimi di terra?" (RVF 81, 12-14) si era chiesto Francesco un giorno, parafrasando un salmo. Ora che vola davvero in cielo, assieme alla sua Laura, al suo Socrate e alla di lui compagna, Francesco si ricorda di quel sogno fatto in vita e spera che a tutti gli uomini sia concesso di poter scegliere quale forma la propria anima assumerà dopo l'uscita dal carcere terreno.
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