Alessandro Merci - Giovanni Pascoli

Un autorevole interprete del simbolismo europeo

 

«Fratello maggiore e minore» di Gabriele d'Annunzio (1863-1938), secondo la suggestiva formula coniata dal poeta stesso nella Prefazione ai Poemi conviviali (1904), Giovanni Pascoli è oggi universalmente riconosciuto come uno dei massimi rappresentanti del simbolismo europeo, di cui ha incarnato il côté più intimo e meno appariscente, ma è stato a lungo scambiato per un poeta 'ingenuo' e sentimentale, complici l'infelice diminutivo della sua più celebre dichiarazione di poetica (Il fanciullino) e una lettura semplicistica di alcune note liriche, autobiografiche (X agosto, La cavalla storna) e non (Valentino), mandate a mente fin dalla scuola elementare. Tali interpretazioni banalizzanti, che tendevano a schiacciare la vasta e complessa produzione poetica sulla dolorosa esperienza biografica, hanno impedito per decenni di riconoscere la modernità di Pascoli e il suo ruolo fondamentale di 'ponte' tra il solido classicismo carducciano, ancora pienamente ottocentesco, e tante esperienze poetiche del XX secolo, che lo scrittore romagnolo col suo inesausto sperimentalismo e la sua inquieta sensibilità ha saputo per più aspetti anticipare.

 

Una travagliata vicenda biografica

 

Giovanni Pascoli nacque a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli) il 31 dicembre 1855 da una famiglia piuttosto agiata: il padre Ruggero (1815-1867), di origini ravennati, era amministratore delle vaste tenute del conte Alessandro Torlonia, mentre la madre Caterina Vincenzi Allocatelli (1828-1868) apparteneva a una piccola ma antica casata nobiliare di Sogliano al Rubicone.
La pace e il benessere della famiglia furono però spazzate via nella tragica giornata del 10 agosto 1867, quando Ruggero Pascoli fu assassinato, in circostanze mai del tutto chiarite, per ragioni politiche ed economiche; a compiere materialmente l'omicidio furono con ogni probabilità Luigi Pagliarani e Michele Della Rocca, due esponenti del repubblicanesimo romagnolo più estremo e anarcoide già coinvolti in altri episodi di sangue, che volevano punire il potente fattore per i provvedimenti 'antipopolari' presi in qualità di assessore, sindaco ed esponente del partito monarchico, ma il vero mandante rimase sempre impunito, perché protetto da una fitta rete di omertà e complicità, che comprendeva le stesse forze dell'ordine. La sua identità dovrebbe però corrispondere – così almeno si convinse Giovanni al termine delle lunghe indagini che condusse privatamente, e così sembrano inclini a ritenere anche gli studiosi che più recentemente si sono impegnati a gettar luce su questo mistero italiano – a quella di Pietro Cacciaguerra, un violento e prepotente signorotto locale che, dopo aver fatto fortuna in Sud America, successe a Ruggero Pascoli nell'amministrazione della tenuta 'La Torre'. Chiunque sia stato il mandante e indipendentemente dalle ragioni autentiche dell' esecuzione in pieno stile mafioso, avvenuta poco lontano da Savignano sul Rubicone mentre il padre stava facendo ritorno da Cesena con la proverbiale cavalla 'storna' e le due bambole per le figlie, quel che è certo è che essa rappresentò per la famiglia un grave colpo, che ne compromise non solo la felicità ma anche lo status sociale: costretti ad abbandonare la Torre per la casa materna a San Mauro e a vivere in ristrettezze, i giovani fratelli Pascoli dovettero sopportare nel giro di pochi anni anche la perdita della sorella maggiore Margherita (1868), della madre (1868) e dei fratelli Luigi (1871) e Giacomo (1876).
Giovanni, non ancora dodicenne al momento dell'assassinio del padre, non fu presente alla tragedia, poi tante volte rievocata in prosa e in poesia con una forza icastica e una partecipazione tali da far supporre il contrario a un lettore poco informato, perché si trovava insieme ai fratelli a Urbino, presso il locale collegio degli Scolopi, che frequentò dal 1862 al 1871; qui ebbe tra gli insegnanti padre Francesco Donati (1821-1877), amico del Carducci e da questi soprannominato Cecco Frate, che primo lo iniziò alla poesia e al culto della classicità, e qui trascorse gli anni più sereni e felici della sua vita, ricordati con accenti di dolorosa nostalgia in liriche come Il ritratto (Canti di Castelvecchio) e L'aquilone (Primi poemetti). Lasciato il collegio per ragioni economiche, proseguì gli studi in modo un po' disordinato, frequentando dapprima un anno di liceo a Rimini, quindi spostandosi a Firenze presso l'istituto religioso San Giovannino e infine conseguendo la licenza a Cesena nel 1872; l'anno successivo vinse una borsa di studio di 600 lire annue che gli permise di iscriversi alla facoltà di Lettere dell'Università di Bologna, dopo essere stato esaminato dal Carducci («Era il giorno avanti il primo esame. La mattina dopo, il povero ragazzo smilzo e scialbo si trovava tra una ventina d'altri ragazzi, venuti da tutte le parti d'Italia, o sorridenti o rumorosi, aspettando... Aspettando chi? Carducci. Egli doveva venire a dettare il tema d'italiano. Proprio Carducci? Carducci in persona. Oh! il povero ragazzo aspettava con forse il maggior palpito», Ricordi di un vecchio scolaro).
Più che dedicarsi agli studi, però, il giovane Pascoli amava frequentare i circoli letterari cittadini, dove strinse amicizia con Severino Ferrari (1856-1905) e Ugo Brilli (1850-1925), e ancor più quelli politici: furono questi infatti gli anni della militanza anarco-socialista di Pascoli, che alternava riunioni clandestine in compagnia dell'amico Andrea Costa (1851-1910) e degli altri anarchici emiliano-romagnoli alla composizione di infuocati inni di protesta e di battaglia, poi dimenticati e recentemente riportati alla luce dagli studi di Elisabetta Graziosi («Soffriamo! Nei giorni che il popolo langue / è insulto il sorriso, la gioia è viltà! / Sol rida chi ha posto le mani nel sangue, / e il fato che accenna non teme o non sa. // Prometeo sull'alto del Caucaso aspetta, / aspetta un bel giorno che presto verrà / un giorno del quale sii l'alba, o Vendetta! / un giorno il cui sole sii tu, Libertà!…», Inno per l'Internazionale). Il socialismo di Pascoli, mai rinnegato completamente anche se mitigato negli anni della maturità, non nasce all'ombra di Marx e del materialismo storico, e rifiuta radicalmente la lotta di classe per configurarsi piuttosto come un generico umanitarismo («io mi sento socialista dell'umanità, non di una classe», scriverà il poeta in una lettera a Luigi Mercatelli del 30 settembre 1899), compatibile perfino con forme di colonialismo (La grande proletaria si è mossa); la patria è per il poeta un 'nido' più vasto, che deve proteggere e quasi risarcire della perdita del nucleo familiare, garantendo la sicurezza, la concordia e la piccola proprietà privata, rappresentata da quella 'siepe' a cui Pascoli dedicherà un significativo poemetto e a cui d'Annunzio intitolerà un coevo importante discorso elettorale del 1897. L'impegno politico giovanile costò però caro al giovane Pascoli: perse la borsa di studio, fu costretto a vivere nell'indigenza («Quando avevo tanto bisogno / di pane e di compassïone, / che mangiavo solo nel sogno, / svegliandomi al primo boccone», La voce, vv. 13-16) e fu infine arrestato per avere partecipato a una dimostrazione anarchica nei mesi roventi che seguirono l'attentato di Giovanni Passannante (1849-1910) al re Umberto I, reato per il quale trascorse nel carcere di San Giovanni in Monte più di tre mesi, dal 7 settembre al 22 dicembre 1879, nonostante la testimonianza in sua difesa del maestro Carducci.
La tragica esperienza, che lo portò anche a elaborare propositi suicidi («Una notte dalle lunghe ore / (nel carcere!), che all'improvviso / dissi: – Avresti molto dolore, / tu, se non t'avessero ucciso, // ora, o babbo! – […] e che agli uomini, la mia vita, / volevo lasciargliela lì…», La voce, vv. 37-46), lo allontanò definitivamente dalla politica attiva, e lo spinse a riprendere con rinnovato impegno gli studi: ottenuta nuovamente la borsa di studio, si laureò nel 1882 in letteratura greca con una tesi su Alceo, quindi intraprese immediatamente la carriera dell'insegnamento, con un incarico al liceo 'Duni' di Matera. Nel 1884 fu trasferito nella più accogliente Massa, in Toscana, dove chiamò a sé le sorelle Ida e Maria, rimaste fino a quel momento in convento a Sogliano al Rubicone, e da lì si spostò a Livorno tre anni più tardi. Nel 1895 passò dalla scuola superiore all'università: dapprima professore straordinario di grammatica latina e greca a Bologna, poi ordinario di letteratura latina a Messina (1897-1903), coronò la sua carriera con la successione a Carducci nella cattedra bolognese di letteratura italiana (1905), che rappresentò una sorta di investitura a 'vate' della nazione.
L'accettazione di tale prestigiosissimo incarico, che ricoprì fino alla morte, sopraggiunta il 6 aprile 1912, non avvenne però senza esitazioni da parte del poeta: l'ufficialità e la visibilità che essa comportava sembravano infatti contraddire la sua aspirazione alla pace e alla tranquillità e rendere più difficile il ritiro a Castelvecchio, in Garfagnana (Lucca), dove da oltre dieci anni si era più o meno stabilmente trasferito, dapprima come affittuario poi come proprietario (1902) della modesta casa che ancor oggi ospita il museo a lui dedicato e nella cui cappella è sepolto insieme alla sorella Maria (1865-1953). Tale dimora era stata il loro rifugio dopo l'abbandono, considerato un vero e proprio tradimento, della sorella Ida (1863-1957), che aveva lasciato la casa comune di via Micali a Livorno per convolare a nozze col riminese Salvatore Berti; in occasione di tale matrimonio (1895) Giovanni compose Nelle nozze di Ida, una prosa in cui all'augurio di felicità si intrecciavano manifestazioni di dolore e di gelosia, che finivano per configurarsi come taciti rimproveri («Chi ce l'avesse detto che di noi tre uno potesse provare e gli altri augurare la felicità lungi dagli altri due! Eppure è così. È intervenuto l'Amore, cosa gentile e terribile, che uccide e crea: che agli uomini dà la gioia presente, unico, e, unico, conserva agli uomini il dolore per il profondo avvenire!»); la sua incapacità di vivere l'amore in modo adulto e di affrontare una relazione seria furono confermati l'anno successivo dalla rottura del fidanzamento con la cugina Imelde Morri, in cui parte non piccola ebbe Mariù, che spinse lentamente il fratello verso quel chiuso ménage à deux da più parti accusato di morbosità e addirittura di implicazioni incestuose. Pascoli, che sembrò dapprima subire tale scelta per non abbandonare e non ferire la sorella, si adattò a poco a poco alla nuova situazione e finì per fare proprie le ragioni di Maria, chiudendosi in un isolamento sempre più esclusivo e rinunciando definitivamente a costruire una propria famiglia («Marocc e nissun elt» - "Mariuccia e nessun altro", arrivò a scrivere in un tardo appunto conservato tra le carte autografe). In cambio di tale rinuncia ottenne la devozione incondizionata e perpetua della «candida soror», che anche dopo la morte del poeta rimase la custode e quasi la vestale della casa e delle carte di Barga, dedicando tutta se stessa alla memoria del fratello e alla promozione e diffusione della sua opera; di tale impegno il frutto più significativo rimane la lunga e ricca biografia Lungo la vita di Giovanni Pascoli, 1961, imprescindibile per qualsiasi studioso del poeta, anche se talvolta tendenziosa e non priva di omissioni e falsificazioni, soprattutto per quanto riguarda gli anni giovanili, in cui lo scrittore, tutto preso dall'impegno politico e dalla goliardia universitaria, pensò alla famiglia meno di quanto volle poi far credere (non si recò ad esempio mai a Sogliano a trovare le sorelle in convento, nonostante la distanza tutt'altro che abissale).

 

Tre tavoli, o forse più

 

A tali vicende private si intreccia la vasta produzione poetica, critica e oratoria, che lo scrittore volle suddividere in tre grandi ambiti – poesia italiana, poesia latina ed esegesi dantesca –, rappresentati da tre distinti tavoli nello studio di Castelvecchio, anche se in realtà la sua opera si dispiegò in un numero ancora maggiore di direzioni.
L'esordio ufficiale avvenne piuttosto tardivamente, nel 1891, quando uscì in poche copie, in occasione del matrimonio dell'amico Raffaello Marcovigi, la prima edizione di Myricae ("Tamerici"), composta da sole ventidue liriche, anche se già durante gli anni universitari testi isolati erano apparsi su riviste più o meno prestigiose e in opuscoli per nozze; a questa esile raccolta seguirono negli anni successivi numerose edizioni, via via più ricche, fino a quella definitiva del 1900. Alle Myricae, il cui motto «arbusta iuvant humilesque myricae» – "piacciono gli arbusti e le umili tamerici" – tratto dalla IV egloga di Virgilio evidenziava l'attenzione per le piccole cose e per i fenomeni meno appariscenti della natura, tennero dietro i Poemetti («paulo maiora», "un po' più in grande", 1897), poi riediti nel 1904 con il titolo di Primi poemetti, per distinguerli dai più tardi Nuovi poemetti (1909), i Canti di Castelvecchio, che presentano la stessa epigrafe di Myricae (1903-1907-1912), i Poemi conviviali («non omnes arbusta iuvant», "non a tutti piacciono gli arbusti", 1904-1905) e Odi e inni («canamus», "cantiamo", 1906). Come si nota fin dalle epigrafi, vi è un progressivo innalzamento di tono, dai brevi componimenti agresti degli esordi alle più ampie strutture narrative dei Poemetti, alla sofferta rivisitazione del mito propria dei Conviviali, fino alla poesia celebrativa e patriottica di marca post-carducciana di Odi e inni, Poemi italici (1911), Poemi del Risorgimento (1913, postumi), in cui la critica tende a riconoscere, con poche eccezioni, la parte più debole e caduca della produzione di Pascoli.
Pascoli non fu però soltanto un grande poeta italiano, ma anche uno dei massimi scrittori moderni in lingua latina: vinse per ben tredici volte – la prima col poemetto Veianius, 1891 – la medaglia d'oro al prestigioso Certamen Hoeufftianum di Amsterdam, e in diverse altre edizioni ottenne una segnalazione della giuria e il premio della pubblicazione. Il suo latino, studiato egregiamente da Alfonso Traina, non era l'idioma armonioso degli amatissimi Catullo, Orazio e Virgilio, ma una lingua franta, misteriosa, arcana, capace di accogliere i sussulti, le angosce e le incertezze della sensibilità contemporanea, e di gettare una luce dolorosa e inquietante su personaggi e realtà poco noti del mondo classico, dai gladiatori ai poeti, dai martiri cristiani alle donne, dagli schiavi ai bambini; tutte figure la cui voce non era potuta giungere fino a noi e che il poeta era libero di reinventare. I suoi Carmina, suddivisi secondo la materia trattata nel Liber de pöetis e nei Poemata christiana, costituiscono così l'altra faccia della sua poesia italiana, e con essa condividono l'attrazione per il tema funebre e per il passato, quel «bisogno di risuscitare bellezze morte» che il poeta identificava, parlando indirettamente anche di sé, come tratto caratteristico di un altro grande scrittore neolatino, Diego Vitrioli (1818-1898) (Un poeta di lingua morta, 1898). L'amore per il mondo classico non viene perciò a Pascoli, come invece accadeva ancora a Carducci, dalla tradizione umanistica, ma è figlio della sensibilità decadente, che sostituisce alla «nobile semplicità e quieta grandezza» tanto care al neoclassico Winckelmann (1717-1768) un più inquieto e tormentato rispecchiamento, che poco o nulla ha a che spartire col robusto senso della storia del maestro: «dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia», dichiarò infatti eloquentemente lo scrittore nel discorso or ora citato. La Roma rievocata da Pascoli non è d'altra parte quella repubblicana ed eroica, maestra di leggi e di civiltà, bensì quella corrotta e violenta dell'Impero, culla di intrighi ed efferatezze, che aveva fatto da sfondo al coevo fortunato romanzo storico Quo vadis? del polacco Henryk Sienkiewicz (1846-1916); una vera barbarie, che sarà redenta soltanto dal Cristianesimo, sentito dall'agnostico Pascoli come religione dell'umiltà, della pietà e della fratellanza.
Il terzo tavolo di Castelvecchio era invece destinato all'esegesi dantesca, cui Pascoli si dedicò con particolare intensità negli anni 1896-1902, tenendo diversi corsi universitari e pubblicando i volumi Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900) e La mirabile visione (1902): con essi il poeta pretendeva di mostrare a tutti la 'chiave' della Commedia, o per dirla con le sue parole, «la porticciuola del gran tempio mistico» (Conversazioni dantesche, «Il Marzocco», 7 ottobre 1900), e di rivoluzionare così il dantismo contemporaneo, ma finì per attirarsi soltanto critiche e censure, che gli procurarono non poche amarezze. La sua lettura simbolica, morale e politica del poema, che esaltava l'esoterismo e il ghibellinismo di Dante sulla scia degli scritti di Gabriele Rossetti (1783-1854), non poteva infatti essere apprezzata né dalla scuola storica allora dominante nel nostro paese e raccolta attorno al «Giornale storico della letteratura italiana» né da Benedetto Croce (1866-1952) e dai suoi seguaci, impegnati a isolare la vera poesia dagli impacci della struttura allegorica e dogmatica; solo in tempi più recenti l'impostazione pascoliana è stata riconosciuta nella sua importanza e rivalutata per numerosi aspetti, ferma restando l'inaccettabilità di alcuni assunti, come la composizione dell'intera Commedia a Ravenna.
L'attività critica del professor Pascoli non si limitò però al padre delle nostre lettere, ma si concretizzò in numerosi saggi e discorsi, tra i quali risultano interessanti soprattutto quelli su Leopardi (Il sabato del villaggio, 1896; La ginestra, 1899) e sui classici latini (Virgilio e Orazio su tutti). Maggiore importanza e diffusione ebbero però le antologie da lui curate, che furono per decenni adottate nelle scuole d'Italia e contribuirono non poco a costruire un immaginario condiviso nella nazione, e che ebbero al contempo il merito di anticipare tendenze pienamente novecentesche come il frammentismo e la critica impressionistica. Tali antologie riguardarono sia la poesia latina (Lyra, 1895; Epos, 1897) sia la poesia e la prosa italiane (Sul limitare, 1889; Fior da fiore, 1901).
Anche se talvolta negate o fortemente ridimensionate da alcuni testimoni, soprattutto se paragonate a quelle di Giosue Carducci (1835-1907) o di Enrico Panzacchi (1840-1904), le doti oratorie di Pascoli non dovettero essere affatto trascurabili, se tante volte fu chiamato a commemorare defunti illustri o a tenere discorsi pubblici, e se questi furono sempre pubblicati e letti con ammirazione.
Tale tipo di prosa, a lungo misconosciuta nonostante Gianfranco Contini l'avesse definita «strutturalmente, sintatticamente, più rivoluzionaria della poesia» (Il linguaggio di Pascoli, p. LXXXI) e solo recentemente rivalutata da studiosi come Mariolina Marcolini, risulta interessante anche per le idee espresse, ora di carattere letterario (Il sabato), ora filosofico (L'era nuova), ora politico (La grande proletaria si è mossa); proprio quest'ultimo discorso, pronunciato a Barga il 26 novembre 1911 per ricordare i morti e i feriti italiani in Libia, è stato spesso citato, estrapolandolo dal suo contesto, come esempio del nazionalismo e del colonialismo – quando non addirittura del 'pre-fascismo' – dello scrittore ormai prossimo alla morte; per quanto un certo scivolamento verso tali posizioni sia innegabile, non bisogna tuttavia dimenticare che la posizione pascoliana rimane profondamente distante da quella di un Gabriele d'Annunzio o di un Enrico Corradini (1865-1931) e che la conquista della Libia è rivendicata dal poeta in nome degli emigranti e dei proletari, e non di un'astratta volontà di potenza o di un'improbabile 'rinascenza latina'. Molti esponenti del mondo socialista e del sindacalismo rivoluzionario, esenti da ogni sospetto di nazionalismo, come Ivanoe Bonomi (1873-1951), Leonida Bissolati (1857-1920) o Arturo Labriola (1873-1959), salutarono d'altra parte tale conquista con analogo entusiasmo, vedendo in essa la naturale prosecuzione del Risorgimento, la prima affermazione militare della neonata nazione e una risposta positiva alla miseria che affliggeva le classi più umili.

 

Le idee e la poetica

 

Pascoli fu accusato da più parti, in primis da Benedetto Croce, di avere uno spirito poco filosofico, di elaborare concezioni nebulose e indeterminate quando non apertamente contraddittorie, di essere negato al senso della storia; tuttavia, anche se non fu uno spirito sistematico e non seguì coerentemente un'unica dottrina filosofica, seppe rielaborare e fondere con originalità le idee positiviste ancora dominanti ai suoi tempi con proposte vichiane e leopardiane e con suggestioni idealistiche e spiritualistiche.
Il suo pensiero non è esposto in uno scritto organico, ma disseminato in decine di discorsi, di commemorazioni, di interventi critici, di lettere, di semplici appunti, oltre che in numerose liriche; molte delle sue linee fondamentali sono però racchiuse nel saggio giustamente famoso sul Fanciullino – uscito dapprima nel 1897 sulla rivista «Il Marzocco» col titolo Pensieri sull'Arte poetica –, che, lungi dall'essere un semplicistico vagheggiamento dell'infanzia o un tentativo di regressione, come talvolta si è fatto credere, rappresenta la più matura e compiuta declinazione italiana della poetica del veggente cara ad Arthur Rimbaud (1854-1891) e ai simbolisti francesi. Il fanciullo che alberga dentro ognuno di noi, ma che solo il poeta sa ancora ascoltare, ha il privilegio della visione autentica, grazie alla quale può mostrare al resto dell'umanità significati e relazioni – 'corrispondenze', avrebbe detto Charles Baudelaire (1821-1867) – che sfuggono ai sensi ordinari, configurandosi come un novello Adamo che per primo dà il nome alle cose:

Egli è quello […] che ha paura al buio, perché al buio vede o crede di vedere; quello che alla luce sogna o sembra sognare, ricordando cose non vedute mai; quello che parla alle bestie, agli alberi, ai sassi, alle nuvole, alle stelle: che popola l'ombra di fantasmi e il cielo di dei. Egli è quello che piange e ride senza perché, di cose che sfuggono ai nostri sensi e alla nostra ragione. […] Egli nell'interno dell'uomo serio sta ad ascoltare, ammirando, le fiabe e le leggende, e in quello dell'uomo pacifico fa echeggiare stridule fanfare di trombette e di pive, e in un cantuccio dell'anima di chi più non crede, vapora d'incenso l'altarino che il bimbo ha ancora conservato da allora. Egli ci fa perdere il tempo, quando noi andiamo per i fatti nostri, ché ora vuol vedere la cinciallegra che canta, ora vuol cogliere il fiore che odora, ora vuol toccare la selce che riluce.
E ciarla intanto, senza chetarsi mai; e, senza lui, non solo non vedremmo tante cose a cui non badiamo per solito, ma non potremmo nemmeno pensarle e ridirle, perché egli è l'Adamo che mette il nome a tutto ciò che vede e sente. Egli scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose. Egli adatta il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario. E a ciò lo spinge meglio stupore che ignoranza, e curiosità meglio che loquacità: impicciolisce per poter vedere, ingrandisce per poter ammirare. Né il suo linguaggio è imperfetto come di chi non dica la cosa se non a mezzo, ma prodigo anzi, come di chi due pensieri dia per una parola. (Il fanciullino, III)


Il poeta è insomma, per dirla con le parole della lirica programmatica che apre i Canti di Castelvecchio, «una lampada ch'arde / soave», il cui ardore risplende «all'errante che trita / notturno, piangendo nel cuore, / la pallida via della vita» (La poesia, vv. 1-2 e 83-86), e non si deve proporre, se non indirettamente e quasi suo malgrado, finalità civili, etiche, politiche, né deve limitarsi ad essere un raffinato artifex dedito all'arte per l'arte: «il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di Stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del Maestro [Carducci], un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri [d'Annunzio], un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga» (Il fanciullino, XI). Il suo unico e vero scopo è «quello di riconfondersi nella natura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno, suo» (Il fanciullino, XX). Per raggiungere questa fusione con la natura, «madre dolcissima […], che sa quello che fa, e ci vuol bene» (Prefazione a Myricae, 1894), l'artista deve osservarla con attenzione, e conoscerne tutti gli aspetti, tutte le sfumature, rappresentandole con precisione anche terminologica, per evitare il rischio dell'indeterminatezza e della convenzionalità, in cui è caduto anche un poeta sommo come Giacomo Leopardi (1798-1837), quando ha parlato genericamente di «un mazzolin di rose e di viole» (Il sabato del villaggio, v. 4):

Il Leopardi questo «mazzolin di rose e di viole», non lo vide quella sera: vide sì un mazzolino di fiori, ma non ci ha detto quali; e sarebbe stato bene farcelo sapere, e dire con ciò più precisamente che col cenno del fascio dell'erba, quale stagione era quella dell'anno. No: non ci ha detto quali fiori erano quelli, perché io sospetto che quelle rose e viole non siano se non un tropo, e non valgano, sebbene speciali, se non a significare una cosa generica: fiori. E io sentiva che, in poesia così nuova, il poeta così nuovo cadeva in un errore tanto comune alla poesia italiana anteriore a lui: l'errore dell'indeterminatezza, per la quale, a modo d'esempio, sono generalizzati gli ulivi e i cipressi col nome di alberi, i giacinti e i rosolacci con quello di fiori, le capinere e i falchetti con quello di uccelli. Errore d'indeterminatezza che si alterna con l'altro del falso, per il quale tutti gli alberi si riducono a faggi, tutti i fiori a rose o viole (anzi rose e viole insieme, unite spesso più nella dolcezza del loro suono che nella soavità del loro profumo), tutti gli uccelli a usignuolo. (Il sabato, II)

Da qui il ricorso ai dizionari botanici e ornitologici e l'uso di un lessico estremamente preciso, tecnico o regionalistico, che lo accomunano al d'Annunzio di Alcyone (1903) e a tante esperienze poetiche pienamente novecentesche, non ultima quella degli Ossi di seppia montaliani (1925). Il rapporto di Pascoli con la scienza non si limita però a questi dati tutto sommato esteriori, ma è un elemento fondamentale per comprendere la sua poesia. Se l'orizzonte di riferimento è quello del positivismo, e in particolare del darwinismo con le sue crudeli leggi della lotta per l'esistenza e della selezione naturale, a Pascoli interessa il rapporto che lo scrittore instaura tra scoperte scientifiche e missione della poesia: la scienza, di per sé insufficiente in quanto incapace di sconfiggere la sofferenza e la morte, ha bisogno della letteratura, perché solo quest'ultima può trasformare il mero dato astronomico o fisico in coscienza autentica, regalando all'uomo la consapevolezza della sua finitezza e della sua nullità e rendendolo perciò migliore, più 'umano', cioè più lontano dal bruto primordiale che ancora non sa di dover morire. È il tema dell'importante discorso L'era nuova, la sua seconda formulazione di poetica, tenuto a Messina nel 1899, in cui Pascoli sostiene che «l'emanazione poetica della scienza […] è destinata a rendere buono il genere umano», perché quando «i poeti dell'avvenire» sapranno descriverci davvero «la sensazione del nulla» gli uomini, consapevoli della loro piccolezza e della loro provvisorietà, rinunceranno a compiere consapevolmente il male e riconosceranno i loro simili come fratelli, amandoli per il comune, tragico destino, in una prospettiva utopica che non differisce molto da quella «social catena» auspicata da Giacomo Leopardi nella Ginestra (1836). L'homo humanus prospettato da Pascoli in queste pagine e in altri testi più o meno coevi finisce così per rappresentare una possibile risposta al superuomo dannunziano, perché, invece di prescindere dalla morale come quest'ultimo, cerca di costruirne una nuova sulle rovine delle antiche certezze: «Uomo, abbraccia il tuo destino! Uomo, rassegnati ad essere uomo! Pensa nel tuo solco: non delirare. L'amore, pensa, è ciò che non solo di più dolce, ma di più sacro e di più tremendo tu possa fare; perché è aggiungere nuovi sarmenti al grande rogo che divampa nell'oscurità della nostra notte. / Pensiamo, dunque, sempre, in tutto, e siamo pur mesti. Ma saremo tutti più mesti. E riconosceremo, a questo segno, a quest'aria di famiglia, a questa traccia di dolore immedicabile, i nostri fratelli per nostri fratelli» (L'era nuova, XI).
È da riflessioni di questo genere che nasce la grande poesia cosmica pascoliana, individuata e studiata per la prima volta con attenzione da Giovanni Getto (Giovanni Pascoli poeta astrale, 1962); una poesia, che pur non essendo la più nota, rimane una delle più originali e suggestive manifestazioni dell'intelletto pascoliano, con liriche come Il bolide o Il ciocco nei Canti di Castelvecchio e La vertigine nei Nuovi poemetti. In esse il poeta parla dell'«immenso baratro di stelle», del «mare / d'astri», del «cupo vortice di mondi» (La vertigine), dell'«infinito tremolio stellare» (Il bolide), della «densa polvere del cielo» (Il ciocco), per sottolineare la piccolezza, la finitezza e quasi la nullità della terra e della vita umana, traducendo così in immagini concrete e facendo percepire al lettore la reale portata della rivoluzione copernicana, con cui se la prendeva negli stessi anni anche il Mattia Pascal dell'omonimo romanzo pirandelliano («Maledetto sia Copernico!»).

 

Myricae e Canti di Castelvecchio

 

La fama di Pascoli è ancor oggi legata principalmente alla prima raccolta, Myricae, in cui i temi autobiografici, l'attenzione alle piccole cose, lo sguardo attento e commosso sulla natura, per cui lo scrittore è universalmente noto al grande pubblico, emergono con maggiore evidenza. L'esile libretto per nozze del 1891 che porta questo titolo, con le sue ventidue liriche, è tuttavia molto diverso dall'edizione definitiva del 1900, che accoglie ben centocinquantasei testi e presenta una complessa articolazione interna, con quindici sezioni, che in alcuni casi si configurano come veri e propri cicli poetici (L'ultima passeggiata, Finestra illuminata). L'impressionismo dei testi più antichi (Romagna, Il bosco, Il fonte, Rio Salto), mai banalmente descrittivo ma già carico di suggestioni mortuarie e richiami autobiografici anche quando sembra maggiormente risentire del naturalismo classicheggiante delle Rime nuove carducciane («Ma da quel nido, rondini tardive, / tutti tutti migrammo un giorno nero; / io, la mia patria or è dove si vive; / gli altri son poco lungi, in cimitero», Romagna, vv. 49-53), scivola quasi impercettibilmente, di edizione in edizione, verso un simbolismo sempre più accentuato, che cela dietro l'apparente semplicità una grande ricerca formale.
A rendere così suggestive tante liriche pascoliane è infatti innanzitutto il ricorso al fonosimbolismo – la tecnica che permette di suggerire significati tramite il semplice suono delle parole –, associato spesso all'uso del linguaggio «pre-grammaticale» (Contini), fatto di onomatopee e allitterazioni: emblematica in questo senso è la poesia L'assiuolo, in cui la ripetizione insistita della 'u' e il lugubre verso dell'uccello che chiude ogni strofa trasmettono anche a livello acustico il senso di inquietudine e di morte che caratterizzano la lirica («sentivo nel cuore un sussulto, / com'eco di un grido che fu. / Sonava lontano il singulto: / chiù…», vv. 13-16). In Pascoli l'attitudine sperimentale non si limita però al livello lessicale, che pure è stato fondamentale per tanta lirica novecentesca, ma riguarda ogni aspetto del discorso poetico, da quello sintattico a quello metrico; per quanto concerne il primo, sono da segnalare almeno la predilezione per la frase nominale («Gemmea l'aria, il sole così chiaro», Novembre, v. 1) e la sostantivizzazione dell'aggettivo («un nero di nubi», L'assiuolo, v. 6) o del verbo («il cullare del mare», L'assiuolo, v. 11), talvolta combinati insieme con effetti di incredibile modernità, come nella breve lirica Temporale: «Un bubbolìo lontano… // Rosseggia l'orizzonte, / come affocato, a mare: / nero di pece, a monte, / stracci di nubi chiare: / tra il nero un casolare: / un'ala di gabbiano». Sul versante metrico Pascoli seppe essere altrettanto rivoluzionario, pur mantenendosi apparentemente entro la tradizione e rifiutando sempre il verso libero: recuperò infatti tutte le forme più desuete, dal madrigale allo strambotto, al rispetto, allo stornello, e seppe alternarle con quelle più classiche come il sonetto e la ballata, inserendo però sempre un tocco personale grazie all'impiego ora della tmesi («Tra gli argini su cui mucche tranquilla- / mente pascono», La via ferrata, vv. 1-2), ora di versi sdruccioli («mi cantano, Dormi! sussùrrano», La mia sera, v. 34), ora di versi brevi e poco frequentati dalla nostra poesia maggiore (i novenari dell'Assiuolo, i decasillabi di X Agosto, i senari piani e sdruccioli di Alba festiva). Grazie a tale straordinaria sensibilità musicale e alla perizia tecnica propria di chi frequentava abitualmente la metrica classica, Pascoli riuscì ad apparire semplice e popolare, mimando talvolta perfino le filastrocche e le nenie («Lenta la neve fiocca, fiocca, fiocca», Orfano, v. 1), anche quando veicolava palpiti e angosce tutte moderne.
Al centro di Myricae non è infatti soltanto la natura, come il titolo virgiliano parrebbe suggerire, bensì anche – e forse soprattutto – la morte, che fa la sua comparsa fin dalla dedica «A Ruggiero Pascoli mio padre». Essa ossessiona il poeta: lo testimonia la lunga lirica d'apertura, Il giorno dei morti, in cui i vari defunti della famiglia Pascoli (i genitori, i fratelli Giacomo, Luigi, Margherita) parlano tra loro nel grigio cimitero novembrino e compiangono il triste destino toccato loro in sorte; lo conferma la misteriosa e affascinante lirica conclusiva, Ultimo sogno, in cui la libertà e la felicità sembrano identificarsi con la morte, che sola permette il ricongiungimento con i propri cari: «Era spirato il nembo del mio male / in un alito. Un muovere di ciglia; / e vidi la mia madre al capezzale: / io la guardava senza meraviglia. // Libero!…inerte sì, forse, quand'io / le mani al petto sciogliere volessi: / ma non volevo», vv. 5-11. Anche quando il poeta non tratta direttamente il tema funebre, questo affiora allusivamente da dettagli paesaggistici, come l'«aratro senza buoi, che pare / dimenticato, tra il vapor leggiero» di Lavandare, il «cader fragile» delle foglie in Novembre, «la notte nera come il nulla» del Tuono, «il querulo aquilone / che muggìa nelle forre e fra le grotte» di Carrettiere, «il cipresso nella notte nera» di Fides, solo per proporre qualche esempio.
Sulla scia di Myricae sono da collocare i successivi Canti di Castelvecchio (1903, lo stesso anno dell'Alcyone dannunziano), che ne proseguono la ricerca sostituendo il paesaggio, le tradizioni e il lessico romagnoli con quelli della Garfagnana, dove il poeta aveva trovato da anni il suo rifugio insieme con la sorella Mariù. Qui i testi tendono a farsi più lunghi e complessi, fino a raggiungere ampiezze considerevoli (Il ciocco) e in essi emerge chiaramente una tendenza narrativa quasi assente in Myricae e sviluppata invece nei coevi Poemetti; accanto ai testi più ambiziosi, che per la prima volta toccano il tema astrale (Il bolide, Il ciocco) e alle dichiarazioni di poetica in versi (La poesia), ritornano composizioni di carattere autobiografico (La cavalla storna, La mia sera, Un ricordo, Il nido di «farlotti», Il ritratto) e liriche paesaggistiche, che manifestano però sempre più esplicitamente la ricerca regressiva di un cantuccio di pace dall'orizzonte il più possibile ristretto e il carattere nient'affatto realistico o naturalistico della rappresentazione (Nebbia, L'ora di Barga).
Un posto particolare occupano le ultime nove liriche, che il poeta ha inserito in una sezione apposita dal titolo Il ritorno a San Mauro e che erano state inizialmente pensate per una raccolta a se stante (I canti di San Mauro), mai realizzata. Si tratta di uno dei vertici assoluti della poesia pascoliana, perché il dramma autobiografico non scivola mai nel lacrimevole pietismo, ma assurge a una dimensione universale, la narrazione si intreccia senza scosse con la riflessione, la precisione descrittiva convive felicemente con la presenza ineludibile del mistero e con le onnipresenti allusioni funebri. Come è facile immaginare, si tratta di un ritorno impossibile, frutto dell'immaginazione e dei sogni del poeta, alla condizione edenica dell'infanzia romagnola, da cui lo scrittore è ormai tragicamente e definitivamente escluso («...Venir con te? Ma non è dato! […] …Tu venir qui? Viene chi muore…», Commiato, v. 11 e v. 17); un ritorno che si carica di elementi perturbanti e fantastici, come l'incontro angoscioso e malinconico con il proprio doppio giovanile («In una breccia, allo smorir del cielo, / vidi un fanciullo pallido e dimesso. / Il fior caduto ravvisò lo stelo; / io nel fanciullo ravvisai me stesso. Ci rivedemmo all'ultimo riflesso; / e sì, l'uno dell'altro ebbe pietà», Giovannino, vv. 1-6), la presenza di treni stregati privi di reale destinazione («E sento nel lume sereno / lo strepere nero del treno / che non s'allontana, e che va / cercando, cercando mai sempre / ciò che non è mai, ciò che sempre / sarà…», Le rane, vv. 39-44), o di figure fantasmatiche vive soltanto nel ricordo dello scrittore («– Mio dolce amore, / non t'hanno detto? non lo sai tu? / Io non son viva che nel tuo cuore. // Morta! Sì, morta! Se tesso, tesso / per te soltanto; come, non so; / in questa tela, sotto il cipresso, / accanto alfine ti dormirò. –», La tessitrice, vv. 19-25). Il ciclo si conclude, dopo la suggestiva parentesi astrale del Bolide, con Tra San Mauro e Savignano, che si ricollega per tematica e situazione al testo inaugurale di Myricae, dando nuovamente voce al padre defunto, e sembra così chiudere circolarmente il dittico agreste formato dalle due raccolte, accomunate non casualmente anche dall'epigrafe virgiliana «Arbusta iuvant humilesque myricae». Meno significativo il più tardo Diario autunnale, inserito in appendice ai Canti di Castelvecchio a partire dalla quinta edizione del 1910 e contenente testi di ambientazione bolognese scritti negli ultimi anni di vita.

 

I Poemetti

 

Pubblicati dapprima nel 1897 con l'eloquente epigrafe «Paulo maiora», quindi riproposti con aggiunte e variazioni nel 1900 e nel 1904 – in tale edizione il titolo è mutato in Primi poemetti – i Poemetti rappresentano forse l'opera più sperimentale, almeno sul versante linguistico, di Pascoli, e quella che più a lungo ha influenzato la poesia successiva, proiettando la sua ombra fin sulle Ceneri di Gramsci pasoliniane (1957) e sugli scrittori di «Officina».
A caratterizzare questa silloge sono un maggiore impegno ideologico, una diffusa tendenza alla narratività e la ripresa della terzina dantesca: i testi hanno dimensioni per lo più cospicue e sono spesso divisi in sezioni, nel tentativo di conseguire una solidità strutturale in grado di superare il frammentismo e il bozzettismo delle Myricae; le vicende non sono calate nel tempo astorico della pura contemplazione o in quello altrettanto immobile del mito, come sarà nei Conviviali, ma si collocano nel tempo reale della storia e della contemporaneità (Italy), anche se spesso addolcito dalla rasserenante ciclicità del mondo agreste. I temi sono quelli consueti del Pascoli georgico, come mostrano i titoli di numerosi componimenti o sezioni (Il vecchio castagno, Il vischio, La quercia caduta, La siepe, Nella nebbia), ma in essi si affacciano spesso inserti narrativi e dialogici, come nel primo lungo poemetto La sementa, che affianca alla descrizione dei lavori campestri e dell'alternarsi delle stagioni il racconto del tenero e ingenuo amore di Rosa e Rigo (Enrico). Tale sfondo, non privo di compiacimenti idillici, fa tuttavia da cornice a un'amara riflessione sul «dolore dell'esser nati e la finitezza dell'esistere, l'inconoscibilità del reale e l'impossibilità d'essere felici» (Nava, 1999, p. 669).
La natura è sentita ancora come una madre benigna e amorevole («O madre Natura, siano grazie a te che anche dal male ricavi per noi il bene», Prefazione), ma in essa si nascondono sempre più frequentemente elementi perturbanti e misteriosi, come il «fior di morte» al centro di Digitale purpurea: in questo celebre poemetto due antiche compagne di collegio, la bionda e remissiva Maria e la bruna e ardente Rachele, rievocano gli anni passati in convento durante la gioventù e ricordano il fiore inquietante che protendeva i suoi petali nel chiuso orto del convento («una spiga di fiori, anzi di dita / spruzzolate di sangue, dita umane», vv. 48-49), che soltanto la seconda ebbe il coraggio di sentire, portandone per sempre le tracce e pagandone le inevitabili conseguenze: «E fu molta la dolcezza! molta! / tanta, che, vedi… (l'altra lo stupore / alza degli occhi, e vede ora, ed ascolta // con un suo lungo brivido…) si muore!», vv. 72-75. Molti critici, soprattutto di impostazione psicoanalitica, hanno visto nella pianta un evidente richiamo alla sfera erotica, e vi hanno letto la conferma dell'immaturità del poeta, chiuso nel suo voyeurismo (per il quale è stato chiamato in causa anche Il gelsomino notturno nei Canti di Castelvecchio) e in sogni incestuosi, e perciò incapace di raffigurare la donna nella sua dimensione sessuale e di immaginarla in un ruolo differente da quello di madre o sorella. In realtà il simbolo al centro del poemetto è tutt'altro che univoco, e il suo significato ben più ampio: con esso Pascoli vuole riproporre l'equivalenza tra dolcezza e morte al centro di tanta sua poesia (Ultimo sogno) e alludere genericamente quanto misteriosamente al fascino e al pericolo rappresentati dalla conoscenza, di qualsiasi genere essa sia.
Il testo più originale e significativo della raccolta, posto a conclusione di essa, è però Italy, un lungo poemetto dedicato al tema dell'emigrazione, con cui Pascoli tenta un umile epos garfagnino e denuncia le difficili condizioni dei nostri compatrioti all'estero, ben prima del famigerato discorso sulla Grande proletaria. Protagonisti sono Joe (Giuseppe), Ghita (Margherita) e la piccola Molly (Maria), tre emigranti che fanno ritorno a Caprona dopo aver trascorso molti anni a Cincinnati in cerca di lavoro e fortuna, e che vivono ora sospesi tra due mondi e due culture, senza appartenere realmente a nessuno di essi: anche la loro lingua è un curioso ibrido tra italiano, dialetto garfagnino e inglese, che sia gli Americani sia i parenti toscani faticano a comprendere e che li condanna perciò a una condizione di incomunicabilità e solitudine. Pascoli tenta di restituire questa lingua sulla pagina, portando agli estremi limiti il suo sperimentalismo e il suo plurilinguismo («ticchetta» per biglietto, «scrima» per gelato, «bisini» per affari), aggiornando così la grande lezione dantesca e riproponendone tutta l'attualità. Come le onomatopee caratteristiche di Myricae, capaci di dar voce agli animali, soprattutto agli uccelli (virb, scilp, chiù, terit), o come il «linguaggio post-grammaticale» (sempre Contini) dei gerghi tecnici e specialistici impiegati nei Canti di Castelvecchio e nei Poemi conviviali, anche l'inglese storpiato di Italy rientra nella generale tendenza di Pascoli a rifiutare la lingua media per creare un idioma personale, dalla marcata espressività, secondo le indicazioni del Fanciullino.
Non altrettanto significativi e moderni sembrano essere i Nuovi poemetti, usciti nel 1909 e dedicati agli scolari di tutte le città in cui Pascoli ha insegnato; in essi affiorano già segni di stanchezza e hanno un peso maggiore la retorica e l'impegno civile, ai quali lo scrittore si sentiva in qualche misura chiamato dal suo ruolo di successore di Carducci. Queste caratteristiche, che sembrano appesantire non solo questa raccolta ma quasi tutta la produzione tarda del poeta, soprattutto Odi e inni, non impediscono tuttavia di riconoscere la continuità tra tale silloge e le opere precedenti; continuità che emerge con evidenza non solo dalla ricomparsa delle figure di Rosa e Rigo (La fiorita, I filugelli, La mietitura e La vendemmia) ma anche da un poemetto come La vertigine, che prosegue la ricerca 'astrale' intrapresa nel Bolide e nel Ciocco, interrogandosi sul ruolo della terra e dell'universo e sulla figura di Dio, a cui Pascoli non crede ma a cui non sa tuttavia rinunciare («non trovar fondo, non trovar mai posa, / da spazio immenso ad altro spazio immenso; / forse, giù giù, via via, sperar…che cosa? / La sosta! Il fine! Il termine ultimo! Io, / io te, di nebulosa in nebulosa, / di cielo in cielo, in vano e sempre, Dio!», vv. 51-56).

 

I Poemi conviviali

 

Negli stessi anni in cui rivedeva le Myricae e progettava i Canti di Castelvecchio o lavorava alle terzine dei Poemetti, Pascoli era impegnato anche su un altro fronte poetico, che si concretizzerà nel 1904 nei Poemi conviviali, il cui titolo è legato alla rivista estetizzante «Il convito», ispirata da Gabriele d'Annunzio e diretta da Adolfo De Bosis (1863-1924), su cui fecero la loro comparsa a partire dal gennaio del 1895. I diciassette testi che compongono tale raccolta, di lunghezza variabile, presentano personaggi della storia e del mito, soprattutto greci, rivisitati alla luce della moderna e inquieta sensibilità simbolista; Alessandro Magno, Socrate, Solone, Ulisse, Achille abbandonano la loro concreta identità, trasmessaci dalla tradizione, per entrare nella dimensione a-storica del mito e divenire emblemi universali della condizione umana, specchi desolati e malinconici della nostra finitezza e del male di vivere che ci travaglia. La sospensione e il senso del mistero tipici del Pascoli maturo vengono così proiettati sul passato greco e romano, che perde i caratteri di armonia ed equilibrio che lo caratterizzavano nella concezione umanistica e carducciana, per condividere le incertezze e l'insicurezza del presente. Con questa ambiziosa opera, caratterizzata da un linguaggio e un tono decisamente più elevati («non omnes arbusta iuvant», recita eloquentemente l'epigrafe) per via dei numerosi grecismi, dei sostantivi composti tipici della tradizione epica, dei preziosismi lessicali, della presenza massiccia dell'endecasillabo sciolto, Pascoli intende tracciare una personale storia dell'antichità che dalle origini mitiche della Grecia (Solon, La cetra di Achille, Anticlo, Il sonno di Odisseo) approda, dopo la parentesi ellenistica (Alexandros), alla Roma imperiale (Tiberio), per concludersi con l'annuncio della invasioni barbariche (Gog e Magog) e col diffondersi del cristianesimo (La buona novella).
Anche se in alcuni poemi Pascoli cade nell'alessandrinismo e in un decorativismo liberty un po' fine a se stesso, negli episodi migliori riesce a dare nuova vita a personaggi ed opere centrali del nostro immaginario, anticipando per più aspetti la lettura simbolica e psicoanalitica che del mito darà Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò (1947). È quanto avviene ad esempio nel lungo e complesso L'ultimo viaggio, in cui un Ulisse ormai vecchio decide di tornare in mare con i compagni superstiti non per varcare le colonne d'Ercole come nel racconto dantesco ma per rivedere i luoghi delle sue mitiche avventure, alla ricerca di un senso e di una giustificazione per la propria esistenza; il viaggio si rivelerà però un progressivo smascheramento delle illusioni e dei sogni giovanili, distrutti a poco a poco, leopardianamente, dalla prosaica e arida realtà, e non potrà che concludersi con la morte, unica e inevitabile meta di tanto peregrinare. La domanda identitaria che Ulisse pone alle Sirene («Ditemi almeno chi sono io! Chi ero!», Il vero, v. 54) resta infatti tragicamente priva di risposta e sul cadavere dell'eroe, trascinato dalle onde all'isola di Calypso, si innalza soltanto l'angoscioso e nichilistico grido della ninfa innamorata («Non esser mai! non esser mai! più nulla, / ma meno morte, che non esser più!», Calypso, vv. 52-53), su cui si chiude il poemetto. Con questa amara e sconsolata rivisitazione del mito di Odisseo Pascoli non soltanto aggiorna e rilegge il XXVI canto dell'Inferno e l'Ulisse di Alfred Tennyson (1809-1892), ma offre una valida e suggestiva alternativa all'interpretazione superomistica ed eroica che negli stessi anni andava realizzando d'Annunzio in Maia (1903).
Altrettanto affascinante e inquietante è la figura di Alessandro Magno al centro del poemetto in terzine Alexandros: l'eroe macedone, giunto nelle sue conquiste al termine ultimo del mondo si ferma a contemplare lo sterminato Oceano, e comprende finalmente la vanità del suo continuo procedere («era miglior pensiero / ristare, non guardare oltre, sognare; il sogno è l'infinita ombra del Vero», vv. 18-20), riconoscendo il nulla come nostro destino («Ma questo è il Fine, è l'Oceàno, il Niente… / e il canto passa ed oltre noi dilegua», vv. 39-40); il tutto mentre in patria la madre Olympiàs «ascolta nella cava ombra infinita / le grandi quercie bisbigliar sul monte» (vv. 59-60).

 

Le raccolte dell'impegno civile. La fortuna.

 

Le raccolte che seguono i Conviviali (Odi e inni, 1906, Canzoni di Re Enzio, 1908-09, Poemi italici, 1911, Poemi del Risorgimento, 1913) sono state considerate da buona parte della critica (poche ma importanti le eccezioni, da Andrea Carrozzini a Francesco Bausi) meno significative, perché gravate da una retorica civile e da un volontarismo patriottico che soffocano, o almeno attenuano, la vena più sincera e autentica del poeta. Con esse Pascoli tenta di rivaleggiare con Carducci, di cui ha ormai raccolto l'eredità accademica, e di ergersi a pubblico vate, in contrasto con quanto da lui stesso teorizzato nel Fanciullino e nell'Era nuova. Con alcune eccezioni – l'ode Andrée, dedicata all'esploratore svedese scomparso durante una spedizione nell'Artico, di cui vengono celebrati il coraggio e la titanica sfida alla morte; alcuni squarci delle incompiute Canzoni di Re Enzio, in cui la rievocazione di episodi di storia medievale bolognese si allarga a dolorosa meditazione sul destino umano; la rivisitazione liberty di alcune figure carismatiche del nostro Risorgimento come Mazzini e Garibaldi, accompagnata dalle splendide illustrazioni di Plinio Novellini (1866-1943) nei Poemi del Risorgimento –, si tratta di poesie fredde e declamatorie, assai lontane dal gusto moderno e più vicine invece a una sensibilità ottocentesca, che scarsa influenza avranno sulla letteratura del XX secolo.
Il dibattito sulla statura e sulla posizione da assegnare a Pascoli nella nostra storia letteraria è stato assai vivace fin dai primi anni del secolo, quando alla stroncatura per ragioni morali ed estetiche di Benedetto Croce (1907) e alle più caute riserve di Luigi Pirandello si oppose la sentita ammirazione dei critici più giovani gravitanti intorno alla «Voce», come Renato Serra (Giovanni Pascoli, 1909) ed Emilio Cecchi (La poesia di Giovanni Pascoli, 1912). A complicare la situazione intervenne la strumentalizzazione del fascismo, che salutò in Pascoli un precursore e uno 'spirito della vigilia', rivendicandone il nazionalismo e l'italianità e favorendone una ricezione edulcorata, sentimentale e piccolo-borghese; a rimuovere tali indebite incrostazioni ideologiche, di cui non si è ancora del tutto spenta l'eco, e a ribadire la straordinaria importanza dello sperimentalismo pascoliano per tutta la poesia del XX secolo fu Pier Paolo Pasolini in un celebre saggio comparso su «Officina» nel 1955, a cui rispose polemicamente pochi anni più tardi (1963) Luciano Anceschi, che preferì definire il poeta un significativo interprete della fin de siécle piuttosto che il primo alfiere del Novecento.
In anni più vicini a noi, ridimensionatosi il dibattito sulla modernità del poeta, si sono susseguiti importanti studi sulla vita e sull'opera del poeta, che hanno seguito fondamentalmente tre direzioni: la critica psicoanalitica (Debenedetti, Garboli, Gioanola) ha letto la poesia pascoliana alla luce del suo vissuto e dei suoi traumi biografici, insistendo sui rapporto morbosi con la sorella, sulla figura della madre, sulla rimozione e la sublimazione dell'eros; quella stilistica ha concentrato la propria attenzione sul lessico, sulla metrica, sulla sintassi, sviluppando le indicazioni dell'epocale saggio di Contini sul Linguaggio di Pascoli (1955), più volte citato; gli studiosi di impostazione filologica hanno invece preferito finalizzare i propri sforzi all'allestimento di affidabili edizioni critiche e commentate delle raccolte poetiche e allo studio delle varianti (tra di essi si segnala in particolare Giuseppe Nava, che ha curato importanti edizioni di Myricae, di Canti di Castelvecchio e, più recentemente, dei Poemi conviviali). Al di fuori di queste linee di ricerca, ma comunque significativi e degni di menzione, sono gli studi di Elisabetta Graziosi dedicati agli anni universitari e all'impegno politico tra le fila dei socialisti, quelli di Vittorio Roda sui rapporti con la scienza e con la tecnica, quelli di Alfonso Traina sul latino pascoliano e quelli di Massimo Castoldi sulla critica leopardiana.
La fortuna del poeta non si limita però al nostro paese: anche senza aver goduto del precoce riconoscimento internazionale di Gabriele d'Annunzio, Pascoli ha infatti attirato, soprattutto in questi ultimi anni, l'attenzione di diversi scrittori e studiosi stranieri, tra i quali mette conto segnalare almeno il premio Nobel irlandese Seamus Heaney e il poeta francese Yves Bonnefoy, che ne hanno tradotto diverse liriche nelle rispettive lingue, corredandole di suggestive indicazioni critiche.

 

Bibliografia:

 

Testi:

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ID., Myricae, a cura di G. Nava, Sansoni, Firenze 1974, 2 voll.;
ID., Canti di Castelvecchio, a cura di N. Ebani, La Nuova Italia, Firenze 2001, 2 voll.;
ID., Poesie e prose scelte, a cura di G. Garboli, Mondadori, Milano 2002, 2 voll.;
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ID., Poemi conviviali, a cura di G. Nava, Einaudi, Torino 2008.


Studi:

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Fondamentale per gli studiosi del poeta è inoltre la «Rivista pascoliana» (Pàtron, Bologna), i cui ultimi numeri (24-25) contengono gli atti del convegno internazionale Pascoli e l'immaginario degli italiani (Bologna, 2-4 aprile 2012).