Leopardi poeta e filosofo europeo
«Da bambino fu docilissimo, amabilissimo, ma sempre di una fantasia tanto calda apprensiva e vivace, che molte volte ebbi gravi timori di vederlo trascendere fuori di mente». Così Monaldo Leopardi [http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Dizionario_Biografico_degli_Italiani/VOL64/DIZIONARIO_BIOGRAFICO_DEGLI_ITALIANI_Vol64_018999.xml], in una lettera-memoriale ad Antonio Ranieri, dà conto di un tratto distintivo della fanciullezza del figlio, intrisa di un'immaginazione produttrice di sogni, di storie, di terrori (come quello, irrazionale, per i «bruttacci», ossia per i missionari di Recanati, che erano soliti portare un cappuccio nero sul capo), sempre sull'orlo della patologia. Anche il fratello Carlo, nelle sue memorie riferite a Prospero Viani, conferma il resoconto di Monaldo e ci descrive un Giacomo assai diverso dalla rappresentazione tradizionale del poeta involto in uno studio «matto e disperatissimo»:
La fanciullezza di Giacomo – scrive Carlo – passò fra giuochi e capriole e studi […]. Nei giuochi e nelle finte battaglie romane, che noi fratelli facevamo nel giardino, egli si metteva sempre primo. Ricordo ancora i pugni sonori che mi dava! […] Aveva l'abilità e l'uso di fare spesso con tutte due le mani un certo giuoco, come di nacchere, famigliare, diceva egli, agli antichi; onde faceva una certa musica. Se non leggeva o scriveva, e questa, salvo gl'intervalli del male, fu la sua vita quotidiana fino a' 24 anni, non poteva star fermo colle mani: giocava ogni momento con un tagliacarte d'osso, che portava in tasca anche fuori di casa! Ogni bagattella che gli venisse alle mani la girava e rigirava tanto che poi la rompeva.
Questo Giacomo si era creato pure una maschera, indossata la quale affrontava i giochi coi fratellini: Filsero, un personaggio dai contorni non ben definiti, ma certo dominante e «luciferino», come l'ha chiamato Isabella Innamorati.
Quel che colpisce di più, nelle memorie di Carlo relative all'infanzia del fratello, è però l'attestazione della precoce capacità narrativa del Leopardi, la quale non lascia stupiti i lettori degli Appunti e ricordi, delle Operette morali, dei Paralipomeni o di certi Canti (pensiamo ad esempio alle Ricordanze o al Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) dove la dimensione narrativa, orchestrata con grande sapienza, è componente essenziale: «Ebbe fin da fanciullo l'abilità straordinaria d'inventar fole o novelle, e di seguitarne alcuna per più giorni, come un romanzo. Questo faceva la mattina a letto per mio spasso».
Giacomo Leopardi nasce a Recanati, cittadina allora soggetta allo Stato pontificio, il 29 giugno 1798. Suoi genitori sono il conte Monaldo (1776-1847) e la marchesa Adelaide Antici (1778-1857), entrambi giovani rampolli dell'antico patriziato marchigiano. La famiglia Leopardi cade presto in dissesto a causa della cattiva gestione patrimoniale di Monaldo, il quale però, nel 1803, passa l'amministrazione alla moglie (ufficialmente, ad un amministratore giudiziario), dedicandosi a tempo pieno alla sua passione per le lettere, coltivata tutt'altro che da dilettante: Monaldo diviene infatti, con gli anni, un lettore assai attento (soprattutto di opere d'argomento spirituale) e un ottimo prosatore; la sua ideologia è cattolica conservatrice, sebbene sia sorretta da forte senso critico e riformismo civile.
Vari fratelli seguono il primogenito Giacomo: Carlo (1799-1878), Paolina (1800-1869), Luigi (1804-1828), Pierfrancesco (1813-1851). L'educazione religiosa che Giacomo riceve, assieme con gli altri fratelli, è quanto mai canonica: egli si confessa abitualmente fin dal 1805 e, nel 1809, fa la sua prima comunione. L'iter studiorum è altrettanto canonico: inizia nel 1807, quando il bimbo viene affidato all'abate Sebastiano Sanchini e a don Vincenzo Diotallevi, che gli insegnano scienze e umanità facendo uso di manuali sei-settecenteschi in linea con l'ortodossia romana (Mathurin-Jacques Brisson, Jean-Antoine Nollet, Antonino Valsecchi, Francesco Maria Zanotti), anche se piuttosto moderati, nel loro impianto generale. È di questi anni di studio fanciullesco il primo componimento poetico del Leopardi (1809), scritto sull'entusiasmo della lettura di Omero: il sonetto La morte di Ettore, che lo indirizza già verso un classicismo rigoroso (rafforzatosi, fra il 1810 e il 1811, nella stesura di poemetti ed epigrammi) che non lo abbandonerà mai neppure negli anni maturi. Nel 1809 si colloca anche la sua conoscenza di Joseph Anton Vogel, un canonico alsaziano rifugiatosi nelle Marche pontificie a seguito della Rivoluzione francese; questo prelato, che diviene canonico onorario della cattedrale di Recanati, e che frequenta con una certa frequenza casa Leopardi, è convinto assertore della necessità, per un letterato, di tenere uno «sgrigno zibaldonico» (così scrive all'amico marchese Filippo Solari, il 27 novembre 1807), ovvero un insieme di taccuini dove appuntare impressioni liriche, spunti stilistici, idee compositive: «Lo stile» – spiega meglio il Vogel – «vuole che ogni letterato abbia di questi caos scritti, taccuini e sottisiers, adversaria, excerpta, pugillares, comentaria ecc… Questi sono i magazzeni, da cui escono alla giornata tante belle opere in ogni genere di letteratura; come dal caos sortirono tempo fa il sole la luna e le stelle».
Non è da escludere (come hanno sostenuto Francesco Flora e Marcello Verdenelli, a notevole distanza l'uno dall'altro) che proprio tale convinzione del Vogel, trasmessa al Leopardi, possa essere alla base del progetto dello Zibaldone di pensieri (che però inizia ad essere steso solo a partire dal 1817). Bisogna altresì chiarire che, se anche Leopardi ha accolto il suggerimento del Vogel di tenere un proprio zibaldone come corredo giornaliero all'attività scrittoria, egli ha senz'altro declinato tale suggerimento in un senso più ampio e radicale: uno zibaldone privato non deve infatti essere, per Leopardi, una registrazione di soli appunti letterari, ma anche un journal intime, un'autobiografia intellettuale, con tanto di estrinsecazione di pensieri filosofici, politici, antropologici; ciò che di fatto sarà lo Zibaldone, con le sue 4526 facciate, le quali verranno definite da Giosue Carducci, loro primo editore nel 1898-1900, in questi termini: «un numero grandissimo di pensieri, appunti, ricordi, osservazioni, note, conversazioni e discussioni, per così dire, del giovine illustre con se stesso, su l'animo suo, la sua vita, le circostanze; a proposito delle sue letture e cognizioni; di filosofia, di letteratura, di politica; su l'uomo, su le nazioni, su l'universo […]».
Le Dissertazioni filosofiche del 1811-1812 segnano la fine dell'apprendistato leopardiano all'ombra dei precettori: esse sono 'tesine' – così potremmo chiamarle – che i giovani Leopardi discutono alla fine dell'anno scolastico di fronte al maestro sacerdote, e rappresentano un documento prezioso (negli ultimi anni meglio valutato, specie grazie all'alacre lavoro della studiosa Tatiana Crivelli) della prima cultura filosofica e scientifica del Leopardi (alcune di queste dissertazioni sono dedicate alla logica, alla metafisica, alla fisica, alla morale). Dopo le Dissertazioni filosofiche, dunque all'incirca a far data dall'estate del '12, il poeta è interamente autodidatta: egli studia da solo sui libri della biblioteca del padre (un fondo di parecchie migliaia di volumi particolarmente raro per l'epoca), acquisendo in maniera totale il greco, ed interessandosi all'ebraico, al francese, all'inglese ed allo spagnolo.
Leopardi fa il suo ingresso nel mondo dei dotti italiani come un perfetto erudito, severo conoscitore delle letterature antiche, eccellente traduttore (volge in lingua italiana, fra le altre cose, in un arco cronologico che va dall''11 al '16, l'Ars poetica di Orazio, la Batracomiomachia dello Pseudo-Omero, il primo libro dell'Odissea, che finisce sulla rivista del milanese Antonio Fortunato Stella «Lo Spettatore Italiano e Straniero», e il secondo libro dell'Eneide), autore di trattati minuziosi come la Storia dell'astronomia (1813) e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815), che metterebbero in difficoltà anche studiosi adulti e navigati, filologo attrezzatissimo e capace di ingegnose congetture (i suoi campi di applicazione prediletti: Esichio Milesio, la Vita Plotini di Porfirio, i Fragmenta Patrum secundi saeculi, Frontone).
Sostiene ancora pienamente idee legittimiste, negli anni che vedono il crollo di Napoleone e la Restaurazione: così appare dall'Orazione agli Italiani in occasione della liberazione del Piceno, risalente al 1815.
Troviamo che un anno assolutamente 'di svolta' nella carriera intellettuale del Leopardi sia, ben più che il '19, il 1817, e le ragioni sono presto dette. Oltre al Diario del primo amore, forse la sua prima opera letteraria di rilievo, dove il sentimento amoroso viene trattato, cavalcantianamente, alla stregua di un'esperienza psico-fisica distruttiva, Leopardi entra in contatto, in quell'anno, con Pietro Giordani [http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Dizionario_Biografico_degli_Italiani/VOL55/DIZIONARIO_BIOGRAFICO_DEGLI_ITALIANI_Vol55_015192.xml] (1774-1848), un letterato di valore indiscusso, noto in tutta Italia, che ha il merito non piccolo di comprendere la statura del giovane e di introdurlo in ambienti letterari non provinciali come quello della «Biblioteca Italiana» di Milano o dell'«Antologia» di Vieusseux a Firenze. Nel febbraio, Leopardi invia al Giordani una missiva di accompagnamento al dono della propria traduzione del secondo dell'Eneide; qui il giovane poeta e filologo scrive al famoso critico d'arte e linguista: «Se le piacerà di non rigettare la mia povera offerta, io potrò, ricordandomene, dir qualche volta per vanto che il dono di un mio libro fu accettato da lei». Giordani risponde il 5 marzo da Milano con una lunga lettera elogiativa, in seguito alla quale Leopardi prende coraggio e si attenta a descrivere il suo reale stato d'animo all'illustre lettore, in due lettere diluviali (una del 21 marzo, l'altra del 30 aprile), che sono tra le più belle mai scritte dal poeta: in tali lettere Leopardi raffigura se stesso come un genio incompreso e isolato, prigioniero di quello che nelle Ricordanze del '29 chiamerà «natio borgo selvaggio» (leggi: Recanati), dove «spesso / Argomento di riso e di trastullo, / Son dottrina e saper»; in uno stile classicistico ma inframezzato da 'scatti' colloquiali e imprestiti dall'oralità, con un corredo pressoché continuo (ma mai gratuito e banale) di allusioni e riferimenti letterari, egli raffigura se stesso al Giordani come un puer senex, malato nel corpo e corroso nell'animo dagli studi. Nella seconda di queste lettere, in particolare, fa la sua comparsa, con valore pregnante e 'nuovo', il vocabolo «noia», col quale Leopardi descrive un sentimento terribile, che annichila e disorienta, un'angoscia esistenziale che si nutre della quiete e della routine, dell'ordinarietà della vita.
Queste confessioni leopardiane bastano a convincere il corrispondente di trovarsi davanti a uno scrittore fuori dal comune. Giordani, oggi iniquamente dimenticato, al principio dell'Ottocento è una delle voci più significative, assieme a Vincenzo Monti, del classicismo italiano: il suo influsso su Leopardi – ancora in buona parte bisognoso di una adeguata valutazione – spingerà Monaldo a considerarlo addirittura il 'corruttore' primigenio dell'animo, altrimenti docile e remissivo, di Giacomo. Il padre del poeta non muoverà tali accuse sulla spinta dell'emotività, ma sulla base della risaputa storia personale del Giordani, un intellettuale laico e illuminista, amante della filosofia francese (di Condillac su tutti), anticlericale, estimatore dell'operato istituzionale di Napoleone Bonaparte (al quale dedica anche un Panegirico, nel 1807). Questi suoi tratti non potranno non avere un peso anche su Leopardi, agli occhi del quale il piacentino rappresenterà sempre – anche quando superato – un indubitabile modello. E ci chiediamo se sia da considerarsi un caso che l'imponente journal intime leopardiano, lo Zibaldone di pensieri, prenda avvio nel luglio-agosto del '17 (proseguendo, con l'ultimo appunto, fino al 1832), proprio mentre l'eccitazione di Leopardi per la corrispondenza epistolare col Giordani, sempre più fitta, tocca il suo apice.
Certo è da ricondurre ad influsso giordaniano la stesura delle due canzoni civili del 1818, grondanti di fervore patriottico e proto-risorgimentale (seppure alquanto affettato e schematico): All'Italia e Sopra il monumento di Dante che si preparava in Firenze, canzoni ancora petrarchesche nella struttura e nel linguaggio (il testo di riferimento per entrambe è Italia mia, benché 'l parlar sia indarno), pubblicate a Roma in un opuscoletto dedicato al Monti che farà infuriare Monaldo. Non ci si deve però lasciar trarre in inganno da questi testi, nei quali Leopardi fa la parte di patriota repubblicano: la dimensione dell'engagement politico non apparterrà mai al poeta (e questo per via delle risultanze pessimistiche del suo pensiero degli anni Venti), il quale si limiterà, anche in concomitanza dei primi e più tragici moti insurrezionali, a osservazioni di carattere generale sulla vicenda di certe nazioni (ivi compresa ovviamente l'Italia) o di certi popoli, o, al più (nei Paralipomeni della Batracomiomachia, con il filtro del linguaggio comico), del comportamento dei principali partiti dell'epoca della Restaurazione. Quella di Leopardi non sarà mai infatti un'opera militante, ma sempre contemplativa, di ascolto e riflessione distaccata e fredda della realtà: egli, quasi a volersi distinguere polemicamente dall'«Antologia» fiorentina (sulla quale pur si trovò a pubblicare), assai impegnata sul fronte del liberalismo nazionalistico, progetta nel 1832 un suo settimanale intitolato «Lo Spettatore Fiorentino», dove dichiara che il letterato deve essere «flâneur», "girondolone", "perdigiorno", ovvero che deve occuparsi di procurare al suo prossimo il diletto ben più che l'utile, poiché la vera renovatio può dipendere solo dalla coscienza dell'individuo e non dalle circostanze sociali o economiche (sulla stessa linea si erano già in qualche modo schierati il Parini e il secondo Foscolo, dal 1802 in poi). Scrive Leopardi nel Preambolo al progettato settimanale (che non vedrà mai la luce): «Il nostro scopo dunque non è giovare al mondo, ma dilettare quei pochi che leggeranno. Lasciamo stare che lo scopo finale d'ogni cosa utile essendo il piacere, il quale poi all'ultimo si ottiene rarissime volte, la nostra privata opinione è che il dilettevole sia più utile che l'utile. Noi abbiamo torto certamente, poiché il secolo crede il contrario».
Non è nostra intenzione accusare Leopardi di superficialità ideologica per i suoi giovanili testi patriottici, tuttavia è certo che il magistero di Giordani ed insieme il suo cenacolo, composto per lo più di ex-giacobini e funzionari napoleonici (Cesare Arici, Francesco Reina, Filippo Schiassi, Giulio Perticari, Giuseppe Montani, Pietro Brighenti), devono aver molto agito sulla loro composizione. Il vero Leopardi è da ricercare altrove, evidentemente.
Non si può invece considerare frutto della presenza giordaniana – se non lato sensu – l'ardito Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, la più importante trattazione di poetica del primo Leopardi, datato marzo 1818; esso si presenta come rielaborazione e ampliamento posteriore della Lettera ai Sigg. compilatori della «Biblioteca Italiana», già scritta nel '16, a caldo, dopo le esternazioni contro i classicisti italiani lanciate da Mme de Staël nel suo notorio articolo (Sulla maniera e l'utilità delle traduzioni), e respinta dalla Direzione della rivista, affidata a quel tempo allo Stella. Ora Leopardi medita meglio quella risposta piccata alla baronessa, e aggiunge alla disputa fra classici e romantici che infuriava a Milano il contributo senza dubbio più vertiginoso (di nuovo respinto, purtroppo, dallo Stella).
Nel Discorso Leopardi sconfessa il romanticismo negando valore a una delle sue pretese storiche essenziali, quella di poter ripristinare, come voleva ad esempio Schiller (che però Leopardi non cita), lo spirito «ingenuo», «naturale» della poesia antica nella poesia moderna, divenuta aridamente «sentimentale», cioè artificiosa, insincera. Ebbene, Leopardi dimostra nella maniera più recisa che questo ripristino di facoltà perdute è ontologicamente impossibile, dato che l'uomo moderno, per filogenesi, è ormai invecchiato e corrotto quanto l'umanità nel suo complesso, mentre gli antichi hanno potuto rimanere per tutta la vita come fanciulli dominati da una fantasia creatrice fresca e potente. Ciò che rimane da fare al poeta moderno è dunque prendere atto dell'irrimediabile decadimento storico e fingersi come meglio può un poeta naturale, cercando di emulare lo spirito lirico, effusivo degli antichi e di nascondere con arte tale emulazione.
Idealmente legati alle conclusioni del Discorso di un Italiano sono gli idilli del 1819, L'infinito e Alla luna, e gli Appunti e ricordi. In entrambi gli idilli appena nominati, scritti in endecasillabi sciolti, pur essendo L'infinito di quindici ed Alla luna di quattordici versi (misure che porterebbero spontaneamente un poeta del primo Ottocento a scegliere quale metro ad hoc il sonetto), appaiono come due lacerti lirici assoluti, in cui l'io dialoga senza alcuna mediazione con se stesso e con la natura, affrontando temi decisivi per la propria esistenza come la finitezza umana o il fenomeno della memoria.
Gli Appunti e ricordi, invece, costituiscono l'abbozzo di un romanzo autobiografico dai toni affatto poetici e intimistici, costruito per giustapposizione di frammenti, come in un flusso di coscienza joyceiano (cfr. a questo proposito la lettura che ne hanno dato, in anni recenti, Franco D'Intino ed Emilio Pasquini). Gli Appunti e ricordi sono importanti perché attestano una modalità compositiva che Leopardi sfrutta anche per i testi in versi: questa è ben evidente negli Argomenti di idilli o negli abbozzi in prosa, della stessa specie degli Appunti e ricordi, formulati in vista di poesie poi effettivamente realizzate quali l'Inno ai Patriarchi (una canzone del 1822) o solo disegnate quali Ad Arimane (dei primi anni Trenta).
Questo modo che Leopardi ha di intendere, dal 1819 in avanti, le sue liriche come «idilli», ovverossia – come egli stesso chiarisce nei propri Disegni letterari – come «situazioni, affezioni, avventure storiche» del proprio animo, si salda intrinsecamente ad una sensibile crisi interiore della fine degli anni Dieci, religiosa ma non solo, che porta il poeta ad una robusta insofferenza nei confronti del proprio ambiente familiare, insofferenza non dovuta però, più che tanto, ad una effettiva oppressività dei genitori. La madre Adelaide, a quanto sembra risultare dai documenti, fu davvero una donna dura, algida, arroccata su un cattolicesimo che sfiorava il bigottismo e la superstizione; ma Monaldo, il padre di Giacomo, pur essendo di idee anti-liberali e sanfediste, fu piuttosto affettuoso e sollecito verso i suoi figli: la sua colpa maggiore fu forse quella di non accettare o assecondare in modo solidale i rapidi e profondi mutamenti nella coscienza del figlio, che sentiva allontanarsi sempre più, dal punto di vista filosofico. Tuttavia, egli lo aiuterà in modo costante, nei limiti del possibile, con assegni di mantenimento, durante le sue lunghe trasferte fuori Recanati (a Roma come a Bologna come a Firenze) mentre questi cercherà una propria emancipazione (sempre fallita) come letterato free lance (non si dimentichi, inoltre, che i primi contatti importanti con l'editoria italiana, milanese e bolognese, vennero procacciati a Leopardi proprio da Monaldo). In larga misura, l'artefice maggiore dei propri mali fu Giacomo stesso e la 'dismisura' del suo carattere, perfezionista e ambizioso ai limiti dell'autolesionismo (è proprio il giovane ad ammettere di fronte a Giordani, nella lettera del 21 marzo: «Io ho grandissimo, forse smoderato e insolente desiderio di gloria»). È pertanto nella natura di Giacomo che prende spazio quel germe di eterna insoddisfazione, di volontà di affermazione nel mondo che Carlo rammentava, con queste parole, nei suoi ricordi al Viani: «Un anno [Carlo si riferisce al 1819] Giacomo, dominato straordinariamente dall'entusiasmo, dalla noia, da violenta brama d'esser libero e padrone di sé, credendosi quasi prigioniero e trascurato, senza conoscer bene lo stato della famiglia, concepì l'idea (n'ho ancor pena) di fuggir via di casa alla muta e provveduto di viatico».
Dalle parole di Carlo – che pur è stato 'complice' del Leopardi adolescente – traspare che Giacomo ha ingigantito alquanto la realtà della sua situazione familiare. Nel '19 egli tenta persino di organizzare una fuga da Recanati, ma viene scoperto e lascia cadere definitivamente il proposito. La lettera di commiato dal padre stesa in quel frangente (alla fine di luglio del 1819), senz'altro esagerata nelle accuse alquanto feroci mosse al genitore, cade fortunatamente nelle mani dei soli fratelli.
Frustrato miseramente il tentativo di fuga da Recanati, Leopardi, tra 1820 e 1821 (proprio nel biennio che precede il suo soggiorno a Roma), torna a concentrarsi sulla composizione: in poesia sforna alcune canzoni eccellenti (Ad Angelo Mai; Nelle nozze della sorella Paolina; A un vincitore nel pallone; Bruto minore; Alla Primavera o Delle favole antiche; Ultimo canto di Saffo, che si eleva su tutte; Inno ai Patriarchi o Dei principii del genere umano) ed alcuni altri idilli (La sera del dì di festa; Il sogno; La vita solitaria); in prosa incomincia ad abbozzare alcune proto-operette morali, riuscite solo a tratti, ma già portatrici di tutti gli ingredienti di quelle del '24 o degli anni ancora successivi (Galantuomo e Mondo; Novella. Senofonte e Niccolò Machiavello; Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte).
In queste prove assai sperimentali prende sempre maggiore corpo la filosofia pessimistica del Leopardi maturo. Nelle canzoni, Leopardi denuncia la sofferenza ed incompletezza spirituale dei popoli moderni rispetto a quelli antichi o selvaggi, ma nella canzone intitolata Ultimo canto di Saffo (composta nel maggio del '22) si spinge ancora oltre e ipotizza una infelicità senza tempo del genere umano, legata alla natura stessa della creatura uomo. Saffo, la poetessa greca vissuta fra VII e VI sec. a. C., dà testimonianza, nella canzone, della sua umana souffrance, e rende chiaro che tale souffrance può interrompersi solo con l'interruzione della vita:
[…] i destinati eventi
Move arcano consiglio. Arcano è tutto,
Fuor che il nostro dolor. Negletta prole
Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo
De' celesti si posa. […]
(vv. 45-49)
La causa primaria della nostra sofferenza è l'uso della ragione, prerogativa che possiede solo la specie uomo (gli altri animali per Leopardi sono ancora, a queste date, incommensurabilmente più felici degli esseri umani). «La natura […] è grande, la ragione è piccola e nemica di quelle grandi azioni che la natura ispira», scrive Leopardi nel suo Zibaldone. Il 13 luglio 1821, inoltre, parla di sé ma anche, più genericamente, dell'umanità, quando confessa al Giordani: «mi doleva che dovendo pur essere, non fossi pianta o sasso o qualunque altra cosa che non ha per compagno dell'esistenza il pensiero» (stessi concetti riprenderà pure in un'operetta morale del '24, Dialogo della Natura e di un'Anima). La causa secondaria (a dire il vero 'effetto' dell'altra) è la crudeltà degli uomini, che spinti dall'egoismo e dall'istinto di sopravvivenza si combattono gli uni gli altri, senza esclusione di colpi e compassione. In questo periodo Leopardi fa propri gli insegnamenti di Hobbes ma anche, soprattutto, di Machiavelli; le operette abbozzate e rimaste allo stadio larvale Galantuomo e Mondo e Novella. Senofonte e Niccolò Machiavello ne porgono una dimostrazione: in esse Leopardi mette a punto quel pessimismo sociale che, in un appunto zibaldoniano del 1829, definirà, con sintagma efficace, «machiavellismo di società».
È appena dopo aver compiuto queste esperienze di arte e di pensiero che Leopardi si reca a conoscere la metropoli romana. Sempre più smanioso di vedere il mondo fuori di Recanati, egli ottiene dal padre di recarsi in viaggio a Roma presso lo zio Carlo Antici: il soggiorno dura, complessivamente, dal 23 novembre 1822 al maggio 1823. Nel corso di questo semestre Leopardi prova disgusto per la società letteraria della capitale pontificia, che gli appare moralmente e intellettualmente moribonda. Roma appare fin da subito a Leopardi una città provinciale poco meno che Recanati. Gli piacquero invece studiosi nordeuropei quali Johann Gotthold Reinhold, Friedrich Wilhelm Thiersch, Carl Bunsen, Barthold Georg Niebuhr e André Jacopssen, tutti prussiani o belgi, che lo accolsero con favore e simpatia soprattutto per la sua perizia di filologo. Fatte salve queste poche eccezioni, comunque, Leopardi ebbe delle personalità conosciute in loco (quali l'erudito Francesco Cancellieri, che godeva allora di discreta nomea) una pessima impressione; anche la vita mondana, che Leopardi aveva forse vagheggiato piena e avvincente, appare ora, al giovane osservatore, deprimente e finanche squallida. È significativo quanto riferisce al fratello Carlo in una missiva datata 6 dicembre 1822, a proposito della difficoltà di abbordare le ragazze romane: «Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi. Io ho fatto e fo molti giri per Roma in compagnia di giovani molto belli e ben vestiti. Sono passato spesse volte, con loro, vicinissimo a donne giovani: le quali non hanno mai alzato gli occhi; e si vedeva manifestamente che ciò non era per modestia, ma per pienissima e abituale indifferenza e noncuranza: e tutte le donne che qui s'incontrano sono così. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come, non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi».
Roma o Recanati sono dunque lo stesso, per questo Leopardi deluso per tempo della vita e della società. Contribuisce però a determinare una tale delusione anche il continuo fallimento delle trattative per ottenere un posto di lavoro in città, ora come traduttore di tutti i dialoghi platonici per conto dell'editore De Romanis (lo stesso delle «Effemeridi letterarie» e del «Giornale arcadico»), ora come bibliotecario alla Vaticana. Pesa molto, specie nel fallimento di questa ultima trattativa, anche il fatto che Leopardi non si pieghi a vestire l'abito ecclesiastico (ciò che invece lo agevolerebbe presso gli ambienti papali battuti dallo zio Carlo).
Leopardi torna a Recanati senza riportare, come dicevamo, alcun entusiasmo dalla sua vacanza romana. Si dà anzi ad una solitudine quasi claustrale, pensando e scrivendo continuamente, soprattutto in prosa. La canzone Alla sua donna, del 1823, che costituisce una ferma denuncia della impossibile corrispondenza tra ideale e reale, tra l'attesa di una cosa e la sua manifestazione concreta («Cara beltà che amore / Lunge m'inspiri o nascondendo il viso / […] / Viva mirarti omai / Nulla spene m'avanza», recita il testo), di fatto apre per Leopardi un lungo periodo di non-poesia, che si protrae fino all'aprile del 1828, con rare eccezioni, seppur di livello alto (ci riferiamo ai due testi intitolati Coro di morti, inserito nel '24 nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, ed Epistola al conte Carlo Pepoli, del '26). È circa un lustro interamente dedicato alla riflessione (importante l'incompiuto esperimento del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani, del '23, figlio come Alla sua donna della delusione riportata dal viaggio a Roma, dove si parla della decadenza della nazione italiana rispetto a tutte le altre nazioni europee), alla lettura e messa a punto di una nuova prosa filosofica, quella delle Operette morali, che l'alter ego di Giacomo, Tristano, definirà «un libro di sogni poetici, d'invenzioni e di capricci malinconici» nell'ultima operetta composta, il Dialogo di Tristano e di un amico, risalente al maggio 1831: tale prosa, intonata sui registri del comico e della satira, ricca di fantasia e lirismo, serba vistosi tratti lucianei, ma anche voltairiani (si pensi, ad esempio, a racconti del filosofo francese quali Candide o Micromégas).
I primi cenni al progetto delle Operette morali risale al 1819-1820; la gran parte di esse (venti su venticinque) viene però composta nel corso del 1824. Poche altre operette vengono infatti aggiunte dopo tale anno: Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco (1825); Il Copernico, dialogo (1827); Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827); Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere (1832); Dialogo di Tristano e di un amico (1832). La ricchezza e vastità dei temi filosofici trattati sono enormi: Leopardi sembra voler tradurre gli appunti dello Zibaldone (che, lo ricordiamo, decrescono drasticamente di numero proprio a ridosso dell'anno delle operette, fino quasi a cessare) in un'opera creativa che li ricomprenda e li chiarisca dando un assetto definitivo al proprio 'sistema' filosofico e sociologico. Nelle Operette morali, la condizione di sofferenza dei viventi si estende a tutte le epoche e a tutte le specie (Storia del genere umano, Dialogo della Natura e di un Islandese), la noia si rivela condizione costante e irreparabile della esistenza (Dialogo di Malambruno e Farfarello, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), la società è campo di azione della bête humaine (La scommessa di Prometeo, Detti memorabili di Filippo Ottonieri), il progresso tecnico-scientifico si manifesta in verità uno scadimento graduale nell'infelicità e nella barbarie (Dialogo di Tristano e di un amico) e quello dell'artista, del letterato nella fattispecie, un mestiere inutile e disprezzato, viziato dalla ipocrisia e dalla competizione più disonesta (Il Parini, ovvero Della gloria).
Nel 1825, Leopardi soggiorna a Bologna. Egli ha già da tempo intrecciato con la città felsinea contatti editoriali, pubblicando sue opere presso il Marsigli (per esempio la canzone Ad Angelo Mai, nel 1820) e presso il Nobili (il volume delle Canzoni, nel 1824, il primo libro in cui il Leopardi mostra una fisionomia di poeta pienamente originale e matura), e relazioni d'amicizia, specie con esponenti del côté liberale legati a Giordani (quasi tutti di orientamento classicista) quali Giuseppe Melchiorri e Carlo Pepoli (una recente edizione delle Lettere da Bologna a cura di Pantaleo Palmieri e Paolo Rota ha messo bene in evidenza tali rapporti). Anche a Bologna Leopardi approda con la speranza di ottenere un impiego per conto dello Stato pontificio, di nuovo invano: il governo non approva le sue idee politiche e filosofiche, rese ormai chiare dalle sue Canzoni già circolanti e dalle sue frequentazioni. Prima sfuma per lui la possibilità di diventare segretario dell'Accademia di Belle Arti (con raccomandazione del Bunsen), poi quella di assurgere alla cattedra di eloquenza greca e latina alla Sapienza di Roma o a qualche carica nell'ambito della Vaticana. Sono decisive contro Leopardi le parole che il cardinale Pietro Francesco Galeffi mette per iscritto, sul suo conto, a papa Leone XII (21 novembre 1826): nella relazione del Galeffi, il poeta risulta «molto amico ed intrinseco di persone già note per il loro non savio pensare», e scrittore che ha «fatto trapelare i suoi sentimenti assai favorevoli alle nuove opinioni morali e politiche in certe odi italiane da lui stampate l'anno scorso [in realtà nel 1824, come abbiamo detto] in Bologna». La vicenda personale del Leopardi è dunque tutta un tiremmolla tra raccomandazioni per un impiego, rifiuti, nuove raccomandazioni, nuovi rifiuti, e tra la possibilità di intraprendere la vita ecclesiastica e la fermezza di rimanere integralmente laico.
Leopardi saluta Bologna pubblicando, con la Stamperia delle Muse, i Versi (1826), ovvero i suoi idilli precedentemente composti (quasi tutti avevano già visto la luce sulle pagine del «Nuovo Ricoglitore» di Milano tra '25 e '26), l'Epistola al conte Carlo Pepoli e altri testi. Proprio nell'Epistola Leopardi (vv. 127-142), rivolgendosi all'amico, svela il suo proposito di dedicarsi, in età matura, esclusivamente alla speculazione filosofica:
Or quando al tutto irrigidito e freddo
Questo petto sarà, […]
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch'io riponga
L'ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eterne cose […]
Un aspetto malnoto del Leopardi più maturo è senza dubbio la sua tendenza antipedantesca: Leopardi è consapevole, in forza di una cultura letteraria, filosofica e scientifica pressoché sterminata, che poche cose si possono inventare e ancor meno si possono considerare errate o disdicevoli in assoluto. Sul piano linguistico, ad esempio, egli critica aspramente il Vocabolario degli Accademici della Crusca e tutto il purismo italiano primo-ottocentesco perché troppo indebitamente chiusi su di un canone di scrittori certo e immodificabile e su di un sistema di regole linguistiche rigido e conservativo all'eccesso. Leopardi appartiene – non lo si dimentichi – a quella schiera di classicisti moderati alla Monti o alla Giordani, che riteneva possibile l'ampliamento lessicale della lingua italiana a secoli diversi dal Trecento o dal Cinquecento e a letterature di altri paesi, a patto di conservare sempre e comunque l'«indole della lingua nostra» (come la chiama assai spesso Leopardi), ovvero la quintessenza grammaticale ed espressiva dell'italiano letterario così come si è venuto formando nei grandi testi attraverso i secoli, dal Duecento in avanti. È in virtù di questa apertura mentale che Leopardi, alla scuola puristica di Basilio Puoti, a Napoli, non avrà l'animo di redarguire un giovanissimo Francesco De Sanctis che, parlando di fronte al poeta, giunto in visita nella sua classe, si lascerà sfuggire qualche piccola improprietà linguistica. De Sanctis riporta l'episodio nella Giovinezza: «Parlai una buona mezz'ora, e il conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del marchese, che mi voleva bene. Notai, tra parecchi errori di lingua, un onde con l'infinito. Il marchese faceva sì col capo. Quando ebbi finito, il conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch'io avevo molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente più alla proprietà de' vocaboli che all'eleganza; una osservazione acuta, che più tardi mi venne alla memoria. Disse pure che quell'onde coll'infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o scandalo di tutti noi. Il marchese era affermativo, imperatorio, non pativa contraddizioni. Se alcuno di noi giovani si fosse arrischiato a dir cosa simile, sarebbe andato in tempesta; ma il conte parlava così dolce e modesto, ch'egli non disse verbo. "Nelle cose della lingua, – disse, – si vuole andare molto a rilento", e citava in prova Il Torto e il Diritto del padre Bartoli. "Dire con certezza che di questa o quella parola o costrutto non è alcuno esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile"».
Un esempio di tale antipedantismo leopardiano è la Crestomazia italiana prosastica, cui l'autore lavora per tutto il 1826, pubblicandola l'anno seguente a Milano. La Crestomazia assiepa un insieme alquanto eccentrico di prose scelte da autori italiani di ogni secolo, tali da costituire quasi un anti-canone o – se si preferisce – un nuovo canone della letteratura del nostro paese, classicistico ma, al tempo stesso, palesemente ostile ad ogni ipotesi cruscante o, più in generale, puristica. Alla stessa moderazione critica si ispira anche il magistrale commento ai Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca, apparso l'anno prima della Crestomazia sempre a Milano, nel quale il Leopardi, che nutre verso il grande lirico amore e odio, è capace di spiegare il testo originale con chiose di somma intelligibilità, senza tralasciare il chiarimento di alcun luogo che possa destare dubbi in un lettore poco o mediamente colto.
I soggiorni di Leopardi a Bologna, alternati a ritorni a Recanati o a puntate a Milano, cessano nell'aprile del '27, quando il poeta decide di partire alla volta di Firenze (dove arriva nel giugno del medesimo anno), spinto dal desiderio di conoscere più da vicino la cerchia di intellettuali e letterati dell'«Antologia», una rivista di sentimenti progressisti e liberali fondata e diretta da Giampietro Vieusseux (1779-1863) [http://www.treccani.it/enciclopedia/giovan-pietro-vieusseux_%28L%27Unificazione%29/], un letterato italiano di famiglia ginevrina che si è stabilito a Firenze nel 1819 e che ha aperto, in quella città, un prestigioso Gabinetto scientifico-letterario divenuto immediatamente punto di riferimento culturale per tutta l'intellighenzia moderata. L'«Antologia» (in uscita mensile a Firenze dal 1821 al 1831) ha per condirettore Gino Capponi (1792-1876) [http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Dizionario_Biografico_degli_Italiani/VOL19/DIZIONARIO_BIOGRAFICO_DEGLI_ITALIANI_vol19_009873.xml], pensatore politico mosso da cattolicesimo moderato (altri collaboratori assidui della testata, anch'essi cattolico-liberali, Pietro Colletta [http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Dizionario_Biografico_degli_Italiani/VOL27/DIZIONARIO_BIOGRAFICO_DEGLI_ITALIANI_Vol27_012614.xml] e Niccolò Tommaseo [http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Dizionario_Biografico_degli_Italiani/Italiani_M_Z/Biografie_-_Edicola_Tommaseo.xml]). Pochi mesi prima di entrare in confidenza con l'ambiente dell'«Antologia» e del Gabinetto, Leopardi ha dato alle stampe a Milano la princeps delle Operette morali, il manifesto della sua filosofia negativa, che assieme alle Canzoni e ai Versi va a completare, presso l'opinione pubblica, la sua fama di scrittore pessimista, ateo e anticattolico (e si ponga mente al fatto che a quel tempo è ancora ignoto a tutti lo Zibaldone, con i suoi numerosi pensieri sul «nulla» e sul «male» quali tratti caratteristici dell'essere).
Il trasferimento del poeta a Firenze avviene nel giugno del '27. Si rese però evidente fin da subito che non si sarebbe potuta instaurare alcuna collaborazione continuativa tra il poeta di Recanati e «L'Antologia»: le Operette morali (specie quelle pubblicate proprio nel gennaio 1826 sul numero LXI della rivista, per via delle insistenze di Giordani: Dialogo di Timandro e di Eleandro, Dialogo di Cristoforo Colombo e Pietro Gutierrez, Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare) spostavano troppo Leopardi verso un pessimismo e meccanicismo che non potevano riuscire graditi ai cattolici del circolo Vieusseux. Nel '26, dopo la comparsa sul suo giornale delle tre operette morali, Vieusseux aveva chiesto al poeta, con assoluta cortesia e disponibilità nuove collaborazioni («Più volte», scrive il letterato a Leopardi nella famosa lettera del 1 marzo '26, «ho pensato ad avere per corrispondente un hermite des apennins, che dal fondo del suo romitorio criticherebbe la stessa Antologia, flagellerebbe i nostri pessimi costumi, i nostri metodi di educazione e di pubblica istruzione [...]»), ma questi aveva declinato l'invito con parole molto nette riguardo all'uomo ed alla vita di società: «[...] gli uomini sono a' miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell'universo, e che i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m'interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l'uomo in sé, e similmente i suoi rapporti col resto della natura, dai quali, con tutta la mia solitudine, io non mi posso liberare. Tenete dunque per costante che la mia filosofia (se volete onorarla con questo nome) non è di quel genere che si apprezza ed è gradito in questo secolo; è bensì utile a me stesso, perché mi fa disprezzar la vita e considerar tutte le cose come chimere, e così mi aiuta a sopportar l'esistenza; ma non so quanto possa esser utile alla società, e convenire a chi debba scrivere per un Giornale» (lettera a Vieusseux da Bologna del 4 marzo '26).
Soprattutto il Tommaseo avrebbe fatto bersaglio il Leopardi di aspre critiche, tacciandolo di aver costruito un sistema pessimistico legato a proprie personali malinconie ed infelicità. La stessa bellissima Palinodia rivolta al marchese Capponi, stesa da Leopardi nel 1835 a Napoli e corrispettivo poetico del Dialogo di Tristano e di un amico (del '32, lo ricordiamo), non è che una ennesima presa di distanza del poeta dal côté filosofico dell'«Antologia» fiorentina (Gino Capponi, sia ricordato qui a suo disdoro, a causa della dedica della Palinodia scagliò offese volgari contro l'amico Leopardi, nel proprio carteggio con Vieusseux).
Nel novembre del 1827 inizia un suo breve soggiorno a Pisa, che termina verso la metà del '28. La primavera pisana e il Lungarno della città riportano Leopardi alla poesia, trascurata come prassi abituale dal '23: la prima poesia che stende a Pisa, in strofette assai musicali e cantabili di settenari, si intitola Il Risorgimento, e documenta proprio il gioioso ritorno alla scrittura in versi, che equivale quasi, per il poeta, ad un ritorno alla vita interiore, alla sensiblerie; la seconda è invece A Silvia, un canto misto di endecasillabi e settenari variamente combinati senza alcun obbligo di rima (è questa la struttura della cosiddetta 'canzone libera leopardiana', metro messo a punto dal poeta tra '28 e '31, che prelude alle soluzioni moderatamente libere di una certa linea della poesia novecentesca italiana, esemplata fra gli altri da Montale e dall'Ungaretti successivo all'Allegria). La gaieté del ritorno al verso non segna però alcun cambiamento di posizione nell'ideologia pessimistica dell'autore: A Silvia è infatti un canto terribile, che celebra la morte prematura, per malattia, di una fanciulla (è presumibile si tratti di Teresa Fattorini, la figlia del cocchiere di casa Leopardi), e che sfocia in una recriminazione veemente contro la natura, accusata con esplicitezza di straziare i mortali in modo gratuito e assurdo; si leggano questi pochi versi del canto (vv. 36-39): «O natura, o natura, / Perché non rendi poi / Quel che prometti allor? perché di tanto / Inganni i figli tuoi?» (di lì a non molto, precisamente nel 1829-1830, il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia dirà l'ultima parola sul tema dell'infelicità costitutiva di tutti i viventi coi suoi versi di chiusura, «Forse in qual forma, in quale / Stato che sia, dentro covile o cuna, / È funesto a chi nasce il dì natale»). Si fa largo, però, nel Leopardi, da questo momento in poi, un nuovo 'spirito', combattivo e protestatario, che alla vigilia della morte, a Napoli, lo porterà alla composizione della Ginestra, appunto un inno, rivolto a tutti gli uomini, in cui ciascuno è invitato alla solidarietà verso il prossimo di contro all'anti-umano progetto meccanicistico della natura. Ma ci ritorneremo. Il rientro forzato nella odiata Recanati, sempre nel '28, dovuto sia al fallimento riportato nella ricerca di una propria indipendenza economica sia alle precarie condizioni di salute, spinge inoltre il Leopardi a far emergere, nella sua poesia, sul fondo di questo radicale pessimismo, ricordi di una fanciullezza lontana e rimpianta, luogo di speranze ancora ingenue e amene, come accade nelle Ricordanze, del '29, senza dubbio il massimo risultato della spinta 'idillica' della poesia leopardiana. In questo canto, Leopardi fa un rendiconto della propria vita passata e recente, e si dichiara sconfitto nelle proprie aspettative umane ed artistiche:
O speranze, speranze; ameni inganni
Della mia prima età! sempre, parlando,
Ritorno a voi; che per andar di tempo,
Per variar d'affetti e di pensieri,
Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
Son la gloria e l'onor; diletti e beni
Mero desio; non ha la vita un frutto,
Inutile miseria. E sebben vòti
Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
Il mio stato mortal, poco mi toglie
La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
A voi ripenso, o mie speranze antiche,
Ed a quel caro immaginar mio primo;
Indi riguardo il viver mio sì vile
E sì dolente, e che la morte è quello
Che di cotanta speme oggi m'avanza;
Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
Consolarmi non so del mio destino. (vv. 77-94)
Tuttavia – ed è questo il dato più significativo del testo – la dimensione del ricordo, sebbene amara, diviene per il soggetto quasi un inebriante risarcimento, un segno distintivo dell'anima. La dolcezza della memoria era già stata celebrata da Leopardi in un testo appartenente agli idilli del 1819 (Alla luna). Nelle Ricordanze, il dialogo è non più col satellite lunare ma con le «Vaghe stelle dell'Orsa», ammirate «sul paterno giardino scintillanti»; identico all'idillio del '19 è, anche nel canto di dieci anni dopo, l'elogio del ricordare, ovvero di quello scatto intellettivo capace di restituire al presente una nuova densità di senso:
Viene il vento recando il suon dell'ora
Della torre del borgo. Era conforto
Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin. Qui non è cosa
Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. (vv. 50-57)
Nonostante la chiarificazione, subito susseguente, che tale «rimembrar» è «dolce per sé» ma non basta a far sì che non ricominci «con dolor [...] / Il pensier del presente, un van desio / Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui», risulta chiaro dal canto che Leopardi ha qui trovato una nuova strada per la poesia italiana a venire del secondo Ottocento (basti qui fare il nome di Giovanni Pascoli, con liriche quali L'aquilone o Il vischio) e del Novecento (Saba, Ungaretti, Montale, Pasolini, Quasimodo ecc., tutti poeti nutritisi alle fonti leopardiane).
È grazie agli intellettuali dell'«Antologia» che Leopardi riesce a uscire – stavolta definitivamente – dalla cittadina natale, per tornare alla volta di Firenze (1830). Per interessamento di Pietro Colletta, infatti, molti letterati del Gabinetto Vieusseux effettuarono una sottoscrizione in denaro (bastevole per un anno di permanenza fuori da Recanati in completa autonomia) a vantaggio del poeta, il quale manifestò la propria profonda riconoscenza con la dedica del suo capolavoro, i Canti (stampato presso l'editore fiorentino Guglielmo Piatti nel 1831), Agli amici di Toscana, che però si presenta anche, al tempo stesso, come un preannuncio di morte e di abbandono dell'attività letteraria. Vale la pena leggere qualche lacerto di tale dedica: «Sia dedicato a voi questo libro, dove io cercava, come si cerca spesso colla poesia, di consacrare il mio dolore, e col quale al presente (né posso già dirlo senza lacrime) prendo comiato dalle lettere e dagli studi. [...] Ho perduto tutto: sono un tronco che sente e pena». Come possiamo evincere anche da queste parole, il rapporto tra Leopardi, «L'Antologia» e i suoi fautori appare impossibile nel dicembre del '30 non meno di quanto sia apparso nel '26, quando il Leopardi e il Vieusseux incominciarono a scambiarsi le loro prime lettere. Nonostante la profonda e sincera gratitudine verso quelli che considera con trasporto «amici», Leopardi si sente maggiormente attratto dalla figura discussa del napoletano Antonio Ranieri, futuro deputato e senatore dell'Italia unita. I due avevano già avuto modo di conoscersi a Firenze nel giugno del '27, ma solo dal settembre del '30 rinsaldano una forte amicizia, che li porterà ad allontanarsi insieme dalla città sull'Arno, nel settembre dell'anno successivo (vi torneranno per un breve tempo nel marzo del '32), alla volta prima di Roma e poi di Napoli (dove giungeranno il 2 ottobre 1833). Tale amicizia è stata oggetto di accesi dibattiti e controversie, che non si possono qui neppure sfiorare per sommi capi (in particolare, ambiguo è sembrato il memoriale di questa amicizia stilato nel 1880 dal Ranieri col titolo Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi). Tuttavia, è assai probabile che Leopardi sia rimasto affascinato dalla risolutezza di Ranieri come idealista, liberale ma vicino al pessimismo ateo del poeta, e come uomo di mondo, esperto delle donne e della vita (a Roma, nel settembre 1831, Ranieri e Leopardi si recano per inseguire la donna amata dal primo, Maria Maddalena Signorini Pelzet). Non occorre scomodare letture psicoanalitiche per comprendere come Leopardi avvertisse in Ranieri il suo completamento, quasi la sua parte mancante o fallita di viveur e di amante riamato dall'altro sesso. E ciò sia detto senza nulla togliere al Ranieri, amico leale e pregiato, che si prodigò ad assistere, nell'ambiente più caldo e affettuoso, il Leopardi – verso il quale nutriva una stima grandissima – negli ultimi momenti della sua esistenza.
Proprio negli anni in cui Leopardi si associa a Ranieri, è acceso in lui l'amore per una nobildonna fiorentina, presentatagli da Alessandro Poerio nel maggio del 1830: costei è Fanny Targioni Tozzetti, moglie del naturalista Antonio Targioni Tozzetti (morto nel 1856). Leopardi se ne innamora, provando dopo molti anni un sentimento di cui si credeva oramai incapace, e pensa, fuorviato non da ultimo dal comportamento assai disponibile di lei, di essere corrisposto. Fanny invece non fa altro che assecondare il corteggiamento del conte recanatese per ottenere la sua considerazione di verseggiatore: egli infatti le dedica – sebbene senza renderlo esplicito – vari testi, fra '31 e '32, che parlano di un amore puro e devotissimo, e che vengono solitamente ricompresi dagli interpreti, assieme ad altri del '33, sotto l'etichetta di 'ciclo di Aspasia' (dal titolo dell'ultimo componimento fra essi in ordine cronologico, Aspasia appunto). In tali primi testi del 'ciclo' (Il pensiero dominante, Consalvo, Amore e Morte), Fanny figura come una forma angelica, che richiama a tratti certe toniche dello stilnovismo dantesco o cavalcantiano. Leopardi recupera qui una fiducia autentica nell'amore fra uomo e donna, e, in special modo, nella potenza consolatrice che esso ha, e che differenzia gli uomini dal resto della natura. Ecco alcune considerazioni contenute nel Pensiero dominante (vv. 71-87):
[...] qual altro affetto
Se non quell'uno intra i mortali ha sede?
Avarizia, superbia, odio, disdegno,
Studio d'onor, di regno,
Che sono altro che voglie
Al paragon di lui? Solo un affetto
Vive tra noi: quest'uno,
Prepotente signore,
Dieder l'eterne leggi all'uman core.
Pregio non ha, non ha ragion la vita
Se non per lui, per lui ch'all'uomo è tutto;
Sola discolpa al fato,
Che noi mortali in terra
Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo per cui talvolta,
Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte è più gentile.
Ma non appena l'amore per Fanny si eclissa miseramente, questa spinta vitale di Leopardi verso la tematica amorosa si smorza e, lentamente, si esaurisce, per ridare luogo al pessimismo sconsolato di Aspasia, dove Fanny è ormai trattata alla stregua della etèra preferita da Pericle («dotta / Allettatrice», è definita ai vv. 20-21 del canto), e di A se stesso, dove il poeta, mediante una geniale allocuzione al proprio cuore (che non sarà indifferente a un poeta successivo, il Carducci di Nevicata), dichiara di riporre per sempre ogni passione, per terminare la propria vita in una assoluta atarassìa:
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. [...]
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
(A se stesso, vv. 1-10)
Bisogna però prestare la massima attenzione a non equivocare questi risultati della poesia leopardiana: essi infatti non vanno intesi come 'sfoghi' seguenti a insoddisfazioni personali, ma come snodi di una riflessione complessa sulla macchina naturale che parte, montaignanamente, dal punto di osservazione privilegiato della propria individua esperienza. Nel 'ciclo di Aspasia' si trova ben più che una recriminazione verso una nobildonna fiorentina ingannevole, per dir così 'doppia': in esso di trova piuttosto un ulteriore sviluppo di un sistema filosofico che intende ormai l'amore fra esseri umani come puro e umiliante inganno della natura, forse finalizzato alla realizzazione dei suoi misteriosi decreti, che può essere visto, in un certo qual modo, come precorrimento della schopenhaueriana teoria della Voluntas, la spinta naturale alla riproduzione, cui il soggetto-vittima deve contrastare con la pulsione opposta, detta Noluntas, la negazione di sé e del proprio essere (che può ben trovarsi preconizzata nelle righe di A se stesso che seguono, sempre indirizzate dal poeta al proprio cuore: «Omai disprezza / Te, la natura, il brutto / Poter che, ascoso, a comun danno impera, / E l'infinita vanità del tutto»).
Napoli fu l'ultima città ad ospitare Leopardi. In essa si agitavano forze intellettuali affatto simili alle fiorentine, cattolico-liberali, come quelle che animavano la rivista «Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti», una sorta di «Antologia» partenopea creata dal mazziniano Giuseppe Ricciardi: alla rivista collaboravano, tra gli altri, i fratelli Michele e Saverio Baldacchini, Luigi Blanch, Matteo De Augustinis, Luca de Samuele Cagnazzi. Da questo ceto napoletano il poeta venne però ostracizzato, a differenza di quanto era avvenuto con la cerchia del Vieusseux, la quale si era mostrata più aperta a discutere, pur nella diversità, le istanze dell'opera leopardiana. Contro i suoi nuovi avversari il poeta scaricò il capitolo satirico in terza rima intitolato I nuovi credenti, steso fra 1835 e 1836, nel quale attaccava senza riserve lo sciocco ottimismo dei suoi detrattori, incapaci di affrontare a testa alta la terribile verità dell'esistere. Scriveva lì Leopardi:
S'arma Napoli a gara alla difesa
De' maccheroni suoi; ch'ai maccheroni
Anteposto il morir, troppo le pesa.
E comprender non sa, quando son buoni,
Come per virtù lor non sien felici
Borghi, terre, provincie e nazioni.
Nel capitolo, sotto falsi nomi classici, il poeta elencava uno per uno tutti i suoi bersagli, secondo un procedimento burlesco che poteva ricordare la poesia del Berni.
Durante questo periodo importante (ricordiamo che Leopardi a Napoli procedette, nel '35, alla seconda edizione dei suoi Canti, presso lo Starita, con aggiunta di tutti i canti del cosiddetto 'ciclo di Aspasia', delle 'sepolcrali' Sopra un basso rilievo e Sopra il ritratto di una bella donna, della già ricordata Palinodia al marchese Gino Capponi e del Passero solitario), il poeta visse come emarginato dalla comunità degli studiosi: le sole amicizie che lo allietarono furono quella di August von Platen-Hallermünde, un pregevole poeta e drammaturgo tedesco stimato da Goethe e poi assunto da Thomas Mann a modello per il Gustav von Aschenbach della Morte a Venezia, oltre, naturalmente, a quella di Ranieri. A Napoli, poi, dette grande amarezza al Leopardi il blocco – dovuto alla censura borbonica, filo-papale – della seconda edizione, che doveva essere ampliata al Copernico, al Dialogo di Plotino e di Porfirio e al Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco, delle Operette morali. Tale blocco non deve lasciare stupiti, ove si considerino anche soltanto le giunte su menzionate al corpus delle Operette già note: il Copernico era una sconfessione dell'antropocentrismo; il Plotino-Porfirio del perdurare dell'anima dopo la morte e, in genere, dell'aldilà giudaico-cristiano; il Frammento apocrifo dell'esistenza di Dio e della Provvidenza dietro la Natura.
L'ultimo scorcio della vita del Leopardi si rivela, a dispetto di un drammatico stato di salute, pregno di progetti e sorprendenti realizzazioni. Ci riferiamo ad esempio ai Paralipomeni della Batracomiomachia, un poema narrativo in otto canti in ottave, steso fra il 1831 e il 1836, che ha per modello gli Animali parlanti del Casti [http://www.treccani.it/Portale/elements/categoriesItems.jsp?pathFile=/sites/default/BancaDati/Dizionario_Biografico_degli_Italiani/VOL22/DIZIONARIO_BIOGRAFICO_DEGLI_ITALIANI_Vol22_010947.xml]; l'opera, cui il poeta sovrintende fino agli ultimi giorni di vita, dietro la ripresa del racconto omerico della guerra tra i Topi e le Rane, nasconde un doppio senso politico che si palesa man mano: i Topi corrispondono con tutta probabilità agli esponenti del partito liberale italiano, le Rane ai legittimisti pontifici, i Granchi agli Austriaci (o agli austriacanti). Il poema mette in ridere tutti i suoi attori, indifferentemente, ma non va inteso come un pamphlet anti-risorgimentale: Leopardi in esso prende atto della sconfitta dei primi progetti di liberazione nazionale rappresentati dai tragici moti degli anni Venti e Trenta e sembra alludere al fatto che alla base di tali fallimenti sia stata una ideologia troppo poco concreta, mancante cioè della Realpolitik necessaria, invece, a raggiungere anche i più alti scopi istituzionali. Per Leopardi il primo passo per una riforma politica dell'Italia consiste in una presa di coscienza delle storture della nostra società di primo Ottocento, dei limiti culturali e morali in cui si trovano imprigionati sia il ceto plebeo sia quello patrizio del nostro paese. Proprio ad una riflessione radicale sul costume degli Italiani (direi prima ancora che sugli uomini in genere) sono destinati i Pensieri, aforismi quasi sempre piuttosto lunghi, composti fra 1832 e 1836 e legati per lo più a pagine dello Zibaldone. Nei suoi Pensieri, rimasti inediti in vita dell'autore, Leopardi raggiunge uno dei vertici del genere aforisma nella tradizione italiana, e focalizza in modo indelebile quello che egli chiama fin dal '29, «machiavellismo di società», ovvero quella lotta continua e senza quartiere di tutti contro tutti, per la sopravvivenza propria e la sopraffazione egoistica dell'altro. Si legga a mo' d'esempio questo solo pensiero CI, in cui Leopardi descrive le dinamiche sociali sotto la specie di quelle fisiche: «[…] La società degli uomini è simile ai fluidi; ogni molecola dei quali, o globetto, premendo fortemente i vicini di sotto e di sopra e da tutti i lati, e per mezzo di quelli i lontani, ed essendo ripremuto nella stessa guisa, se in qualche posto il resistere e il risospingere diventa minore, non passa un attimo, che, concorrendo verso colà a furia tutta la mole del fluido, quel posto è occupato da globetti nuovi».
A questa presa di coscienza della realtà effettuale della società umana fa però seguito inaspettatamente, nel Leopardi napoletano, un invito, esteso a tutta la comunità degli uomini, a volgere le proprie pulsioni negative ed egoistiche ad una difesa collettiva contro la natura, vera nemica giurata di tutti i singoli. L'invito – che non potrà non essere scambiato per un testamento spirituale – viene formulato nei versi di una canzone libera molto estesa, La ginestra o Il fiore del deserto, scritta nel 1836 alle pendici del Vesuvio, nella villa di un cognato di Ranieri, mentre Napoli è devastata da un'epidemia di colera. Di fronte allo spettacolo miserando di quella ecatombe, e, insieme, di fronte alla rovine antiche (scoperte nel Settecento) di Pompei, sommersa nel 79 d. C. dalla lava del vulcano, Leopardi vuole reagire con una speranza: vedere tutti gli esseri umani stretti in una «social catena» di mutuo soccorso che superi le differenze particolari e le assurde inimicizie reciproche fra singoli e, perfino, fra popoli. Ecco parte del testo:
Nobil natura è quella
Che a sollevar s'ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire
Fraterne, ancor più gravi
D'ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l'uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L'umana compagnia,
Tutti fra sé confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. (vv. 111-135)
Sembra essere questo, dunque, il frutto della amara filosofia leopardiana, la scelta di un atteggiamento 'eroico' (come ebbe a definirlo il critico Walter Binni) che invita alla protesta contro l'ingiusta condizione umana e alla fattiva costruzione di un'umanità più stretta e solidale, di una fratellanza universale che anche Schiller, nel poema An die Freunde, musicato da Ludwig van Beethoven nella Nona Sinfonia, invocava.
Leopardi morì il 14 giugno 1837.
Testi
Leopardi G., Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano 1991, 3 voll.
Id., Epistolario, a cura di F. Brioschi e P. Landi, Bollati Boringhieri, Torino 1998, 2 voll.
Id., Poesie e prose, a cura di R. Damiani e M. A. Rigoni, Mondadori, Milano 19987, 2 voll. (1a ed. 1987-88, vol. I: Poesie, a cura di M. A. Rigoni, 1987; vol. II: Prose, a cura di R. Damiani, 1988).
Id., Zibaldone, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 19992, 3 voll. (1a ed. 1997).
Id., Canti, a cura di U. Dotti, Feltrinelli, Milano 20065 (1a ed. 1993).
Id., Lettere, a cura di R. Damiani, Mondadori, Milano 2006.
Id., Operette morali, a cura di L. Melosi, Rizzoli, Milano 2008.
Id., Canti, a cura di F. Bandini, Garzanti, Milano 201024 (1a ed. 1975).
Id., Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, a cura di L. Felici ed E. Trevi, ed. integrale dir. da L. Felici, Newton Compton, Roma 20102 (1a ed. 1997).
Id., Canti, a cura di A. Campana, Roma, Carocci, 2014.
Studi
Atti dei Convegni internazionali di studi leopardiani di Recanati, Olschki, Firenze 1962-2010, 12 voll.
Binni W. (1947), La nuova poetica leopardiana, Sansoni, Firenze.
Id. (1973), La protesta di Leopardi, Sansoni, Firenze.
Blasucci L. (1985), Leopardi e i segnali dell'infinito, il Mulino, Bologna.
Id. (2011), I titoli dei "Canti" e altri studi leopardiani, Marsilio, Venezia (1a ed. 1989).
Damiani R. (1998), All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi, Mondadori, Milano.
Id., Romano E. (1993), Album Leopardi, Mondadori, Milano.
Maglione A. (a cura di) (2003), Lectura leopardiana: i quarantuno "Canti" e "I nuovi credenti", Marsilio, Venezia.
Ranieri A. (2005), Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, SE, Milano.