Alessandro Montevecchi - Tra profezia e storia: la Firenze della restaurazione medicea

               

         Qualcosa si spezza per sempre nel grande pensiero politico fiorentino e italiano dopo il definitivo trionfo dei Medici nel 1530. Le «mutazioni» precedenti di Firenze non erano mancate, non erano mancati i bruschi capovolgimenti, che avevano permesso alla vecchia repubblica di risorgere, in apparenza uguale, in realtà geneticamente cambiata nella classe dirigente e nelle capacità politiche. Ma solo dopo il 1530, e in parte anche prima, nel 1519, con la morte di Lorenzo de’ Medici il giovane (il dedicatario del Principe, come è noto), assume un carattere particolarmente teso e divaricato la discussione, che si apre fra politici, intellettuali e storici o semplici cittadini (con testi di vario genere, ampiezza e valore) circa lo «stato» più conveniente da conferire alla città, su come sia possibile conciliare la ormai probabile restaurazione medicea con la residua salvaguardia del «viver civile», cioè dei costumi e delle apparenze sociali che erano stati propri della città repubblicana, pur in un contesto destinato inesorabilmente a ridurle a vuoto simbolo o liquidarle del tutto.1 Il dibattito finirà quasi sempre per smarrire il valore dialettico della lotta sociale e politica, la sua tragica necessità di scegliere fra ideali e criteri diversi e anche opposti, ipotesi ugualmente pericolose e “dannate”, finirà insomma per dividersi tra due posizioni egualmente impolitiche e astoriche: quasi una “forbice” fra un ottuso e impotente adattarsi alla situazione di potere esistente, non valutata ma accettata passivamente, da un lato, e dall’altro il lungo rimpianto2 della repubblica, la lunga ombra del profetismo di matrice savonaroliana che non cessa di costituire un motivo di ispirazione per molti repubblicani, anche dopo anni e lustri di dominio mediceo. 

         Il presente lavoro non si propone di esaminare le soluzioni istituzionali di volta in volta proposte dai singoli intellettuali o politici, bensì di cercar di stabilire se in questi testi si istituisca un rapporto con il sapere storico fondato su di un riferimento al passato – sia recente sia classico – come termine di confronto esemplare o anche critico con la realtà attuale, oppure il rigetto puramente empirico di un tale sapere. Mentre non mancano da un lato gli appelli retorici (anch’essi sganciati dalla «verità effettuale») ad un repubblicanesimo astratto di ispirazione classica, dall’altro lato i bruschi richiami alla necessità di adattarsi comunque alla situazione esistente non vanno confusi con la machiavelliana necessità di accettare la «verità effettuale» o di «variare co’ tempi», ma comportano un’adesione al potere fondata su un opportunismo politicamente e storicamente cieco. In un caso e nell’altro la situazione di sconfitta incombente o già avvenuta fa sì che gli elementi di un sapere politico ancora storicamente fondato (con fattori come l’analogia col passato o l’identificazione di figure e azioni esemplari), siano resi inoperanti, cioè privati della forza di un progetto, perché in effetti si riferiscono a qualcosa che “doveva” o “poteva” essere fatto, ad una realtà non più attuabile, ad una storia ormai finita. 

         Come si potrà notare, i vari interventi che esamineremo si riferiscono a momenti storici diversi: ci si potrebbe quindi obiettare che di queste singole situazioni si dovesse tener conto, e non delle valutazioni e dei contenuti ideologici come abbiamo fatto. Riteniamo però che sia giustificata un’analisi non delle soluzioni pratiche progettate (che certo mutano nelle diverse condizioni), bensì di certe “costanti” come la riflessione critica sul passato, l’attenzione per gli “umori” popolari e per gli aspetti immateriali del potere (come il prestigio, il rapporto tra forza e consenso, etc.). Perciò abbiamo esaminato i vari testi secondo questi orientamenti generali e non seguendo le frequenti “mutazioni”.

I)             Il Discursus di Machiavelli

Del Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices  si sono già fatte molte letture. Per gli scopi della presente analisi basterà qui notare che Machiavelli tenta una risposta tutta politica al problema che si è posto, evitando sia la mera accettazione dell’esistente (che comporterebbe l’etica del “minor male”), sia progetti irrealizzabili. Egli sembra piuttosto voler tracciare un piano tutto fondato su mediazioni politiche: e la risposta non può che venire dalla storia, cioè dall’analisi delle “mutazioni” della città e dei vari tipi di “stato” che si sono succeduti. Queste “mutazioni” sono derivate dal fatto che la città non è mai riuscita a consolidarsi in una struttura repubblicana o in un principato che avessero le «debite qualità sue»3. Fin dall’inizio dell’opera appare fondamentale non la ricerca di una struttura (come lo “stato misto”) geometricamente perfetta ed equilibrata, ma di un sistema politico agile, tutto calibrato sugli «umori», sulle esigenze e i bisogni sia dei «grandi» che del popolo4. Le mutazioni principali (tappe e manifestazioni di questo squilibrio politico e insieme antropico sempre mancato) sono così identificate. Nel 1393, col gonfalonierato di Maso degli Albizzi ci fu una repubblica dominata dagli ottimati. Questo modello resistette per 40 anni, e per M. sarebbe durato molto meno se non ci fosse stata da affrontare la sfida esterna dei Visconti. Le cause dell’instabilità si spiegano prevalentemente con l’antropologia pessimistica di M.: la «fraude» penetra dovunque, gli uomini buoni diventano «tristi», i grandi si dividono in sètte che «sono la rovina di uno stato», infine il governo mancava di «riputazione». Di là dalla ricerca di un sistema di governo astrattamente “perfetto”, fatto di garanzie reciproche e di contrappesi, a dominare il quadro sono sia la natura umana (invidie, egoismi, cupidigia), sia gli elementi immateriali del potere («reputazione», «umori») (p. 208). Inoltre il livello pubblico, quindi tendenzialmente legalitario e imparziale, delle magistrature cittadine è continuamente messo a repentaglio dal prepotere e dall’invidia dei privati, che sottraggono così «reputazione» ai magistrati. Infine il governo ottimatizio impediva al «popolo» di avere «dentro la parte sua»: dove si vede che M. è contro la miscela letale di pubblico e privato, perché con quest’ultimo termine egli intende i grandi e l’impedimento che essi pongono alla piena condivisione del potere da parte dei cittadini5. Ha invece meglio rappresentato il popolo (beninteso nel senso limitato che questa parola aveva a Firenze) il secondo modello, quello costituito dal potere di Cosimo il Vecchio (1434), che peraltro tendeva più al principato che alla repubblica ed inoltre godeva sia del sostegno popolare, sia delle qualità eccezionali («prudenza») di Cosimo e Lorenzo il Magnifico – e ancora una volta è la persona con le sue qualità a decidere. La signoria medicea è interrotta dall’intervento in Italia di Carlo VIII (1494); le subentra una repubblica, che però non è fatta per essere «durabile» poiché non può soddisfare gli «umori» dei cittadini (p. 209), né li può punire. Questa repubblica non trovò di meglio per stabilizzarsi che eleggere un gonfaloniere a vita, Pier Soderini, sotto il quale sappiamo che M. servì lo stato come segretario della seconda Cancelleria. Ma un tale personaggio, rileva ora lo scrittore con una sua tipica formula dilemmatica, se fosse stato buono, sarebbe stato inetto e inerme, se «tristo» poteva farsi facilmente principe. Dopo aver diplomaticamente evitato di parlare del regime mediceo restaurato dal 1512 (è «cosa fresca»), ma anche di una figura che altrove è attentamente studiata, come Girolamo Savonarola6, M. si accinge a presentare il suo progetto di governo al papa Leone X (Giovanni de’ Medici). Senza entrare nei particolari delle soluzioni istituzionali proposte, qui preme rilevare – come hanno già fatto molti interpreti7 – il repubblicanesimo di M. Opponendosi ad altri numerosi consiglieri o cortigiani dei Medici, che esamineremo, M. è contrario ad una pura restaurazione del quasi-principato fondato da Cosimo il Vecchio. Quello stato aveva per amico l’«universale», ora l’avrebbe ostile. I primi Medici osservavano il «viver civile», ora, divenuti così «grandiۛ», non potrebbero (pp. 210-211). Infine una struttura precaria, in continuo bilico fra signoria (o addirittura principato) e apparenze repubblicane, non darebbe le necessarie garanzie di stabilità, e nemmeno sarebbe possibile ricorrere alle alchimie di uno stato coi i vari ordini (“popolo”, aristocrazia, monarchia) equamente rappresentati (“stato misto”). Anche se alla fine M. propone qualcosa di somigliante, questo avviene solo dopo che è stata una volta fissata chiaramente una netta dicotomia fra repubblica e principato che tenga conto direttamente della particolare struttura sociale della città. Occorre o «vero principato» o «vera repubblica», ogni altra soluzione è «instabile», malferma, né potrebbe trovare un sicuro ancoraggio nei rapporti – sempre problematici – con le potenze straniere, come dimostrano gli esempi, subito evocati con la consueta tecnica dell’analogia, della disfatta di Ludovico il Moro e Federico d’Aragona ad opera di Luigi XII di Francia (p. 212). Riprendendo le valutazioni già fatte in altre opere8, M. ribadisce che il principato esige grande «inequalità» di cittadini, si fonda sull’esistenza di una casta di nobili («gentiluomini») come a Milano, mentre a Firenze c’è grande «equalità» e, per spezzarla, occorrerebbe creare dei «nobili di castella e ville» che aiuterebbero il principe (il quale da solo non potrebbe reggersi) a tenere «suffocata» la città: ed è proprio questo il consiglio che i più conservatori daranno ai Medici. Ad esempio, a Milano, dice lo scrittore stabilendo un chiaro parallelismo, per creare una repubblica si dovrebbe sopprimere la nobiltà, a Firenze si dovrebbe fare o tentare l’opposto. E qui emerge il genuino spirito repubblicano9 di M., pur attraverso le formule diplomatiche usate per rassicurare e convincere il pontefice:

Ma perché fare principato dove starebbe bene repubblica, e repubblica dove starebbe bene principato, è cosa difficile, inumana e indegna di qualunque desidera essere tenuto pietoso e buono, io lascerò il ragionare più del principato, e parlerò della repubblica; sì perché Firenze è subietto attissimo da pigliare questa forma, sì perché s’intende la Santità Vostra dispostissima; e si crede che ella differisca il farlo, perché quella desiderarebbe trovare un ordine dove l’autorità sua rimanesse in Firenze grande, e gli amici vi vivessero securi.

 

Il papa non deve temere il disordine e che la sua autorità sia manomessa, né deve farsi dominare dalla paura del nuovo e dei cambiamenti, poiché alla fine la sua autorità sarà maggiore in un ordinamento del tutto rinnovato, anziché in uno che conservi qualcosa del vecchio. Anzitutto bisogna partire dalle «tre diverse qualità di uomini» che esistono in Firenze e che non creano un contrasto con la «equalità» già enunciata dei cittadini, ma esigono la costituzione di diverse (e diversamente graduate) magistrature. Non descriveremo qui tutte le istituzioni che M. propone, basti rilevare quale importanza sia attribuita agli «umori», alle aspettative e, si vorrebbe dire, agli aspetti psicologici della vita pubblica. Le persone «di animo elevato» vogliono vedere «satisfatto» il loro desiderio di ottenere un riconoscimento adeguato delle loro capacità, e così avviene per le altre due categorie (p. 214). Il potere deve essere comunque del tutto pubblico, altrimenti il privato insoddisfatto cercherà altri mezzi per imporsi e sarà un nemico del pubblico bene (p. 216).

Resta ora satisfare al terzo et ultimo grado degli uomini, il quale è tutta la universalità dei cittadini: a’ quali non si satisferà mai (e chi crede altrimente non è savio), se non si rende loro o prometter di render la loro autorità.

 

Qui gli elementi psicologici, immateriali e perfino simbolici del potere hanno la prevalenza. Bisogna riaprire la Sala del Consiglio Grande, l’«universale» deve essere soddisfatto, altrimenti non si farà nessuna repubblica (p. 217). Il sistema così disegnato («ordinare così lo stato») esiste però in funzione del papa mediceo e del cardinale Giulio de’Medici. Cosa accadrà dopo la loro scomparsa? Si delineano semplicemente due ipotesi: una è quella di uno stato perfettamente equilibrato, stabile grazie a meccanismo fissi e durevoli di garanzia e di contrappeso, ma tale ipotesi è in contrasto – anche se non nettamente esplicitato – con la concezione di M. secondo cui non è possibile uno stato durevole senza conflitti, senza soddisfare «umori» che possono anche cambiare, ponendo esigenze e bisogni nuovi. Il popolo non può non avere un ruolo da protagonista in tali conflitti. Per questo lo scrittore propone un sistema di magistrature che possa recepire i ricorsi e le accuse10, soprattutto per punire se necessario i “grandi” e impedire che il privato usurpi ciò che deve essere pubblico. Egli perciò delinea uno stato repubblicano che diviene de facto una monarchia vivendo il papa e il cardinale, ma poi riprenderà, dopo la loro scomparsa, forma di repubblica. (pp. 218-220). Come ribadisce nella sua conclusione, il pontefice e il cardinale dovranno guardarsi intanto dalle petulanze dei cittadini, dalle proposte unilaterali di «allargare» o «stringere» lo stato senza un chiaro criterio. Il rischio gravissimo è quello che si faccia strada un «capo tumultuario» che si imponga con la violenza, oppure che venga riaperta senza alcun contrappeso istituzionale la «sala del Consiglio»: una parte della città sarebbe così data «in preda all’altra», con conseguenze cruente e feroci (p.222):

 

Né ci è altra via da fuggire questi mali, che fare in modo che gli ordini della città per loro medesimi possino stare fermi; e staranno sempre fermi quando ciascheduno vi averà sopra le mani; e quando ciascuno saperrà quello ch’egli abbia a fare, e in che modo gli abbi a confidare; e che nessuno grado di cittadino, o per paura di sé o per ambizione, abbi a desiderare innovazione.

 

Ordini fermi, dunque, ma non statici11, poiché ognuno dei cittadini potrà e dovrà avere nelle sue mani una parte ben delimitata di potere, evitando di cercare una innovazione che sarebbe drastica e unilaterale: che in questo caso non significherebbe un «riscontro» alle mutevoli circostanze, ma la sovversione caotica e arbitraria dello stato. Con queste parole si conclude l’opera, attraverso un’argomentazione del tutto razionale, che però in precedenza, a proposito della necessità di rifondare lo stato, ha dovuto far appello a considerazioni fortemente emozionali, fondate sull’aspirazione umanistica alla gloria e all’onore. Questo avviene anche in altri punti nodali della strategia dimostrativa ed esortativa di M.12: se nel Principe i personaggi dotati di questa potenza creativa, gli introduttori di nuovi ordini (come Mosè, Ciro, Teseo, Romolo, Numa Pompilio) avevano assunto addirittura una statura religiosa apparendo come esseri superiori13, qui il tono solenne di certezza profetica può apparire sproporzionato rispetto alla relativa modestia dei protagonisti e della situazione da gestire, e costituisce una evidente cesura anche stilistica nel contesto raziocinante e mediato dello scritto. M. vi ricorre perché ritiene evidentemente di dover convincere i suoi interlocutori non solo con lo stretto raziocinio politico, ma anche facendo ricorso alle risorse di un’alta retorica civile, intrisa di motivazioni etico-religiose. Si tratta per il papa e il cardinale di costruire un ordinamento che possa reggere anche dopo la loro scomparsa, di compiere un’opera che sia aere perennius:

 

Io credo che il maggiore onore che possono avere gli uomini sia quello che voluntariamente è loro dato dalla loro patria: credo che il maggiore bene che si faccia, e il più grato a Dio, sia quello che si fa alla sua patria. Oltra di questo, non è esaltato alcuno uomo tanto in alcuna sua azione, quanto sono quegli che hanno con leggi e con istituti reformato le repubbliche e i regni: questi sono, dopo quegli che sono stati Iddii, i primi laudati. […] Non dà, adunque, il cielo maggiore dono ad uno uomo, né gli può mostrare più gloriosa via di questa. E infra tante felicità che ha dato Iddio alla casa vostra e alla persona di Vostra Santità, è questa la maggiore, di darle potenza e subietto da farsi immortale, e superare di lunga per questa via, la paterna e la avita gloria.

 

Ma il papa, come è noto, seguì altri consigli e il tentativo di M. riuscì «inane» (Bertelli), come è stato osservato in sede storica, per l’insufficienza sia dei magnati sia di un ceto medio che potesse prenderne il posto. I “grandi” scompaiono come classe dirigente e non vengono sostituiti. Non restava allora altra soluzione dal principato, con la conseguente trasformazione dei cittadini in sudditi.

         Esamineremo questo passaggio attraverso l’analisi dei testi più significativi, che si muovono fra il mito di una florentina libertas da preservare nelle mutate condizioni, da un lato, e dall’altro il piatto adattamento14 ad una realtà dove non c’è più un bel nulla da progettare perché la situazione è già decisa una volta per tutte dal potere mediceo, o addirittura da Roma, Parigi o Madrid. 

II)           I moderati – Niccolò Guicciardini.

Niccolò Guicciardini15 è autore di ben quattro interventi circa il passaggio dalla repubblica al principato mediceo. Il primo, ampio e anche prolisso, si può collocare nel 1518-1916, quando ancora viveva il duca Lorenzo. Lo scritto inizia con una epistola forse rivolta al padre, che vuol essere una sorta di giustificazione del testo seguente. Con un linguaggio alquanto sentenzioso, fissato su termini etici rigidi (come: meritare «laude» o «poca laude», agire e non agire, azione e discorso), egli afferma che non è «laudevole» consumare tutto il tempo a discorrere senza agire, mentre «scrivere» e «discorrere» può essere utile per «sapere commodamente et meglio le cose quando è bisogno trattare». Egli, che non può ancora operare per la giovane età17 o per altra causa, spera di meritare «non poca laude» trattando ciò che si possa fare «quando el tempo et la occasione» glielo concedano. Afferma di essere stato persuaso dal padre a descrivere e valutare «che fine debba havere lo stato de’ Signori Medici in Firenze», cosa che ritiene estremamente difficile. Dopo questo lungo preambolo G. imposta però la questione in modo robustamente storico, partendo dal 1512 per collegare razionalmente fra loro le varie mutazioni della città18 e tracciare un quadro di instabilità e precarietà, non dissimile inizialmente da quello tracciato da Machiavelli. L’autore ricorda rapidamente l’intervento di Carlo VIII, il crollo del potere di Piero de’ Medici e la perdita di Pisa e, con ciò, della «riputazione et gloria» di Firenze. Menziona poi il gonfalonierato di Pier Soderini, ma non rilevando (a differenza di Machiavelli) la contraddizione insita in una tale carica vitalizia, diffondendosi invece sui limiti ed errori del gonfaloniere e accusandolo di essersi appoggiato alla «plebe» mentre aveva ostili i grandi. Ma il più grave errore è stato commesso in politica estera, quando Soderini si è opposto al papa Giulio II (aiutato dalla «fortuna») e si è alleato con la Francia, determinando così la sconfitta del 1512 (pp. 365-367). Dopo quella data si poneva il problema della restaurazione medicea. Non erano più i tempi di Lorenzo il Magnifico, che aveva rispettato le forme del “viver civile”, ma ci si poteva almeno aspettare che i Medici, resi potentissimi dall’elezione a papa del cardinale Giovanni e a cardinale di Giulio de’ Medici, fossero clementi e moderati (p. 368). E qui G., forse per timidezza o riserbo personale, fa entrare in campo un innominato «valente cittadino» che aveva previsto giustamente che i Medici si sarebbero comportati da signori assoluti, con la sola eccezione dell’«humanità singulare» di Giuliano, morto prematuramente. Resta da parlare del giovane Lorenzo, che – essendo stato nominato «Generale Capitano» con pieni poteri, dà luogo ad un parallelo, ugualmente negativo, col potere di Giulio Cesare, amato dai soldati ma non dai cittadini, che forse rivela un debito con Machiavelli19. La narrazione si diffonde poi sulla guerra del re Francesco I di Francia per riprendere Milano e sulla Lega fatta da papa Leone X contro la Francia, nonostante la notoria simpatia dei fiorentini per quel paese. Lorenzo si impadronisce del ducato di Urbino, ma commette l’errore di non andarvi ad abitare20 e si fa odiare da quei cittadini (pp.370-371). Ma la «fortuna» perseguita il giovane duca, «forse invidiando al suo bello stato»21, ed egli è gravemente ferito in battaglia. Dopo la prolissa narrazione del matrimonio, della malattia e della guarigione di Lorenzo, così G. sintetizza le «tre cose» necessarie per preservarne il potere a Firenze: avere  il popolo amico, avere un buon esercito di soldati del contado e anche di cittadini, purché nobili. I punti si riducono a questi due, poiché manca una pagina del ms., ma poi l’autore aggiunge che occorre al signore avere un potente alleato, dar prova di virtù personali (essere parco, modesto, prudente), e infine essere amorevole col popolo. Emergono i valori immateriali e simbolici di un potere che sia fondato sulla riputazione e la stima, non sulla forza (che deve ovviamente esserci, ma dissimulata dietro il volto benevolo del potere). È infine necessario sfruttare l’«occasione» e la «varietà de’ tempi» (pp. 373-375). Il progetto è quindi (diversamente da Machiavelli) quello di un principato, che però sia tale da rispettare almeno in parte l’antropologia politica dei cittadini. Il Discorso è l’esercitazione di un giovane giurista (Albertini, p. 113) ma manifesta anche di avere certi legami col sapere storico e la problematica politica di Machiavelli.

    Un altro testo di Niccolò Guicciardini è il Discursus de florentinae reipublicae ordinibus rivolto al gonfaloniere repubblicano moderato Niccolò Capponi, probabilmente nel giugno-luglio 152722. Anche qui l’esordio ha un andamento sentenzioso piuttosto apodittico e scontato: se gli uomini fossero buoni, non ci sarebbe bisogno di leggi. Compito del legislatore sarebbe quello di permettere l’accesso al potere solo ai buoni e di punire i cattivi. L’orientamento complessivo dell’opera (dove la sapienza del giurista talvolta prevarica sulla chiarezza politica, con enunciazioni particolareggiate e prolisse) è ora repubblicano: a Firenze si vive meglio senza i Medici, che (come si è visto nel testo esaminato in precedenza) qui G. critica decisamente per la loro signoria assoluta (p. 392). La repubblica va bene, ma deve essere ordinata in modo da rispondere alle esigenze dei cittadini, divisi classicamente in tre categorie. L’attenzione per l’architettura istituzionale della repubblica moderata che l’autore intende proporre, tipica del giurista, non fa però velo allo spessore storico delle soluzioni ideate, tanto che non mancano riferimenti classici a Roma, Sparta, Cartagine e all’esempio più recente di Venezia. Sia pure in varie guise e con metodi anche profondamente diversi, una repubblica deve dare spazio a tutte e tre le «generazioni» di uomini:

 

Et come egli è impossibile che in una Repubblica non bene ordinata et che non cappia equalmente in tutti li sua membri, né satisfacci a ogni sorte di cittadini et a ogni actione che in quella si ricerca, cioè di consiglio universale deliberatione et executione si mantenga, perché lo inclinare più in una parte che in una altra la fa variabile et corruptibile, così è impossibile che bene ordinata et in modo che l’uno membro riguardi, corrisponda et leghi l’altro, da sé medesima drento si corrompa: perché non prevalendo ordine alcuno, non può risolversi in alcuno di quelli mezi che la corrompono, o di Principe o di Governo di pochi o di plebe sola.

 

Firenze è stata governata come principato o dagli ottimati, che ora sono «rovinati», ma da due mesi in qua il Consiglio grande, già operante nel periodo 1494-1512, è tornato in onore. Si osservi che, mentre Savonarola e la spinta popolare dal basso che diedero vita al Consiglio non sono affatto menzionati, l’autore cerca di delimitarne la composizione.  Senza  soffermarci sui vari accorgimenti istituzionali  suggeriti, notiamo che egli propone un consiglio abbastanza largo (almeno mille persone), pur affermando che gli eletti devono essere persone buone e virtuose, e ammonendo giustamente contro il pericolo delle sette e della mancata soddisfazione dei migliori che non si sentono adeguatamente riconosciuti. Le cariche dovranno avere una durata breve (p. 395), mentre il gonfalonierato a vita è da scartare per le stesse ragioni indicate da Machiavelli. Pur con questa impostazione sostanzialmente moderata G. avverte ancora il repubblicanesimo come un valore da difendere. Certo egli è lontano dal Machiavelli del Discursus quando ragiona in termini statici di una «perfetta repubblica» da crearsi nella città, grazie ad un bilanciato sistema di corpi legislativi, consultivi e intermedi, che dovrebbero garantire l’equilibrio tra le varie «parte» (p. 397). L’etica repubblicana, con l’«obligo che ha ogni cittadino alla patria sua») trova un preciso riscontro storico nell’antica Roma, in particolare nell’«exemplo del Senato Romano, che difese la libertà della repubblica con privato et pubblico consiglio» contro tutti i sovvertitori dello stato, categoria in cui per G. rientrano anche «e loro proprii figliuoli», e cita Tito Manlio Capitolino, i Gracchi, Spurio Melio, Catilina e lo stesso Cesare. Una struttura repubblicana che è salda se dominata dai nobili, dai «primi» e più savi, i «cittadini maggiori», che vanno però frenati dalle loro eccessive ambizioni col rinnovo delle cariche «ogni certo tempo», per spegnere sospetti e tentativi di sovversione. È quindi possibile progettare una struttura politica tanto ben equilibrata da divenire perenne, adattando il modello romano alla peculiare situazione di Firenze, conclude l’autore:

 

Io ho detto disopra tutte quelle cose che mi ocorrono nello ordinare la Repubblica nostra, et riformare lo Stato in modo che si potessi sperare havessi a essere durabile o perpetuo, circa e travagli di drento, et alli assalti di fuora potessi resistere con più consiglio , mggiore unione et forza […] Et però prego quelli che l’hanno lecto [scil. : questo Discursus], che non riprehendino quelle cose che si possono aggiugniere et introdurre sopra queste, ma che solo considerino se la forma et l’ordine dello Stato sopradetto sarebbe buona in Firenze, et possibile a introdurre (p. 407).

 

G., ragionando da giurista, si illude indubbiamente circa la perpetuità del suo modello, ma compie comunque uno sforzo per comprendere gli «ordini», gli umori e le frequenti «mutazioni» della sua città e si fonda ancora su di un sapere storico.

    Allo stesso Guicciardini dobbiamo due brevi scritti: Quemadmodum civitas optime gubernari possit et de monarchia, aristochratia et democratia discursus, probabile preparazione al Discursus già visto23 (siamo sempre nel giugno-luglio 1527, dopo che i Medici erano stati cacciati); il secondo: In che modo la città di Firenze si potesse dall’Imperatore e dal papa uniti insieme difendere è del ’29, ancora in regime repubblicano24. In entrambi i testi, cui accenniamo rapidamente, domina il repubblicanesimo moderato rappresentato dal gonfaloniere Niccolò Capponi. Nel primo l’autore insiste sulla leggerezza dei fiorentini, troppo facilmente disposti a cambiare il loro regime politico. La «mutatione» avvenuta dopo il crollo dei Medici ha posto in evidenza tutta la precarietà del dominio personale di Cosimo il Vecchio e Lorenzo il Magnifico, che si reggeva sul mantenimento delle apparenze della libertà, cioè su elementi anche immateriali del potere. Qui lo scrittore torna a ribadire i tre sistemi aristotelici di governo (fondati su re, nobili e popolo), ognuno passibile di degenerazione. G. conferma una certa capacità di compiere analisi politiche col metodo dell’analogia storica (exempli), facendo riferimento ad Alessandro Magno, la Roma dei re e poi quella esemplare della repubblica, il Turco, Atene e Cartagine. Egli avanza l’ipotesi che ci si possa opporre all’«infima plebe» per mezzo di un «buon Principe», che però non diventi un tiranno, come Silla o il duca d’Atene, Nerone, Mitridate, etc. (pp. 410-411). Ma come garantire che un tale potere principesco non degeneri, e come controllare la successione? Per l’autore resta quindi provata la superiorità del governo repubblicano, dimostrata anche dall’esempio di Roma:

 

Per la qualcosa concludo che nella ciptà di Firenze, dove li huomini et per el cervello et animo sono apti a governarsi per loro medesimi, el governo del Principe, non più per el sospecto della tyrannide che per le cause sopradecte, sarebbe manco utile che el governarsi e ciptadini da loro liberamente, sanza nessuno perpetuo né absoluto Signore (p. 412).

 

Nel secondo intervento è rapidamente trattata la difficile situazione della repubblica fiorentina, dopo la firma del trattato di Barcellona fra il papa Clemente VII e l’imperatore Carlo V25, che prevedeva tra l’altro la restaurazione dei Medici a Firenze. Ormai si tratta solo di salvare il salvabile, evitando anzitutto il “sacco” della città. I valori repubblicani appaiono in questo testo come materialmente sconfitti da una potenza soverchiante, ma ideologicamente ancora vitali. Ad esempio sono usati termini come «gloria», «proprie arme et virtù», «riputatione et grandeza»: difendersi «è sempre più honorevole et più utile che ogni altro modo da liberarsi da e pericoli» (p. 414), ma occorre misurare bene le forze in campo, non agendo da fanatici o avventuristi. Soccorrono anche qui gli esempi classici, favorevoli o sfavorevoli alle ragioni di una difesa ad oltranza: Roma, Cartagine, Sagunto, Siracusa, Numanzia etc. Quei valori vanno quindi idealmente difesi per G., non derisi o negati come vedremo in altri testi di questo periodo, ma commisurati ad una situazione che rende la città non più libera di decidere il suo futuro, che è fissato altrove. Un conto è la difesa ragionevole, un conto è l’ostinazione donchisciottesca e irresponsabile:

 

Né mi piace l’oppinione di  quelli che spesso, in simili casi, sogliono approvare la difesa tanto quanto si può sostenere, et dipoi il venire alli accordi, perché questo è uno modo di procedere al tutto contra ragione, et segue tutti effecti contrarii a quelli che ragionevolmente si acquistono col difendersi. Non ti libera da’ pericoli per il presente, perché ti hai a rimettere con li acordi nelle mane di chi hai offeso volendo contrastarli et per lo advenire ti toglie la sicurtà et exponti a’ pericoliscoprendo le forze tua debole, perché spesso si teme più quelle forze che ancora non sono scoperte, stimandole maggiore che, quando provate, si vede riuscire debole; leva la riputatione de’ subditi, veggendosi sottoposti a chi non è suffitiente a difendersi, et appresso alle natione forestiere si toglie ogni expectatione et credito, in modo che poco conto tengono della amicitia et manco della inimicitia di chi è debole (p. 415)

 

Segue un’analisi accurata dei rapporti fra l’imperatore e la Francia, ove l’autore critica, da ottimate, la tipica alleanza di Firenze con quest’ultimo stato, e compie un’altra precisa valutazione dei capitani e degli eserciti mercenari, escludendo la possibilità di usare «forze proprie» (p. 417).

 

III)        I medicei: Paolo Vettori, Goro Gheri, Lodovico Alamanni, Francesco Vettori.

Tutt’altra impostazione troviamo negli interventi di Paolo Vettori, Goro Gheri e Lodovico Alamanni. Pur diversi per estensione, argomentazioni, risorse stilistiche, i tre scritti presentano delle chiare analogie soprattutto nel sottolineare il valore della forza sul consenso dei cittadini, allo scopo di stabilizzare il dominio mediceo. Non si tratta qui di analizzare le ben note componenti antropiche dei fiorentini che li rendono irrequieti, amanti dell’”equalità” e del “viver civile”, ma di trasformare i cittadini in sudditi. Paolo Vettori, nei suoi brevi Ricordi al cardinale Giovanni de’ Medici sopra le cose di Firenze26 , illustra senza veli la dura necessità del potere politico come puro dominio. Se gli «antecessori» degli attuali signori hanno fatto uso dell’«industria» per procacciarsi il consenso, ora il cardinale e gli altri Medici dovranno far prevalere la forza sul consenso. L’autore ammette chiaramente che la città senza i Medici «è stata benissimo» (p. 357), ed è asserzione confermata anche da Niccolò Guicciardini, come si è visto27. Questa «memoria» farà sempre «guerra» ai signori, che non potranno mai illudersi di soddisfare tutti: nessun accorgimento o alchimia istituzionale potrebbe mai garantire il controllo di una città così «grossa» e con «tanti malcontenti» (p. 357). Volte dunque le spalle alla città e alla sua complessa articolazione in classi, sette, oligarchie, non resta che appoggiarsi al «contado» e al «distretto» puntando sulla loro ostilità per Firenze. Questi territori potranno fornire una milizia fedele, più sicura di un esercito di spagnoli. Dichiarata l’inesperienza politica di Giuliano duca di Nemours, Vettori propone di affiancargli un consiglio ristretto di 12 cittadini, più due che seguano direttamente il signore, con un’abile strategia che sfrutti le loro piccole ambizioni per meglio reprimerle:

 

E se V. S.ria farà buona scelta di quelli dodici, e migliore di quelli due, e cominci a navicare per questo verso, tutta l’anbizione, tutti e fastidi, tutti e romori, se non cesseranno, almeno si nasconderanno tanto che gli uomini si avezino a vivere per questo verso. Perché li uomini si dolgono e gridono quando e’ veggono che il gridare fa loro frutto, ma quando e’ veggono che il gridare non giova e per il gridare le deliberazione non si rimutono, gli stanno chieti e gli attendono a vivere, contentandosi di quello che è fatto (p.358).

 

Se questo testo mostra ancora una certa sensibilità verso gli umori e le contraddizioni del popolo, sia pure solo per occultarli in modo autoritario e zittirli, Goro Gheri scrive la sua Istruzione per Roma 28 dopo la morte di Lorenzo duca d’Urbino, quando il potere a Firenze è nelle mani del papa Leone X e del cardinale Giulio, cui un «Francesco» è incaricato di trasmettere i consigli del G.. Questi si professa legato da «fidelissima servitù et amore» per la casa medicea e il suo atteggiamento non è più quello di un cittadino che cerca di barcamenarsi tra la salvaguardia dell’antica libertas, del “viver civile” e l’accettazione del dominio mediceo, ma quello di un suddito che ragiona in termini puramente dinastici. La perdita di Lorenzo, «il quale doveva essere la colonna e il fundamento di questa casa» è dovuta alla volontà divina (p. 360)29, è quindi necessario mandare subito a Firenze Ippolito (figlio illegittimo di Giuliano, anche lui prematuramente scomparso), tenendo conto del grande seguito che, secondo G. ma in contrasto col parere di molti altri, i Medici conservano grazie al buon governo di Cosimo, di Piero suo figlio e di Lorenzo il Magnifico. Minimo è qui il riferimento agli “umori” del popolo e agli aspetti immateriali del potere: G. parla di «reputatione»,  di pigliare «le cose per il verso», di «fedeli amici» legati ai Medici, «somma prudentia», «contraditioni», «invidia». Ma il burrascoso passato di Firenze, che questi termini descrivono solo in parte, non è concepito come un ostacolo alla restaurazione medicea, che invece per G. sarà «facile», in contrasto con coloro che avvertono la discontinuità fra una signoria come quella di Cosimo o Lorenzo e il puro e semplice principato. Certo, si dovrà governare «civilmente et honorevolmente», rispettare la «iustitia universale» (p. 361), ma non è chiaro come si possano rispettare questi intendimenti quando ci si deve fondare su di una parte («amici boni et savi»), favorendola. Anche se chiama ancora «republica» un tale ordinamento, G. è però convinto che molti cittadini non vogliano «quel governo tanto universale», che comunque ogni difficoltà sarà risolta con l’uso della forza, ed infine che si debba restringere e non allargare la partecipazione alla direzione della cosa pubblica (pp. 362-64):

 

Ma essendo già ordinato [lo stato] et havendo forma, havendo capo et havendo le forze in mano, come ho decto, del palazo, de’ magistrati et delle armi, facilmente si può a ogni difficultà che potessi nascere remediare. […]  Lo stato, circa la auctorità io non lo vorrei alargare, ma restringere circa li homini; io lo vorrei alargare in questo modo che li honori et le dignità di questa ciptàvorrei che le godessino generalmente li homini da bene et benemeriti et di bone qualità, ma in modo però che si conoscesse differentia da quelli che sono naturali amici della casa alli altri, perché, faccendosi così, li amici sono più contenti et sono più potenti a potere fare fructo quando bisognia per benefitio et conservatione dello stato; et li altri […] faranno opere et demostrationi di essere tenuti amici per conseguire li loro desiderii. 

 

La forza e l’esercizio autoritario del potere, fondato sull’appoggio dei favoriti, prevalgono quindi nettamente sul consenso.

Il Discorso di Lodovico Alamanni sopra il formare lo stato di Firenze nella devozione de’ Medici risulta scritto in Roma il 25 novembre 151630. La posizione dell’Alamanni (1488-1526) di fronte ai Medici, a differenza del Gheri, non è propria di un subordinato che dà qualche consiglio ai suoi signori, ma quella di un politico che muove severe critiche al duca d’Urbino Lorenzo, con un’analisi ben attrezzata che risente in parte dell’insegnamento di Machiavelli. Inizia con una serie di ipotesi in forma fortemente dilemmatica: o Lorenzo si cura poco di Firenze, sembrandogli di essere già «grande abbastanza», o non teme i nemici che potrebbero contendergli il governo della città, oppure è «negligente» ritenendo – al contrario – di non poterlo tenere a lungo, o pensa di poter sempre essere a tempo a provvedere. Così il duca non considera a sufficienza la necessità «di meglio ordinare et stabilire il presente governo della città di Fiorenza» (p. 376). Lorenzo si sta preparando con le sue stesse mani una «manifestissima ruina» se crede di poter mantenere il potere e la «reputatione» dopo la morte del papa. Il successore di Leone X penserà certamente a sistemare i suoi parenti e a distruggere gli «antecessori», e questo rilievo dà luogo ad una spregiudicata analisi del possibile comportamento delle principali potenze e delle maggiori famiglie, come i Colonna o i Della Rovere, Occorre quindi tener conto delle «difficultà» e «contradictioni», e soprattutto di una forza cieca come la «fortuna che tucto può», «accomodarsi co’ tempi», valendosi ora dei denari, ora della forza, ora delle alleanze: solo così il duca «potrebbe mantenersi et rimanere sicuro», dato che nessuno ormai può «confidarsi sulle sue forze proprie» (p. 378). Un adeguarsi ai tempi e un obbedire alla mutevole fortuna, che hanno però un significato nettamente conservatore, poiché non si tratta di seguire la fortuna e il mutevole giuoco delle potenze per concepire un progetto, come in Machiavelli, ma per rendere stabile e definitivo un dominio, ed anche un termine come «assicurarsi» ha questo ristretto significato. Una cosa è certa per l’autore: la vera sede del potere di Lorenzo è Firenze, non Urbino: Firenze è una città ricca, che potrà sempre comprare o corrompere eserciti e sovrani, con cui il duca potrebbe anche riprendere Urbino se lo perdesse, mentre non è vero il contrario. Ma il controllo di Firenze esige, per A., una netta scelta conservatrice, a favore della quale egli ricorre agli exempla classici: Augusto, che è riuscito a stabilire il suo dominio in una «terra» che aveva avuto sostenitori della libertà come Bruto o Catone; Gerone, capace di dominare Siracusa destreggiandosi fra Roma e Cartagine. Un modello passato è costituito dal governo di Cosimo il Vecchio. Ma poiché Lorenzo dovrà governare Firenze anche dopo la morte di Leone X,  dovrà tenere saldamente il «freno». Mentre manca la consueta minuta analisi degli «umori» popolari, è però tenuta ben presente la persistenza del mito profetico savonaroliano e la conseguente esigenza del Consiglio grande, tuttora diffusa nelle masse. A. ne parla però con disprezzo, e così disprezza anche i tenaci savonaroliani:

 

Ecci forse la secta del frate, la quale è così apta ad dimesticarsi come la lepre; ma di questi è da tenere poco conto perché li più sono attempati, et sono da temere le loro fave [i voti] et non le loro arme, et la loro confidentia è più ne’ miraculi che in altro. Sonci ancora quelli che desiderano el Consiglio grande, ma sendo el consigliaccio un posto da foggettini [popolo minuto], bisogna che foggettini sieno quelli che lo vorrebbono; et simil gente ha poco credito, poco ingegno et poco animo; et è facil cosa guadagnarsegli e mantenersergli (p. 379).

 

Ormai, per A., i fiorentini non possono fare a meno di un capo, come dimostra anche l’elezione di un gonfaloniere a vita dopo la cacciata di Piero de’ Medici. Un termine ripetuto come «assicurarsi» esprime questa esigenza autoritaria. Per trattare i cittadini non ci sono che due vie da seguire: o comprarli con cariche e onori, oppure «spacciare» i possibili nemici. Va seguito il primo sistema, che renderebbe i cittadini più obbligati all’umanità del signore, che così dimostrerebbe di agire non spinto dalla necessità, ma nella pienezza della fortuna e del successo, mentre in una situazione di evidente debolezza la «carezze» sarebbero controproducenti (pp.379-380). Sarebbe un errore cacciare in esilio  i nemici, che troverebbero facilmente rifugio presso una potenza straniera, da dove potrebbero intrigare conto il governo fiorentino; peggio ancora ucciderli, emulando Agatocle, Silla o «lo scelerato Liverotto da Fermo», mentre i modelli positivi sono Cesare o Furio Camillo. Perseguitato, il popolo potrebbe destarsi e ribellarsi, come dimostrano gli esempi passati dei Pazzi o di Francesco Valori. Una volta indebolito a Firenze, il duca perderebbe anche Urbino, e perciò deve avere le «spalle» sicure in Firenze, ove un modello potrebbe ancora essere costituito dalla signoria di Lorenzo il Magnifico (p. 381), ma con l’avvertenza che non sarà possibile, nelle nuove condizioni, mantenere il “viver civile”, ma occorrerà creare una vera e propria corte che attirerà soprattutto i giovani: i sostenitori dei Medici diverranno così dei gentiluomini31, lasciando volentieri il «cappuccio» per la «cappa». Questa precisa strategia sociale, volta allo scopo di fabbricare il consenso, è sorretta dalla consueta divisione degli uomini in tre tipologie (i primi vogliono governare, i secondi si accontentano solo degli onori e i terzi desiderano di non essere oppressi dalle tasse) e da un rapido excursus sulle principali “mutazioni” avvenute, a partire dal 1434 (inizio del potere di Cosimo il Vecchio). Così, con la proposta di un vero e proprio capovolgimento dell’antropologia politica cittadina e degli elementi simbolici del potere, A. abbandona radicalmente la vecchia tematica della repubblica come luogo di equilibrio e compensazione di diversi “umori”, rivelando però nell’uso di termini come fortuna o assicurarsi, nell’argomentazione a fitte maglie razionali, nell’impostazione spesso dilemmatica e tutta politica, che non lascia spazio a passioni o dubbi, un certo debito verso Machiavelli, ma in un testo che rappresenta per  certi versi l’opposto del Discursus florentinarum rerum.

Nel discorso rivolto ad Alberto Pio di Carpi, scritto a Roma il 27 dicembre 151632, l’A. affronta ancora il problema del rafforzamento del potere di Lorenzo compiendo un esame della situazione italiana dove il debito con Machiavelli è sensibile in più punti. L’analisi è ancora critica e laica, facendo uso degli «exempli» della storia passata per trarne delle regole, poste però al servizio di una politica conservatrice che, come nel precedente discorso, consiste in una vera e propria sostituzione della classe dirigente fiorentina, con la trasformazione dei cittadini in sudditi. Colpisce, anzi, la contraddizione fra il carattere generalizzante e intellettualmente generoso delle considerazioni che concernono la decadenza italiana e l’angustia degli scopi che l’autore si propone di ottenere. Dopo qualche complimento al signore di Carpi, A. entra subito in medias res rilevando l’affetto dei Pio per il suo «padrone», che si è manifestato attraverso il «iuditio»  e i «gravi et prudentissimi ragionamenti», di cui A. intende avvalersi per conseguire il suo scopo, indicato senza ambagi: «lo stabilirsi per Sua Ex.tia [Lorenzo] il governo fiorentino», garantendone la lunga durata e forse la possibilità di «multiplicare Stato, Reputatione et Gloria». Ma questi due elementi immateriali, posti in fondo all’argomentazione (cioè al vertice dei valori), sembrano subito sopraffatti dalle considerazioni pratiche. Occorrono sia il «ferro» che l’«oro», un principe deve disporre di «buone armi», ma un ««conto è disporre di armi proprie ed un conto è dipendere dai mercenari33:

 

Che differentia sia dal’una al’altra di queste militie, benché la ragione il pruovi, pure infiniti exempli lo doverrieno avere dimostro, perché con l’una vinsono e Romani il mondo, con l’altra fu dextructa Cartagine et desolata, né tanto la poterno e buoni capitani relevare quanto la dolorosa militia la deprimeva. Or, per allegar cosa più presente, con l’una quasi si spense l’alteza de’ Vinitiani, con l’altra tanto è venuta in pregio la ignobilità de’ Svizeri.

 

L’Italia è stata «condotta alla presente ignominia et servitù» da coloro che l’hanno messa in mano ai «preti», ai «mercanti» e, appunto, ai condottieri mercenari, rivelatisi regolarmente infidi, come Santippo per i Cartaginesi, il Carmagnola per i veneziani, Paolo Vitelli per i fiorentini. Vanamente gli «antichi», i «padri» danno la colpa del disastro nazionale «o a’ nostri peccati o alla sorte» (pp. 385-386), mentre A. intende spiegare i mali di Firenze e d’Italia in modo del tutto razionale, sempre fondandosi su un sistema di analogie storiche: si dice che i fiorentini non sono atti alle armi per la loro «debile» natura, il che renderebbe necessario il ricorso alle armi mercenarie, ma è affermazione falsa poiché essi, semplicemente, non sono abituati a portare le armi da troppo tempo. Lo dimostra l’esempio dei Parti, disprezzati come guerrieri dal tempo di Alessandro Magno e che invece si sono rivelati ottimi combattenti contro i romani. Chi teme di armare i sudditi commette quindi un grave errore. Bene ha fatto dunque il duca ad armare i «suoi medesimi»; la truppa va tenuta disciplinata e il comandante non è crudele ma pio34 se, punendo con la morte pochi uomini, insegna agli altri a sapersi difendere e a non soccombere come «pecore» o «poltroni», come è dimostrato dall’azione esemplare dei romani e in particolare di Torquato35. Dopo aver elargito altri consigli di liberalità al duca nel trattare i soldati e i cittadini (manca però ogni riferimento alla struttura che dovrà assumere il governo della città; p. 388), l’autore si pone il consueto problema del mantenimento del potere mediceo dopo la morte di Leone X. A., analizzati i rapporti con gli Orsini e i Colonna e con le potenze straniere, afferma che il duca non potrà restare neutrale36 e consiglia, da buon conservatore, l’alleanza con l’Impero, poiché la protratta alleanza con la Francia non ha arrecato – secondo lui – altro che disgrazie.

         Una posizione estrema, in questo ventaglio di idee, proposte e opinioni, è quella espressa da Francesco Vettori, nella sua missiva al «Tesauriere» che è probabilmente Francesco del Nero37, dove la ribadita necessità dell’uso della «forza» e la riduzione degli inveterati «umori» e delle differenze politiche e sociali cittadine a poco più di semplici capricci, raggiungono la formulazione forse più netta e coerente. Gli «umori» e le aspirazioni dei vari ceti sociali non sono visti come bisogni concreti da soddisfare mediante un governo misto o altri accorgimenti e compensazioni politiche, ma come mere spinte irrazionali da zittire con la forza. Se i fiorentini hanno difeso fino all’ultimo la repubblica non è per odio contro i Medici, poiché gli «offesi» da essi erano pochi e lo erano stati a ragione, ma per pura ostinazione:

 

Che gli ha fatti dunque tanto ostinati? È stata senza dubbio la voluptà, la quale tutti gli huomini seguitano et dichino i teologi et i filosofi quello che voglano. Li giovani havevano questo piacere d’essere descritti [arruolati] o portare l’arme; et riusciva loro con questo [mezzo trarsi le voglie del mangiare et bere bene, d’essere padroni in casa, di fare debito et non pagare. Gli huomini di più età havevano il piacere di andare al consiglio, trovarsi a fare i Signori, e Dieci et gli altri uffici (p. 425).

 

Inoltre i repubblicani potevano permettersi di trattare da pari a pari gli ottimati, come lo stesso V. L’«ostinazione di quegli libertini» può essere vinta solo togliendo loro le armi e inducendoli piuttosto alle arti e ai piaceri. Siamo, come si vede, agli antipodi di una concezione della cittadinanza come realtà attiva e militante (comune a Machiavelli ma anche ad alcuni autori moderati e filomedicei come Alamanni), a favore di una visione autoritaria e “dall’alto” della vita pubblica, avente come presupposto la passività del popolo, ridotto ad una massa di gaudenti38 e di ignavi. Il modello è Lorenzo il Magnifico, che sapeva come «tenere questo stato». Le conseguenze operative consigliate da Vettori sono ugualmente chiare: eliminare i Collegi, i 12 e i 16, e i loro simboli, come le bandiere, levare addirittura la Signoria, ridotta a 4 signori, da Palazzo Vecchio. V. lamenta di aver più volte fatto queste proposte all’allora cardinale Giovanni e ai duchi Giuliano e Lorenzo, sempre generosi nel beneficare inutilmente il popolo, e di rivolgerle ora al papa Clemente VII, mentre il dominio pontificio è «pieno di calamità et povertà» (sono passati solo pochi anni dal Sacco di Roma). Egli conosce «la medicina del male» e propone perciò di trattare severamente i fiorentini. Qualcuno potrebbe accusarlo di cattiveria e avarizia e di non amare la sua città, ma egli sa che l’unico modo di amarla è di non «pascere» i sudditi, di cui descrive efficacemente gli appetiti, parlando di capretti, cinghiali, lepri, polli, «poi di quaresima le tinche et anguille». Occorre ridurre le spese, abituare la gente a vivere in modo parco, ridurre le tasse, non farsi odiare e «godere il benefitio del tempo, come diceo, o quel proverbiaccio antico», tenendo una guardia armata e ben pagata, in attesa che arrivi il nuovo duca Alessandro. L’alternativa a queste drastiche misure è solo l’anarchia, la «rabbia» e lo «sterminio» che secondo lui hanno dominato l’ultimo regime repubblicano (pp. 425-427). Si tratta dunque di un duro adattarsi a una situazione di pura e durevole conservazione, come dimostra anche il «proverbiaccio usato», uno dei luoghi comuni dell’oligarchia fiorentina più deplorati da Machiavelli, dello spegnimento spietato di ogni possibile virtus39.

         Francesco Vettori confermava così le idee espresse in modo più argomentato in opere precedenti, particolarmente nel Sommario della storia d’Italia(1511-1527), databile ai primi mesi del 1529 o (Albertini) alla primavera del ‘28. Il dialogo sul Sacco di Roma è collocabile o subito dopo l’evento o poco posteriormente. Nel Sommario, come è già stato osservato da altri studiosi, quello che può apparire come una sorta di materialismo, di robusto empirismo scettico, si manifesta in realtà come la disorganizzazione di ogni possibile criterio di giudizio storico, dando luogo a considerazioni particolarmente sulla crisi politica di Firenze attribuita a cause generiche e astoriche:

 

Né è da maravigliarsi che in Firenze spesso si sia vivuto a parti et a fazioni e che vi sia surto uno che si sia fatto capo della città, perché è città popolata assai e sonvi di molti cittadini che arebbono a partecipare dello utile e vi sono pochi guadagni da distribuire. E però sempre una parte si è sforzata governare et avere li onori et utili e l’altra è stata da canto a vedere e dire il giuoco. E per venire alli essempli e mostrare che, a parlare libero, tutti i governi sono tirannici, piglia il regno di Francia e fa che vi sia uno re perfettissimo: non resta però che non sia una grande tirannide che li gentiluomini abbio l’arme e li altri no. (p. 145)

 

Ma anche Venezia è «espressa tirannide», dato che «tremila gentilomini» dominano più di centomila persone, per di più godendo di ogni genere di privilegi. Non c’è distinzione fra regimi politici, tutti egualmente tirannici: un re si può chiamare «veramente re» solo se è buono, se non è personalmengte buono «deve essere nominato tiranno». Anche se un signore ha l’investitura imperiale, non merita quel titolo se è «maligno e tristo». Molte altre affermazioni sono genericamente moralistiche: i popoli non amano mai chi li comanda, sono sempre «desiderosi di mutazione» (p. 195), i fiorentini sono troppo diffidenti e «amatori della quiete» (p. 193), gli uomini in genere sono ingrati (p. 197), la chiesa ha abbandonato lo spirito del Vangelo (pp. 157 e 174); critica su cui l’autore tornerà in seguito, descrivendo la corruzione e la venalità della Corte pontificia, non escludendo una punizione divina: «Et Iddio punisce spesso quelli che hanno questi vizi con li inimici suoi medesimi, e con gli uomini più scelerati di quelli che sono puniti, e’ quali, quango gli pare poi tempo, non li manca modo  a castigare» (p. 244): dove è appena il caso di notare che in questa sorta di bilancio morale è del tutto assente il pathos religioso e la volontà di un ristabilimento dei valori evangelici presenti, ad esempio, nei dialoghi di Luigi Guicciardini o del Cerretani.

         Ma anche quella che può sembrare la più impegnativa affermazione teorica contenuta nel Sommario (e che lo scrittore riprende nel dialogo sul Sacco di Roma), e cioè che ogni regime politico è in fondo una tirannide, è fatta in funzione dell’instaurazione del regime mediceo a Firenze: non quello quello “civile” vanamente progettato dal giovane Lorenzo, ma quello autoritario che già si annunzia ad opera del cardinale Giulio.«È chiamato questo modo di vivere tirannide» ammette Vettori, che però ritorce duramente l’accusa contro tutte le repubbliche esistenti; solo chi si riuscisse ad attuare i modelli immaginati da Platone o da «Tomma Moro inghilese» nella sua Utopia potrebbe chiamare non tirannico un tale governo. Ma la polemica antiutopistica di Vettori può essere avvicinata solo superficialmente alla quella e alla conseguente rivendicazione della «verità effettuale» da parte di Machiavelli nel cap. XV del Principe. Qui Vettori è legato alla visione meccanica e generica della lotta politica (non solo a Firenze) che si è vista in precedenza. In tal modo l’iniziale tensione politica del ragionamento cede ad una visione del problema solo apparentemente concreta, ma in realtà condizionata da elementi “eterni” ed astorici, come il contrasto fra i “molti” cittadini e i “pochi” guadagni, le diffuse ambizioni e la scarsità delle cariche pubbliche disponibili, etc. (p. 145).

         Nel dialogo sul Sacco di Roma si accentua il sostanziale distacco per la vita politica, determinato dalla fredda constatazione dell’egoismo profondo del cuore umano, da una visione antropologica dell’uomo come essere malvagio che cerca solo il proprio vantaggio non curandosi minimamente del bene pubblico, Si tratta di una antropologia ampiamente condivisa da Machiavelli, e basti citare i capitoli XVII, XVIII e XXIII del Principe o i Discorsi I, 3, 9, 10, 37, 42  etc.  Ma mentre per M., occorre solo accennarlo, questo è il limite di cui il protagonista politico o il legislatore deve tenere conto se non vuole cullarsi in progetti utopici, per Vettori costituisce la base per uno sprezzante disinteresse per la vita pubblica: solo gli sciocchi e i falliti cercano un risarcimento del loro fallimento nelle cariche pubbliche:

 

 

E certo quelli che aiutono tenere lo stato in questa città, sono uomini ambiziosi, avari, rovinati, viziosi o sciocchi. Perché li uomini che sono alieni dall’ambizione non si travaglieranno volentieri né di stato come quello hanno tenuto li Medici, né d’altro. Perché io fo poca differenzia da quello stato che molti chiamano tirannico a questo che al presente chiamano populare o vero republica, perché in quello riconosco molta servitù et in questo ancora il medesimo.

            E però uno uomo che non sia tirato dall’ambizione, vorrà godere la sua quiete, né si implicherà in uno stato pericoloso né in una repubblica turbulenta. […] Chi arà le sue faccende ordinate, seguiterà quelle, ma chi arà rovinato o fallito, sempre s’ingerirà nel governo, e, quando non li riuscirà participarne, cercherà mutazione (pp. 277-278)

 

Anche qui, come nel testo “al Tesoriere” che si è visto, Vettori non esita a fare della “gola” e della “libidine” le molle essenziali che spingono i cittadini alla lotta politica; oppure, come dice Basilio nel dialogo, occorre pascere i fiorentini di chiacchiere e speranze vane. La vita pubblica, la stessa aspirazione dei cittadini al vivere libero, sono ugualmente negate e derise, estendendo la negazione anche ai possibili modelli storici della lotta per le libertà cittadine. Dopo aver ripreso le argomentazioni banalmente materialistiche del Sommario (in Firenze l’aria è «molto generativa», le nascite si moltiplicano, quindi gli uomini sono troppi, il potere e la ricchezza sono limitate, non è possibile «pascere tutti», e da ciò nasce l’odio fra l’una e l’altra parte della città), aggiunge: 

 

Né credere che in questa città sia uomo che pensi a vivere libero, ma ciascuno pensa all’utile suo. E questi essempi di Bruto e Cassio, che si danno tanto per il capo, sono favole da dirle al fuoco, perché similmente loro non si mossono a congiurare contro a Cesare per zelo di libertà o della patria, ma per ambizione et utilità, perché vedendo che in quel modo di vivere non potevono avere i primi gradi, come pareva loro meritare, non si curorono per l’ambizione, mettere sottosopra tutto il mondo e far diventare la città di Roma non serva, ma stiava a tanti crudeli tiranni o vogliamo dire uomini bestiali, quanti dipoi la dominorono (pp. 281-282).

 

Qui non siamo di fronte ad una demistificazione delle motivazioni apparenti dell’agire politico (la libertà, la patria) attuata allo scopo di rivelare quelle reali, i meccanismi occulti del potere e le vere leggi che li governano, ma alla riduzione della storia ad una serie di impulsi primordiali e prepolitici. Perciò il mondo classico diventa un semplice repertorio di “favole” o interessanti curiosità, mentre non dà luogo ad alcun ragionamento fondato sull’annalogia storica. Per Vettori è impossibile spiegare una catastrofe come il Sacco di Roma, non solo perché è un fatto nuovo che spezza la consueta continuità storica, ma soprattutto perché già “a monte” di questo evento egli separa (qui e anche nella biografia del padre Piero) una storia “minore” dalla “maggiore”. La prima è la sede delle cose vere, come la vita privata, gli affetti, gli interessi personali, mentre la seconda è piuttosto il luogo del disinganno, dell’ambiguità, particolarmente dopo la fine degli ultimi grandi protagonisti della politica cittadina (come Lorenzo il giovane o – nella sua relativa modestia- il padre Piero. 

 

 

IV)        Fideismo e profetismo repubblicano 

                    

L’orazione di Piero Vettori (1499-1585) all’ordinanza fiorentina del 5 febbraio 1529 (1530)40, col suo vigore eloquente, nella evidente forzatura volontaristica che la domina, costituisce un esempio riuscito dei principali elementi ideologici repubblicani, in particolare dell’ultima repubblica. Anzitutto abbiamo la stretta implicazione tra la milizia e la condizione di cittadino («viver civile»), la «grandezza», la «gloria» e la riputazione militare, intese come valori da perseguire in sé e per sé41, anche per il ricordo esemplare del valore degli antichi. La difesa della patria assume così un carattere di doverosità morale e religiosa. Questi valori così ribaditi hanno ancora un carattere prettamente umanistico e pre-machiavellico, sganciati come sono da ciò che è politicamente pensabile e possibile42. La retorica soccorre naturalmente con le sue risorse un discorso che – ripetiamo – ha carattere esortativo e volontaristico, quasi a riempire lo iato esistente fra le nobili aspirazioni dell’oratore e una “verità effettuale” ove rischiano di avere ragione Goro Gheri, Lodovico Alamanni o Francesco Vettori. Frequenti sono le dittologie, le climax e un’aggettivazione classicheggiante e oltranzistica43. Questo l’esordio dell’orazione (p. 418):

 

Quantunque elli potesse parer più conveniente, o fortiss.[imi] giovani, ch’io consumasse tutto ‘l mio parlare in lodar le molte fatiche, gl’honorevoli pericoli et le egregie vostre operationi, fatte per salute della città et difesa della vostra dolcissima libertà: niente dimeno, perché elli sarebbe troppo malagevole trovar parole sì ornate et sì gravi che pareggiassino i vostri virtuosi fatti et per osservar quello ch’è ordinato per ferma legge, lasciate le vostre lodi a più commodo tempo et più chiaro ingegno, mi sforzerò di nuovo raccendere gl’animi vostri al perseverar caldamente nelle gloriose et dolci fatiche della vostra salutevole et fruttuosa militia. […] Quanto sia degna la disciplina militare et come ella superi di nobiltà tutti gl’altri humani exercitii stimo certo che a tutti voi sia notissimo. A questa tutte l’altre professioni rendon sublime honore: et sotto l’ombra di questa sicuramente si posson tractare.       

                                   

Deve essere dunque sfidata ogni difficoltà pur di difendere la patria. Tutti conoscono «la grandezza degl’animi vostri, la dextreza delle persone, la natural gagliardia del corpo, la tollerantia delle fatiche, la patientia della fame et sete». Caratteristiche tutte che si trovano solo in pochi altri popoli: per questo «non è nuova ai Toscani la gloria dell’arme: chi non sa quanto anticamente e’ vi siano stati dentro riputati?». Il modello è quindi la Firenze di un tempo, dove i cittadini erano armati perché liberi: chi ha disarmato i fiorentini l’ha fatto per asservirli, dato che gli animi nutriti «in sì lodevole et virtuoso exercitio» non potevano essere manipolati facilmente dalle «affrenate voglie» dei dominatori (p. 419): l’allusione può riferirsi non solo ai Medici, ma forse anche agli ottimati. Ma già gli Etruschi avevano conquistato quasi tutta Italia e fondato grandi città, mentre ora il «pigro sonno» causato dalla dissuetudine all’uso delle armi ha addormentato «ogni generoso spirito», rendendolo atto solo alle cose abiette e meccaniche. Provvidenzialismo religioso e retorica classica qui si fondono, quasi ad evocare il XXVI capitolo del Principe. È stato Dio a volere che ci fosse il riarmo (che «fossero coperti «di queste lucente arme i petti vostri»), affinché la città possa resistere, difendendo la florentina libertas dalle grandi potenze unite, che volevano divorarla, e costituendo un esempio per tutta Italia. La prosopopea della nostra bella patria, a cui è stato, «flagellato e lacerato tutto il corpo […] squarciata tutta la veste», ma con la salvezza della «parte vitale», del cuore e dell’anima, conduce direttamente alla citazione della canzone del Petrarca (Italia mia, RVF CXXVIII): Firenze ha mostrato che «l’antico valore nelli italici cuor non è ancor morto, et che ci resta pur ancor qualche scintilla di quella tanto celebrata virtù de’ nostri passati». Le potenze nemiche che cercavano l’oro della città si sono disingannate, in cambio hanno trovato un «acuto ferro», e in cambio di uomini oziosi si sono scontrati con «fortissimi soldati i quali mai hanno ricusato con ogni disavvantaggio far con lor pruova della loro virtù». Il parallelismo si istituisce tra due poli, di cui uno costituisce l’ideale della libertà cittadina e anche italiana (che Firenze rappresenta e rivendica), l’altro l’accettazione vile della sicurezza e della eventuale ricchezza in cambio della servitù: oro e ferro, ozio vile e virtù militare, pubblico e privato, onore e disonore, «antica virtù» (o «antico valore») e lunga dissuetudine alle armi, giovani pronti a innovare quel valore antico e vecchie generazioni che l’avevano sepolto. La forte spinta volontaristica, che si crede possa ancora aver ragione di un destino, come la sottomissione alle potenze esterne (la «Tedesca rabbia et Spagnuola avaritia») apparentemente già segnato, sarà sicuramente sorretta da un diretto intervento di Dio a favore della sua prediletta città. Come si vede qui di seguito, in realtà il Vettori non intende affatto rimuovere gli interessi materiali (le ricchezze, i possedimenti) che inducono concretamente alla difesa della città, ma trascenderli in un contesto nobilitante che privilegia la fede religiosa, l’onore, la gloria e l’amor di patria.          

Coerentemente la lotta per difendere la città non viene affatto presentata in termini di prassi politica, ma come un’azione del tutto nobile e disinteressata, fondata sui valori religiosi e sul desiderio di gloria immortale:

 

Havendo oggi di nuovo a piglare queste publiche sante arme, vi si riduce a memoria che le vi son date per usarle non in privati guadagni, ma in publici acquisti; non per bagnarle nel sangue de’ vostri particulari inimici, ma per difesa de’ vostri cittadini et morte di quelli che vengon per soggiogare la vostra cara patria (pp.420-421).

 

I militi devono essere pronti a sacrificare la loro vita per la patria e anche riscattare l’onore «della afflitta Italia», saranno guidati da «Jesu Christo Signor delli exerciti», ma esser pronti anche al supremo sacrificio44:

 

Non volete voi più presto perder questa luce del sole che vedervi rapire, e’n su gl’occhi svergognare le vostre caste donne, trarvi di braccio i teneri figliuoli, stuprare tante sacre vergini et stratiar tutte le vostre più amate cose? Chi non rinuntierebbe più presto alla vita che vedersi torre le sue care facultà, i tesori con tanto sudore acquistati, i fertili campi et le sue antiche habitationi o con una sola crudel fiamma fare un incendio di tutta la città?

 

Sono quindi «beatissimi» coloro che «periclitando in giuste e gloriose imprese v’hanno finita dentro honorevolmente la vita loro […] scegliendo la più bella et la più honorevole [morte] che si possa trovare, costor son pianti per l’ordine della natura come mortali, celebrati et cantati per la memoria della lor virtù come immortali». I genitori non potranno che rallegrarsi di aver generato «sì gagliardi difensori alla patria», essi saranno d’esempio ai figli, alle mogli, ai fratelli, i loro sepolcri saranno sempre onorati, la fama sarà immortale, e così via (p. 423).

         Non dissimili da questa, per il ricorso strabocchevole alla retorica in funzione di una concezione religiosa della “gloria” e dei valori repubblicani45, sono altre orazioni coeve o posteriori. Si possono menzionare due arringhe di difensori dell’ultima repubblica. Nell’orazione di Luigi Alamanni (1495-1556)46 alla milizia fiorentina del 29 gennaio 1529 (1530) i valori repubblicani si manifestano attraverso una visione provvidenzialistica dominata interamente dalla volontà divina, in una contrapposizione di valori ai limiti del manicheismo: libertà contro tirannide, virtù contro i vizi (avarizia, viltà, etc.) dei nemici della repubblica, o comunque coloro che hanno fino allora ignorato i loro doveri verso la libertà cittadina, la milizia d’ordinanza contro le truppe mercenarie. Anche Bartolomeo Cavalcanti rivolge un’orazione «alla militare ordinanza fiorentina»47 il 3 febbraio 1529 (1530). Il discorso si articola in alcune parti. Dapprima l’oratore, dopo aver, con una excusatio non petita, dichiarato la sua scarsa abitudine a parlare in pubblico, si colloca in un ambito provvidenzialistico, affermando che la repubblica è posta sotto la protezione divina (Gesù Cristo è Re di Firenze); ma poi affronta con decisione il quadro dei rapporti politici internazionali. Con uno stile enfatico, ricco di esclamazioni e interrogative retoriche, Cavalcanti parla della Lega di Cognac (p. 15), accusando la Francia di aver tradito Firenze, accordandosi con l’imperatore Carlo V a favore del papa mediceo Clemente VII. Nonostante questo per l’autore si dovrà lottare ugualmente, in nome di Dio e di Cristo, fortificati anche da exempla classici e recenti, come Licurgo, l’antica Roma e Prospero Colonna48.

         Che, ormai, tra chi identifica il cittadino nel militante mosso da motivazioni ideali, e chi vuol farne un suddito ozioso e corrotto non sia più possibile alcun confronto serio di opinioni, è provato particolarmente da alcuni dialoghi, ove la divaricazione fra le due posizioni emergenti dà luogo spesso ad un vero e proprio “dialogo fra sordi”.

V)           Dialoghi di Luigi Guicciardini

Luigi Guicciardini ha ambientato il suo primo dialogo mentre infuria la peste nel campo dei nemici che assediano Firenze, il secondo «il giorno dopo la battaglia di Gavinana». Si tratta qui (e nel Cerretani come vedremo) di una manifestazione dei problemi etici e politici sotto forma di dialogo, e non di modesti consigli e pareri al principe oppure di una argomentazione con pretese di organicità (come abbiamo finora visto); quindi non sarà male soffermarsi su questa peculiare struttura dell’esposizione, pur senza nessuna pretesa teoretica. È stato detto che il dialogo può essere definito come un “viaggio” dove le parti si misurano e istruiscono reciprocamente in un clima di urbanitas e civilitas, in un rapporto tra diverse concezioni che è teso e dialettico, ma sempre ispirato al rispetto delle differenti opinioni49. Questo può essere detto certo del Dialogo del Reggimento di Firenze di Francesco Guicciardini, prevalentemente dominato da una personalità come Bernardo del Nero, che enuncia una proposta politica da cui gli altri interlocutori possono anche dissentire, ma sempre misurandovisi garbatamente e maturando le proprie idee. Una tale impostazione potremo riprenderla a proposito del dialogo del Cerretani, ma in questi dialoghi di Luigi Guicciardini la situazione è del tutto diversa: l’autore non prende parte direttamente alla discussione, ma parla in modo chiaro quasi sempre attraverso un personaggio che rappresenta il suo scetticismo nei confronti del fideismo repubblicano dei “piagnoni”.

Il primo dialogo si svolge tra Francesco Capponi e Piero Vettori50 e vi si impone la dura realtà esterna (la repubblica è sul punto di cadere). Ciò esaspera il contrasto fazioso delle opinioni, segnando così l’«agonia» del dialogo ispirato ad una urbana dialettica51. Dialogo dunque non euristico ma eristico, si potrebbe dire, che inizia con una serie di esclamazioni di gioia e professioni di ingenua fiducia nella Provvidenza da parte del piagnone Francesco Capponi, che hanno l’effetto di definirne ben presto la personalità (p. 428):

 

O che gran nuova è questa! O quanto è iusto Dio! Chi sarà quello che horamai non creda al nostro profeta? Noi possiamo pure al presente ragionevolmente persuaderci di dovere essere tosto liberati da tanti travagli, noi cominciamo pure in questo punto a vedere altra dimonstratione della salute nostra, che quando speravamo nelli fallaci aiuti di questo o di quello principe o che el Turco dovessi in qualche porto del regno gittarsi: questo è pur manifesto segno che la nostra libertà sia grata al Maxino et unico IDIO, essendo fuor d’ogni altro humano aiuto privi, cominciata la peste nel campo de’ lanzi.

 

Francesco Capponi, pieno di entusiasmo, s’imbatte subito nell’amico Piero Vettori, a cui rinfaccia l’eloquente orazione che abbiamo visto, accusandolo di non condividere i suoi sentimenti e di aver cambiato collocazione ideologica.  Vettori precisa di essere sempre repubblicano, ma un conto è fare uso di argomenti laici, fondati sull’exemplum classico e soprattutto sul realismo politico, e un conto è il miracolismo dei piagnoni, che ingannano il popolo con vane speranze.  Capponi gli spiega che ha appreso la buona notizia da fra Bartolomeo da Faenza che predica (come già Savonarola) a San Marco: abbandoni perciò Piero i suoi «mesti pensieri» e non riponga le sue speranze solo nel «naturale» ma anche nel «sopranaturale» e nelle profezie dei frati. Si osservi che il dialogo non procede, come altri, per rapide e pungenti battute, ma più spesso per lunghe dichiarazioni, dove ognuno cerca invano di convincere l’altro della propria ragione. Così Piero si burla delle speranze e delle profezie e ricorda le imposture del famoso Foiano52: non di assurde speranze c’è bisogno, ma di una franca spiegazione ai cittadini dello stato reale di cose: ogni «huomo da bene» deve dire agli altri liberamente ciò che pensa, il contrario di quanto hanno fatto certi «consigliatori» della repubblica nostra, che riconoscono la verità in privato ma la capovolgono in pubblico, provocando le attuali «angustie» e «ruina» (p. 429). Quanto alla peste, inutile farsi illusioni, essa potrà diffondersi anche in città, mentre il nemico potrà far affluire altre truppe. A Capponi, che lo ammonisce a non ignorare il dolce che è unito all’amaro mel mondo «inferiore», Vettori risponde che il «savio» deve «variare» i suoi consigli, non opponendosi alla «fortuna» (e qui una qualche influenza di Machiavelli non è da escludere). A Capponi, così duramente contestato sul piano pratico, non resta che ricorrere alla retorica della «nostra cara libertà» che si è difesa contro i tiranni anche a duro prezzo, e alla speranza in qualche «favore straordinario concesso da Dio ai suoi fedeli» per salvare la città in extremis. A Piero che dubita di «simili «superstitioni», Capponi – a corto di argomenti – risponde che se Piero è, come lui, per la florentina libertas, non può non condividere le sue credenze profetiche. Fin qui il dialogo si trascina stancamente in un inconcludente contrasto fra posizioni inconciliabili, ma ora esso si trova ad una svolta netta, indicata icasticamente dall’agio di un’ampia passeggiata per «questa bella e larghissima strada verso Santa Reparata» (p. 431). Piero parte dalla critica di un tale concetto astratto di libertà e vuole verificarlo concretamente nelle strutture politiche, e soprattutto negli uomini e nei metodi di governo che la repubblica si è data. Già la prima repubblica è crollata per gli errori dei Soderini, il gonfaloniere Piero e il fratello cardinale «ambitiosissimo et avarissimo» (p. 433): ora è perfino peggio, alcuni dirigenti sono indegni, come Francesco Carducci, e gli altri non ammetteranno mai una reale partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica. Viene meno il tradizionale e superstizioso convincimento che la repubblica sia sostenuta da Dio53. Il sostegno può solo venire dagli uomini, purché coinvolti e messi in condizione di criticare e accusare i governanti54. Vettori distingue fra i cittadini partecipi consapevoli della vita pubblica e la «ignorante moltitudine», una «mandria di bufoli», su cui si fondava la politica del Soderini, a cui Vettori imputa anche una politica estera troppo legata alla Francia e la rottura con papa Giulio II. Di conseguenza la scelta di Vettori è nettamente orientata in senso ottimatizio. I vizi della prima repubblica rischiano ora di ripetersi. Né il Consiglio grande né le altre istituzioni sono, per Piero, un presidio sufficiente contro i «pessimi» cittadini, né si possono tenere per tanto tempo in certe cariche sempre le stesse persone; occorre una accurata selezione dei più «savi». Non basta essere nemici dei Medici, occorre trovare anche degli «optimi patritii» ben conoscendoli per «sapere se el corpo loro si truova più pieno di Marii che di Bruti», dove il secondo termine sembra indicare una connotazione prevalentemente negativa e distruttiva (pp. 432-434). Francesco tenta debolmente di opporsi alla ferrea dialettica politica dell’interlocutore: la natura di «simili huomini» gli è ignota, è abituato a lasciarsi governare, gli basta poter andare al Consiglio, non essere bastonato dalle troppe tasse:

 

L’intento mio è tucto volto in governare la mia brigatella, andare ne’ giorni festivi doppo le consuete divotione a rivedere la mia piccola villa, nelli altri guadagnare tanto mi possa mantenere insino che abbi uno ufitio. Questi sono e mia pensieri, maxime persuadendomi che, essendo liberati da tyranni, ne fussimo molto più alieni che per le parole tue non comprendo […]. La necessità del vivere nella quale si truova (come tu sai) la maggior parte de’ nostri ciptadini, mi stringe più al pensare di mantenermi vivo che al governare altri; et per questo bisogna io con tucti e miei simili ci fidiamo in quelli che possono continuamente vigilare le cose necessarie alla Repubblica nostra.

 

Si assiste qui ad un completo capovolgimento nell’attitudine politica dei due dialoganti. Il profetismo del piagnone, che sembrava preludere ad una forma di estremismo politico, si rivela una forma di quietismo in attesa passiva del miracolo, mentre l’apparente scetticismo ottimatizio di Piero si traduce in una attiva e profonda preoccupazione per la cosa politica, in un invito virile a stare «vigilante», a non escludere affatto che la città possa di nuovo «sdrucciolare» in un’altra tirannide. Che il miracolismo di matrice savonaroliana, una volta sganciato dal problema della effettiva gestione del potere, si capovolga in un completo filisteismo (soprattutto nei ceti sociali meno ricchi e colti) è naturalmente l’opinione dell’oligarca Luigi Guicciardini, che vi ritorna nel suo secondo e più importante dialogo: Del Savonarola ovvero Dialogo tra Francesco Zati e Pieradovardo Giachinotti il giorno dopo la battaglia di Gavinana55

         La discussione è preceduta da una breve ma densa introduzione dell’autore («Luigi Guicciardini a’ lettori salute»), che non vi partecipa né si identifica compiutamente con nessuno dei due antagonisti, che sono realmente esistiti. È senza dubbio assai più vicino al realista Giachinotti che al piagnone Zati, ma essi gli sono comunque estranei perché inferiori socialmente e culturalmente: parlano un cattivo fiorentino, sono «mediocri», prolissi e ineleganti, di scarso ingegno e poca dottrina, anche se – riconosce lo scrittore – si trovavano in una situazione tale «da smarrire il cervello a un savio» (p. 49). I due sono commissari fiorentini a Pisa dopo la battaglia di Gavinana (3 agosto 1530) che segnò la fine delle ultime speranze dei repubblicani. Francesco Ferrucci, divenuto il simbolo stesso della resistenza fiorentina, non è affatto presentato come un eroe: né dall’autore, che lo definisce come «vituperosamente morto» (p. 46) accusandolo di temerarietà, né da Zati che lo vitupera per i suoi «scelerati costumi» e l’irreligiosità, come vedremo56.

         Sul fatto che il dialogo abbia avuto effettivamente luogo, Guicciardini sembra giuocare abilmente: prima che afferma che è autentico, essendo stato a lui trasmesso da un cancelliere che udì tutto origliando «in una sottil fessura» (p. 48), ma poi mette in dubbio questa versione. Ma se non è materialmente autentico il testo – ecco – lo è comunque il contenuto che l’autore, nascondendosi dietro i due personaggi, vuole manifestare, per dire ciò che pensa di coloro che hanno «dal XXVII in sino al XXX la mia infelice patria maneggiato», e ammonire contro l’ostinazione e le «vanissime speranze» dei repubblicani e in particolare dei savonaroliani (p. 47). Il valore insegnativo del dialogo, quale ne sia l’autenticità, sta nel fatto che sia Giachinotti sia Zati, pur nelle loro opposte posizioni, sono i rappresentanti di uno stato sconfitto e sono costretti a parlarsi liberamente, senza accorgimenti politici o diplomatici, in una situazione che non consente alcun infingimento, data l’incombere della disfatta e la necessità di fare i conti con la probabile ribellione delle città sottoposte, e particolarmente di Pisa.

         Non è il caso di esaminare partitamente tutto il lungo e ripetitivo dialogo, ove per pagine e pagine la discussione è come bloccata fra l’attesa miracolistica del savonaroliano Zati e il mordace realismo di Giachinotti, repubblicano laico e poco tenero verso il «frate». Tuttavia il continuo e monotono battibecco non impedisce che a tratti (sia pure sotto forma di reciproci rinfacci e non di un vero approfondimento politico e tanto meno storico) emergano i retroscena delle recente vicenda repubblicana: gli eccessi di estremismo che hanno condotto alla cacciata del gonfaloniere Niccolò Capponi, colpevole di aver tentato un accordo col papa, gli errori compiuti in politica estera con l’ostinata e unilaterale alleanza francese, la corruzione dei capi che pensano solo ad arricchirsi. Su tutto pesa il solenne accordo bolognese fra Clemente VII e Carlo V, che viene chiaramente avvertito come la chiusura di una intera fase storica e il preludio alla inesorabile restaurazione medicea (pp. 60 e 104). 

Lo stile del dialogo risente di questa situazione, il linguaggio è spesso volgare, quasi sempre teso ed estremo, anche con toni paradossali e apocalittici. Frequente è il ricorso all’intervento divino, nella convinzione che possa salvare Firenze in extremis, o, all’opposto, che punisca la città con le sue «percussioni» (p. 71). Come esempio di stile “apocalittico” abbiamo le frasi con cui Giachinotti descrive i terribili sacrifici, fino ad arrivare addirittura al suicidio in massa e all’antropofagia, a cui Firenze dovrebbe piegarsi per resistere. In politica estera propone il rimedio estremo di una alleanza con Lutero o col gran Turco, in politica interna i repubblicani “laici” sono pronti a tutto:

 

per noi non si mancherebbe poi, nell’ultima nostra extremità, fare volontariamente delle più care cose nostre et delli nostri piccoli figliuoli et tenere fanciulle, insieme con la nostra libertà, nel mezzo delle ardentissime fiamme honoratissimo sacrificio al sommo Giove; et finalmente noi medesimi […] per mano l’uno l’altro allegramente pigliando, così liberi et poveri con pungenti stiletti voluntariamente amazarsi, prima che pervenire nelle impie mani di quelli che non bramono altro di noi […] Del quale glorioso fine saremo da posteri scrittori più celebrati che quella tanto lodata morte del nostro ingenioso Poeta Dante di Catone; et dove a lui […] è messo nella custodio del purgatorio, noi senza dubio collocati saremo nel più celebrato luogho del Paradiso.

 

I riferimenti danteschi ispirati all’immortalità ultraterrena ( il «sommo Giove» e il Paradiso) e a quella della gloria mondana (Catone) coronano e nobilitano questo estremo sacrificio. Ma il tono è talmente enfatico e in contrasto col consueto scetticismo di Giachinotti (e dell’autore), che questo linguaggio potrebbe forse costituire una parodia degli entusiasmi repubblicani, anche perché in precedenza lo stesso personaggio ha ammesso che senza i piagnoni sarebbe stato impossibile «condurre l’universale a sopportare tanta extrema necessità, né tenere tutto il popolo lieto et fermo in sì urgenti pericoli» (pp. 104-105). Pertanto la resistenza e l’ostinazione dei repubblicani sono sì ammirati, ma come qualcosa di sostanzialmente irrazionale57. Questa impressione sembra confermata da un altro intervento di Giachinotti che, dopo aver criticato come sempre «la semplicità dell’animo» di Zati che aspetta ancora la salvezza da un «miracolo», aggiunge che converrà, prima di vedere «le proprie case arse, le nostre carissime figliuole prophanate, mangiarsi prima le proprie membra per rabbiosa fame». Dopo aver lodato Lionardo Bartolini e Iacopo Gherardi per la loro netta determinazione alla resistenza, egli ribadisce che il prezzo per sopportare l’assedio e gloriosamente morire sarà terribile. Il «modo» trovato da Gherardi, consistente nel mangiare tutte le «fantesche» e «l’altre donne inutili», e alla fine giungere a «divorare e proprij figliuoli» piuttosto che arrendersi al papa e ai Medici, è definito «non meno ingenioso ritrovato che pietosa opera verso la patria». Parlando dei miracoli attesi dai piagnoni, Giachinotti osserva che l’antropofagia («casi horrendi intervenuti in più luoghi») non è affatto una cosa «sopra naturale», ma la conseguenza di situazioni estreme, come dimostrano gli esempi classici di Numanzia assediata da Scipione o della gallica Alesia assediata dai Cimbri.  (pp. 120-123). Il discorso sembra, nel complesso, di intonazione parodistica e ironica, tanto che al miracolismo di Zati e alla ostinazione dei repubblicani estremisti vengono contrapposte soluzioni possibili, come la morte dell’imperatore o del papa, o la peste che ha colpito i lanzi.

         In alcuni pochi casi momenti narrativi o figure interrompono il tessuto compattamente polemico dell’argomentazione. Tale è la «favola del tordo», con cui viene icasticamente condannata la presunta doppiezza di Francesco: non c’è «altra corrispondenza» fra le parole e le opere sue «che quella si suole tra vulgari narrare delle lachrimosi ochj et delle mani sanguinose di coluj nella favola del tordo» (p. 103)58. Parimenti nell’«examina» (interrogatorio e tortura) di Iacopo Corsi Francesco avrebbe dimostrato «durezza» e «crudelissima avarizia»59. Una figura che emerge con forza è l’ipotiposi della verità, che smentisce la credulità dei piagnoni, e per quanto «occultata […] si scuopre et manifesta, et come cosa levissima et inimicissima delle tenebre, surge a galla et monstrandosi vivasi fa apertamente conoscere a ciascuno» (p. 126). Un momento di vivace scontro si ha tra i due circa l’arrivo miracoloso degli angeli, che verranno, per Zati, a salvare Firenze quando sarà persa ogni speranza umana e sconfiggeranno facilmente i nemici della città, con ossimorico «angelico furore» e «con le spade sanguinose in mano». Ma è pronto lo scherno di Giachinotti: «A quale hora scenderanno li Angeli di Cielo, permettendo o la natura delle cose o el Maximo Idio che tanti Diavoli scatenati per tutto il dominio nostro scorrino?», o forse i piagnoni si aspettano che cada la manna dal cielo? (pp. 131- 133). Ma Francesco, imperterrito, continua a promettere miracoli, come quello di un drago che getterà fuoco dalla bocca, poi morirà seguito da tre potenti, segnando la vittoriosa conclusione dell’assedio (p. 154). Altre figure sono quelle degli «occhiali coloriti» portati dagli avversari del Savonarola (pp. 117-118) o quella cui ricorre sempre Zati per indicare la necessità di misurare l’azione ad un fine determinato, come l’arciere che sa tirare la freccia al bersaglio lontano (p. 107).

Venendo ora ai punti più ideologicamente importanti del dialogo, vediamo che lo scontro fra i due comincia con un duro giudizio su Francesco Ferrucci espresso da Zati, dopo che Pieradovardo si è detto stupito per la così rapida sconfitta della repubblica a Gavinana; Francesco risponde che Ferrucci ha commesso gravi errori, era di costumi «scelerati», miscredente (non si confessava né comunicava), si sarebbe comportato in modo vile dopo la sconfitta, ed aggiunge, evocando la Bibbia, che è stato giustamente punito dalla giustizia divina (pp. 51-54)60. Pieradovardo si oppone con «esempli» tratti sia dalla stessa Bibbia sia dalla storia recente, per dimostrare la possibilità di una difesa eroica della patria. Poco importano i costumi del Ferrucci, bisogna ora pensare alla situazione presente, con la città che è senza capitano, senza esercito, senza mezzi finanziari (pp. 56-58). La scena è dominata dall’accordo di Bologna fra Clemente VII e Carlo V che, per Pieradovardo, non era stato previsto perché non si erano usate le «humane ragioni», prevalendo l’attesa paralizzante dei miracoli. Ad esempio, il tentativo di Niccolò Capponi di accordarsi col papa poteva essere un’azione politica sensata, fallita per l’opposizione dei repubblicani estremisti (pp. 59-64). Ma almeno, si difende Zati, Savonarola aveva visto lontano, profetando la rovina della città. A questo punto la discussione acquista uno spessore ideologico che va oltre il solito e monotono dibattito. I due sono d’accordo sul fatto che si stiano vivendo momenti («mutationi») per certi versi inediti negli assetti politici fiorentini e mondiali, con eventi rari e quasi incredibili come viene specificato anche più avanti: la cattura del re di Francia dopo la battaglia di Pavia, la «ruina di Milano», il Sacco di Roma, il saccheggio dell’Ungheria (pp. 69 e 125). Per Zati una tale situazione ha caratteri apocalittici e può essere spiegata solo col profetismo di Savonarola, cioè con l’intervento di fattori soprannaturali:

        

[il] nostro sancto propheta venne in Firenze nel 1489, et espose in quel anno […] lo  Apocalipsi; nel qual tempo predisse tre cose: che la chiesa s’haveva a rinovare; che inanzi la renovatione sua Iddio voleva flagellare tutta Italia; la terza che questi duoi memorabili effetti seguirebbono tosto.

 

Ma poi, parlando del Genesi e in particolare del diluvio universale, Savonarola aveva cominciato a profetizzare la venuta di Carlo VIII in Italia, cosa reputata allora da molti uomini «prudentissimi» miracolosa, con una «narratione» frutto non di «humana industria», ma da «occulto instinto divino». Francesco ha udito coi suoi orecchi il frate prevedere le spaventose sciagure che avrebbero colpito l’Italia, come la guerra, la fame e la peste (pp.67-68).

    Giachinotti non nega l’eccezionalità del momento storico attraversato; nega invece che non si potesse arrivare alle stesse conclusioni del “frate” col semplice uso della ragione umana, senza l’intervento profetico: bastava una sufficiente capacità di analisi e di previsione politica. Prima egli menziona altri sant’uomini o astrologi che avevano previsto le stesse cose61, negando così l’originalità del Savonarola (e qui il dialogo dà luogo ad una prolissa discussione sul valore dell’astrologia e delle profezie), ma poi afferma che l’astrologia e il profetismo non erano affatto indispensabili per comprendere la gravità del momento storico attraversato. Il frate Benedetto da Foiano, senza voler atteggiarsi a profeta (era più «dedito a sensi che allo spirito»), parlando «come modesto religioso, et non come maligno simulatore et ambitioso hypocrito», aveva previsto il rinnovamento della Chiesa, la conversione degli infedeli e molte altre calamità che si sarebbero viste prima del 1540, fondandosi solo sulla lettura della Bibbia e dell’Apocalissi, «con la industria et doctrina sua», mentre rideva del Savonarola. Ma perfino un laico come Gino Capponi, molti anni prima della sua morte, avrebbe predetto «le ruine grandissime di Italia», l’intervento di Carlo VIII, la cacciata dei Medici, «le mutationi et saccheggiamenti di molte città et di tutti i Principi» e, anche lui, la conversione degli infedeli, il rinnovamento della Chiesa, e infine (non è ben chiaro in che modo) «la grandezza et la felicità di Firenze» peraltro in una Italia devastata da guerre, peste, fame e povertà. Queste profezie di Gino sono sempre state tramandate e confermate dai suoi nipoti «degni di fede» (pp. 72-73). Di là dalla credibilità di queste visioni profetiche, qui interessa la comune sensazione che Firenze e l’Italia stiano attraversando un “momento” peculiare e sconvolgente62, che però può essere interpretabile in due modi opposti: alla luce del soprannaturale profetico, o a quella della umana «industria», della ragione storica e politica (previsione e non profezia). Giachinotti per avvalorare la sua tesi deve naturalmente demolire la figura del Savonarola, presentandolo come un impostore, che si è comportato in modo ambiguo durante il processo, la condanna e il successivo supplizio, e perfino deridendo il suo aspetto fisico. I piagnoni, insomma, o sono stati ingannati o sono in malafede: questo costituisce il leitmotiv del dialogo (vedi pp. 66-91, 113-115 e passim) e su ciò non ci soffermiamo. Un’altra questione (o meglio un altro mito) emerge dalla discussione, ed è quello della creduta eccezionalità di Firenze, città prediletta da Dio e destinata ad una missione. È un tema particolarmente caro a Francesco, il quale spera che la sua città possa in qualche modo distinguersi rispetto ai tragici eventi contemporanei, considerati da entrambi gli interlocutori (abbiamo visto) come eccezionali e inediti: caduta di stati che parevano solidi, distruzione di fortezze che si credevano inespugnabili63, principi «canuti» sconfitti da giovani «barbari et di pochissimo ingegno», Roma saccheggiata, etc., mentre Firenze sta ancora resistendo64. Giachinotti però gli obietta che anche in precedenza erano avvenuti fatti eccezionali ed inesplicabili, come la vicenda rapida quanto tragica dei Borgia, la sconfitta di Venezia ad opera della Lega di Cambrai, la battaglia di Ravenna, la «facilità» con cui sono stati cacciati due volte i francesi dall’Italia (pp. 68 e 125), ma questi eventi si spiegano per lui con una causalità del tutto immanente, storica, e non già come un “momento” metastorico, comprensibile solo attraverso la fede nelle profezie e nei miracoli. Il richiamo frequente di Pieradovardo alla prassi politica “umana” innesca un dibattito anche sulla politica interna, che procede come per ondate argomentative che si succedono ripetendosi. Savonarola, osserva Giachinotti, fu arrogante nello sfidare Alessandro VI, non accettava (pur affermando di essere mandato da Dio) che altri religiosi, come i francescani, potessero contraddire le sue prediche, facendosi appoggiare da un violento come Francesco Valori, che «quando fu el tempo suo, fece per la sua arroganza quel violento fine meritava» (p. 87). Zati risponde ricordando la «sanctissima vita» del frate, che per lui non è colpevole degli eccessi del Valori, ed anzi ha avuto il merito di aver conciliato le parti avverse del popolo fiorentino dopo la cacciata dei Medici65, inoltre è stato lui a creare il Consiglio grande, che – come abbiamo visto in altri interventi – rappresentava un valore anche simbolico per la partecipazione degli strati popolari e una prova ulteriore della unicità privilegiata di Firenze. Così Francesco (p. 90):

 

Imperoche, essendo egli molto,  desideroso della salute nostra, continuamente si sforzava introdurre in Firenze, per mantenimento della nostra libertà, il consiglio grande, per lo squittino del quale fussino elletti tutti i magistrati, et di drento et di fuori della Città; et che solamente da quello dependessino tutte le provisioni et ordini necessarij alla pace et alla guerra, come al presente facciamo:modo certamente unico et saluberrimo per la conservatione della nostra Republica, nella quale qualumque altro governo, o di ottimati o di un solo Principe, più volte abbiamo compreso ne’ tempi passati havere partorito pessimi effetti.   

 

Per Giachinotti è vero che Savonarola ha «in parte alcuna la patria nostra beneficato», ma è altrettanto vero che era mosso da «smisurata» ambizione e voleva, tramite la partecipazione popolare, «farsi capo et Principe della nostra città» (p. 91), con una scelta, quindi, solo apparentemente repubblicana e democratica. Ne deriva la solita prolissa discussione tra chi vede nel frate solo un uomo astuto, un «eretico» che ha sfidato temerariamente la Chiesa, ha adulato il re di Francia e si è comportato vilmente durante il processo, e chi come Francesco esalta l’uomo che ha affrontato eroicamente il supplizio, le cui profezie hanno trovato conferma in una «polizza» affidata da Iacopo Niccolini, e da questi portata al Convento delle Murate, in cui il frate avrebbe predetto chiaramente che le tribolazioni di Firenze si sarebbero aggravate con un papa di nome Clemente. Ma Giachinotti (e con lui Luigi Guicciardini) nega che la previsione abbia carattere soprannaturale. Giulio de’ Medici fu eletto papa Clemente VII già nel 1523, ben 7 anni prima dell’assedio di Firenze. Pieradovardo ha udito da Andrea, fratello di Iacopo e piagnone, che la «poliza» non conteneva quella profezia66 (pp. 123 e sgg.).

         Ma l’interminabile e ripetitiva discussione deve a questo punto arrestarsi di fronte a sfide incombenti che non riguardano più il passato, ma il futuro prossimo. Emergono così le divergenze concrete, politiche e sociali sul comportamento dei governanti repubblicani. Zati ha individuato due colpe dei repubblicani, la prima di aver perseguitato «per eccessiva avaritia» i nobili e i ricchi, l’altra di non credere al «frate». Giachinotti risponde che la vera questione è la sconfitta: chi perde ha sempre torto, i vincitori troveranno solo una città spopolata e distrutta, «benché con glorioso et immortale nostro exemplo». A nulla sarà servito l’eroismo e la «simulata bontà» dei piagnoni, anzi l’eroismo dei repubblicani li renderà ridicoli, e il miracolismo non è altro che pusillanimità (pp. 102-104). La discussione riprende, come sempre, più avanti, assumendo via via un carattere più operativo e concreto. Pieradovardo dichiara di non essere affatto irreligioso, ma di non credere ai miracoli e alla «manna» che arriverà dal cielo: gli errori pratici commessi concernono la perdita di Empoli, dopo aver conquistato Volterra. Zati contrattacca muovendosi anche lui sul terreno della prassi: i repubblicani non piagnoni sono empi e crudeli («una caterva di ribaldi»), desiderano solo essere ricchi e potenti sotto qualsiasi regime. Zati tenta comunque una conciliazione, affermando che il «fine» perseguito da entrambi è lo stesso, ma l’altro è pronto a rispondere che i «mezzi» che si è creduto di impiegare sono opposti: gli increduli vogliono lottare finché è possibile, mentre il miracolismo profetico rende i piagnoni attendisti e opportunisti. Come nel precedente dialogo il miracolismo del piagnone, anziché apparire come un motivo di speranza e di fede eroica, si capovolge in una forma di inane passività, nell’attesa paralizzante del miracolo che si attuerà immancabilmente solo quando tutto sarà perduto; ma anche il laico Pieradovardo non esiterà, vedremo, ad abbandonarsi all’attendismo, ad affidarsi all’azione passiva del tempo (pp. 132-141).  A premere, invece, sono ora le necessità più immediate, quelle della salvezza personale. Giachinotti si ripromette di fuggire nell’isola di Gorgona, temendo di dover scontare i crimini commessi da lui e dagli altri repubblicani, come l’uccisione di Iacopo Corsi e del figlio, «quando da noi furono con sì poco rispetto crudelmente examinati et violentemente morti, et ancora pensando alla gloria et al piacere pigliavo alhora  el vedermeli inanzi nostri prigioni et in tanta miseria condotti». Quello stesso ideale di “gloria” imporrebbe ora l’obbligo di pagare di persona ed uccidersi, seguendo il modello esemplare degli antichi romani «virtuosi et tanto celebrati», ma lui sceglierà la pace dell’esilio, nella speranza che prima o poi i Medici perdano il potere (pp. 145-147). Ma ora è Zati a mettere in dubbio la possibilità di «un’altra mutatione», poiché, quando i Medici riprenderanno il potere, faranno in modo da conservarlo saldamente almeno fino alla quarta generazione, quando potranno anche dimenticare gli odii e le offese. Pieradovardo non si aspetta un rapido cambiamento politico: in contrasto con la sentenza dei filosofi, per cui «niuna violenza essere durabile», egli ritiene improbabili eventi che possano favorire una prossima restituzione della libertà (come la morte dei principali protagonisti, le possibili ostilità fra il re di Francia e l’imperatore, etc.), mentre spera nella lenta azione del tempo per consentire la restaurazione della repubblica. Ciò sarà forse attuato dalla moderazione dei vincitori, che, come già nelle “mutazioni” del 1512 e del 1527, non faranno un “repulisti” radicale, permettendo così il ritorno graduale della libertà che è per la città la condizione naturale. I due giocano su un «segreto» che Giachinotti afferma di possedere e che infine Francesco gli carpisce, ed è squisitamente politico: la contraddizione sperata fra i Medici e i loro partigiani, che vorrebbero vendicarsi, e il papa che non potrà ammettere troppa violenza. Zati non si accontenta di questa previsione puramente politica e ripete ancora la sua fede nel miracolo, che questa volta si materializzerà addirittura nel già accennato drago, «che gitterà per boccha fuoco», dopo di che, al suono delle campane, la patria tornerà «sicurissima, lietissima et honoratissima» (p. 154). Ma a tanta certezza corrisponde in realtà un atteggiamento opportunistico di Francesco, che in attesa dell’intervento divino vivrà da simulatore, ostentando pazienza, umiltà e perfino povertà.

         Il dialogo si conclude mentre i due si accordano su ciò che, da commissari della città sconfitta, dovranno dire ai riottosi pisani, cercando di sottolineare le possibilità di successo ancora esistenti, fondate su sul fatto che sono morti il comandante nemico principe di Orange e altri capitani, Pisa sembra difendibile, etc. Zati vuole avere l’ultima parola, accettando tatticamente questa propaganda («false inventioni»), ma affidando pur sempre a Dio la salvezza finale (p. 161). Le due opposte concezioni politiche e religiose si sono scontrate nel Dialogo in modo estremo e anche linguisticamente vivace, ma in realtà si elidono ed esauriscono a vicenda. La vera risultante dell’opera, che ci sembra l’autore intenda affermare, è il fallimento della repubblica in quanto formazione politica troppo astratta ed unilaterale, troppo priva di mediazioni rispetto ai “poteri forti” esterni ed infine vincenti, come il papa e l’imperatore (uniti dalla riconciliazione di Bologna). Entrambe le impostazioni (quella savonaroliana e quella laica, fondata sull’eroico modello romano) appaiono anacronistiche e impraticabili rispetto al corso della storia, che ormai ha preso un’altra direzione. 

VI)        Il Dialogo della mutatione di Firenze dl Cerretani

 

       Bartolomeo Cerretani (Firenze 1475-1524) fu savonaroliano e repubblicano moderato, scrisse nel 1512-14 una Historia fiorentina, mentre il presente Dialogo  si presenta con una forma «inconsueta» per un’opera di storia (osserva Mordenti, cit., p. LVIII)67. Ebbene, il problema è proprio questo, che non siamo di fronte ad un’opera di storia: lo scrittore nella sua Historia afferma chiaramente che la narrazione storica deve essere «un tutto le parti del quale proporzionalmente in simil quantità debbono crescere acciò ne risulti un tutto perfetto» (Mordenti, p. LVII)68. L’opera storica, divisa in sei libri, si svolge dalle origini della città al 1512, mentre questo Dialogo è ritenuto, abbiamo detto, databile intorno al 1520. Esso non è quindi semplicemente una trattazione storica scritta in questa singolare forma69, ma comporta invece la rottura col modello storiografico indicato, verso una struttura composita e complessa che, come vedremo, non perviene ad un giudizio definitivo e determinato, ad una conclusione precisa. Una causa estrinseca è data forse dal fatto che il testo rimase incompiuto (op. cit., p. LVI), ma le ragioni della sua sostanziale inconcludenza sono – come vedremo – più intrinseche.

         Già nel Proemio, rivolto al padre Paolo, lo scrittore parte da considerazioni di ordine vagamente filosofico per giungere ad una sorta di dichiarazione di metodo. Essendo l’uomo composto di anima e di corpo, come è il corpo a provare l’«innata voglia» di generare i figli70, così l’anima è portata a comporre degli scritti che, come i figli, possono essere belli o brutti. Egli non possiede una dottrina sufficiente, ma dispone di molto tempo «tra questi boschi e selve» e ha ritenuto che avrebbe fatto torto, grazie alla loro eccezionalità e novità, alle 

 

 

cose sute fatte da otto anni in qua» [1512-1520] nella Città nostra, sendo tornata la famiglia Medica dallo Exilio, se io non facessi memoria, come habbiamo fatto de l’altre de’ tempi passati, maxime che per il principio, mezzo e fine sono sute memoriabilissime et non mai più sute nella nostra Città (p. 2) 71.

 

Ribadisce di aver seguito «il modo degli storici antiqui e moderni» e quello che lui stesso ha impiegato altrove, ma afferma anche con nettezza che la singolarità delle recenti vicende lo obbliga a un nuovo modo di esporle:

 

et  benché a me, per essere di pochissima dottrina, non si convenga pigliare nuovi modi in scrivere le storie disforme dalli antichi, pure perché le cose nuove etiam che le non sieno singulari sogliono piacere, ho destinato nuovo modo allo scriverle, il quale è usato da celebrati scrittori in compositione di filosofia morale, matematica, teologia , et simili scientie, ma storie no […] darò principio a questo modo chiamato Dialogo.

 

Una composizione giustificata con l’apparenza di recare piacere al lettore, ma in realtà motivata dalla necessità di rappresentare eventi inediti con un procedimento “aperto” e non storicamente concluso. Abbiamo dunque un dialogo misto di scambi di opinione fra i protagonisti, ma anche di narrazioni: un dialogo che si svolge, come in una serie di «scatole cinesi» (Mordenti, cit., p. LX) tra diversi gruppi di personaggi in tempi e luoghi diversi. Giovanni Rucellai, oligarca fiorentino filomediceo è in viaggio come nunzio pontificio al re di Francia e si incontra con Girolamo e Lorenzo, gentiluomini fiorentini già appartenuti alla fazione savonaroliana72. Questa prima scena si svolge a Modena, dove i tre incontrano un altro fiorentino illustre e potente, Francesco Guicciardini, governatore della città da cui vengono ospitati. La conversazione che ha luogo tra Giovanni, Girolamo, Lorenzo e il governatore in attesa che si faccia l’ora di cena, è anticipata, in un singolare incastro, da un breve dialogo fra Lorenzo, Girolamo, Giovanni e Bartolomeo (il Cerretani stesso), nel quale i primi due raccontano di essere partiti da Firenze da ben 8 anni (cioè dal 1512, poco prima della caduta della repubblica di Pier Soderini), in cerca di uomini «eccellenti» per dottrina, incontrati in Germania. Nulla sanno di ciò che è accaduto a Firenze e in Italia, ed è questa finzione che permette soprattutto a Giovanni di compiere una lunga retrospezione   narrando otto anni di una storia che è già passata e giudicata, e che è ambientata in tre sedi: Modena dove il racconto ha luogo materialmente, ma coinvolgendo Firenze, sempre presente come riferimento etico e politico, e quell’Europa dove Girolamo e Lorenzo hanno viaggiato in cerca di un ideale di cristianità puramente evangelica, rinnovata e incorrotta, ma anche tentando di verificare, pur dopo una sconfitta (il supplizio e la fine del Savonarola) che essi giudicano temporanea, la perenne verità profetica del “frate”, loro maestro73. È Giovanni che collega la ricerca della purificazione della Chiesa, compiuta da Girolamo e Lorenzo, con la loro persistente fede nel profetismo di Savonarola, ma per denunciare vivamente quella che lui giudica una ormai vana superstizione: «Adunque siete voi ancora nella medesima suprestitione come già eri di fra Girolamo da Ferrara? E’ sarebbe horamai tempo lasciare tale simplicità, o forse malitie e astutie, a vari fini vostri», considerato che sotto il «mantello di Dio» e la direzione del Savonarola si sono compiute a Firenze azioni sia pubbliche sia private, sia nel temporale che nello spirituale, «non ben fatte» che hanno determinato l’ira di Dio stesso, con la tragica fine del frate e di quello stato. Ma Girolamo e Lorenzo non rinnegano per questo le loro idee. La «materia di  frati» per loro non è affatto «vile e bassa», e per questo sono andati nella Magna a Franca Corte (Francoforte) per parlare con tutti quelli che sono «eccellenti» per fama e dottrina, ed in particolare con Joanni Reuclino (Reuchlin), grande teologo e filosofo che ha loro  insegnato l’arte della Cabala (p. 5). Lo scontro fra i due opposti orientamenti religiosi, etici e politici è così posto subito con nettezza, ma si può osservare che esso non diviene mai o quasi mai in tutta l’opera quel violento “battibecco” che abbiamo visto nei due dialoghi di Luigi Guicciardini, particolarmente nel Savonarola. In quei testi le due posizioni sono collocate nello stesso tragico momento storico, dominato da scelte politiche drastiche, che non possono non esasperare il confronto fra chi continua a fidare – pur nell’incombere del disastro – nel “frate” e nella sua promessa di una finale salvezza della città, e chi lo giudica semplicemente un impostore. In questo Dialogo uno scontro così estremo è reso impossibile dallo sfalsamento dei tempi in cui Giovanni da un lato, Girolamo e Lorenzo dall’altro, si muovono. Rucellai sa ciò  che è accaduto in quegli otto anni: è, per così dire, colui che possiede la storia passata di cui conosce e anche giustifica, da protagonista non secondario, tutte le pieghe e le iniquità, che però sono ormai date una volta per tutte e non possono essere oggetto che di vane recriminazioni. Girolamo e Lorenzo sono idealmente i custodi del futuro, di un tempo della profezia, che porta intrecciate tra loro ben tre questioni: una possibile restaurazione repubblicana (“stato largo”) a Firenze; il rinnovamento della Chiesa, seguendo i dettami di Savonarola, ma anche di Reuchlin, Erasmo e Lutero; infine se sarà Firenze (città prediletta da Dio per i piagnoni e non solo) o Roma ad essere investita della missione di purificare la Chiesa.

         Il viaggio, che porterà i due amici a incontrare Lutero (pp. 4, 18-23), Erasmo (p. 16), e Reuchlin (pp. 5 e 13), è quindi un itinerario verso la sapienza, anche una sapienza remota come la Cabala, che la prassi ecclesiastica ha oscurato: un viaggio come iter in Paradisum, verso la ricerca di una cristianità evangelica perduta. La trattazione dell’Arte Cabalistica fatta dai due viaggiatori (che qui si omette) si inserisce in un percorso narrativo che da quelle remote lontananze e da quelle sfere celesti si sposta concretamente a Modena, dove il governatore Guicciardini è ben lieto di godere della compagnia dei suoi ospiti, ascoltando i loro racconti, mentre loro evitano così «il fastidio della osteria» (pp. 13-14).  Diversi sono naturalmente i tempi delle vicende che i tre ospiti raccontano, e ben diverso ne è il tono. Rucellai parla della sua legazione al re “Cristianissimo”, mentre come sappiamo Girolamo e Lorenzo sono fuggiti nel giugno 1512 da una Firenze che sta per essere conquistata dagli spagnoli, per non assistere al tragico destino della città, non incolpevole della sua rovina per gli errori commessi nell’ordinamento politico dello stato e per i vizi inveterati dei fiorentini, come anche i «segni celesti» avevano ammonito. È una fuga da una condizione inaccettabile e umiliante (una sorta di “castigo di Dio”) che  può ricordare sotto certi aspetti quella dei personaggi del Decameron da una città appestata e invivibile, o quella dei protagonisti degli Ecatommiti giraldiani, in fuga da una tragedia per molti versi epocale come il Sacco di Roma, in cui effettivamente si attuerà, dopo pochi anni, quel destino “apocalittico”, quella meritata punizione per la corruzione della Chiesa che è oggetto di tante discussioni di questo Dialogo. Ma è appena il caso di notare che mentre per i personaggi boccacciani la peste che colpisce Firenze è un vero e proprio castigo di Dio, per i protagonisti degli Ecatommiti il Sacco di Roma non comporta affatto una sorta di punizione o nemesi per la Chiesa, che viene anzi difesa e lodata, mentre la peste che colpisce Roma è colpa esclusivamente dei barbari lanzichenecchi, dopo che essi si sono abbandonati ai più feroci eccessi74. Invece per i protagonisti “piagnoni” di questo dialogo a Firenze si sono violati degli ordinamenti che erano stati dettati da Dio tramite Savonarola (che verrà per questo avvicinato con gli esponenti religiosi conosciuti all’estero). Non si era data la giusta perfezione a una «Republica quasi divina», si era data prova solo di ferocia ed egoismo, « dubitando del giuditio di Dio, che ci pareva vederlo presso, et per non vedere la mala sorte della patria, deliberamo partirci, Lorenzo et io» (p. 15). Il viaggio si svolge passando per Camaldoli (e forse è possibile un riferimento alla Disputationes Camaldulenses di Cristoforo Landino), la Verna e infine Venezia, che viene presentata come un modello perfetto di repubblica, stabile e ben ordinata, immune dalle tante invasioni barbariche che hanno devastato l’Italia. Ma qui emerge subito, per bocca di Giovanni, quello che è un consolidato giudizio fiorentino verso i limiti del modello veneziano. Venezia è avvantaggiata anzitutto dal sito, poi dagli spiriti «grossi» (e sangui anche «grossi») dei suoi abitanti. I fiorentini «mobili», irrequieti, incontentabili, non potrebbero mai accettare un tale modello. Sembra qui innegabile l’influenza del pensiero di Machiavelli e di Guicciardini, come pure ovviamente delle loro fonti classiche75. Il Cerretani parrebbe invece sostenere il modello veneziano e quindi una versione moderata della stessa predicazione savonaroliana (Mordenti, cit., p. LV), mentre non nasconde, abbiamo visto, il suo spavento di fronte al caos politico di Firenze. Egli perciò sottolinea il carattere moderato e partecipato del governo instaurato a Firenze dopo il 1494, quindi sotto la diretta influenza del Savonarola, con una impostazione che si può per molti versi avvicinare a quella espressa da Francesco Guicciardini nelle Storie fiorentine (per cui vedi infra la nota78). Anche in seguito si nota il disagio dello scrittore per una crescente “specializzazione” della politica (concentrata nella corte medicea) che ne esclude la partecipazione, i saperi e le competenze di tanti buoni cittadini 76

         Ma in verità non sembra questo il maggiore elemento di dissenso del Dialogo, che è rappresentato dalla questione della veridicità del profetismo savonaroliano. Girolamo deve ora ripetere per i nuovi interlocutori (Giovanni e il governatore) il racconto del suo viaggio. Dopo aver descritto l’incontro col Reuchlin, fa un’ammirata descrizione della personalità e dei costumi di Erasmo (pp. 16-17), interrotta dalla notizia dell’elezione imperiale di Carlo V. La narrazione riprende con l’elogio di Lutero, che però incontra subito l’opposizione di Giovanni in nome del dogma cattolico. Lo scontro principale, come abbiamo già anticipato, si instaura tra la difesa (fatta da Girolamo) del Savonarola, il cui pensiero è collegato con quello dei riformatori europei e quindi con le esigenze di rinnovamento della Chiesa, da un lato, e la necessità (sostenuta da Giovanni) di preservare la Chiesa cattolica come istituzione, dall’altro. La peculiarità della posizione di quest’ultimo è che egli non nega affatto la corruzione della Chiesa, ma ritiene che l’Istituzione in sé sia da conservare e difendere in quanto luogo di potere, sede di una incontestabile tradizione, che assicura la continuità dogmatica e quindi storica. Giovanni non ricorda solo che Lutero è stato «dannato e reprovato», ma accusa Girolamo di credere ancora in quella che definisce la «antica suprestitione del frate». Girolamo gli chiede di dirgli sinceramente se a Roma «si ha una gran paura di questa renovatione della Chiesa per amore de’ vostri beni temporali», cosa che Giovanni ammette con tranquillo cinismo:

 

Girolamo, egli è vero che da qualche anno in là se ne dubitò assai, ma hora se tu vedessi là non è huomo che non habbia un paradiso di piaceri et di voluttà terrene; et di queste cose si ridono et fannosene beffe: e quelli vostri argumenti che tutte le profetie, che le pietre, che la Scrittura sacra, che la Chiesa è vecchia, che i peccati del clero tutti portendono  et chiamono la rinnovatione, et vostre monache e contadini e frati et altri profeticuli la dicono in questi tempi,  di che a Roma ciascuno se ne ride et voi vi pascete di fragole.

 

A Girolamo non resta che appellarsi a quelle che giudica (sulla scorta del pensiero e della storiografia classica, ma anche delle idee di Erasmo e dello stesso Savonarola) le eterne leggi della storia: come il paganesimo e l’ebraismo si sono estinti per corruzione, così anche la Chiesa può essere esposta a questa fine, se non cessa di corrompersi. Ma la Chiesa non può finire, essendo opera divina e non umana, e tuttavia per intraprendere una indispensabile opera di rinnovamento avrebbe bisogno di martiri, confessori e predicatori, come quei cristiani delle origini così diversi dagli attuali prelati (come il Paradiso è l’opposto del pagano “paradiso” della corte romana), come sono stati San Francesco e San Domenico (pp. 18-21)77. Non resta a Giovanni, incalzato dalla passione evangelica di Girolamo, che attaccare Savonarola sulla questione delle profezie, cioè della possibilità umana di prevedere il futuro, cosa negata dall’ortodossia cattolica. Che la Chiesa si debba rinnovare egli non lo nega, perché è ormai troppo diversa «da quella de’ primi Cristiani», ma quello che «offende» è che i savonaroliani pretendano di intendere le cose future, possibilità negata sia dal Vangelo sia da Aristotele: è vero che nell’Antico testamento i profeti antichi anticiparono «li flagelli e l’avenimento del Signore», ma erano ispirati dallo Spirito Santo e si esprimevano in modo oscuro («lo notorono con certi tempi, hore e punti che prima che l’incarnassi non furno mai intesi»), ma ora è inaccettabile «la presunzione a questo vostro dogma, che non solo v’è la rinovazione, ma la dite ne’ tempi e dì nostri su le parole del frate!». E non basta, questa «fantasia suprestitiosa» Girolamo e Lorenzo la motivano anche con le eresie di «fra Martino». Ma a questo punto interviene Guicciardini, decisamente più disponibile e aperto verso le posizioni del «frate», meno frenato da obiezioni dogmatiche («Io parlerò largo», premette). L’opera del Savonarola gli appare «una gran cosa […] et li articuli che prenuntiò per parte di Dio, et come que’ successi de l’anno 1494 vennono havendoli avanti qualche anno pronosticati in que’ tempi che l’Italia era in calma, et come successono apunto secondo che lo pronunziò». Il governatore è largo di riconoscimenti verso i valori di «carità, semplicità, patientia e fede» svolta dal frate, che ha imitato le virtù dei primi cristiani, che il frate ha messo in atto e non solo predicato (pp. 22-24).78 Non resta a Giovanni che accusare debolmente di avere «qualche fantasia» il governatore, riprendendo poi contro il Savonarola le note accuse di ambizione personale e di aver voluto organizzare un concilio contro la Chiesa. Guicciardini (che assume qui un ruolo da arbitro equilibrato) risponde con la consueta pacatezza: «Adunque tanti santissimi huomini, che hanno fatto ordini et religioni nuove et le vechie rinnovate e ristrette, sarebbono suti presuntuosi e superbi?» (p. 25).E cita San Romualdo, San Giovanni Gualberto e infine San Benedetto, il «quale [ordine] è sì bello». Il bene, afferma Guicciardini, è sempre bene, e lo si giudica dagli effetti, cioè dalla vita e dai «progressi sua e de’ frati sua». Ma Giovanni non può ammettere che Savonarola mettesse in dubbio l’autorità della Chiesa (sempre indiscutibile, anche se rappresentata da un papa come Alessandro VI), e ne nasce uno scontro, il cui tono è molto più serrato e agonistico del solito, tra Giovanni stesso e Girolamo sulla necessità di santi e martiri per rinnovare la Chiesa, dominata dai vizi cui si abbandonano il papa e i prelati (pp. 26-29). E d’altra parte non ha forse avuto ragione il «frate» a preconizzare eventi nuovi e strani, mai visti in precedenza e che nessuno poteva immaginare, eventi “apocalittici” come l’intervento di Carlo VIII, subito seguito dalla rapida capitolazione delle «belle et armigere gente d’Italia», la morte di Lorenzo il Magnifico e dello stato mediceo, e altri «flagelli»?79. Tutto ciò non dimostra forse che Savonarola fu un vero profeta? La Chiesa si decida dunque, seguendo le sue idee, a gettare la vecchia pelle come fanno i rettili. La discussione piuttosto accesa tra Giovanni e Girolamo si può così riassumere: il primo ripete le sue accuse al frate di essersi ingerito nella politica cittadina, di voler nominare un nuovo papa, di produrre divisioni e risse, il secondo gli ricorda quanto sia stata encomiabile (l’ammette in parte anche Giovanni) l’azione del Savonarola per salvare Firenze dal disordine e averne moralizzato i costumi. Egli fece bene anche a lottare contro i «perversi religiosi» e i malvagi, applicando il dettato evangelico: «Non dice Idio ne l’Evangelio: “Io son venuto a mettere il fuoco, io ho messo il coltello in terra per separare i boni da’ cattivi”?» (pp. 31-32) 80. La debole obiezione di Giovanni è ancora una volta di carattere pratico: in nome del “frate” sono state commesse molte ingiustizie, molte volte egli stesso si contraddisse, quindi è insostenibile che tutto quanto egli faceva o diceva venisse da Dio. Girolamo può anche ammetterlo, è però certo che la religione ha sempre avuto bisogno di profeti, e non solo nel «Testamento vechio». Il “frate” può anche essersi contraddetto, ma sotto le torture. Ma per Giovanni la stessa virtù profetica del Savonarola è falsa, dato che per il frate lo stato popolare «non poteva essere guasto», sarebbe stato invincibile e avrebbe mantenuto e aumentato il suo dominio, attraendo altri popoli col suo modello di «vivere publico». Invece è accaduto tutto il contrario: lo stato è «guasto» e quelli che ne furono capi hanno pensato solo ad arricchirsi (pp. 33-34). Egli stesso, Rucellai, ha concorso «con l’arme in mano» a  distruggere il Consiglio grande e a cacciare Soderini. Ma qui raggiunge forse il suo punto culminante lo scontro fra la “verità effettuale”, cioè la spietata prassi seguita dalla parte oligarchica cui appartiene Rucellai, e il profetismo che intende progettare un futuro senza limiti, da attuarsi nonostante la sconfitta avvenuta. Girolamo riconosce che Giovanni dice il vero sulla disfatta della Firenze repubblicana, ma – collocandosi in una prospettiva millenaristica – la giudica solo temporanea. Savonarola ha infatti previsto che la violenta restaurazione (prima oligarchica poi medicea) non durerà «quindici dì»81, e di fronte alla prevedibile, sarcastica risposta di Giovanni (i quindici giorni sono passati da un pezzo e il nuovo governo si regge bene),  Girolamo non può che appellarsi al fideismo profetico, alla necessità di interpretare un linguaggio oscuro, avvalendosi di un precedente veterotestamentario (Daniele, 9, 24-27):

 

Il centro del tutto è intendere questi quindici dì quello che vogliono dire: perché io lessi là nel testamento vecchio un pezzo che un Profeta promisse il Signore tra 48 settimane  e passorno anni; niente di meno si tiene la Scrittura sacra per vera, perché queste cose e parole de’ Profeti non s’intendono dopo, nonché prima.

 

E questo lo insegna anche la scienza pagana di Pitagora, per il quale le cose divine «non s’intendono senza lume divino» (p. 35). È evidente il contrasto insanabile fra chi conosce come la storia si è realmente svolta (in modo ritenuto giustamente irreversibile) e un profetismo per il quale tutto può ancora capitare, l’antica speranza può risorgere: qualcosa di simile abbiamo visto nelle ardenti orazione repubblicane di Luigi Alamanni e Bartolomeo Cavalcanti, o nelle infiammate repliche allo scettico Giachinotti di un Francesco Zati, incurante che la repubblica sia stata sconfitta dopo Gavinana e, per giunta, poco prima di quella “fine della storia” che poteva apparire l’incontro di Bologna fra Clemente VJ e Carlo V82.       

          La narrazione riprende con la «mutatione» del 1512 descritta da  Lorenzo, che subito cede la parola a Giovanni, l’unico che vi abbia partecipato attivamente. Anche Guicciardini è interessato al racconto, essendo lui allora giovane e spesso lontano dalla città. Dopo l’aspro scontro, Giovanni e il governatore garantiscono a Girolamo la facoltà di intervenire quando non è d’accordo. Ci sono ancora due ore prima di cena, e c’è tutto il tempo per una narrazione retrospettiva abbastanza serena, che parte dal buon governo attuale del cardinale Giulio de’ Medici, per spingersi fino al 1494 e al potere del “frate” (pp. 38-39) che, riconosce ora Giovanni, agì bene moderando le parti avverse, evitando le più feroci vendette ed istituendo il Consiglio grande83. Senza troppo soffermarsi sulla fine del Savonarola, Giovanni passa subito all’elezione del Soderini, al quale muove le tipiche critiche degli oligarchi: non ascoltava i «savi», si circondava di collaboratori deboli o comunque sgraditi agli oligarchi – e qui forse non è da escludere una critica a Machiavelli84, preparando così la sua rovina. Il racconto si diffonde sugli eventi successivi (elezione a papa di Giulio II, gli errori e gli scandali del governo repubblicano) che concorrono a rendere ««inevitabile, per Giovanni, la restaurazione medicea. Il tono uniforme e spesso puramente referenziale della narrazione è interrotto solo da qualche stilema più vivace, come la morte di Gastone di Foix, il vincitore della battaglia di Ravenna, che «rimase morto et affogato nel sangue di che in vita haveva tanta sete» (p. 43), o come l’azione del nuovo gonfaloniere oligarchico Giovanni Battista Ridolfi, che fa levare tutte le armi e le catene da Palazzo Vecchio e lo fa aprire al popolo «da poppa a prua» (p. 50). A dominare nel racconto è la pura e semplice vis rerum, la concretezza inesorabile dei rapporti di forza, che si manifesta anche nello stile, ove prevale un andamento cronistico e spesso paratattico, come in: «Loghoro il dì, il legato si tirò a Campi, non però fermo e risoluto su la listra mandata […] Et la notte ordinorono che in Prato si bandissi […] Il venerdì il legato tornò a Sant’Antonio […] Et facemo cavalcare certi Spagniuoli lungo le mura della città di Firenze […]   Et essendo a cavallo comparse due oratori spagniuoli» (p. 54) e così via. In un tale contesto asciuttamente politico restano pochi e generici i giudizi morali sulla vita cittadina o gli accenni provvidenzialistici: ad esempio il governatore attribuisce ai «peccati de’ Pratesi» la disfatta che portò alla caduta della repubblica: i più gravi vizi cittadini sono per Lorenzo l’ambizione e l’avarizia, responsabili dei disastri che egli attribuisce al «voler del cielo»; per Giovanni è riprovevole il comportamento del Soderini che si diede alla fuga piangendo: ma è stato Dio che ha permesso a Soderini di fuggire e salvarsi, dice Girolamo che è, con Lorenzo, l’unico a difendere il deposto gonfaloniere. Nell’esposizione di Giovanni emergono presto le divisioni tra i repubblicani puri (che volevano solo cacciare Pier Soderini) e i palleschi, la cui vittoria è stabilita dall’arrivo a Firenze di Giuliano de’ Medici, che all’inizio intende comportarsi in tutto e per tutto da cittadino. Mentre emerge la sua scarsa attitudine al governo, in contrasto con la forte personalità di G. B. Ridolfi85, i Medici decidono infine di rinunciare a ogni simulazione di “viver civile”, mentre Giuliano non è per Girolamo che «un povero giovane» inadeguato a svolgere il ruolo di signore della città (p. 59). Giovanni non nasconde affatto gli innumerevoli atti di ferocia compiuti specialmente dagli spagnoli (solo Girolamo esclama una volta: «o mala fortuna della città nostra!»), né le azioni da lui stesso compiute, le violenze e gli intrighi che segnano il passaggio al definitivo dominio mediceo, seguendo le leggi ferree della politica («Non si vince il pericolo senza il pericolo»). Solo alla fine del racconto si fanno sentire le ragioni della doverosità morale, cioè del contrasto di una tale prassi spregiudicata coi valori evangelici, che in teoria dovrebbero essere rappresentati da Giovanni, nunzio pontificio e cardinale mancato: ma anche e soprattutto dal pontefice Giulio II, una cui lettera, che loda i fiorentini come «buoni figli di santa Chiesa» mentre dà loro «licentia d’una decima a’ preti», suscita i salaci commenti di Lorenzo, ma anche di Guicciardini (p.60):

 

Gir.Tu ridi Lorenzo? O Erasmo, tu sei il principe de’ Savi! Gio.Voi anche Governatore ridete et vi maravigliate? Gov. Segui Girolamo Gir. Di te Giovanni né de’ tua compagni non mi maraviglio io, perché la necessità vi faceva andare […] ma io rido che Giulio che è invece di Dio in terra, lodi una violentia di questa sorte, ha egli smarrito costui il fine! 

 

 

Lo scontro per ora si arresta, con una discussione marginale sull’operato dell’arcivescovo Pazzi e uno sfogo di Girolamo per la faziosità dei fiorentini, che paragona ai «cani». Senza la protezione di Dio la città sarebbe andata in rovina:

 

Adunque que’ cani furno legati! Qual fu la cordial buona natura de’ capi, io seppi che furno legati avanti al venire de’ Medici, che si vedde certo in altri accidenti che accaddono, che saranno più per l’avenire, segni che la Città nostra è di Dio particularmente, et vedrai come apertamente in moltissimi accidenti io te lo mosterrò (pp. 60-61).

 

 Il ruolo non solo profetico, ma di moderatore esercitato dal “frate”, è confermato dalle precedenti affermazioni dello stesso Girolamo, che suonano condanna degli eccessi e delle violenze della vita cittadina (Dialogo, p.15), come abbiamo visto. Il ruolo moderato svolto dal “frate” e dai piagnoni è anche più volte ammesso da Guicciardini nelle Storie fiorentine. La discussione, lasciati per il momento da parte gli eventi contingenti, non può che reintrodurre il noto problema del preteso destino soprannaturale di Firenze, e della stessa validità del profetismo savonaroliano, nonostante le dure repliche della storia recente, così crudamente rappresentata da Giovanni. Pur nella profonda diversità del contesto, forse possono qui tornare utili alcune osservazioni del Bàrberi Squarotti86 a proposito delle “profezie” espresse dalle anime nei tre regni della Commedia che, come è noto, si riferiscono in buona parte (profezie ex eventu) a fatti già accaduti quando l’opera venne composta. Ma questo dato evidente non riduce affatto quelle “profezie” ad un mero espediente retorico. Se per il cattolico Dante è da condannare ogni pretesa di indovinare il futuro per chi, a differenza dei Profeti, non è ispirato da Dio, la “profezia” acquista allora il senso di un solenne giudizio etico-religioso su realtà in effetti già note, esistenti da tempo, e che sono prevedibilmente la causa dei mali futuri. Nel nostro caso la visione “apocalittica” attribuita al “frate” e ad altri profeti, e creduta fermamente dai suoi più tardi seguaci, ci sembra – soprattutto in questa parte del Dialogo – che sia meno vincolata alla pretesa di indovinare questo o quell’avvenimento futuro, e più rivolta ad evidenziare la «spiegazione autentica», «il significato etico e le motivazioni politiche» (Il tragico, cit., pp. 45-47)  delle tragedie avvenute, e che, aggiungiamo  noi, potranno ancora avvenire per il persistere ormai inveterato dei vizi irrimediabili dei cittadini, mai purgati e superati, la superbia, l’invidia e l’avarizia che, come nella denuncia di Ciacco, tornano abbastanza spesso nei giudizi morali dei nostri personaggi.

         Come per il Guicciardini delle Storie fiorentine, potremmo dire che anche qui l’azione politica di Savonarola, il suo discernimento nel comprendere la necessità di salvaguardare la concordia dei cittadini, il contemperamento degli “umori”, etc., mettano tra parentesi – sia pure temporaneamente – il suo presunto ruolo di profeta divinamente ispirato, a vantaggio di fatti certi e politicamente apprezzabili, mentre restano sullo sfondo gli interrogativi sulla sua “santità” di profeta. Caso mai è proprio il fascino della profezia a rendere credibile un grande progetto politico, la rifondazione su base “popolare” di un potere cittadino che ponga fine alla signoria medicea, liquidando di netto anche il vecchio regime oligarchico. Non è un caso che l’oligarca Rucellai definisca in modo riduttivo come una mera «suprestitione» quella che in realtà è per lui e il suo ceto una minaccia politica (la repubblica fondata sul Consiglio grande), e scelga senza indugio di sostenere la restaurazione medicea. Facendo un’osservazione generale sulla struttura dell’opera, possiamo notare che il tema savonaroliano e quello (connesso, come sappiamo, del ruolo religioso di Firenze), arrivano ogni tanto come delle ondate, inframmezzate da brani puramente narrativi e denotativi. La discussione si fa vivace, pur senza raggiungere l’asprezza di altri dialoghi. Qui il passaggio dal gonfalonierato oligarchico Ridolfi al potere mediceo è semplice «benefitio di natura» per Giovanni, ma né il governatore né Girolamo sono d’accordo e considerano l’ennesima «mutatione» come qualcosa di miracoloso, perché avvenuta senza le solite distruzioni. Si tratta di misteri, ripete Girolamo, che in qualche modo chiamano in causa il soprannaturale: da molti segni si vede che Firenze è cara a Dio (p. 62). «Secondo la dottrina del frate […] Dio haveva particulare cura della Città nostra e tenendo la rinnovatione della Chiesa ne’ tempi nostri, accennava che l’haveva eletta Dio in questo luogo […]». Perciò era necessario prima «nella Città nostra aconciare le cose civile, perché Dio procede a’ suoi fini per i mezzi naturali, e di qui cominciare a rassettare lo spirituale» (p. 62). Obietta Giovanni che così si anteporrebbe l’«effetto», cioè il “viver civile”, il governo “largo”, allo scopo spirituale. Ma cosa si deve intendere per il rinnovamento della Chiesa, ed è vero che esso esigerebbe come precondizione la rinascita anche civile della città? L’evangelico Girolamo non ha dubbi: rinnovare la Chiesa «è reintrodurre el vivere spirituale <e> temporale, come fu al principio di que’ primi Cristiani», e questa forma può solo essere introdotta «in quelli luoghi et in quella materia che è più pronta e più atta a riceverla». Ma a Giovanni e anche a Guicciardini sembra che il luogo più adatto per una tale rifondazione non possa essere che Roma, dove la Chiesa ha avuto il suo principio. Inoltre Giovanni, brutalmente come sempre, non ammette il dissenso dalla istituzione ecclesiastica così come si è costituita: non si mandino profeti o «simil suprestitioni» a Roma «che noi faremo loro la festa più presto che non la si fè qui a’ frati». Gli autori e i personaggi classici (Plinio, Livio, Valerio Massimo, ma anche Numa Pompilio) vengono citati da Girolamo a prova che anche gli antichi sapevano distinguere fra religione e superstizione. Ma per Girolamo la temporanea sconfitta dei piagnoni e della repubblica non è definitiva: anzi essa dimostra che Dio si era adirato col popolo fiorentino, dominato dallo stato “stretto”, che è contrario alle leggi etiche e religiose (come dimostra anche l’uso della frase blasfema che gli stati non si governano coi paternostri)87. Che a Firenze governino i «secolari» anziché i sacerdoti come a Roma, non vuol dir nulla. Se Dio voleva rinnovare la Chiesa bisognava che cominciasse proprio da Firenze «perché teneva che fussi più religione et più facilità ne’ secolari che ne’ religiosi, e quali hanno contratto familiarità con Dio, però cominciò a’ secolari, et perché l’universalità de’ fiorentini depende più dal reggimento e governo loro che da altrove» (p. 63). Non si deve temere, argomenta sempre Girolamo, di partire anche dalle «cose grandi» per «abassarle alla perfetione nostra». Così crediamo di interpretare: la «perfetione» è quella degli ordinamenti di una città che, se sono “larghi”, corrispondono appunto alla divina giustizia. La miracolosa risurrezione di Lazzaro88 prova fuori d’ogni dubbio che Dio può sempre attuare una rinascita apparentemente impossibile sia del savonarolismo a Firenze, sia di un autentico cristianesimo, non più solo gerarchicamente romano. Ma la citazione evangelica non ha il potere di commuovere Giovanni, che arriva al limite della miscredenza («Idio perché lasciò morire Lazzero per haverlo a risucitare?»). Ne nasce un vivace scambio di opinioni (la possibilità che lo «stato popolare» possa rinascere suscita anche lo scetticismo di Guicciardini). Ma per Rucellai si tratta solo di «ghiribizi» che non scalfiscono il suo robusto conformismo (p. 64).

         La narrazione riprende, con un evidente scarto anche stilistico (referenziale) rispetto a questa discussione. Parla Giovanni, con qualche sporadico intervento (non particolarmente polemico) di Girolamo e di Guicciardini. È narrata la restaurazione medicea (mentre Giuliano dà crescenti prove di incapacità), interrotta da qualche giudizio morale o moralistico: nei cittadini dominano l’ambizione, l’avarizia; il Palazzo e la stessa sala del Consiglio sono stati trasformati in bivacco, osteria e bordello, ma il legato (Giulio de’ Medici) tutto accetta e giustifica. Invano Girolamo si scaglia contro i «cani» e invano cita il Cristo che dice ai suoi discepoli: «Voi siete mondi ma non tutti»89. Da questo quadro di piatto conformismo si distingue la figura risentita del segretario imperiale Gurgense, capace di rifiutare un cappello cardinalizio90. Il potere viene assunto gradualmente da Giulio de’ Medici, che per Giovanni tra l’altro ha il merito di aver impedito che risuscitasse «la parte del frate», mentre Girolamo si attacca alla speranza che i «cattivi» non prevarranno, anche se persistono fra i cittadini l’inquieta ambizione, l’incertezza politica e  la ricerca dell’«utile» (p. 71).  Anche le colpe del Vaticano non vengono taciute. La morte di Giulio II è annunciata da alcuni presagi91. Il papa è condannato per il suo carattere collerico e la sua dipendenza dalla Spagna: «disordine» e «male» sono definizioni in cui si accordano Giovanni e Girolamo, anche se per Giovanni il papa ha il merito di aver lasciato la Chiesa ricchissima e potente.

         La congiura di Boscoli e Capponi non fa che sottolineare l’instabilità politica di Firenze, mentre la successiva elezione a papa di Leone X permette a Rucellai di introdurre la visione profetica di «due giovani bellissimi» che preannunciano a Giovanni de’ Medici la mitria pontificale (p.77), che è un modo davvero singolare di legittimare la divinazione dopo tante condanne del profetismo come «suprestitione». Le solite polemiche sul profetismo e sul rinnovamento della Chiesa si riducono qui alla sola critica di Girolamo al papa di eccessiva prodigalità, al contrario dei «primi Pastori». Segue la narrazione delle guerre in Italia, con l’intervento del “Cristianissimo” nel 1513 e della guerra franco-spagnola (p. 87), su cui interviene anche il governatore. La vittoria spagnola apre una discussione sulla prevedibilità di tali eventi, che scatena una nuova “ondata” di critiche sulle capacità profetiche del Savonarola. Trattandosi della sconfitta subita dai Veneziani presso Vicenza il 7 ottobre 1513 (vedi GUICCIARDINI, Storia d’Italia, XI, 15), Girolamo interviene e questa volta in modo alquanto dottrinario su quella «giornata», che per lui fu un «moto»: per il «frate» c’erano due tipi di moti, uno continuo, quello del sole e delle stelle, e uno «interpellato», che si manifesta nelle «forme inferiori, cioè nelli animali o piante o ne l’uomo», che hanno la caratteristica di crescere, fermarsi, poi ricrescere e fermarsi di nuovo. Lo stesso moto «interpellato» si manifesterebbero nella vita delle città, che crescono, poi subiscono gravi tribolazioni «per sacco o altra rovina», quindi il male cessa (e gli uomini dicono «Questo male è pur passato!») 92, ma il male non si ferma: tutte le città d’Italia (e le enumera) sono destinate a continue angustie e tribolazioni. Firenze ha già molto patito, ma anche Roma, sia pure per ultima «havrà il moto» (pp. 88-89), e accadrà prestissimo, dice Girolamo, perché alla corte romana hanno «dimenticato profeti e la vita cristiana e ballono, cantono et hanno il paradiso». Anche Guicciardini lo ammette gravemente: «In verità che la sta male, io dico male affatto, questo è pur vero». Di conseguenza, ripete Girolamo, o la Chiesa è una invenzione umana («il che non può essere») o la pazienza divina finirà presto. Dobbiamo qui ribadire quanto abbiamo già osservato, cioè che le previsioni “apocalittiche” presentate come frutto di divinazione non sono altro, in realtà, che la logica conseguenza di vizi ed errori pregressi, già ampiamente noti. Tant’è vero che nel suo dialogo Del Savonarola Luigi Guicciardini fa dichiarare apertamente da Giachinotti, come si è visto, che la rovina di Firenze e d’Italia era ampiamente prevedibile solo con l’intelletto umano («dottrina», «industria»). 

         La narrazione tocca poi i nuovi sussulti ereticali e “profetici” a Firenze, ciò che determina una nuova “ondata” di discussioni sul profetismo e sulla conseguente credulità del popolo. Un Francesco Giovane da Montepulciano predicava e biasimava «gagliardamente e’ vitii» (p. 90), faceva risorgere l’«antica suprestitione», mentre additava in Firenze e Roma le città da flagellare. Di vita «santissima», muore circondato dalla pagana adorazione popolare. Racconta Giovanni che «Concorse a quel corpo tutto il popolo a baciarli i pie’ et venerarlo come si fa e santi» (p. 91). «Ella fu gran cosa» commenta Girolamo, ma anche Giovanni ammette che Lorenzo de’ Medici si consultò con lui per parlare di una pace, che però era falsa, come aveva previsto il “frate”, fondandosi sulla Scrittura («pax, pax, et non erit pax»: Geremia, 6,14; Ezechiele XIII,10)93. La narrazione prosegue con le vicende delle guerre europee, tra cui la successione di Francesco I re di Francia a Luigi XII e – infine – una nuova e ultima “ondata” di profetismo vero o apocrifo. Un don Teodoro dal passato alquanto tortuoso, «nato di vil gente», greco, dopo essersi fatto frate degli Angeli a 13 anni, poi sarto, poi nuovamente frate, fa il santo e il profeta a Firenze, affermando di essere quel papa Angelico preconizzato dal Savonarola. Dotato di bella presenza non si nega a «qualche piacere carnale», viene pubblicamente accusato dalla Chiesa (febbraio 1515) e si confessa in errore, ma con questo non fa che confermare la fede cieca del popolino nel profetismo, l’attesa (sia pure confusa) in una qualche renovatio ecclesiae, l’ostinata credenza nella sacertà di Firenze. Per Giovanni questo determina due scandali, uno religioso e uno politico: «[…] del continuo usciva qualche frate, predicava e prenuntiava rinnovazione, fragelli sopra la Chiesa, e tutto dì insurgeva fanciulle, monache, pinzochere, contadini […]. Il che faceva dua scandoli: l’una che l’università della plebe, havendo le cose del frate amate, le aspettavono e subito levavono l’orecchi», attendendosi la restaurazione prossima del Gran Consiglio, «al primo tocco si destavono pensando che si havessi adempire la profetia del frate e ritornare il passato Stato» (pp.94-97)94. Ma Girolamo ha buon giuoco a ribadire, con una serrata argomentazione, che è proprio della predicazione evangelica assumere un carattere  di novità trasgressiva e al limite rivoluzionaria, in contrasto con la verità dogmaticamente tradizionale, come pure di essere falsificata e perseguitata (è significativo tra l’altro che il Nunzio pontificio conosca poco o nulla degli Atti degli Apostoli):95

Gir. Credi tu che ‘l lume di Dio sia una medesima cosa? Gio.Credo. […] Gir.E che quello che fu nella primitiva Chiesa debbe essere in questa? Gio. Debba essere. Gir. Ha tu letto gl’Atti delli Apostoli? Gio. Rade volte. Gir. Se tu gli leggi tu vi troverai di queste medesime cose assai, che non solo hora ma in mentre che la religione era nel principio, tutto dì ne surgeva, e questo era per suffocare la religione et ordini degli apostoli. Perché così come quelle falsità che sursono a’ tempi delli apostoli non suffocorono la vera religione di Cristo, così queste non hanno a ‘mpedire l’opere del frate.

 

Se Giovanni si irrita di fronte alla pretesa uguaglianza voluta da Girolamo fra le «cose» di fra Girolamo e quelle di Dio, il fervente savonaroliano ripete che il vero  cristiano occorre proprio che si «agguagli» a Dio, in una riproposizione tuttora attuale dei valori evangelici (pp.98-99). Questo è l’ultimo scontro ideologico dell’opera.

         La narrazione che segue (fatta prevalentemente da Giovanni e probabilmente tronca) concerne prevalentemente eventi politici, mentre solo a tratti compare ancora qualche elemento della polemica savonaroliana. Lorenzo de Medici assume crescente potere, non senza suscitare il malcontento di una parte dei cittadini, talmente assetati di ricchezze che non sarebbe bastato il Danubio (secondo questa immagine icastica) a soddisfarli (p. 99); muore Contessina de’ Medici, fatto che rappresenta una punizione divina per Girolamo, mentre è «cosa naturale» per Giovanni. Il processo ad un nuovo “profeta”, Francesco da Meleto, che voleva anche lui la lotta alla corruzione ecclesiastica ed il rinnovamento della Chiesa, è ovviamente giudicato in modo opposto dai due interlocutori. Seguono eventi che riassumiamo rapidamente: il «bastone» di comandante delle forze fiorentine e papali è ora in mano di Lorenzo, mentre Giuliano è gravemente ammalato. Il tessuto narrativo è diaristico, con aspetti eterogenei. Emergono per diversi aspetti la figura di Francesco I, «re nobile e d’animo imperatorio» (p. 109), l’accurata descrizione del pomposo corteo di Leone X al suo ingresso in Firenze: il che permette a Girolamo di ricordare che in altri tempi, «e’ cavalcò già un asino come povero, hora va da Signore» (e forse non è da escludere un riferimento alla umile cavalcatura usata da Gesù, p. 110). Abbondano gli elementi puramente esornativi ed il racconto subisce un continuo rallentamento, come per la descrizione della morte di Giuliano e del fastoso cerimoniale funebre. La vittoria di Francesco I a Melegnano (1515) porta alla pace di Bologna fra il re e Leone X, che deve rinunciare al possesso di Parma e Piacenza, cosa che per Girolamo costituisce una meritata perdita di «riputazione» per il papato (p. 107: il termine è usato anche poco dopo a p. 119, in occasione della congiura dei cardinali contro Leone X). Anche Guicciardini, con un ampio intervento, sottolinea come la troppa fortuna del papa «più pieno di felicità che di consiglio» appaia spesso come un risultato dell’incoscienza più che di un calcolo lungimirante (p.116), e nota gli errori commessi nella conquista di Urbino. Il matrimonio di Lorenzo è presto seguito dalla sua morte e da quella della moglie, con la dissacrante notazione che a piangere sono soprattutto i loro paggi (p. 125).

         Il governo di Giulio de’ Medici conclude politicamente la vicenda storica e la stessa narrazione dialogica, che termina così senza una precisa conclusione, là dove era iniziata, con la nomina a nunzio del Rucellai che ha incontrato Lorenzo e Girolamo a Modena. 

 

         Il complesso movimento dell’opera (viaggio, dialogo, narrazione) si chiude così con la riproposizione della situazione iniziale, quella di un incontro dominato prevalentemente da una almeno apparente casualità. Non vi è (Mordenti, p. LIX) un narratore onnisciente e il lungo scontro tra un futuro repubblicano ancora ritenuto possibile dal tenace profetismo dei savonaroliani e di alcuni emuli più o meno credibili, da un lato, e la logica del fatto compiuto, della “ragion di stato”, sostenuta da Rucellai e in parte da Guicciardini, dall’altro, resta irrisolto. La salda presa del potere a Firenze da parte di un uomo come Giulio de’Medici costituisce un dato di fatto indiscutibile, che però non pone ancora termine alla questione politica del governo di quella città, poiché il Dialogo (occorre ricordarlo) si colloca prima del famoso incontro di Bologna fra l’imperatore Carlo V e il papa Clemente VII che ad una gran parte degli intellettuali italiani apparve come la fine di un’epoca storica 96. L’attesa apocalittica di un rivolgimento totale rischia allora di rimanere la visione – solo apparentemente aperta alla speranza, in realtà rassegnata e imbelle – dei declassati, di chi si sente tagliato  fuori dai centri di potere, di vivere ai margini della storia97.

VII) Fine della “florentina libertas”. L’ideologia della pace.

         La pace di Bologna del 1530 tra Clemente VII e l’imperatore Carlo V, e soprattutto l’ideologia (o la vera e propria mitografia) che su tale pacificazione, creduta definitiva, venne elaborata, segnano non solo la fine della repubblica fiorentina (concretatasi nella sconfitta di Gavinana) ma pure il peculiare significato che Firenze aveva assunto nel quadro politico italiano, la sua singolarità di repubblica che si difendeva quasi da sola, potendo contare ovviamente su di una grandissima e prestigiosa tradizione di cultura e arte, ma anche sulla tenace fede nel profetismo savonaroliano. Chi se ne accorge con la massima chiarezza è Guicciardini nella Storia d’Italia (XX,1):

 

Posto, per la pace [di Bologna] e confederazione predetta, fine a sì lunghe e gravi guerre, continuate più di otto anni con accidenti tanto orribili, restò Italia tutta libera da’ tumulti e da’ pericoli delle armi, eccetto la città di Firenze; la guerra della quale aveva giovato alla pace degli altri, ma la pace degli altri aggravava la guerra loro.98

 

         Il solenne convegno di Bologna fra il papa e l’imperatore sembra porre un termine definitivo ad ogni possibile conflitto ed assume certamente un valore simbolico come celebrazione di un potere stabile e duraturo, ma, come ammonisce giustamente Paolo Prodi99, è un errore limitarsi a questo aspetto “teatrale” quando, a giudizio dello storico, l’idea di diventare l’”unus rex” di un mondo unificato non corrispondeva né alle intenzioni né alle possibilità dell’imperatore. Affermazione questa che è confermata dalla storia posteriore. Ciò peraltro non impedì a numerosi intellettuali di costruire  una sorta di “ideologia della pace” fondata sull’ottundimento delle contraddizioni tuttora evidenti (come il protestantesimo o il persistere della Francia come grande potenza), ricoperte sotto il mantello di una retorica trionfale.

         Un tipico esempio di di una tale produzione ci è offerto dalla Orazione di Claudio Tolomei a Clemente VII per la pace  del 1529 1100. L’opera si caratterizza per il suo carattere fortemente assertivo, nell’esaltazione acritica del pontefice come unica forza che potrà restituire all’Italia una condizione di pace e benessere. Anche una rapida analisi degli stilemi e della terminologia del’autore conferma la fissità ripetitiva dell’argomentazione. L’anafora amplifica retoricamente un’affermazione in sé povera di valore. Così Tolomei enfatizza il ruolo dei nemici della Chiesa: «Se mai fu tempo nel quale […] la Sedia dell’Appostolo restasse afflitta, se mai nacque occasione di porre sottosopra gli ordini nuovi […] questo era, questo dico, era veramente quello […]. Non paura di Religione […]. Non pietà […]. Non forza altrui […]» (pp. 177.178). E ancora: «Questi dunque sono i frutti […], questi i trionfi, queste le glorie» (p. 186); «Qual dono, qual liberalità, qual larghezza» (p. 214).   La climax non esprime spesso una vera gerarchia di valori, ma una mera effusione eloquente, come in «si rallegra oggi Roma, gode l’Italia, gioisce la Chiesa» (p. 179), oppure «La natura gli muove, la voglia gli sprona, stringeli la forza» (detto dei re che dovranno fare la pace, spinti anche «dall’esempio, dal desiderio, e dalla necessità», p. 204). Strabocchevole è poi l’uso delle interrogative retoriche, con cui l’autore non fa che amplificare ed esaltare un discorso in sostanza ripetitivo. Solo qualche esempio, dove talvolta alla pseudointerrogativa di unisce la climax, in un abile miscuglio: chi è stato – si chiede – a distruggere «tante ville, tanti castelli, tante ricche città […] se non la guerra? Per chi sono stati infiniti uomini del le loro antiche sostanze spogliati, delle paterne lor case scacciati, della cara lor libertà privati, se non per la guerra?» (p. 183); e ancora : «chi è colui che ne’ fieri travagli d’Italia […] possa tra gli aspri tumulti, tra’ fieri strepiti dell’armi, guardar le lettere?» (p. 189). Tra il «furore delle spade» (una delle non poche reminiscenze petrarchesche) come «può dilettare quella cosa [le lettere e gli studi], la qual appresso altrui non t’onora, ne’ tuoi bisogni non ti sovviene, ne’ pericoli non t’assicura?» (ib.). Anche la funzione del papa come supremo moderatore e pacificatore è accompagnata da questa ridondante presentazione: «Che voglio io dir qui? Se non che voi, P.[adre] B.[eatissimo], sete colui , che per accordar queste discordanze de’ Principi sete creduto perfetto, o forse solo buon rimedio ne’ nostri tempi?» (p. 197). Volendo sì onesta, e sì util cosa, come è questa [la pace] fare, chi farà che si voglia contrapor mai?» (p. 213), e così via.  Il parallelismo ribadisce la contrapposizione fra le cose mondane e i valori religiosi:

 

Conciosiacosa che quando mai altro stimolo non li [gli uomini malvagi] pungesse, certo il timor di Dio, e la cura della Religione, punger li doverebbe. Che sebbene a tutti gli altri incommodi si pon mente: e tutti i mali a paragon di questo si contrapesano quasi nulla si debbono dagli uomini savi, e insieme buoni apprezzare. Quelli le cose mondane, questi le celesti riguardano. In quelli il corpo terreno, e mortale, in questi l’anima divina, ed immortale s’affligge. Per quelli le cose degli uomini, per questi quelle di Dio sono oppresse (p. 193).

 

L’ipotiposi è spesso impiegata, come pure la prosopopea, per rendere icastico il contrasto fra le condizioni attuali dell’Italia e di Roma e il felice futuro sperato: se non si pone fine ai «travagli» l’Italia tornerà «in quella oscurezza di prima, quando che assalita dagli Unni, percossa da’ Goti, squarciata da’ Longobardi, tutte le belle arti, tutti i chiari studj, chiusero gli occhi». Ora si sono «risvegliati» in questo secolo più «fresco» per opera dei buoni ingegni, ma potrebbero riaddormentarsi «forse con più grave sonno» se la misericordia divina e l’opera del papa non pongono fine alle guerre (pp. 189-190); «tutti questi paesi, ogni uomo, ogni donna, i fanciulli piccoli, i vecchi stanchi, e ciascuno al fine, a cui spirito per parlar sia restato, ve lo chiede, ginocchion ve ne prega, e con le braccia aperte, bagnando con le lacrime il viso, tra’ sospiri e singhiozzi, da dolore e lamento trafitto, ve lo domanda» (p. 202). Il pontefice sanerà anche Roma, colpita da «sozze e miserabili piaghe» a causa delle discordie passate (p. 215). Tutto ciò non fa che preparare la felice conclusione che per lo scrittore alla fine sarà raggiunta con soddisfazione universale, come vedremo.

         Tra i termini usati alcuni appartengono alla tradizione (forse c’è una derivazione machiavelliana), come «fortuna», «virtù» (in senso morale), «gloria», etc., mentre caratteristiche sono espressioni come «fessura» (per indicare l’azione del protestantesimo), «spina» (un ostacolo alla pace che il papa saprà tagliare), «seme», etc. Tipico dell’acrisia di tutta l’opera, specie nella conclusione, è l’uso di una parola come «dolce» e derivati, per indicare una miracolosa pacificazione e beatitudine finale, che non si sa e non si capisce come potrà concretamente avvenire: «dolce pace» (p. 202), «dolci semi» (p. 203), «dolcissima pace» (p. 215).

         L’ideologia del’autore si manifesta fin dall’inizio dell’opera nell’uso ripetitivo di alcuni termini fissi e perentori, non sottoposti ad alcuna verifica o discussione. Il contrasto si istituisce fin dall’inizio fra «l’allegrezza di tutt’i buoni» per il pieno ripristino dell’autorità del pontefice Clemente VII da un lato,  e la recente, terribile «infermità» del Sacco di Roma dall’altro: la città eterna e l’Italia (che per Tolomei sono in sostanza la stessa cosa, data la prevalente importanza del potere pontificio) , «piangeva» e si doleva disperatamente, mentre la Sedia di Pietro era sta afflitta come non mai (p. 177).

         Il papato, come vedremo meglio in seguito, è concepito essenzialmente come una potenza politica e  mondana, come garante della restaurazione dell’ordine sociale e politico perturbato. Anche il protestantesimo è ignorato per i problemi religiosi che pure pone (a differenza ad esempio di autori come Cerretani o lo stesso Guicciardini) e visto essenzialmente come disordine sociale e anarchia. Ripetendo un giudizio diffuso, lo scrittore afferma che l’Italia  era stata felice prima dell’intervento di Carlo VIII, ma poi l’«oro» è diventato «piombo», la luce è stata sopraffatta dalle tenebre, i popoli dispersi, le lettere abbandonate. Una «scelerata porta» è stata aperta «al furor degli Oltramontani» e un orribile vento ha distrutto i nostri «fiori», le opere dell’ingegno italiano. Nonostante tutto ciò, se una qualche speranza sussiste è da riporre nella Chiesa e particolarmente nella persona del pontefice Clemente VII, l’unico che può porre fine alle guerre e alle violenze, che però lo scrittore è incapace di spiegare in termini politici e di eziologia storica, non trovando di meglio che attribuirne la causa all’irrazionale ostinazione e malvagità umana, di cui incolpa anche la fine dell’indipendenza italiana e la grave umiliazione subita dalla Chiesa a causa del Sacco. Questo tragico evento è stato ispirato per Tolomei dal protestantesimo, che ha animato la ferocia dei lanzichenecchi. L’uomo per Tolomei è creato buono  dalla natura, ma poi la «sete» e l’«ambizione» di dominare lo accecano, tanto da non accorgersi neppure dell’armonia e della bellezza del mondo, né di recare offesa a Dio, «giusto vendicatore» delle azioni dei malvagi (p. 181). Tali asserzioni, ripetute infinite volte e con un uso strabocchevole delle risorse retoriche, finiscono col fondarsi sulla persuasa contrapposizione del bene al male (Dio e Diavolo, ordine e disordine), della bontà della Chiesa alla malvagità dei principi.

         Tanto è fisso questo schema che le stesse risorse retoriche così ampiamente impiegate perdono il loro potere di convincere o dimostrare, riducendosi a un mero ornamento di cose già dette e assodate. Il protestantesimo è la “bestia nera” di Tolomei, poiché ha contribuito al disordine, a scuotere il giogo della Religione (p. 193), ha costituito una «fessura» nell’ordine politico e religioso che Dio non tollererà a lungo. L’unico rimedio contro le eresie è la repressione, come si è fatto per Ario, Nestore, Wycliffe, Hus, esclama con enfasi lo scrittore:

Ma che vo io le troppo antiche [eresie] raccontando? Non furono gli articoli di Viclef riprovati? E nel concilio di Costanza Girolamo da Praga e Giovanni Us abbruciati? I quali che altro dicevano che Martino? Se tante dunque e antiche e moderne eresie con l’aiuto di Dio, e con la prudenza , e bontà deli Uomini Religiosi sono spente, diremo noi, che non si possa spegner questa? (pp. 193-195).

Il discorso di Tolomei si fa un po’più concreto quando vuole spiegare il generale decadimento dell’Italia anche in termini di classe, come i mutamenti intervenuti nella classe dirigente, dove si sarebbe avuta la corruzione della «gentilezza del sangue» e la graduale estinzione degli «antichi gentiluomini», i cui nobili palazzi sono ora riempiti di sangue villano e di nuovi ricchi, quasi tutti malvagi, maestri ed esempi di intemperanza, ingiustizia e disprezzo per tutti i valori. I buoni fanno la figura degli sciocchi, e questo «disordine» va corretto con la prudenza dei Principi, ponendo fine alle guerre, dove i combattenti non rispettano alcun «sacramento», né amore né ordine (pp.190-191). Ma qual è l’origine di tanta malvagità e tanta malafede? La spiegazione oscilla debolmente fra argomentazioni genericamente moralistiche e tentativi di motivazione politica. Ci sono esempi sia positivi che negativi. Boemondo e Tancredi hanno sconfitto il Saladino, mentre i Paleologi hanno regalato l’Impero d’Oriente e i Balcani ai Turchi, respinti invece dalla «divina virtù» del re Mattia d’Ungheria (p. 195). Altrove tutto si pretende di spiegare con gli sdegni, le ingiurie, il «rabbioso fuoco». L’analisi è un po’ meno generica quando si esaminano le guerre tra Carlo VI e Francesco I: il re di Francia vuole liberare i figli tenuti in ostaggio a Madrid, ma lo stesso imperatore, dopo tante vittorie, cos’altro può desiderare se non la pace? In quale «porto» i due sovrani possono trovare pace, dopo aver affrontato invano un «altissimo e tempestosissimo mare»? (pp. 206-207). Aggiungendo retorica a retorica, l’autore cita anche il mito di Anteo a prova della inanità degli sforzi compiuti dai due sovrani, dimostrata anche dalla lunga e inconcludente contesa per i territori rivendicati dai due sovrani in Italia, particolarmente Milano e Napoli. Da notare che quando lo scrittore si occupa dell’Italia scarsissima è l’attenzione rivolta  agli interessi (che pure erano legittimi) dei nostri residui centri di potere principesco, dato che per lui l’unico potere esistente in Italia è quello pontificio, il solo che possa stabilire una pace universale, come quando papa Leone fermò l’aggressione di Attila  (p. 213). Tutte le buone azioni dei precedenti pontefici se paragonate al «gran bene» che questo papa conseguirà, sono come una «picciola candela» rispetto allo splendore del sole. La gloria e il sommo bene, che vengono attribuiti al presente papa per le azioni benefiche che potrà fare, inducono l’autore a privilegiare le buone intenzioni sui risultati, a identificare la vera virtù e la vera gloria con l’azione moralmente buona, in probabile contrapposizione al pensiero di Machiavelli, mai nominato: «Vana certo e ingiusta mi par quella gloria che si cerca con ingiuria d’altri», «vera e onesta, ed immortal gloria» è quella che si acquista non col nuocere, ma col diffondere la quiete e la pace (pp. 196-199). “Gloria” o “virtù”, insomma, sembrano concepite non come valori che possano agire in un determinato contesto, ma come princìpi astratti, come postulazioni valide in sé e per sé secondo una logica puramente trascendente. Come non sono chiari i motivi dello scontro politico-militare, così non è chiaro come si raggiungerà la «desiderata» pace. Questa non è concepita affatto in termini politici, come il risultato di un trattato fra le maggiori potenze che stabilisca un nuovo equilibrio, oppure della vittoria decisiva di un potentato sull’altro, ma esclusivamente come un cedimento dei prìncipi alla volontà divina, impersonata dal pontefice. I sovrani dovranno ricordarsi che dipendono da Dio, e che Egli saprà punire i malvagi.  La pace sarà così raggiunta perché i prìncipi obbediranno alla loro coscienza cristiana e si stancheranno di combattere. La «piacevolezza» dominerà  gli animi, e la pace sarà «dolce», quanto sono stati amari i frutti della guerra. Di fronte a questa immagine statica e impolitica tutte le guerre precedenti non appariranno che una historia errorum: per la «grazia di Dio» nulla è impossibile, gli «sdegni», le «querele», la «durezza» saranno sopiti dalla «pietade»: e forse non è arbitrario pensare anche qui a certi accenti della Canzone all’Italia del Petrarca (pp. 210-212). Naturalmente le guerre continueranno a essere giuste contro i «Saracini» e i nemici di Cristo (pp. 213-214).

         Le ultime pagine sono tutte una ripetitiva esaltazione di questa grande e definitiva pace che sarà realizzata da Clemente VII, dove le ipotiposi e le personificazioni si sprecano: «Non prima si spargerà questa voce [della raggiunta concordia universale], che si vedrà d’un nuovo colore ogni volto per allegrezza rivestirsi: e quasi un altro spirito posto fusse nelle membra loro, ciascuno come da oscura morta in chiara vita sentirà ricondursi» (p. 213). L’Italia e Roma vedranno guarite le loro «piaghe»:

 

È l’Italia da fieri, e spaventevoli travagli per queste guerre perturbata, la quietarete.Vedesi Roma da sozze, e miserabili piagheper cagion delle discordie percossa, la sanarete. Stassi la Chiesa in continue e acerbe molestie dal furor dell’armi sbattuta, la liberarete. Vivno i popoli tutti da infinite calamità circondati in amarissima vita, li confortarete.

 

La «dolcissima» e «santissima» pace, il «dolce e amico splendore delle stelle» assicureranno, con l’«allegrezza» delle anime beate, la fine delle «miserie d’Italia»; i «dolci» figli saranno resi ai «cari» padri, gli uomini potranno godersi «allegramente» le loro ricchezze. Regnerà la tranquillità in tutte le terre, i buoni saranno premiati, i cattivi impauriti, i mari e i porti sicuri, etc., e sarà merito del papa aver trasformato i tempi «infelicissimi» in beatissimi, farci gustare quanto dopo le “fiere percosse della guerra»,  «beatissima vita sia ridursi in pace» (p. 215). Con queste parole si conclude l’orazione, solo apparentemente piena di (untuosa) riverenza per la religione cristiana e per il ruolo del Vicario di Cristo, mentre in effetti la potenza della Chiesa è tutta concepita in funzione di una vita beata e dolce umanamente vissuta, in vista di una  felicità soprattutto terrestre e mondana.

VIII) Osservazioni conclusive

         Abbiamo visto che, tra le caratteristiche che avevano reso Firenze una città singolare, per struttura politica, arte e pensiero, vi era anche l’idea, dovuta non solo a Savonarola, di una sua condizione speciale ed eletta anche per il pensiero etico e religioso. La fine dell’età laurenziana e l’invasione francese del1494 costituiscono un momento peculiare di rottura, che determina nella classe dirigente fiorentina una profonda divisione sulle scelte da compiere in una realtà nuova101. Non tutti comprendono la necessità di un cambiamento profondo nelle istituzioni, che assuma anche un carattere etico, col superamento della corruzione (come i vecchi vizi denunciati da Dante di superbia, invidia e avarizia). Machiavelli è sicuramente tra coloro che percepiscono con maggiore forza l’eccezionalità della situazione, che esige scelte drastiche, ben oltre la solita e pigra attesa del «beneficio del tempo» propria della vecchia classe dirigente, i conservatori, sia quelli ancoradi orientamento repubblicano,  sia  fautori del principato mediceo.

         La singolarità di quella situazione e il protrarsi del periodo delle «mutazioni» (1498, 1512, 1527, 1530, e infine 1537 con l’uccisione del duca Alessandro e l’instaurarsi del potere di Cosimo) spiegano anche, lo si è visto, il persistere della fede millenaristica nelle profezie del “frate” ben oltre la sua morte102. Fondandosi prevalentemente sul capitolo ultimo del Principe e sulla sua differenza di impostazione e di tono rispetto al resto dell’opera, qualcuno ha parlato di un “profetismo” di Machiavelli e addirittura di un momento “apocalittico” che consentirebbe di avvicinare Machiavelli a Savonarola103. Senza voler minimizzare l’esistenza di un un tale  stacco fra il capitolo XXVI e i precedenti e senza voler affrontare la vessata questione della composizione del testo (e tanto meno senza fare dello scrittore il volonteroso se non servile apologeta, a seconda dei tempi, di questo o quel potentato, ciò che priverebbe di ogni originalità il suo pensiero, rendendolo subalterno alle varie situazioni politiche), non si vuol neppure respingere del tutto il carattere stimolante di quell’accostamento, e per due motivi: anzitutto il giudizio di Machiavelli su Savonarola non può certo essere ridotto a quello espresso nella nota lettera al Becchi104: è appena il caso di citare (anche qui non c’è bisogno di riaprire una questione già tante volte e meglio trattata) le note pagine del Principe (cap. VI) o dei Discorsi (I , 11 e 45); in secondo luogo, non c’è dubbio che la stessa profonda diversità fra i due personaggi non nasconde la loro comune convinzione che fosse necessario un radicale rinnovamento della vita cittadina, non limitato solo all’aspetto istituzionale (con la fondazione di un principato al posto della repubblica, ad esempio), ma tale da incidere nelle strutture profonde della società, nella sua base etica e politica. «Che la corruzione fosse penetrata nella vita politica fiorentina era per Machiavelli fuori dubbio. […] Ma a differenza di taluni contemporanei, Machiavelli non credeva che la riforma fosse effettuabile soltanto col ripristinare le istituzioni che la società aveva avuto ai suoi inizi»105. Ma il parallelismo che questo può comportare con l’azione politica di Savonarola non può che essere generico, come osservava esattamente Sasso: «non diversamente da Girolamo Savonarola, anche Machiavelli si proponeva […] qualcosa che […] valesse a distruggere per rigenerare, tuttavia, e costruire». Ma mentre il frate si fondava sullo «scudo formidabile costituito dall’intervento delle certezze religiose nella vita pubblica, a Machiavelli «che lui pure dirigeva il suo messaggio agli “strati” profondi della coscienza fiorentina e perciò […] riteneva in sé qualcosa di “profetico”, il beneficio di un simile scudo non era concesso – non era concessa l’ombra rasserenante di quella sicurezza.»106.  La prospettiva di Machiavelli è infatti politica, e non può essere definita “apocalittica” per il significato troppo generico ed avvolgente attribuito ad un tale termine (prescindendo oltretutto da quello che sarebbe il senso etimologico). Per la McQueen si può parlare addirittura di una «flirtation [di M.]  with the emplotment of the Savonarolian moment as evidence of the powerful and enduring appeal of apocalyptic thinking, even to those who seem equipped to resist it.» La studiosa ammette che nei Discorsi e nelle altre opere posteriori questa pretesa suggestione apocalittica trova una resistenza nell’esigenza di una maggiore razionalità storica: «surely his later work – in which his republican, radically democratic,  and agonistic commitments are on open display – is in a better position to resist the seductive emplotment of the Savonarolian moment.» Ma questo per la McQueen non avviene sempre: «Yet as much as the Discourses  offers resources for resisting the apocalyptic hopes of the Exhortation  [il XXVI del Principe], moments of the work also reveal the enduring and seductive power of the explotment of the Savonarolian moment».107  Gran parte di questa argomentazione sembra fondarsi esclusivamente sulla già menzionata diversità dell’ultimo capitolo del Principe rispetto al resto dell’opera. Ci sembra però giusto ricordare che già nel VI capitolo lo scrittore, dopo aver ricordato la grande forza politica della predicazione del frate, ne aveva visto il limite (i «profeti disarmati»), senza per questo negare il potere politico di una profezia che si fa azione e progetto concreto, con Moisé, Ciro, Teseo e Romolo. Inoltre che Machiavelli avverta la durezza di un “momento” decisivo e singolare per la sua città (pur senza implicazioni “apocalittiche”), lo si può cogliere anche in alcuni brevi scritti che precedono il Principe, come per esempio le Parole da dirle sopra la provisione del danaio o certe pagine degli scritti sull’”Ordinanza”. Già qui, senza bisogno di disturbare l’ombra di Savonarola, Machiavelli si distingue da una miope e torpida classe dirigente cittadina legata all’heri dicebamus di procedimenti politici tradizionali e non rinnovati, come l’urgenza del momento esigeva. È in questo senso, e solo in questo senso ben limitato, che si può impostare un rapporto fra i due grandi che non sia fonte di confusione, cioè di suggestioni forse interessanti ma troppo generiche. Si può affermare, col Rinaldi, che Machiavelli e Savonarola «da opposti versanti della tradizione politica fiorentina, etico-provvidenziale uno, empirico-razionalistico l’altro […] scavalcano il loro versante dall’interno  portandolo alle estreme conseguenze, fino ad una sorte di “rottura” del sapere»: del sapere umanistico tradizionale, che privilegiava la parola sull’azione, ci fa intendere lo studioso.108

         Si può quindi sottolineare la peculiarità di un “momento”, da leggere in senso tutto politico, a cui è indubbiamente legata la nascita del pensiero e dello stile di Machiavelli: nascita che avviene perciò nella “pienezza” di un tempo decisivo e singolare, tanto che non si comprende a fondo, ci sembra, l’opera di Machiavelli facendone solo lo scopritore di una “tecnica” neutra (considerandola magari come “demoniaca”) e valida per tutti i tempi della storia umana.     

 

 

 

NOTE

1. È appena il caso di ricordare che del 1494 è la prima caduta dei Medici, i quali torneranno nel 1512 dopo la sconfitta della repubblica soderiniana; del 4 maggio 1519  - abbiamo detto – è la morte  di colui che sembrava l’erede certo della Signoria; del 1522 è la congiura fallita degli Orti Oricellari, del 1527 il Sacco di Roma e la conseguente cacciata dei Medici da Firenze, dove torneranno nel 1530. La singolarità di Firenze nel quadro italiano è notata da G. MAZZACURATI, Il Rinascimento dei moderni, la crisi culturale del XVI secolo e la negazione delle origini, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 7 e sgg.

2. MAZZACURATI, cit., pp. 47-50.

3. N.MACHIAVELLI, Discursus florentinarum rerum post mortem iunioris Laurentii Medices, in ID., Opere, Istorie fiorentine e altre opere storiche e politiche, a cura di A. Montevecchi, Torino, UTET, 2007 (rist.), p. 207.

4. per il concetto di “umori”  vedi almeno Princ., 9 e 19, Discorsi, I 4.

5. Non dissimili le considerazioni di Niccolò Guicciardini nel suo Discursus de florentinae reipublicae ordinibus, che vedremo (in R. VON ALBERTINI, Firenze dalla repubblica al principato, Torino, Einaudi, 1970, p. 395).

6. Per cui vedi Princ., 6, Discorsi, I 11, 45, 56, III 30.

7.Basterà citare per tutti le esatte analisi di Sergio Bertelli, in N.M., Arte della guerra e scritti politici minori, Milano, Feltrinelli, 1961, pp. 247-256,

8. Come in Disc., I 6 e 55; Istorie fiorentine, III, 1. Circa il rapporto fra questo Discursus e la dottrina dello stato misto in altri pensatori e scrittori politici, cfr. P. LARIVAILLE, Dal cosiddetto “Libro delle Repubbliche” alle soglie del “Discursus”: Tre schede machiavelliane, in: “Pigliare la golpe e il lione”, Studi Rinascimentali in onore di Jean-Jacques Marchand, a cura di Alberto Roncaccia, Roma, Salerno, 2008, p. 150: è esaminata e (sembra) respinta l’ipotesi che solo dopo la morte del giovane Lorenzo potesse aver avuto luogo un ripiegamento di M. verso l’idea di uno “stato misto” di ascendenza polibiana. Qualche riferimento (ma la materia esigerebbe un approfondimento a parte) si può forse fare al pensiero politico di Savonarola, particolarmente per quanto riguarda il valore degli elementi immateriali del potere, come il consenso, la reputazione e l’onore dei buoni governanti, l’importanza di un governo civile per Firenze: G. SAVONAROLA, Prediche sopra Aggeo, con il Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze, a cura di Luigi Firpo, Roma, Belardetti, 1965, vedi i trattati I e III, particolarmente pp. 435, 444-450.

9. Vedi M.VIROLI, Repubblicanesimo, Bari, Laterza, 1999, soprattutto pp. 4, 12, 34.

10. Vedi Disc., I 4 e, per le “accuse”, ib, I  e, sulla pericolosa “invidia” che si scatena fra i privati cittadini, ib, III 30 .

11. Giova ribadire che M. è a nostro avviso lontanissimo dall’idea di “ragion di stato” in quanto statica difesa conservatrice del regime esistente. Vedi M. SENELLART, Machiavellismo e ragion di stato, Verona, Ombre corte, 2014. Contra è da ricordare il classico F. MEINECKE, L’idea della ragion di stato nella storia moderna, Firenze, Sansoni, 1970, p. 29.

12. È appena il caso di citare Princ. VI e XXVI  e il Proemio delle Istorie fiorentine. Ma vedi anche: VIROLI, op. cit., p. 63; M. CACCIARI, I due Principi. Discorso su M., in “Nuova Antologia”, 1/2015, pp. 32-35. Sul tema della “gloria” in M. vedi: L. ZANZI, I segni della natura e i “paradigmi” della storia: il metodo del M., Manduria, Lacaita, 1981, pp. 318-20. Qui si distingue opportunamente fra la “gloria” intesa (in senso umanistico) come uno “specchio” di virtù, un exemplum proposto all’imitazione, oppure come un paradigma per l’azione: dove l’esemplarità non costituisce una proposta retorica ma un accertamento della verità storica.

13. Vedi BERTELLI, op. cit., p. 256, Circa il complesso rapporto di M. con i valori religiosi (particolarmente cristiani), vedi. E. CUTINELLI RÈNDINA, Chiesa e religione in M., Pisa-Roma, Istituti Editoriali e poligrafici internazionali, 1998, particolarmente pp. 222-223. Ferroni parla, a proposito di Numa Pompilio, di un «ordine che può essere del tutto falso e simulato»: ci sembra invece che si tratti piuttosto di un ordine (ordinamento e fondamento etico-politico dell’antica Roma) vero che Numa costituì conferendo una veste mitica ad esigenze concrete e reali, che peraltro senza quel travestimento il popolo non avrebbe capito. La virtù è insita nel popolo, ma – sempre per Ferroni – la virtù «di chi non sa, di chi trae energia e vitalità dall’apparenza, dalle verità fittizie che il prudente favorisce a vantaggio dello Stato» (G. FERRONI, M. o dell’incertezza, Roma, Donzelli, 2003, pp. 92-95). È una interpretazione che ci sembra fondata solo in parte, ad esempio sul cap. XVIII del Principe. Altrove invece M. ammette la capacità del popolo (se non è solo «vulgo») di capire il bene suo e dello stato (Princ, 9; Disc. I 5, 29, 58) etc.

14. Vedi CACCIARI, cit., p. 31.

15. Niccolò Guicciardini era figlio di Luigi (1478-1551), quindi nipote di Francesco. Di lui il Varchi dà un giudizio molto limitativo nella Storia fiorentina (III,1).

16. Discorso di messer N. G. del modo del procedere della famiglia de’Medici in Firenze et del fine che poteva havere lo stato di quella famiglia, vedi ALBERTINI, cit., pp. 365-375.

17. L’autore (nato nel 1501) compose questo testo da giovane (ALBERTINI, cit., pp. 32 e 113).

18. Della facilità con cui erano avvenute le “mutationi” a Firenze parla lo stesso autore nel suo discorso Quemadmodum etc., che vedremo (ALBERTINI, cit., pp. 408-410).

19. Disc., I 10.

20. Princ., 3.

21. Potrebbe essere un’altra reminiscenza machiavelliana: Vita di Castruccio Castracani, in Opere, a cura di A. Montevecchi, cit., p. 266 («Ma la fortuna, inimica alla sua gloria...»).

22. Vedi ALBERTINI, cit., pp. 391-407. La cacciata dei Medici da Firenze avvenne il 17 maggio 1527.

23. Vedi ALBERTINI, p. 114.

24. Ib., pp. 118-119.

25. La pace ebbe luogo il 23 giugno 1529. Come è noto, Carlo V diede in moglie ad Alessandro de’ Medici la figlia Margherita. Il moderato Niccolò Capponi fu deposto da gonfaloniere il 17 aprile dello stesso anno.

26. ALBERTINI, pp. 22 e 357-359. Il testo risale a dopo la disfatta repubblicana del 1512.

27. Nel Discursus de florentinae reipublicae ordinibus, cit., p. 392.

28. ALBERTINI, pp. 28 e 360-364. È forse il caso di ricordare che anche Francesco Guicciardini fa respingere da Paolantonio Soderini l’ipotesi di una restaurazione medicea o oligarchica, difesa invece da Guidantonio Vespucci (Storia d’Italia, II 2).

29. Si osservi che il linguaggio provvidenzialistico («onnipotente Dio», «questo flagello») è usato quasi solo in questo testo. Altrove prevale la «fortuna», come in N. Guicciardini (p. 372) o, come vedremo, in Lodovico Alamanni.

30. Discorso rivolto ad Alberto Pio di Carpi; vedi ALBERTINI, pp. 33 e 376-384.

31. Può esserci un richiamo ai Discorsi di M., I 55;  “cappuccio” indicava una condizione popolare, per cui basta rinviare all’Apologia de’ Cappucci di Jacopo Pitti.

32. Ludovicus Alamannus Ill.mo Domino Domino Alberto Pio carpensi principi et caesareo oratori S.D.: ALBERTINI, pp. 33 e 385.

33. Non è difficile trovare riscontri (questione delle truppe mercenarie e ruolo negativo del Vaticano) in M., Princ., 12 e 13; Disc., I 12 e 43, II 20; Istorie fiorentine, I 39, V 1, VI 1, 2 e passim ; Arte della guerra, I pp. 164, 176 (si cita dal’ed.: N. M., Le grandi opere politiche I Il Principe  Dell’Arte della guerra , a cura di G. M. Anselmi e C. Varotti, Torino, Bollati Boringheri, 1992).

34. Sembra possibile il ricordo del cap. 26 del Principe, con la citazione liviana: “et pia arma ubi nulla nisi in armis spes est (Ab urbe condita, IX, 1), che tornerà con modifiche in Disc., III 12 e sarà richiamata anche nelle Istorie fiorentine, V 8  (recte: “pia arma quibus nulla nisi in armis relinquitur spes”).

35. Tito Manlio Torquato, per cui vedi ad es. Disc., I 2.

36. Altra citazione liviana: “Q. Flaminio” (recte Tito Quinzio Flaminino) respinge la richiesta di neutralità degli Etoli e del re Antioco (Ab urbe condita XXXV,49). La citazione (imprecisa) è anche nel Principe, 21.

37. F. VETTORI, Riforma di Firenze. Al Tesauriere (ALBERTINI, pp. 188-425; il testo è da attribuire per l’A. all’aprile 1531). Per i testi del Sommario e del Sacco di Roma ci si riferisce a : F. VETTORI, Scritti storici e politici, a cura di E. Niccolini, Bari, Laterza, 1972 (“Scrittori d’Italia” n. 252). Circa la collocazione cronologica dei due scritti cfr. l’ed. Niccolini a pp. 374-376; dell’Albertini vedi p. 250. Per alcune delle osservazioni relative alle due opere, ci siamo avvalsi del nostro volume Biografia e storia nel Rinascimento italiano, Bologna, Gedit, 2004, pp. 64-69.

:38. È nota l’importanza che V. attribuisce al soddisfacimento dei suoi piaceri e appetiti: vedi almeno: J. M. NAJEMY, Between friends. Discourses of power and desire in the Machiavelli-Vettori letters of 1513-1515, Princeton N.J., Princeton U.P., 1993.

39. CACCIARI, cit., p. 31. Riferendosi in effetti a Francesco Guicciardini, ci sembra che C. inquadri anche le idee qui esposte da Vettori : «L’”adattarsi” guicciardiniano è metafisicamente contrapposto alla idea di virtù di Machiavelli; forse per lui ancora più ‘cattivo’ della malvagità esplicita, poiché compagno di stupidità e facile preda dell’inganno, come si mostra nella feroce Mandragola. » Anche Lodovico  Alamanni, si è visto, parla di «accomodarsi co’ tempi» (cit., p. 378), ma  - ci sembra – in modo più attivo e pragmatico.

40. ALBERTINI, pp. 130 e 418-24.

41. Circa questa definizione di “gloria”, si rinvia a ZANZI (cfr. supra la nota 12) op. cit., p. 6.

42. Circa l’identificazione, o comunque la forte implicazione, fra valori come l’amor di patria, la ricerca della gloria (personale ma al servizio della città) e la religione, esistente  nel periodo umanistico, ed in particolare il ruolo di Savonarola nella costruzione della Firenze repubblicana, resta fondamentale: D. WEINSTEIN, Savonarola e Firenze. Profezia e patriottismo nel Rinascimento, Bologna, Il Mulino, 1976; vedi ora M.VIROLI, Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, Bari, Laterza, 2005, particolarmente pp. 23-36.

43. Vedi ad esempio: «giovane et inexperta» (detto della milizia), «honore et gloria» (p. 418), «ardenti soli», «duri ghiacci», «horride nevi», «freddi verni» (p. 419). Frequenti le interrogative retoriche, introdotte da forme come: «Et chi non sa che...», «chi non sa quanto...», «Et chi dubita che...» (pp. 419-420).

44. Circa le «sante arme» («et pia sunt arma» etc.) vedi supra la nota 34).

45. Cfr. VIROLI, Repubblicanesimo, cit., particolarmente pp. 38, 63-64; ID., Il Dio di M., cit., pp. 29-33.

46. Cfr.:  Orazioni politiche italiane, a cura di M. Fancelli, Bologna, Zanichelli, 1941, pp. 1-8.

47. Orazioni, cit., pp. 9-24. Da tener presente anche: Orazioni scelte del secolo XVI ridotte in buona lezione e commentate, a cura di G. Lisio, Firenze, Sansoni, 1897 (rist. a cura di G. Folena, ib., 1957).

48. Che il «rimpianto lungo» (MAZZACURATI, cit., pp. 47-50) per la Firenze repubblicana e savonaroliana venga avvertito anche molto oltre questo periodo è provato – fra l’altro – da una Oratione alli fuorusciti di Fiorenza et altri cittadini amatori della libertà, databile al 1556, pubblicata a cura di Carlo Campitelli («Archivio Storico Italiano» 159 n. 2 -628-, 2011, pp. 241-277). Il curatore l’attribuisce a Bartolomeo Cavalcanti e giustamente collega l’orazione alle arringhe dei repubblicani pronunziate nel 1529-30, sottolineando i riferimenti a Dante e Machiavelli che il testo presenta e respingendo – crediamo a ragione – l’opinione dell’Albertini (cit., p. 142 e n.6) che esso sia puramente retorico, con l’osservare che «dietro il discorso retorico» che certo non manca, si manifesta anche «un preciso disegno politico» (p. 243), con le speranze riposte nel papa Paolo IV, in un possibile pentimento dei più odiosi ministri di Cosimo I, e infine nella politica francese. Che queste speranze fossero destinate a rivelarsi vane non toglie ad esse una certa concretezza politica, non significa che si trattasse di mere illusioni sorrette solo da una vuota retorica. Vedi anche WEINSTEIN, cit., almeno pp. 177 e sgg., 255, 262.

49. G.M.ANSELMI, La saggezza del politico, introd. all’ed. F.GUICCIARDINI, Dialogo del reggimento di Firenze, a cura di G.M. Anselmi e C. Varotti, Torino, Bollati Boringheri, 1994, pp. IX e X.

50. ALBERTINI, cit., pp. 270-271 e 428-435. Di Vettori ci sono note la personalità e le idee; di Francesco Capponi conosciamo il giudizio di viltà e «miseria estrema» che ne dà il Varchi (Storia fiorentina, II 23).

51. Cfr. M.S.SAPEGNO, Il trattato politico e utopico, in Letteratura Italiana, vol. III, t.II, Torino, Einaudi, 1984, pp. 972-976, 987 e sgg.

52. Benedetto Tiezzi da Foiano, frate domenicano, a Firenze si diede a fare il profeta secondo il modello savonaroliano sostenendo la repubblica (Cfr. VARCHI, Storia fiorentina, XI, 24 e XII,4). Perseguitato da Clemente VII, morì a Roma l’8 settembre 1531.

53. VIROLI, Il Dio di M., cit., pp. 33, 40-41.

54. Sulla necessità delle “accuse” nella vita pubblica c’è forse un ricordo di Machiavelli, Disc., I 8.

55, Firenze, Olschki, 1959, a cura di B. Simonetta. Giachinotti fu fatto giustiziare da Luigi Guicciardini perché giudicato repubblicano estremista. Il Varchi giudica pretestuosa e ingiusta l’esecuzione (op. cit., XII 21). Anche Francesco Zati è persona realmente esistita.

56. Per i giudizi dei contemporanei sul Ferrucci e in particolare la biografia del Sassetti, ci permettiamo di rinviare a: A. MONTEVECCHI, Biografia e storia nel Rinascimento italiano, Bologna, Gedit, 2004, pp. 145-168 e passim.

57. È appena il caso di rinviare al Ricordo 1 C di Guicciardini.

58. Circa la “favola del tordo” cfr. F. BAUSI, Lorenzo de’ Medici tra pubblico e privato. In margine al XII volume delle Lettere del Magnifico, in «Schede umanistiche», 2008, pp. 106-107.

59. VARCHI, cit., XI 62, attribuisce alla “pratica” la decisione di far torturare e poi decapitare Jacopo Corsi, che sarebbe invece stato risparmiato dal Giachinotti. Per V. “tordo” è il nomignolo di un vetturale. Il Segni invece attribuisce proprio a Giachinotti la responsabilità della tortura e decapitazione del Corsi: B.SEGNI, Istorie fiorentine, a cura di G. Gargani, Firenze, Barbèra, Bianche e C., 1857, p. 179 (l. IV).

60. Vedi nota 56.

61. Altre figure di profeti menzionati sono Gioacchino da Fiore (p. 82), e, nell’ambito delle Scritture,   Geremia, Isaia, Eliseo, Giosué, Abramo e Isacco, San Paolo. Citato anche un evento miracoloso avvenuto a Samaria (p. 139).

62. Di un tempo “apocalittico” parla ALISON McQUEEN, Politics in Apocalyptic Times, Machiavelli’s Savonarolian moment , in “The Journal of Politics”, 78, n. 3 (2016), pp. 909-923, che collega soprattutto l’ultimo capitolo del Principe a quello che chiama «The Savonarolian moment»: collegamento certo stimolante, ma che esige però una necessaria distinzione  – su cui torneremo nella conclusione di questo lavoro – fra una lettura profetica (religiosa) della crisi imminente, e una previsione puramente politica degli eventi futuri (impliciti già nella situazione esistente), cosa che gli stessi contemporanei avvertivano chiaramente, come dimostra anche il dialogo in esame. Vedi in proposito WEINSTEIN, cit., p, 259 e sgg.; ID., Machiavelli and Savonarola in: Studies on Machiavelli, edited by Myron P. Gilmore, Firenze, Sansoni, 1972, p. 260 e sgg.

63. È appena il caso di osservare che le ingenue affermazioni di Zati sulle fortezze e sul valore dei Signori italiani erano già state smentite da tempo dal pensiero di Machiavelli nel Princ., 20 e 24 e nell’Arte della guerra, VII, pp. 319-21 (ed. a cura di Anselmi e Varotti cit., pp. 319-21).

64. A. McQUEEN, cit., p. 913 : Firenze è considerata città prediletta da Dio dai “piagnoni”, purché si purifichi e purifichi insieme la Chiesa.

65. Savonarola è lodato per questi motivi squisitamente politici e di costume anche da Guicciardini: F.GUICCIARDINI, Storie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, Milano, BUR, 1998, pp. 277-280 (cap. XVI), Quanto a Francesco Valori, se ne può ricordare il giudizio positivo che ne dà Machiavelli nelle Nature di uomini fiorentini: «Ebbe Francesco Valori questo fine indegno della vita e della bontà sua»: cfr, N.M., Opere storiche, a cura di A. Montevecchi e C. Varotti, coordinamento di G. M. Anselmi, Roma, Salerno, 2010 (Edizione Nazionale), t. I., p. 76. Circa il ruolo “politico” svolto da Savonarola, cfr. WEINSTEN, Savonarola e Firenze, cit., pp.309-399 e G.C. GARFAGNINI, Politica e profezia: l’esperienza savonaroliana a Firenze, in Da Chartres a Firenze:etica, politica e profezia fra XII e XV secolo, Pisa. Edizioni della Normale, 2016, pp.383-402.

66. Circa la profezia che Savonarola avrebbe affidato a un Jacopo Niccolini in una “polizza”, e le varie e contrastanti testimonianze in proposito, si rinvia alla nota del curatore Simonetta alle pp. 123-124 del Dialogo.

67. Ed. critica a cura di Raul Mordenti, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1990 (pp. CLX-156). All’esauriente introduzione del Mordenti si rimanda sia per la definizione della figura del Cerretani, che per una valutazione dell’opera. Ma vedi anche: A.M.CABRINI, Il racconto della “mutazione” del 1512 in Cerretani e in Guicciardini, in Storiografia repubblicana fiorentina (1494-1570), a cura di J.-J. Marchand e J.-C. Zancarini, Firenze, Cesati, 2003, pp. 89-113; C. VAROTTI, Spazi cittadini, politica, storia: Bartolomeo Cerretani , ibidem, pp. 154-173; importante particolarmente l’osservazione a p. 154 (nota), che l’elaborazione delle opere del C. come la Storia fiorentina (attribuibile al periodo1512-14) o il più tardo Dialogo (1520), in quanto avvenuta in pieno regime mediceo. non sia affatto d’ostacolo alla pensabilità dei diversi assetti della città in periodo repubblicano e savonaroliano e dei relativi valori, a meno di non voler stabilire un rapporto puramente deterministico fra storia “narrata” e storia “progettata”.

 68. B. CERRETANI, Historia fiorentina, ms. BNCF II, III, 74, c. 15 r (ci riferiamo alla Bibliografia dell’edizione critica del Dialogo, cit. Ma vedi ora l’ed. a cura di G. Berti, Firenze, Olschki, 1993). Queste dichiarazioni di metodo del C. sono sottolineate anche da: F. GILBERT, Machiavelli e Guicciardini, Torino, Einaudi, 1979, p. 198.

69. Come ricorda Mordenti, esisteva il precedente fiorentino di un’opera storica in forma di dialogo, la Historia di Firenze di Goro Dati, che però è tutt’altra cosa, anzitutto nella struttura, con un personaggio che fa domande e uno che risponde, mentre la difesa del mito della florentina libertas (che si manifesta essenzialmente nello scontro con la Milano tirannica dei Visconti) è l’elemento ideologico unificante (Mordenti, cit., pp. LVIII-LIX).

70. Concetto di diretta derivazione savonaroliana: dalle prediche Sopra l’Esodo (Mordenti).

71. È appena il caso di ricordare l’origine classica di questo concetto dell’utilità e necessità della storia, basti rinviare all’«historia magistra vitae» di Cicerone (De horatore, II), ma anche Sallustio, Bellum Iugurthinum, IV e De coniuratione Catilinae, I-III.

72. Giovanni Rucellai (1475-1525) è anche noto come autore del poemetto Le api. Girolamo è probabilmente quel Girolamo Benivieni (1453-1542) che fu un noto fedelissimo del “frate”, autore fra l’altro di una Canzone di amore che fu commentata da Giovanni Pico della Mirandola; Lorenzo potrebbe essere quello Strozzi dedicatario dell’Arte della guerra di Machiavelli. Girolamo e Lorenzo non sono dunque innocui fedeli savonaroliani, ma uomini politicamente influenti (Mordenti, cit., pp. XXXVI-XLVII). Per i rapporti fra Benivieni e Pico vedi anche H. DE LUBAC, L’alba incompiuta del Rinascimento, Milano, Jaca Book, 1977, p. 80; inoltre cfr. WEINSTEIN, Savonarola e Firenze, cit., p. 223.

73. GILBERT, cit., pp. 128-129.

74. Circa il tema del viaggio vedi C. SEGRE, Fuori del mondo, Torino, Einaudi, 1990, pp. 25-31, 50-51; per gli Ecatommiti (e in genere la fuga da una situazione intollerabile, come nel Decameron) vedi G. BÀRBERI SQUAROTTI, La letteratura instabile, Treviso, Santi Quaranta, 2006, pp. 286-288; per il testo del proemio degli Ecatommiti vedi Novelle del Cinquecento, a cura di G.B.Salinari, Torino, UTET, 1976, pp. 499-519.

75. M., Disc., I 1 e 6, II 19, III 31; GUICCIARDINI, Ricordi 29; per un’analoga discussione nella Storia d’Italia, vedi nota 28; nel Dialogo del Reggimento vedi le affermazioni di P.A.Soderini su Venezia (ed. cit., pp. 155-160). Ma lo stesso Savonarola nel Trattato circa il reggimento e governo della città di Firenze aveva parlato chiaramente dei fiorentini come di un popolo «ingegnosissimo», insofferente del governo di un primcipe e quindi adatto soprattutto al «reggimento civile» (ed. cit., pp. 11-14). Su queste idee di Savonarola, e sulla possibile scelta del modello veneziano, cfr. WEINSTEIN, cit., p. 262 e sgg. Una tarda, ma significativa valutazione del ristretto modello repubblicano di Venezia come accettabile, ma solo nel contesto  politicamente e antropologicamente limitato di quella città, è in: L. ZUCCOLO, La città felice, in Scrittori politici del ‘500 e ‘600, a cura di B. Widmar, Milano, Rizzoli, 1964, p. 843.

76. Forse qualche riferimento può essere fatto a LUBAC (op. cit., p. 263), per il quale Guicciardini, e anche i più modesti Cerretani o Pitti, comprendono meglio di una certa cultura legata al “secolo d’oro” laurenziano, come per quella «delicata Firenze» si annunzi ormai, finita l’età laurenziana, un «secolo di ferro».

77. È noto che anche M. riconosce lo stesso ruolo a S. Francesco e San Domenico: Disc., III i, e lettera a F. Guicciardini del 17 maggio 1521, n. 287 (Lettere, Ed. Naz., Roma, Salerno, 2022, t. III, p. 1320).

78. Anche Guicciardini nega il valore delle profezie nel Ricordo 58, citando l’Aristotele dei Posteriora, proprio come fa Giovanni Rucellai nel Dialogo, p. 23. Favorevoli sono invece i giudizi sull’operato politico del Savonarola nelle Storie fiorentine, capp. XII e XVI (ed.  a cura di A. Montevecchi, Milano, BUR, 1998, pp. 217-25, 233-238, 265-280).

79. Si osservi la vicinanza di questa asserzioni a quelle analoghe del dialogo Del Savonarola  di Luigi Guicciardini, in questo accorgersi della inedita stranezza e novità dei momenti “apocalittici” che si stanno vivendo (vedi supra).

80. LUCA, 12, 49, 51-53; MATTEO, 10, 34-36,

81. Asserzione confermata da Machiavelli nella nota lettera a Ricciardo Becchi il 9 marzo 1498: ma vedi ora l’Edizione Nazionale delle Lettere  (ed.cit., pp. 11-21) che indica il destinatario  come “ignoto”. Vedi anche GUICCIARDINI, Estratti savonaroliani (Op.IX, ed. Palmarocchi, pp. 329-330: lo segnala Mordenti a p. 35 nota).

82. Il realista incallito e incredulo Rucellai appare quindi come un difensore della Chiesa romana in quanto istituzione, dato che si oppone sia al preteso primato religioso di Firenze, sia al misticismo e al profetismo che vi sono connessi. È forse il caso di citare alcune osservazioni del Cassirer: «L’idealità dell’elemento religioso perciò non solo abbassa la totalità delle formazioni e delle forze mitiche a un essere di ordine inferiore, ma rivolge questa forma di negazione anche contro gli elementi della stessa esistenza sensibile-naturale». Il pensiero religioso  deve quindi condurre una lotta «controi suoi propri fondamenti e cominciamenti mitici»: E, CASSIRER, Filosofia delle forme simboliche, vol, II, Firenze, La Nuova Italia, 1977 (rist.), pp. 333-335.

83. Per il riconoscimento di Guicciardini dell’azione politica del Savonarola, vedi n. 78. Vedi anche WEINSTEIN, cit., pp. 321 e sgg., 339.

84. È noto che Cerretani attacca Machiavelli nei Ricordi (ed. a cura di G. Berti, Firenze, Olschki, 1993).

85. È appena il caso di rammentare che Machiavelli tratta queste vicende anche nello scritto Ai Palleschi (probabilmente del novembre 1512), in cui ammonisce i medicei a non attaccare troppo la repubblica soderiniana per non fare il gioco di una restaurazione oligarchica, come quella potenzialmente rappresentata dal gonfalonierato Ridolfi.

86.G. BÀRBERI SQUAROTTI, Il tragico cristiano, Firenze, Olschki, 2003. Per la distinzione fra le profezie ex eventu e quelle post eventum essenziali sono le osservazioni del Pasquini; vedi ad esempio: «il passato si converte nel futuro, la storia nella profezia»: E. PASQUINI, Dante e le figure del vero – la fabbrica della Commedia, Bruno Mondadori, Milano, 2001, p. 130 (e vedi particolarmente le pp. 130-149 per il rapporto fra profezia e invettiva). 

87. La frase è attribuita a Cosimo anche da Machiavelli nelle Istorie fiorentine, VII, 6.  Circa il singolare ruolo che spetterebbe a Firenze nella vita politica ma anche religiosa italiana, è appena il caso di rinviare (tra i tanti contributi esistenti) a: E. GARIN, La cultura del Rinascimento,Bari, Laterza, 1967, almeno pp. 37 e 125-126; vedi anche il più recente: A.M. CABRINI, Un’idea di Firenze. Da Villani a Guicciardini, Roma, Bulzoni, 2001.

88. GIOVANNI, 11, 43-44; cfr. WEINSTEIN, cit., p. 180,

89. GIOVANNI, 13, 10.

90. L’episodio è confermato da Guicciardini, Storia d’Italia, IX,16.

91. Analoghi presagi di morte per Alessandro VI si possono leggere nella Vita di Cesare Borgia di Tommaso Tomasi (Vedi A. MONTEVECCHI, Gli uomini e i tempi, Bologna, Pàtron, 2016, pp. 94 – 95.)

92. Le citazioni del pensiero savonaroliano si riferiscono a: G. SAVONAROLA, Sopra Ezechiele, a cura di R. Ridolfi, Roma, Belardetti, 1955,  II, p, 182 e sgg., Sopra l’Esodo, a cura di P. G. Ricci, Roma, Belardetti, 1955, I, p. 273 e sgg.

93. Vedi: Sopra Ezechiele, cit., I, p.301. La frase ricorre anche nella lettera di Machiavelli a F. Vettori del 26 agosto 1513, n. 239, ed. cit. p. 1041. 

94 Episodio alluso anche da Machiavelli nella lettera a F. Guicciardini (Carpi, 18 maggio 1521), ed. cit., pp. 1329-30.

95. La scena non è troppo dissimile da quella, esposta dal Sarpi, che si svolge fra Lutero e il nunzio pontificio Vergerio. Questi, dopo aver ammesso di non intendersene di teologia, rimprovera a Lutero di aver seminato il caos con la sua predicazione, mentre egli ha buon giuoco a obiettargli che lo scontro religioso è il genuino prodotto della parola di Cristo, che «eccita turbe e tumulti, sino al separare il padre dal figlio» (P. SARPI, Istoria del Concilio Tridentino, introd. di R. Pecchioli, Firenze, Sansoni, 1966, pp. 92-95: l’ed. riproduce quella degli “Scrittori d’Italia” a cura di G. Gambarin, Bari, Laterza, 1935).

96. Vedi le osservazioni di Giancarlo Mazzacurati (op. cit., pp. 9 e 15).

97. Vedi: P.ROSSI, Paragone degli ingegni moderni e postmoderni, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 82. Circa la tenace fede nel profetismo e nel millenarismo savonaroliani, anche dopo la fine del frate e la distruzione della repubblica, vedi WEINSTEIN, cit., pp. 347 e sgg., 380.

98. F. GUICCIARDINI, Storia d’Italia, a cura di S. Seidel Menchi, saggio introduttivo di Felix Gilbert, Torino, Einaudi, 1971, vol. III, p.2037.

99. Vedi P. PRODI, Carlo V e Clemente VII: l’incontro di Bologna nella storia italiana ed europea, in Bologna nell’età di Carlo V e Guicciardini, a cura di E. Pasquini e P. Prodi, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 329-345.

100. Orazione di Claudio Tolomei a Clemente VII per la pace, in Orazioni politiche del Cinquecento, a cura di M. Fancelli, Bologna, Zanichelli, 1941, pp. 177-215.

101. GILBERT, cit., pp. 5-57,

102. Per questo persistere del millenarismo savonaroliano, anche attraverso la fede riposta in altri posteriori “profeti”, vedi WEINSTEIN, cit. alla nota 97.

103. Vedi McQUEEN, cit. alla nota 62.

104. Se il destinatario sia o no il Becchi, vedi nota 81.

105. GILBERT, cit., p. 158.

106. G. SASSO, Niccolò Machiavelli, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 113; osservazioni interessanti anche alle pp. 25 e 39. Cfr. inoltre E. GARIN, Ritratti di umanisti, Firenze, Sansoni, 1967, pp. 163-183.

107. McQUEEN, cit., pp. 921-922.

108. R.RINALDI, Umanesimo e Rinascimento, t, I, in Storia della civiltà letteraria italiana, vol. II, Torino, UTET, 1990, p. 791.

 

30 settembre 2024